Le associazioni ambientaliste: per scongiurare nuove crisi puntiamo sulla transizione ecologica dell’agricoltura

17 associazioni ambientaliste scrivono al Governo rimarcando le cause della crisi in corso e indicando la strada per risolverla. La sicurezza alimentare in Europa e in Italia si difende infatti puntando sulla transizione ecologica dell’agricoltura, non indebolendo le norme della nuova PAC post 2022 e le Strategie UE “Farm to Fork” e “Biodiversità”.

 “Indebolire le Strategie UE Farm to Fork e Biodiversità 2030 dell’Unione Europea e rivedere le norme ambientali della nuova PAC post 2022 sarebbe un grave errore e non risolverebbe i problemi collegati all’aumento dei prezzi e disponibilità di materie prime, problemi ulteriormente aggravati dalla guerra in Ucraina che stanno mettendo in grave difficoltà le aziende agroalimentari europee e nazionali. Serve, invece, accelerare la transizione ecologica della nostra agricoltura rivedendo i modelli di produzione e consumo del cibo”.

È quanto sostengono 17 associazioni ambientaliste, dei consumatori e dei produttori biologici, in una lettera inviata al Presidente del Consiglio, Mario Draghi, e ai Ministri Patuanelli e Cingolani. Una lettera che fa seguito a un analogo appello in difesa della transizione ecologica dell’agricoltura inviato il 10 marzo scorso alla Commissione Europea da quasi 100 Associazioni europee. Con questa lettera le associazioni nazionali rispondono agli argomenti con cui le lobby dell’agricoltura industriale sostengono la necessità di rivedere gli obiettivi del Green Deal per affrontare la crisi dei prezzi e delle materie prime causata, solo in parte, dalla guerra in Ucraina. Le strategie europee che le lobby contestano puntano a tutelare la biodiversità e a ridurre l’impatto che le pratiche agricole intensive determinano su clima e ambiente, con obiettivi al 2030 che riguardano la riduzione dell’utilizzo di pesticidi e sostanze chimiche nei campi e nelle stalle e il mantenimento di uno spazio per la biodiversità nel paesaggio agrario. Le 17 associazioni, nella loro lettera, stigmatizzano la strumentalità e l’inadeguatezza di un dibattito che utilizza la drammatica contingenza della guerra in Ucraina per attribuire alla transizione ecologica la responsabilità delle crisi in corso in Europa. Nel quadro di drammatica incertezza che affligge l’agricoltura occorre invece concentrarsi proprio su interventi che garantiscano un futuro sostenibile per il settore agricolo, anche dal punto di vista economico. È surreale che invece si sposti la discussione sulle strategie della transizione ecologica che si proiettano su scadenze di medio e lungo periodo. La nuova PAC infatti entrerà in vigore dal 2023 e sarà pienamente operativa dal 2025, mentre per molte aziende agricole la sopravvivenza è questione di giorni o settimane. È pertanto urgente intervenire a sostegno delle aziende agricole in grave difficoltà per l’aumento dei prezzi delle materie prime con interventi tempestivi e mirati, tenendo anche conto delle speculazioni finanziarie in atto. Allo stesso tempo però, è necessario accelerare le risposte alle grandi sfide della sostenibilità ambientale e climatica dell’agricoltura, a partire dall’attuazione delle strategie Farm to Fork e Biodiversità 2030 e della nuova PAC post 2022, proprio per rendere i sistemi agroalimentari meno vulnerabili a questi shock. Senza provvedimenti adeguati ed efficaci per la soluzione di questi problemi globali i rischi di nuove crisi saranno sempre maggiori in futuro.

La guerra in Ucraina sta evidenziando la vulnerabilità dell’Europa nella dipendenza da importazioni di materie prime e di energia. Ma il conflitto è l’ultimo di una serie di eventi avversi, iniziati con la pandemia di Covid e proseguiti con la siccità in Nord America che ha dimezzato i raccolti, innescando dinamiche speculative e una pericolosa ascesa dei prezzi. In un mondo sempre più esposto a shock globali e a conflitti, abbiamo bisogno di una radicale riforma dei nostri sistemi agroalimentari per promuovere modelli produttivi e di consumo più resilienti e sostenibili”, sottolineano le 17 Associazioni.

“I timidi passi verso una transizione agroecologica attesi con la riforma della PAC non possono essere vanificati dalla conservazione degli stessi sistemi produttivi e modelli di consumo che ci hanno condotto in questa situazione. Non è aumentando la produzione attraverso un ulteriore degrado dell’ambiente naturale o aumentando la dipendenza da energie fossili che si risolveranno i problemi. Occorrono politiche che favoriscano la sicurezza alimentare, sostengano pratiche estensive e rispettose del benessere degli animali, valorizzino il ruolo degli agricoltori e promuovano diete più sane, con una riduzione e una qualificazione del consumo di prodotti di origine animale”.

Evidenze scientifiche supportano queste posizioni, come il recente rapporto IPCC secondo cui “mentre lo sviluppo agricolo contribuisce alla sicurezza alimentare, l’espansione agricola insostenibile, guidata in parte da diete squilibrate, aumenta la vulnerabilità dell’ecosistema e la vulnerabilità umana e porta alla competizione per la terra e/o le risorse idriche”.

L’ISMEA, nell’analizzare i problemi attuali di disponibilità del mais in Italia, evidenzia come sia divenuta “ormai strutturale la dipendenza degli allevamenti dal prodotto di provenienza estera”: si tratta di un grosso segmento della nostra produzione agroalimentare che si dichiara Made in Italy, ma si basa su importazioni di mangimi, spesso prodotti in Paesi che hanno norme, ad esempio in materia di OGM e pesticidi, molto meno rigorose di quelle europee.

Gran parte dell’insicurezza dei sistemi agroalimentari dipende dalla espansione della zootecnia intensiva, se si considera che il 70% dei terreni agricoli europei è destinato all’alimentazione animale e a questi si sommano le terre coltivate al di fuori della UE da cui importiamo mangimi per alimentare un settore produttivo divenuto ipertrofico e inquinante, oltre che non rispettoso del benessere animale. Per le 17 associazioni, “la risposta in grado di garantire una maggiore sicurezza ai sistemi agroalimentari in Europa passa pertanto dalla riduzione del numero degli animali allevati, che richiede una contemporanea riduzione dei consumi di carne e prodotti di origine animale e consentirebbe di liberare terreni per colture alimentari, capaci di soddisfare meglio diete diversificate e a basse emissioni, garantire il diritto di accesso al cibo locale e biodiverso a prezzi sostenibili”.

In un mondo sempre più esposto a shock globali e a conflitti, abbiamo bisogno di una radicale riforma dei nostri sistemi agroalimentari per promuovere modelli produttivi e di consumo più resilienti e sostenibili

Arare più terreni trasformando i prati-pascoli e le aree naturali in seminativi – come si sta proponendo di fare per incrementare superfici agricole destinate a produrre mangimi, usando ancora più pesticidi e fertilizzanti – aumenterebbe pericolosamente il rischio di collassi degli ecosistemi, riducendo la capacità dell’agricoltura di reagire agli shock esterni.

Una revisione al ribasso degli obiettivi della nuova PAC e delle Strategie UE Farm to Fork e Biodiversità 2030 cancellerebbe ogni residua prospettiva di transizione ecologica della nostra agricoltura, che invece può sganciarsi dalle dinamiche speculative dei mercati globali – come ha già saputo fare in gran parte il settore dell’agricoltura biologica – e puntare su qualità e sostenibilità.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/03/transizione-ecologica-agricoltura/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

CREA: il contributo della ‘Food Citizenship’ alla diffusione di modelli alimentari più sostenibili

La Food Citizenship, o cittadinanza alimentare, consiste in una maggiore interazione fra il mondo produttivo e i cittadini/consumatori per accrescere la consapevolezza dell’impatto che i diversi sistemi di produzione agricola possono avere sull’ambiente. Il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’economia agraria ha realizzato uno studio sul tema in Italia appena pubblicato sulla rivista internazionale Sustainability

La Food Citizenship, o cittadinanza alimentare, consiste in una maggiore interazione fra il mondo produttivo e i cittadini/consumatori per accrescere la consapevolezza dell’impatto che i diversi sistemi di produzione agricola possono avere sull’ambiente. Raggiungere una maggiore sostenibilità significa ripensare e ridisegnare i sistemi agroalimentari, orientandoli verso il diritto al cibo, la valorizzazione della territorialità e la protezione degli agroecosistemi dal degrado. E’ quanto emerge nello studio Food Citizenship as an Agroecological Tool for Food System Re-Design (La cittadinanza alimentare come strumento agroecologico per la riprogettazione del sistema alimentare) effettuato dal Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’economia agraria con i suoi centri Agricoltura e Ambiente ed Alimenti e Nutrizione, appena pubblicato sulla rivista internazionale Sustainability.

Lo studio

La distribuzione di un questionario on-line con 35 domande ha permesso di investigare su due principali tematiche: la prima riguarda il livello di consapevolezza delle conseguenze delle nostre scelte alimentari sull’ambiente, la conoscenza soggettiva percepita del cibo biologico, del costo del cibo biologico e dei fattori più rilevanti negli acquisti alimentari; la seconda, la profilazione dettagliata del consumo di frutta e verdura biologica fresca e di quarta gamma. Al questionario hanno partecipato oltre 500 cittadini distribuiti sul territorio nazionale da Nord a Sud (il 43% nel Nord, il 38% nel Centro e il 19% nel Sud) e residenti soprattutto (oltre l’80%) in città piccole e grandi. Sono state intervistate principalmente donne (l’80%), nella fascia di 50-69 anni (il 60%), con un livello di istruzione medio (diploma di istruzione secondaria, il 47%) e alto (laurea, il 41%).

I risultati

L’elaborazione ha permesso di individuare due principali gruppi a seconda della maggiore (il 55,4% del totale del campione) e minore (il 44,6% del totale) attitudine a riconoscere l’impatto ambientale delle proprie scelte alimentari. Il gruppo con un approccio più responsabile nei confronti dell’ambiente è risultato, anche, più consapevole che le proprie scelte di spesa alimentare possono ridurre l’impatto negativo sulla biodiversità e sul riscaldamento globale. Ne fanno parte le classi di età più giovani (il 9% di età 18-29 e il 37,2% di 30-49 anni contro, rispettivamente, il 6,2% e il 26,3% dell’altro gruppo). I più attenti alle conseguenze delle loro scelte hanno, inoltre, manifestato una maggiore sensibilità nei confronti degli aspetti sociali dei propri acquisti alimentari.

Secondo lo studio, i più attenti sono anche quelli che consumano più ortaggi e verdura biologiche (31,4% li consumano sia diverse volte al mese che diverse volte a settimana,) e da più tempo (50% contro il 22,4%) e con una maggiore disponibilità a pagare un prezzo più alto, rispetto ai prodotti alimentari convenzionali (76,3% contro il 67,3% sono disponibili a pagarli il 25% in più; l’8,8% contro il 2,6% anche il 50% in più).

“Lo studio della consapevolezza alimentare dei consumatori – ha commentato Fabio Tittarelli, ricercatore del Crea Agricoltura e Ambiente e coordinatore dello studio – è il primo passo verso un cambio di paradigma che porta le persone a percepire se stessi non più come semplici consumatori volti a soddisfare dei bisogni personali, ma come dei cittadini che consumano cibo, associando all’acquisto di cibo una dimensione etica e sociale a garanzia di tutti gli attori della filiera. È in questa ottica che l’implementazione del concetto di Food Citizenship può essere considerato uno strumento dell’agroecologia, utile per ri-disegnare l’attuale sistema agroalimentare”.

Fonte: ecodallecitta.it

Inquinamento indoor: come rendere le nostre case più sicure e sostenibili

Trascorriamo la maggior parte delle nostre giornate al chiuso, ma quanto sono salubri gli ambienti in cui viviamo? Un’azienda pugliese realizza da oltre trent’anni delle case in cui la salute di chi ci abita e la sostenibilità ambientale sono i principali criteri di progettazione.

BariPuglia – Spesso sottovalutato, l’inquinamento indoor è stato dichiarato dall’OMS una tra le principali cause di morte. Ancora oggi infatti è altissimo il tasso di patologie respiratorie e cardiache provocate dall’inquinamento atmosferico, nonostante quello alla healthy air sia stato dichiarato dall’OMS un diritto fondamentale. Secondo un rapporto del 2016in tutto il mondo sono 3,8 milioni le persone che ogni anno muoiono prematuramente a causa di malattie riconducibili all’inquinamento domestico. Ad essere maggiormente colpiti, specialmente nei paesi a più basso reddito, sono donne e bambini (circa il 60%), ma di fatto quella dell’inquinamento indoor è un’emergenza che ci riguarda molto da vicino, a prescindere dalla latitudine.

CHE ARIA TIRA NELLE NOSTRE CASE?

È stato stimato che in media ciascuno di noi trascorre al chiuso circa ventidue ore al giorno, eppure le nostre case sono molto meno sicure di quanto crediamo. Già nel 1987 l’OMS descriveva come Sindrome dell’Edificio Malato (SBS, da Sick Building Syndrome) tutti quei disturbi quali tosse, mal di testa, irritazioni cutanee che colpiscono la maggior parte degli abitanti di uno stesso immobile.

A causare l’inquinamento indoor sono molteplici fattori, alcuni di questi legati alle fasi progettuali degli edifici, dai materiali impiegati e i sistemi di ventilazione al posto dove si è edificato. Altri invece sono riconducibili allo stile di vita di chi vi abita, non da ultima l’abitudine di fumare in casa. Spesso si convive con forme di asma, disturbi del sonno o della vista senza considerare che possono essere dovuti proprio a cattive abitudini o a come la nostra casa è stata pensata e costruita.

PROGETTARE PER IL BENESSERE PERSONALE E AMBIENTALE

Da ormai tre generazioni, Edil Pepe costruisce abitazioni nel rispetto del territorio e del benessere di chi ci andrà a vivere. L’azienda di Altamura (BA), attiva in Puglia e a Matera, si è specializzata negli ultimi dieci anni nella costruzione di edifici residenziali sostenibili, «in perfetto equilibro tra tradizione e innovazione», mi racconta Donato Pepe. Il padre, Antonio, ha iniziato a lavorare in cantiere da giovanissimo.

Andava ad aiutare il papà nei lavori di ristrutturazione nel centro storico di Altamura: all’inizio per gioco e ben presto per professione. A quanto appreso al fianco del padre, Antonio ha aggiunto col tempo un ricco bagaglio di esperienze (acquisite grazie ad anni di lavoro in giro per l’Italia) e la ricerca costante di standard qualitativi sempre più elevati, che hanno portato nel 2009 alla nascita di Edil Pepe così come è oggi.

È stato stimato che in media ciascuno di noi trascorre al chiuso circa ventidue ore al giorno, eppure le nostre case sono molto meno sicure di quanto crediamo

«Quando pensiamo alla nostra salute – prosegue Donato – spesso ci concentriamo sull’alimentazione e sullo stile di vita e ignoriamo del tutto l’importanza delle nostre scelte abitative. L’inquinamento indoor gioca un ruolo fondamentale e influisce sul nostro benessere psico-fisico tanto quanto il resto, eppure viene molto spesso trascurato». La scelta dei materiali, l’efficienza energetica, il tasso di umidità interna possono fare la differenza: progettare un’abitazione secondo criteri di sostenibilità ha una serie di vantaggi a lungo termine e soprattutto rappresenta un investimento sul benessere ambientale e personale.

CERTIFICATO BeS (BENESSERE E SALUTE)

«Alla base di ciò che facciamo c’è un dialogo tra generazioni. Oggi le nostre scelte aziendali sono diverse da quanto faceva mio nonno. Mio padre è stato lungimirante, un innovatore: ha imparato molto dal nonno e ha cercato di migliorare sempre di più il suo lavoro. Da quando sono entrato in azienda, nuove spinte di cambiamento, verso una maggiore sostenibilità, sono entrate in gioco – racconta Donato – e mio padre ha sempre mostrato una grande apertura verso le novità».

In particolare, di come si costruivano le case un tempo, Edil Pepe ha scelto di conservare lo spessore delle murature: «Le nostre case hanno delle murature di 55 centimetri secondo un complesso sistema a strati, tra cui il tufo di Montescaglioso, pensato per prevenire la formazione di ponti termici – una delle principali cause di muffe, condense e crepe – e migliorare l’isolamento termico e acustico».

Per progettare abitazioni ad alta efficienza energetica, attente al benessere e alla salute di chi le abita ed efficaci nella prevenzione dell’inquinamento indoor, Antonio Pepe ha messo a punto il certificato BeS, che comprende una serie di criteri progettuali a garanzia dell’alta qualità abitativa degli immobili. Quelle realizzate da Edil Pepe infatti sono abitazioni NZEB, ovvero ad altissima efficienza energetica, oltre l’A4, oggi considerata la massima classe energetica.

A ciò si aggiunge un’accurata scelta dei materiali naturali, sostenibili e compatibili con il territorio, perché «costruire una casa in Puglia non è come farlo in Basilicata, o in Lombardia: ci sono delle caratteristiche geomorfologiche da tenere in conto», prosegue Donato. In fase progettuale occorre pensare all’isolamento termico e acustico, agli impianti di deumidificazione e rigenerazione dell’aria e alla tipologia di illuminazione, «ad intensità e temperatura autoregolabile, che consideri non solo gli effetti visivi, ma anche quelli biologici ed emozionali della luce avvicinandosi quanto più possibile a quella naturale», chiarisce Donato. Per quanto riguarda gli esterni, ogni abitazione ha un giardino verticale, realizzato con piante autoctone, che oltre ad abbellire l’immobile, ne favoriscono l’isolamento acustico e migliorano la qualità dell’aria. «Ci piacerebbe – conclude Donato – che questo modo di progettare e costruire fosse un modello condiviso, non esclusivo: una spinta di cambiamento nelle logiche del mercato e nelle scelte dei consumatori partita proprio da qui, dal sud Italia. Un obiettivo ambizioso, forse, ma in cui crediamo da sempre». Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/02/inquinamento-indoor-abitazioni/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Pitaya: «Realizzo assorbenti lavabili per diffondere consapevolezza e sostenibilità»

Laura ha deciso di fare delle sue scelte consapevoli durante i giorni di ciclo mestruale una nuova missione di vita. Ha imparato a usare la macchina da cucire e ha creato il progetto Pitaya: ora produce assorbenti lavabili tutti realizzati a mano e diffonde consapevolezza sul rapporto con il proprio corpo e sull’impatto ambientale. Per dire basta alla plastica e all’usa e getta!

Genova – Ligure d’adozione, milanese di origine, Laura lavora da sei anni come tecnico ambientale in una ONG italiana nata nel 2012, Source International, che studia gli impatti sociali e ambientali delle attività di estrazione in diversi territori, come quelli con monocolture di palma da olio. L’intento è quello di valorizzare le risorse naturali locali e supportare le comunità e organizzazioni presenti in loco. Amante dell’ambiente, che fa parte della sua vita a 360°, sia nel tempo libero che sul lavoro, da qualche tempo Laura ha espresso questa sua sensibilità anche in una nuova attività: Pitaya – Autoproduzioni naturali, un progetto nato per offrire prodotti realizzati a mano e a basso impatto ambientale. Lontani dalle fabbriche, vicini alle persone.

LA STORIA

«Durante il lockdown – racconta Laura – mi sono resa conto di quali sono le cose realmente necessarie nella vita e mi sono detta che ognuno dovrebbe almeno provare a essere autosufficiente. Ho deciso quindi di imparare a produrmi da sola le cose di cui ho bisogno».

Complice il tanto tempo libero, Laura decide di adattarsi a un nuovo stile di vita, improntato sull’attenzione al proprio impatto e sul desiderio di fare da sé. Da dove iniziare? Lei ha scelto gli assorbenti lavabili come punto di avvio. Comincia subito a lavorare con una macchina da cucire regalatale da un’amica, crea cartamodelli e produce i primissimi campioni con stoffe di riciclo. «Anche se uso da tempo la coppetta mestruale, ci sono giorni in cui il ciclo è particolarmente doloroso e ho la necessità di usare gli assorbenti, scegliendo però quelli a basso impatto».

Oltre agli assorbenti, Laura ora dà vita anche a giochi per neonati plastic-free in pannolenci, borse in tessuti originali del Mozambico e dischetti struccanti lavabili: «Ho iniziato con materiali di recupero, come spugne, pile e asciugamani. Poi è partito il passaparola, amiche delle amiche hanno iniziato a interessarsi ed è nato il progetto Pitaya».

Da lì prende corpo l’idea di farlo diventare una professione che occupi di più le sue giornate. «Un’amica mi ha disegnato il logo, poco dopo ho creato la pagina Facebook e ho iniziato al tempo stesso a cambiare materiali: ora uso esclusivamente cotone organico biologico».

I prossimi step? Iscriversi a Etsy e iniziare a partecipare ai mercatini dell’artigianato. Nel frattempo Pitaya sta diventando anche un canale di divulgazione dei temi ambientali, per sensibilizzare sempre più persone sull’impatto degli oggetti in plastica usa-e-getta.

I VANTAGGI DEGLI ASSORBENTI LAVABILI

«Certo, con il recente abbassamento dell’IVA, ora ci si sta rendendo conto che gli assorbenti femminili non sono beni di lusso, ma di prima necessità. Ma facendo un rapido calcolo, il confronto economico tra lavabili e usa-e-getta resta comunque impari: considerando che una donna in età fertile utilizza una ventina di assorbenti al mese, nella vita ne userà circa 11.000, spendendo complessivamente almeno 5/6mila euro. Con quelli lavabili ne bastano 5/6 per ciclo, più un paio salvaslip: in 35 anni quindi, contando che ogni assorbente ha una vita media di 5 anni, si spenderebbe sui 600 euro».

Alcuni assorbenti lavabili Pitaya

Oltre al discorso economico c’è poi la questione sanitaria e ambientale. Recentemente è uscito un dossier dell’ANSES, l’Autorità francese per la sicurezza sanitaria, in cui attraverso studi a campione sono stati rilevati pesticidi, glifosato, cloro e diossine all’interno degli assorbenti usa-e-getta. Sostanze tossiche a diretto contatto con la pelle, in una zona del corpo che è delicatissima.

«Dal punto di vista ambientale parliamo di un oggetto che viene usato per 2/3 ore e poi viene buttato nell’indifferenziata per finire in discarica. E lì resta 500 anni. Per tutti questi motivi è urgente iniziare a cambiare stile di vita».

UNA NUOVA CONSAPEVOLEZZA

Grazie a una consulente mestruale, Laura nel contempo ha acquisito una nuova consapevolezza sul ciclo. Avere coscienza di sé, per conoscersi meglio e imparare ad ascoltare il proprio corpo, è diventata una sua personale missione per avvicinare sempre più ragazze al tema.

«Sono tantissime le donne, anche giovanissime, che hanno un blocco forte su questo argomento, che però ritengo sia facilmente superabile se si pensa che con un piccolo cambio di abitudine si contribuisce a ridurre l’inquinamento, ma anche a volersi bene, evitando al proprio corpo di entrare in contatto con gli svariati materiali plastici con cui sono realizzati gli assorbenti monouso». L’esperienza di Laura suggerisce un insegnamento semplice: le soluzioni per cambiare ci sono, basta solo volerlo!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/10/pitaya-assorbenti-lavabili/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Frigo di quartiere: le comunità si reinventano per aiutare chi ha bisogno

Spreco alimentare e povertà sono due concetti che sempre più spesso si incontrano nei progetti di solidarietà e mutuo aiuto: oggi vi parliamo del “Frigo di quartiere”, iniziativa che si sta diffondendo in sempre più città e che è pensata per donare cibo alle persone in difficoltà attraverso frigoriferi collocati in spazi urbani e a completa disposizione di chi ne ha bisogno. Un esempio è l’esperienza di Torino.

Torino – Avete mai sentito parlare del frigorifero di quartiere o di comunità? Si tratta di un’iniziativa che sta facendo molto parlare di sè e che vede negli angoli delle strade, nei condomini o nei parchi, piccoli o grandi frigo in cui i cittadini si impegnano a riporre cibo a disposizione delle persone bisognose.

In particolare, quella del frigo di quartiere è una tra le numerose iniziative incluse nel progetto Im.patto, lanciato da Nova Coop in sinergia con realtà piemontesi e che porterà nelle diverse province della regione progetti che coinvolgeranno la cittadinanza sul tema del cibo, del benessere e della salute.

A Torino, ad esempio, è pensata per coinvolgere le periferie attraverso un effettivo “patto” con il territorio che si concretizza in nuove alleanze con i soggetti che a diverso titolo hanno partecipato alla Call for Ideas di Nova Coop: un patto che vuole mettere in atto azioni di partecipazione ma anche progetti di scambio e reciprocità capaci di generare benefici sull’intera comunità.

L’INIZIATIVA DEL FRIGO DI QUARTIERE

In cosa consiste il progetto? Due frigoriferi verranno allestiti presso Il Boschetto di via Errico Petrella, progetto che vi abbiamo già raccontato in un nostro precedente articolo e che nel quartiere di Barriera di Milano, grazie al lavoro di Re.Te Ongun angolo di città è stato trasformato in questi anni in un progetto di agricoltura urbana dove bambini, famiglie, soggetti fragili e residenti si prendono cura degli orti che qui sorgono.

L’obiettivo, sin dalla sua nascita, è agevolare l’inclusione sociale di soggetti vulnerabili e svantaggiati attraverso pratiche agroecologiche e stimolare valori di cittadinanza attiva, avvicinando le persone alle pratiche di agricoltura urbana sostenibile e alle tematiche ambientali.

Foto di Peter Wendt tratta da Unsplash

Proprio per questo, il progetto del frigo di quartiere vuole diventare un simbolo per promuovere l’impegno sociale e la solidarietà: i frigoriferi saranno infatti destinati ai cittadini che ne hanno bisogno o che si trovano in condizioni di povertà. Al loro interno potranno trovare frutta fresca, oltre che le eccedenze alimentari donate da Coop e altri negozi, aziende e ristoranti che aderiranno all’iniziativa.

DAI COMMUNITY FRIDGES AL PEOPLE’S FRIDGE

L’iniziativa non è solo pensata per sostenere le persone in difficoltà, ma anche per diventare un elemento culturale di aggregazione sociale e un mezzo di promozione della salute e rafforzamento del legame tra cibo e sostenibilità. D’altronde, l’esperienza dei “frighi di comunità” si sta diffondendo in sempre più città, attraversando i continenti. È il caso dell’America, dove sono nati i “Community fridges”, grazie a movimenti spontanei organizzati dalla comunità per la comunità, per offrire un aiuto concreto a migliaia di americani che si trovano in situazioni di fragilità e la cui situazione già critica è stata resa ancora più difficile con l’arrivo della pandemia. Un altro esempio virtuoso è “The People’s fridge“, iniziativa che è stata realizzata a Brixton da un gruppo di commercianti, ispirata da esperienze simili e precedentemente avviate in Germania, Spagna, India. Così il progetto ha preso piede grazie all’ampio quantitativo di donazioni ricevute dai cittadini attraverso una campagna di crowdfunding che ha riscosso grande successo, stimolando altri quartieri londinesi a replicare l’esperienza. Un’esperienza che riguarda il Regno Unito è poi la comunità formatasi intorno alla Community Fridge Network, rete che ad oggi conta circa 200 realtà che hanno dato vita al loro frigo di comunità. La rete vuole incentivare la nascita di progetti analoghi e per questo offre una guida gratuita ai gruppi di persone che desiderano creare il proprio frigorifero comunitario, fornendo un supporto tra pari e consigli per la progettazione.

Foto tratta da Peoplesfridges

DARE SUPPORTO A CHI È IN DIFFICOLTÁ

Le esperienze, che oltrepassano i confini e si diffondo da una città all’altra, sono diverse e variegate: dai frigoriferi che ospitano cibo appena scaduto o vicino alla scadenza ai frigo collocati nei cortili dei condomini aderenti ai progetti che “salvano” avanzi di frutta e verdura che, a causa di qualche ammaccatura, non sono più considerati facilmente “vendibili”. Ciò che accomuna tutti questi progetti è l’impatto sociale e ambientale che li contraddistingue.

Tutti questi progetti nascono e si sviluppano per creare supporto alle nuove fragilità, con azioni di sostegno basate sulla reciproca responsabilità. La visione di fondo è rafforzare la connessione tra le persone e verso l’ambiente circostante, valorizzare la ricchezza culturale e la tradizione delle comunità locali, dare attenzione alla cura di sé, degli altri e del proprio contesto di vita, educare al consumo consapevole e, certamente, contribuire a una società migliore basata su convivialità e mutuo aiuto.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/11/frigo-di-quartiere-comunita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Ludì la sfuseria creata da due giramondo a caccia della sostenibilità

Le botteghe artigiane della capitale spagnola, il circuito hippie dell’Australia meridionale, ma anche l’amore della comunità in cui sono nati, nell’entroterra abruzzese. Sono questi gli ingredienti che hanno utilizzato due giovani di Lanciano, paese in provincia di Chieti, per dare corpo alle loro aspirazioni e aprire Ludì, un negozio di prodotti sfusi.

ChietiAbruzzo – Ludovica e Matteo fondatori di Ludì, la prima Sfuseria d’Abruzzo, un negozio dove la coppia propone prodotti alla spina, locali e biologici. Ma questa iniziativa imprenditoriale non è un lavoro come gli altri. È il coronamento di un sogno diventato realtà dopo aver viaggiato tanto, progettato, ricercato e aspettato pazientemente il “momento giusto”. I due fondatori ci raccontano il loro lungo percorso che li ha portati in Spagna, in Australia e poi nella natia Lanciano, dove hanno raccolto tutte le idee, la consapevolezza e le competenze maturate nel corso degli anni trascorsi on the road per lanciare un’iniziativa che fosse non solo un’attività che garantisse loro di vivere, ma anche uno strumento per diffondere le buone pratiche e la cultura della sostenibilità nella loro comunità.

Vi potete presentare?

Siamo una coppia di giovani abruzzesi, entrambi di Lanciano in provincia di Chieti. Sei anni fa ci siamo trasferiti a vivere a Madrid per lavoro. Entrambi abbiamo intrapreso studi “alternativi” perché facevamo fatica a trovare una dimensione lavorativa in Italia. Matteo è allenatore di atletica leggera, Ludovica insegnate di Yoga. Madrid è stato il palcoscenico dell’inizio dei nostri progetti, ci ha dato quella grinta e quella voglia di fare di cui avevamo tanto bisogno.

Ludovica e Matteo

Com’è nata l’idea di aprire una sfuseria?

Siamo della famosa generazione Y e conosciamo bene il precariato, la mancanza di sicurezza e di certezze. In Spagna vivevamo in un quartiere artistico particolarmente stimolante e da subito Ludovica si è lasciata affascinare dalle varie botteghe presenti nelle vie del barrio; in particolar modo un piccolo negozio di cereali e farine sfuse, ha subito colto la sua attenzione. Cristina, la proprietaria, è diventata da subito grande amica di Ludovica la quale spendeva giornate a curiosare nel negozio e aiutare occasionalmente la proprietaria. Cristina è arrivata addirittura a proporle di aprire un franchising del suo negozio a Firenze, ma i tempi non coincidevano perché, in cerca di nuovi stimoli e avventure, abbiamo deciso di trasferirci in Australia e di fare un’esperienza di due anni come backpackers, ragazzi con lo zaino!

Raccontateci di questa esperienza.

Abbiamo comprato un piccolo furgoncino e lo abbiamo aggiustato e decorato così da renderlo pratico e confortevole allo stesso tempo. Bob – così abbiamo battezzato il mitico Mitsubishi Starwagon – è stata la nostra casa per i 24 mesi. Viaggiando e lavorando lungo la East Coast della Down Under ci siamo riempiti il cuore e la mente di esperienze straordinarie, accrescendo la lista dei nostri desideri e la nostra creatività. Abbiamo passato sei mesi a Byron Bay, nel New South Wales, patria dei surfisti, del buon cibo e di tutto ciò che sia hippie e sostenibile! Abbiamo avuto la fortuna di lavorare in due locali totalmente plant based e devoti alla causa Zero Rifiuti. Frequentavamo il mercato locale tutti i venerdì mattina, mangiando in eateries vegane e passando i lunedì sera al cinema a guardare documentari di attivismo e natura e frequentando ogni weekend un circolo di conversazione su temi sociali.

Che effetto ha avuto questa differenza culturale così marcata rispetto al contesto europeo?

Improvvisamente ci siamo ritrovati catapultati in un mondo lontano e al tempo stesso vicino ai nostri valori. Ci siamo sentiti a casa ed entrambi ci siamo convinti di aver trovato la nostra dimensione: uno stile di vita minimalista e consapevole, compiendo scelte accurate e attente. Abbiamo iniziato poco a poco a mettere in discussione il nostro “vecchio” stile di vita e ad acquisire consapevolezza di quanti sprechi possiamo evitare.

A quali scelte di vita ha dato origine questa nuova consapevolezza?

Abbiamo iniziato con piccole scelte, dal diventare vegana (Ludovica) a consumare carne solo nel weekend (Matteo). Abbiamo eliminato la plastica dove non necessaria, iniziato ad acquistare localmente e a km0 quando possibile oppure prodotti biologici. Ci siamo dedicati allo studio e alla formazione in educazione sostenibile, permacultura, costruzione di abitazioni energicamente indipendenti, apicoltura naturale. Ogni passo ci ha spalancato le porte anuove opportunità e con ogni piccola scelta ci siamo sentiti sempre più sereni, avvertendo una sorta di calma e felicità nella nostra quotidianità.

Fino a che non è arrivato il momento di ritornare.

Quando il visto è scaduto e ci siamo preparati a tornare in Italia dopo tanti anni, sapendo che la nostra vita sarebbe stata ormai diversa e impegnandoci entrambi, come coppia e come individui, a rispettare queste nuove scelte. La cosa più difficile è stata sicuramente trovare il giusto equilibrio tra informare le nostre famiglie, educarle, ma lasciare loro lo spazio di compiere le loro scelte senza risultare invadenti ed estremisti! Ma ce l’abbiamo fatta e questo lungo lockdown, così come l’arrivo della pandemia in sé, ci ha insegnato che non potevamo più “scappare” dalla nostra terra con la scusa che “qui non si può fare mai nulla”.

È a quel punto che è arrivata la decisione di mettervi in gioco in prima persona?

Proprio così: per vedere cambiamento dovevamo schierarci in prima linea con coraggio e dedizione. Lo abbiamo fatto e a novembre del 2020 abbiamo deciso di iniziare il percorso dell’apertura di Ludì, un negozio di prodotti alimentari totalmente privi di imballaggio e di oggettistica zero rifiuti che potesse accompagnare ogni individuo nella transizione verso uno stile di vita sostenibile.

Raccontateci com’è andata.

La strada non è stata facile: Lanciano è un grande paesotto e trovare il giusto locale che fosse sufficientemente grande da garantirci spazio per organizzare anche incontri e seminari, senza però finire per pagare affitti stratosferici, è stata dura. Ci sono voluti sei mesi solo per questo! Insieme abbiamo compiuto i lavori di ristrutturazione del locale scelto in un quartiere residenziale con ampi marciapiedi e posti macchina, così da garantire facile accesso a tutti. Fortunatamente in Australia abbiamo anche imparato a fare svolgere lavori di manutenzione e questo ci ha permesso di abbattere di molto i costi dell’apertura. Finita questa fase, è iniziata l’ardua impresa della ricerca e scelta dei fornitori. Ci tenevamo ad avere prodotti locali, ma anche prodotti biologici e coltivati con i principi della biodinamica e della permacultura. La più grande difficoltà è stata convincere i vari fornitori a venderci i loro prodotti in grandi sacchi. Da noi il concetto di sfuso è ancora complesso e lontano. Ma ce l’abbiamo fatta: tre mesi dopo, con l’aiuto della nostra commercialista e della nostra agente di HACCP – due donne meravigliose! –, abbiamo completato il nostro negozio.

Quali prodotti vendete?

Da Ludì si può trovare cereali, legumi, farine, pasta, riso, oli, muesli e granole, biscotti, caffè fresco da macinare, tè e tisane, spezie, sale e zucchero, erbe, superpolveri, frutta secca, semi. In più tutta la parte di oggettistica, dai detersivi bio alla spina ai saponi artigianali al taglio, spugne compostabili, posate e spazzolini in bambù, contenitori e cannucce in acciaio, teli cerati e carte forno riutilizzabili, sacchetti di stoffa, pannolini e assorbenti lavabili e tante altre cosine! Il nostro budget non era molto alto e siamo stati bravi nel rispettarlo, ricercando mobili di seconda mano, riutilizzando bancali come mensole, recuperando arredi da nonni, rigattieri ed amici. La famiglia è stata il più grande supporto, ognuno ha apportato qualcosa. Fino al giorno dell’apertura c’era chi si arrampicava sulle scale per fissare le ultime cosine ai muri, chi lavava barattoli, chi scriveva a mano 353 etichette!

Il risultato è stato come ve l’aspettavate?

Sì: il negozio è una piccola oasi di pace, con un profumo di buono che solleva l’animo a chiunque entra e porta il sorriso a tutti. All’ingresso c’è un divanetto per rilassarsi e chiacchierare perché da Ludì ogni prodotto ha la sua storia e il suo perché che va raccontato adeguatamente. Siamo sempre attivi, inventandoci costanti collaborazioni, eventi, servizi per far conoscere la nostra realtà, ma anche per portare soluzioni lì dove il mercato non è ancora arrivato. La spesa la consegniamo a domicilio o la prepariamo per un ritiro facile e veloce, vendiamo online e prepariamo kit di merende per i bambini che vanno a scuola e menù settimanali per le famiglie impegnate. Ci ricordiamo bene le difficoltà incontrate nella transizione verso la sostenibilità e anticipiamo soluzioni ai bisogni della nostra comunità che giorno dopo giorno diventa una grande famiglia dove ci si aiuta e si collabora.

Cosa vuol dire per voi “sostenibilità”?

La sostenibilità è un mondo, uno stato, un concetto, uno stile di vita incredibilmente ampio e può far paura all’inizio. Ricordiamo sempre a tutti l’importanza di fare le cose poco alla volta. Scegliere di acquistare prodotti imballati in vetro, piuttosto che acquistare prodotti bio o fare la spesa dal contadino vicino casa. I passi sono molteplici e vanno compiuti lentamente e pazientemente. È un percorso fatto di domande, di continua messa in discussione con curiosità e senza giudizio, perché basta poco a sentirsi in colpa!

Cosa consigliate a chi volesse applicare questo concetto nella propria vita di tutti i giorni?

Si può iniziare da qualunque ambito: oggi scelgo un vasetto di ceci in vetro, domani acquisto una farina sfusa, tra una settimana provo a usare un telo cerato e tra un mese utilizzo la carta di giornale per fare pacchetti. Magari una volta a settimana vado a piedi a lavoro o mi organizzo con un collega. Prendo l’abitudine di tenere una busta di stoffa in macchina e se mi dimentico mi faccio una carezza, non un rimprovero! Quando sono al mare o in montagna a passeggiare mi porto un sacchetto nel quale raccogliere i rifiuti che trovo per strada. La cicca della sigaretta la ripongo in un fazzolettino e attendo un cestino per buttarla. Compro un bel libro di cucina dalla libreria locale – che se non ha quel che trovo può procurarselo! – e attendo pazientemente e con desiderio l’arrivo del mio acquisto.

Questo nel personale. Ma in famiglia e nella comunità in cui viviamo?

Inizio a rallentare i ritmi della mia famiglia con organizzazione e pianificazione. Spiego a mio figlio che a 9 anni davvero non ha bisogno di un telefono e che per produrre e poi smaltire uno smartphone si crea un grande impatto sull’ecosistema. Scelgo di ascoltare come mi sento e rispettare il mio corpo e i miei ritmi, che rispondono a quelli della natura. Potremmo andare avanti per ore! Nei confronti di Governi, istituzioni e grandi tavoli invece, mi impegno come cittadino a ricordare che sostenibilità significa anche “poterselo permettere”.

Lo Stato ci deve aiutare a compiere scelte sostenibili, mantenendo le nostre strade pulite, dando incentivi validi, utili e soprattutto inclusivi, informando ed educando, abbassando le aliquote dei prodotti che guariscono e aiutano il pianeta. C’è così tanto da fare! Ma questo non deve scoraggiarci bensì darci la forza di non mollare mai perché è un cammino che appaga, che rende felici e che ci fa vivere meglio, garantendo un futuro migliore ai nostri pargoli, alle prossime generazione e a Mamma Terra che è così bella e così unica.

Come trovano spazio queste idee nella vostra attività commerciale?

Ludì si impegna a garantire informazione, educazione e guida per chi vuole iniziare a cambiare, a scegliere con consapevolezza. Aiutiamo chi si serve da noi a scegliere i prodotti che più si avvicinano ai vostri gusti e alle vostre esigenze. Forniamo una guida sulle quantità da acquistare e prepariamo i prodotti in sacchetti di carta, se qualcuno dimentica i propri contenitori. Siamo sempre disponibili a fornire ricette e suggerimenti che si possono poi ritrovare sui nostri social e sul nostro sito. Abbiamo scelto pubblicità e divulgazione digitale proprio per minimizzare gli sprechi di carta. A chi viene da noi chiediamo un po’ della sua fiducia e del suo tempo, perché da Ludì non si viene con la fretta! Correre ci rende difficile assaporare, ascoltare, riflettere e noi ci teniamo che anche fare spesa nel nostro negozio sia simbolo di sostenibilità. Rallentare, respirare, lasciarsi trasportare!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/09/ludi-sogno-sostenibilita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Boscopiano: un gruppo di giovani realizza il sogno di far rivivere la propria valle

Sono giovani, pieni di entusiasmo e voglia di far conoscere a tutti il bellissimo territorio in cui vivono: si chiamano Giovanni, Diletta, Marta e Camilla e vivono in Val Borbera, in provincia di Alessandria. Per rilanciare il territorio, soggetto a un progressivo spopolamento, hanno dato vita a Boscopiano, un’area attrezzata che vuole essere non solo un luogo di socialità ma anche e soprattutto una “vetrina della valle”, capace di promuovere il turismo e tutte quelle attività di ristorazione, le botteghe e i piccoli negozi che rendono unico questo territorio. Esistono dei luoghi dove tutto è più bello, dove puoi trovare il punto giusto per ammirare un tramonto, dove l’acqua è più pulita e dove la natura si riappropria dei suoi spazi. Luoghi di estrema bellezza che aspettano solo di essere valorizzati. E proprio da queste suggestioni ha inizio la storia che vi raccontiamo oggi e che vi porta lontano, in una bellissima valle del Piemonte, la Val Borbera. Questo territorio, riconosciuto come area di interesse comunitario, ha subìto negli anni passati un progressivo spopolamento dovuto all’abbandono di molte famiglie, richiamate nei vicini centri urbani da nuove occasioni lavorative. Molti hanno lasciato questo territorio non vedendo alcuna possibilità, ma c’è chi, invece, ha deciso di scommetterci: Giovanni Moro, Diletta Leale, Marta Bisio e Camilla Cadella Bisio sono quattro giovani ragazzi e ragazze che amano la loro terra e proprio qui hanno deciso di rimanere, per rilanciare la Val Borbera in chiave turistica.

Foto di Fabio Passaro

Così tre anni fa Giovanni e Diletta hanno partecipato a un bando del Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale, tramite un bando del GAL Giarolo Leader, che dava un contributo economico per l’avvio, nella zona, di attività extra agricole in ambito turistico. «Quest’occasione è stata essenziale per iniziare. Noi siamo molto giovani, abbiamo tra i 21 e i 24 anni e quando abbiamo avviato questo progetto non avevamo esperienza pregressa, avevamo però tanta voglia di cambiare le cose. Il nostro obiettivo è stato sin dall’inizio quello di creare un valore condiviso che coinvolgesse le persone, le attività e il territorio».

Lo hanno chiamato Boscopiano e sorge in corrispondenza di un grande canyon formatosi dall’azione del torrente Borbera che, con le sue acque limpide, è il simbolo della valle. Qui i protagonisti della nostra storia hanno realizzato un’area pic-nic, un chiosco, un percorso che porta fino al greto balneabile, gestiti ora assieme a Marta e Camilla. Nella stagione calda, dalla primavera all’inizio dell’autunno, è operativo il bar, dove servono ottimi aperitivi che si basano sui prodotti naturali e biologici del territorio, per aiutare le attività locali e valorizzare le eccellenze gastronomiche che sono i simboli autentici della Val Borbera.

«Boscopiano, per come è strutturato, potrebbe funzionare anche come ristorazione ma noi abbiamo deciso di puntare su un aperitivo, in modo che i visitatori non siano obbligati a fermarsi da noi ma possano spostarsi nelle attività di ristorazione che già esistono in valle e che noi proponiamo».

Ma l’area vuole essere anche e soprattutto un luogo di riferimento per l’intera valle e per questo i nostri giovani lo hanno reso un punto di informazione turistica per coloro che qui giungono e possono essere guidati alla scoperta del territorio. Perché, come ci racconta Giovanni, «visto che siamo all’imbocco della valle da noi arrivano in tanti ma in pochi vanno oltre, perdendosi i paesaggi e le attività che qui sorgono».

Come punto informativo i giovani sponsorizzano le attività del territorio, pubblicizzano gli eventi organizzati per la stagione estiva e attualmente stanno collaborando con le proloco dei comuni della zona per aprire un portale dove pubblicare le iniziative locali.

«Siamo sperduti ma al centro di tutto», scherza Giovanni, proprio perché l’area, che porta alla Val Borbera e ai suoi comuni montani, si trova al centro di quattro regioni quali l’Emilia Romagna, il Piemonte, la Liguria e la Lombardia, conservando allo stesso tempo una sua identità e degli aspetti tradizionali molto peculiari. Diletta, Giovanni, Camilla e Marta hanno deciso di rendere Boscopiano sempre accessibile: «Abbiamo creato un’area che, coerentemente con la nostra filosofia di vita basata sulla condivisione, è aperta a tutti. Aperta vuol dire che non c’è un biglietto di ingresso, ma è accessibile ogni giorno dell’anno, anche quando noi non ci siamo. E in questi anni abbiamo visto che questo atteggiamento ha portato ad un risvolto positivo: vedendo la sua trasformazione rispetto al passato, molte persone hanno preso a cuore questo luogo».

Il progetto di Boscopiano, oltre che essere sostenibile dal punto di vista ambientale, etico e legale, vuole essere sostenibile anche dal punto di vista economico e, come ci viene spiegato, «rappresenta un’attività lavorativa che ci occupa il periodo estivo e ci permette allo stesso tempo di portare avanti gli studi universitari».

Il sogno è dare una prospettiva a un territorio che si spera abbia già toccato il fondo e da cui non si possa fare altro che risalire. «Per questo vogliamo lanciare un messaggio concreto e dire che “si può lottare per fare la differenza”».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/12/boscopiano-gruppo-giovani-realizza-sogno-far-rivivere-propria-valle/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Vaia, la startup che pianta nuovi alberi nei boschi delle Dolomiti distrutti dalla tempesta

Per commemorare il secondo anniversario del disastro causato dalla tempesta Vaia, domenica 25 ottobre l’omonima startup pianterà sull’altopiano di Piné 726 nuovi alberi, uno per ogni giorno trascorso da quei momenti. L’evento vuole celebrare la rinascita di una comunità resiliente e si inserisce nell’impegno dell’azienda a piantumare 50mila alberi entro la fine del 2021. Con raffiche di vento che hanno raggiunto i 190 km/h, la tempesta Vaia ha raso al suolo interi boschi, spazzando via 8,5 milioni di metri cubi di legname e causando danni economici per 630 milioni di euro. E soprattutto, ha sconvolto il panorama di vaste aree di quelle stesse Dolomiti che dal 2009 fanno parte del Patrimonio Mondiale UNESCO. Per commemorare i due anni dal passaggio della tempesta che spazzato via 40 milioni di alberi, la startup trentina Vaia organizza un evento di riapiantumazione nel quale verrà piantato un albero per ogni giorno passato dalla tempesta, per cui 726 alberi.

Il team di Vaia

La startup VAIA nasce proprio dal desiderio di Federico Stefani, ventinovenne trentino, di aiutare il suo territorio e la sua comunità a rialzarsi dalla devastazione della tempesta. Insieme a Giuseppe Addamo e Paolo Milan, Stefani decide di fondare la startup VAIA per recuperare il legno degli alberi abbattuti dalla tempesta e trasformarlo in un prodotto d’eccezione. Contribuendo ad alimentare un nuovo modo di fare impresa, in un’ottica di arricchimento per la società e l’ambiente. L’oggetto ideato dalla startup è il VAIA Cube, amplificatore passivo costruito artigianalmente (la cassa viene realizzata da artigiani e falegnami locali) che permette di propagare in modo completamente naturale qualunque suono emesso da uno smartphone. Ogni cubo è un pezzo unico e di piccole dimensioni (10 cm per lato), prodotto unicamente con il legno recuperato dagli alberi caduti: l’esterno è realizzato in abete della Val di Fassa, un pregiato tipo di abete rosso da sempre utilizzato per produrre i violini, mentre l’interno è in larice.

Per Federico Stefani “il VAIA Cube è un esempio concreto di come sia possibile produrre senza sprecare preziose materie prime, e rispondendo concretamente alle conseguenze dei cambiamenti climatici”. Allo stesso tempo, l’amplificatore punta anche a mantenere alta l’attenzione sull’emergenza climatica. Attraverso il VAIA Cube, la startup vuole consegnare alle persone una storia, un oggetto di design frutto di un progetto più ampio e basato sui valori di tutela dell’ambiente e sostenibilità, un simbolo di resilienza e fiducia nel futuro. La startup, i cui tre fondatori sono stati inseriti da Forbes Italia nella classifica “100 Number One – L’Italia dei giovani leader del futuro”, punta a piantare nelle zone colpite dalla tempesta un nuovo albero per ogni Vaia Cube venduto, e a piantumare 50mila alberi entro la fine del 2021.

L’ultima ripiantumazione di quest’anno prima dell’inizio della stagione invernale si terrà domenica 25 ottobre sull’altopiano di Pinè, in Trentino, dove saranno messi a dimora 726 alberi: uno per ogni giorno trascorso dalla tempesta Vaia. Secondo Paolo Milan, “amplificare i suoni in modo naturale attraverso il legno è una metafora forte e concreta per risvegliare la coscienza collettiva. I recenti eventi climatici ci stanno dimostrando che dobbiamo necessariamente riconsiderare il nostro modo di produrre, e soprattutto il nostro modo di consumare, restituendo una giusta priorità all’ambiente e alla natura”.

La ripiantumazione sull’altopiano di Pinè sarà trasmessa in streaming sui canali social di Vaia a partire dalle 10:00 di domenica 25 ottobre. Saranno proposti anche contenuti aggiuntivi, interviste ai fondatori e al team della comunità di VAIA, nonché agli artigiani che realizzano il prodotto.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/10/vaia-startup-pianta-alberi-dolomiti-distrutti-tempesta/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Il futuro di eventi e festival musicali? Ripartiamo dalla sostenibilità!

Questo momento di sospensione forzata di moltissimi eventi live, può rappresentare l’occasione giusta per ripensare il settore in un’ottica di maggiore attenzione per l’ambiente. Ne abbiamo parlato con Katia Costantino che da anni si occupa di progettazione sostenibile di festival e manifestazioni culturali e musicali. Il mondo della cultura, della musica e degli eventi live è stato il primo comparto a scontrarsi con l’emergenza Covid-19 e a rimanere a tutt’oggi in una fase di stasi. L’espressione oggi più usata da chi è motore di questo settore è “ripartenza con proposte concrete”. Così lavoratori, imprenditori, professionisti della musica e dello spettacolo hanno stilato un documento programmatico, “LaMusicaCheGira”, per promuovere una riforma definitiva del settore. Tra le istanze un punto è dedicato alla sostenibilità degli eventi e dei festival, ne abbiamo parlato con la sua autrice Katia Costantino.

Katia Costantino da anni si occupa di progettazione sostenibile di festival e manifestazioni culturali e musicali

Puoi presentarti e dirci di cosa ti occupi?

Sono nata a Torino, anni fa feci un master sulla Sostenibilità Ambientale cioè sullo sviluppo sostenibile. Nel 2013 mi sono trasferita in Inghilterra e lì sono riuscita ad unire le mie due passioni quella per la salvaguardia dell’ambiente e quella per la musica quando ho incontrato A Greener Festival un’associazione no profit che si occupa di aiutare eventi musicali che vogliono intraprendere un percorso verso la sostenibilità. Dal 2016 collaboro con loro come Environment Assessor, un perito ambientale: vado nei festival che hanno aderito ad un protocollo e verifico che effettivamente abbiano attuato quelle azioni che hanno dichiarato di fare tramite un questionario che noi mandiamo preventivamente.

Ho pensato che sarebbe stato bello replicarlo anche in Italia così dall’anno scorso ho iniziato da consulente freelance con un nuovo progetto che si chiama Eco.Reverb e aiuto i festival a progettare, disegnare un evento ad hoc. Mi rendo conto che una figura come la mia di Sustainability Project Manager non è forse considerata una professione a tutti gli effetti com’è in tutte le altre parti d’Europa”.

In base alla tua esperienza, come valuti la consapevolezza rispetto alla tematica in Italia?

Undici anni fa quando feci il master la sostenibilità era un’idea abbastanza vaga. Negli ultimi anni la consapevolezza è assolutamente cambiata, la conoscenza e la determinazione nel voler fare qualcosa stanno emergendo fortemente. Quando parlo di sostenibilità la declino sempre alle tre definizioni: ambientale, economica e sociale. Sto considerando questo momento di crisi sanitaria, di blocco, come un momento per poter ridisegnare gli eventi, un nuovo approccio di qualsiasi aspetto dei live in cui la centralità per ripartire sia dallo sviluppo sostenibile e l’interesse per l’ambiente. In Italia ci sono tanti festival che già adottano azioni sostenibili, ma in realtà non le intendono come tali bensì come normali, ad esempio il servizio di acqua gratuita, l’utilizzo di bicchieri riutilizzabili anziché monouso, la possibilità di raggiungere il festival con shuttle o pulmini. Il problema è che non esiste una mappatura effettiva di cosa fanno i festival e di cosa potrebbero fare.

Dopo una delle serate del ToDays Festival 2019 l’arena dei concerti era completamente pulita avendo usato i bicchieri riutilizzabili

Nello specifico quando segui un evento come consulente, quali sono le azioni che proponi?

Ogni evento che prendo in carico ha delle specificità diverse. Quello che dico sempre è che le azioni sono replicabili perché si va ad agire su determinate aree: trasporti, riduzione o diminuzione dei rifiuti, ma anche tutta la parte degli “acquisti verdi” , banalmente il catering per gli artisti per cui si utilizzerà piatti e bicchieri biodegradabili.

Per ogni evento scrivo un Action Plan per individuare gli interventi che posso fare. Se ci sono state edizioni precedenti, raccolgo tutti i dati per cercare di capire qual è il comparto più impattante ed andare ad agire in prima fase. La sostenibilità è un progetto che si sviluppa negli anni, va programmata, bisogna capire quali sono i limiti e quali le possibilità. Si può ambire al 100% di sostenibilità. Ci sono festival come il DGTL di Amsterdam che quest’anno avrebbe dovuto essere totalmente sostenibile ma anche questo è andato in streaming.

Pensi che si possa continuare a portare avanti questi eventi solo in streaming?

È stata una bella iniziativa nell’immediato, una reazione per far sentire la propria voce, per far capire che il comparto della musica, della cultura esiste e ha bisogno di farsi sentire. Non credo però che lo streaming possa essere il futuro. Per quanto bello manca di un fattore fondamentale che è quello sociale: la maggior parte degli eventi si fonda sul coinvolgimento e la socializzazione tra le persone. In questo momento bisogna progettare nuove soluzioni per far sì che ci siamo ancora eventi live rispettando tutte le misure, però bisogna attuare soluzioni diverse rispetto a quelle che ho letto negli ultimi tempi.

Immagino tu ti riferisca al ritorno del Drive In…

Io lo dico a gran voce: il Drive In secondo me non è la soluzione ottimale! Comprendo la necessità di dare un lavoro a chi al momento è senza, anche la necessità per le persone di sentirsi vive e di andare a vedere uno spettacolo perché la voglia c’è. Eppure questa è a mio avviso un’idea aberrante sotto l’aspetto sociale e ambientale, è un progetto che va in antitesi rispetto alla gestione sostenibile degli eventi. Utilizzare le auto riporta un auge la dipendenza dai combustibili fossili. In questo momento bisogna parlare di responsabilità: tutte le persone si devono rendere conto che se davvero vogliono rispettare le regole e riuscire a godere della musica lo possono fare senza aumentare l’impatto ecologico di un evento che è già altamente impattante. Da dati recuperati in Inghilterra (in Italia mancano molte delle misurazioni) a livello annuale per evento, il trasporto incide a livello di CO2 per l’80%, rientra nel dato sia l’utilizzo di mezzi privati per raggiungere l’evento sia anche i mezzi con cui si sposta un’artista durante il tour.

Ci sono già degli esempi virtuosi di sostenibilità in campo musicale?

Molti artisti si sono già impegnati per un cambiamento, ad esempio i Massive Attack l’anno scorso hanno dichiarato che le tappe del tour le avrebbero percorse in treno, stessa cosa per gli artisti italiani come gli Eugenio in Via di Gioia che hanno raggiunto il Festival di Sanremo arrivando in bici. Ritengo che l’artista abbia sempre un potere molto forte di influenzare il suo pubblico.

A quali iniziative stai lavorando in questo momento?

Come Eco.Reverb sto lavorando ad un progetto che consiste nello scrivere due manifesti/decalogo, con questi claim: il primo rivolto agli eventi “CutEmissionIsTheMission”, propone azioni sinergiche per la conversione energetica verso fonti rinnovabili, trasporti sostenibili, riduzione dei rifiuti, ecc. Per i festival IWishYouWereGreen parafrasando una famosa canzone, invece per gli artisti che appoggiano i valori di sostenibilità degli eventi SingingInTheTrash. Le idee ci sono, le figure professionali anche. Abbiamo però bisogno di un aiuto e che ci sia la volontà di investire sul Green. Se veramente oggi dobbiamo ridisegnare tutto, cambiamo in meglio e cerchiamo soluzioni che rispettino l’ambiente.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/05/futuro-eventi-festival-musicali-ripartiamo-sostenibilita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Sostenibilità: un bando di 15 milioni per la cooperazione degli enti territoriali

L’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) ha aperto un bando per finanziare attività di partenariato territoriale: l’iniziativa è tesa a contribuire al raggiungimento dei 17 SDGs delle Nazioni Unite nell’ambito di uno sviluppo economico, ambientale e sociale. Favorire le azioni degli Enti territoriali, soprattutto in partenariato, dirette a contribuire al concreto raggiungimento, nei territori, degli obiettivi previsti dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile: è questo l’obiettivo del nuovo bando Promozione dei Partenariati Territoriali e implementazione territoriale dell’Agenda 2030 dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. All’iniziativa dell’AICS possono partecipare le Regioni e gli Enti territoriali nazionali che propongono azioni dirette volte al raggiungimento due obiettivi generali. Il primo è dedicato a contribuire allo sviluppo dei Paesi partner (Obiettivo 1), operando a sostegno della capacità di governo delle istituzioni locali, rimuovendo gli ostacoli che impediscono – a livello territoriale – i processi di sviluppo sostenibile; un percorso che è anche teso a promuovere lo sviluppo di servizi del territorio, socio-sanitari, anagrafici, educativi, di formazione professionale, che garantiscano un accesso inclusivo soprattutto per le donne, i minori, i giovani, gli anziani e le persone con disabilità.

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Winding Road through a City Park

Foto tratta da Freepik

L’altro macro obiettivo prevede di contribuire alla promozione di uno sviluppo urbano/territoriale sostenibile e resiliente (Obiettivo 2), attraverso l’implementazione di misure di adattamento ai cambiamenti climatici in ambiente urbano,  con la riduzione degli effetti dell’inquinamento nelle città e/o in territori più ampi. Tutto senza dimenticare di sostenere l’aumento dell’efficienza dei servizi di pubblica utilità che possano impattare positivamente sull’ambiente. “Per entrambi gli Obiettivi Generali – si legge nel bando dell’AICS – sarà importante il trasferimento, da parte degli enti territoriali italiani, di esperienze e migliori pratiche sviluppate dagli stessi”.

Le proposte di progetto dovranno essere inviate via email – con l’opportuna documentazione – entro il 25 marzo 2020 all’indirizzo PEC bando.rel@pec.aics.gov.it. Il bando intende quindi favorire il coinvolgimento e valorizzare il ruolo di enti locali e soggetti no profit, presenti nel territorio di riferimento dell’Ente proponente; i beneficiari, a questo proposito, accederanno al fondo di 15 milioni di euro e potranno richiedere un contributo non superiore all’80% del costo totale dell’iniziativa.

Articolo tratto da: Journal Cittadellarte