È il caso di dirlo: Greta
Thunberg ha fatto scuola! La sedicenne svedese che ha fatto parlare di se agli
ultimi meeting per il clima ha mobilitato quello che si va configurando come un
movimento a livello mondiale, che per il 15 marzo sta organizzando
manifestazioni in 40 paesi. E anche in Italia, intanto, gli studenti scioperano
per chiedere interventi radicali.
Centinaia di
migliaia di studenti nel mondo hanno preso ispirazione da Greta Thunberg in
queste ultime settimane e hanno iniziato a scioperare il venerdì con
manifestazioni davanti a palazzi istituzionali e di governo per chiedere
interventi radicali a difesa del clima. Il movimento si è dato il nome di Fridays
For Future e conta ormai l’adesione di città e nazioni in Europa e non
solo. Anche in Italia gruppi di studenti si sono mobilitati in svariate città,
da Milano a Torino, da Pisa a Roma, da Genova a Napoli e il fermento è
continuo. Si stanno preparando gruppi a Udine, Brescia, Taranto e molte altre
città italiane. Inoltre, il movimento globale sta anche organizzando una manifestazione
che si svolgerà contemporaneamente in una quarantina di Stati (tanti sono
quelli dai quali finora sono arrivate le adesioni, tra cui l’Italia) venerdì
15 marzo prossimo. Ogni città e nazionale avrà completa autonomia, ma il
comune denominatore sarà la protesta contro l’inerzia di governi e potenti sul
fronte della lotta ai cambiamenti climatici. Per aggiornare tutti gli
interessati sulla mobilitazione globale che porterà alle proteste del 15 marzo
è stato realizzato il sito www.schoolstrike4climate.com
La mobilitazione
giovanile corre innanzitutto sui social. «Ogni città ha il suo gruppo WhatsApp
per comunicare», racconta Ivan, ventenne studente universitario che ogni
venerdì da dicembre manifesta a Milano: «Quando vogliamo vederci in faccia
teniamo delle conferenze su Skype, anche con i gruppi stranieri. Altrimenti ci
incontriamo il venerdì».
Sicuramente hanno
preso esempio dai loro coetanei tedeschi, che già nelle scorse settimane
avevano scioperato in 30 mila, ma anche da quelli svizzeri, belgi e francesi,
che ugualmente si sono mobilitati per dire la loro sul futuro del pianeta.
Negli altri Stati europei la protesta e la sensibilizzazione è probabilmente a
uno stadio più avanzato, ma anche in Italia si stanno compiendo passi avanti
benché non senza sforzo. David, quattordicenne al primo anno di liceo
scientifico in provincia di Torino, spiega: «Sto programmando un’app usata dai
gamer, Discord, in modo che tutte le nostre chat sparse tra WhatsApp, social e
Skype, convergano su un’unica piattaforma», dice. «Sono sempre stato
interessato all’ambiente, ma non sapevo che fare. Questo movimento mi piace
perché è pacifico e non è legato a partiti».
Per informazioni
sui gruppi locali e le loro attività, cercare gli hashtag:
#fridaysforfutureitaly o italia e #fridaysforfuture+nome delle città
#climatestrikeitaly o italia e #climatestrike+nome delle città.
Intanto, il
meteorologo Luca Mercalli ha diffuso un video in cui sostiene la
protesta degli studenti
Legambiente
presenta Pendolaria, il Rapporto sullo stato del trasporto ferroviario in
Italia “Nel 2019 si rischia un taglio del servizio. Basta parlare di Tav; qual
è la strategia di Governo e Regione per i pendolari?”
C’è un’Italia in
movimento, che aspetta il treno. Il trasporto ferroviario è un po’ lo specchio
del Paese e delle sue contraddizioni, con segnali di straordinaria innovazione
e regioni dove, invece, il degrado del servizio costringe centinaia di migliaia
di persone a rinunciare a prendere il treno per spostarsi. A raccontare quanto
succede sulle ferrovie italiane è il rapporto Pendolaria di Legambiente,
che dal 2008 analizza ogni anno la situazione del trasporto ferroviario in
Italia, con numeri e storie e il duplice obiettivo di illustrare i risultati di
politiche e investimenti e di dare forza alla costruzione di un paese più
sostenibile. Il numero dei passeggeri a livello nazionale aumenta, toccando
quota 5,59 milioni e segnando un nuovo record rispetto al 2012 (+7,9% in 4
anni). Sono infatti 2 milioni e 874 mila coloro che ogni giorno
usufruiscono del servizio ferroviario regionale e 2 milioni e 716 mila quelli
che prendono ogni giorno le metropolitane, presenti in 7 città italiane, in
larga parte pendolari. E per entrambi i numeri sono in crescita, come per
l’alta velocità. Ma il paradosso c’è: diminuiscono i chilometri di linee
disponibili e la crescita nasconde differenze rilevanti nell’andamento tra le
diverse Regioni e tra i diversi gestori. In alcune parti del Paese la
situazione è migliorata, mentre in altre è peggiorata e si è ampliata la
differenza nelle condizioni di servizio. Se tra Firenze e Bologna, per esempio,
l’offerta di treni non ha paragoni al mondo, con 162 treni che sfrecciano a 300
km/h nei due sensi di marcia ogni giorno, in diverse parti del Piemonte
migliaia di persone non prendono più il treno per via dei tagli e del degrado
del servizio. Il trasporto ferroviario soffre in particolar modo della riduzione
dei finanziamenti statali, con una diminuzione delle risorse stanziate
tra il 2009 e il 2018 pari a -20,4%, a cui si potrebbe aggiungere nel
2019 un ulteriore taglio di 300 milioni, per una clausola di salvaguardia
nella legge di Bilancio che ha buone probabilità di scattare vista la
situazione economica. A quel punto le risorse in meno sarebbero oltre il 6%,
rispetto allo scorso anno, con la conseguenza di vedere meno treni nelle
Regioni.
“In Piemonte i dati
indicano che l’emorragia di pendolari degli anni scorsi non si è ancora
arrestata. Per questo ci auguriamo che la riapertura ad inizio anno della linea
Saluzzo-Savigliano non resti una notizia positiva ma isolata, e che vengano
gettate le basi per la riapertura di tutte le linee tagliate nel 2011 –dichiara
Fabio Dovana, presidente di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta-. Quella
delle grandi opere è una falsa priorità e i numeri lo dimostrano in modo
lampante. Il vero deficit da colmare è nelle città e in un servizio ferroviario
regionale con troppe carenze. Più che di una sterile e inopportuna campagna
pro-Tav il Piemonte ha bisogno di affrancarsi dal ruolo di fanalino di coda tra
le regioni del Nord Italia, investendo con forza a favore di un trasporto
ferroviario pendolare di qualità”.
In Piemonte nel 2017 sono state in media 166.445 le persone che ogni
giorno hanno preso un treno, in diminuzione rispetto al 2016 quando
si attestavano a 167.556 mila. Per tornare almeno ai 175.400 viaggiatori
del 2011, anno in cui sono state cancellate 14 linee cosiddette “minori”, per
Legambiente servono maggiori investimenti. In Piemonte gli stanziamenti
per il servizio ferroviario si attestano a 5,51 milioni di euro l’anno,
appena lo 0,05% del bilancio regionale. Il paragone con le vicine regioni del
Nord Italia non regge: la Lombardia stanzia per il servizio ferroviario 176
milioni di euro, l’Emilia Romagna 37 milioni di euro, il Veneto 16,7 milioni.
L’Italia, insomma,
è spaccata a metà, con 9 Regioni e le
due Province autonome in cui i passeggeri sono aumentati e 10 in cui
sono diminuiti o rimasti invariati. Cresce il numero di persone che prende il
treno al nord – come in Lombardia (750 mila), è triplicato dal 2001 in Alto
Adige, raddoppiato in Emilia-Romagna, cresciuto di 60 mila in Puglia.
Analoghi i successi della metropolitana a Milano (con più passeggeri delle
altre 6 città italiane dotate di metro), dei tram a Firenze e a Bergamo. Molto
diversa la situazione del Piemonte dove a causa delle linee soppresse i passeggeri
sono calati del 4,4% mentre è drammatica in particolare la situazione in
Sicilia, dove si è passati da 50.300 a 37.600 viaggiatori (dal 2009 ad oggi) in
una Regione con 5 milioni di abitanti e grandi spostamenti pendolari, e in Campania
dove si è passati da 413.600 viaggiatori a 308.500 (ma con un trend in risalita
negli ultimi anni).
“Sono tanti i segnali positivi dalle città e dalle Regioni –commenta Edoardo
Zanchini, vicepresidente nazionale di Legambiente– che mostrano una disponibilità
delle persone a usare treni e trasporto pubblico locale, confermata da tutte le
indagini. Quest’anno raccontiamo con tante storie proprio come ovunque siano
arrivati nuovi treni, sia stato migliorato il servizio e il numero dei
passeggeri sia cresciuto in modo esponenziale. Ma sono troppe le Regioni in
cui, al contrario, è stato ridotto il numero dei treni, sono diminuiti anche i
pendolari che ne usufruiscono e sono stati costretti a usare i mezzi privati. I
risultati prodotti dagli investimenti dimostrano che si può davvero migliorare
la vita delle persone, riducendo l’inquinamento e le emissioni di gas serra
generate dai trasporti, ma occorre avere una chiara idea dei problemi da
affrontare, per allargare il cambiamento a ogni parte d’Italia. Se si vuole
davvero migliorare la situazione per i pendolari, gli ambiti di intervento sono
quattro: aumentare le risorse, coordinare e controllare quanto avviene sulla
rete, cambiare le priorità infrastrutturali e fermare il taglio delle
cosiddette linee secondarie. Ad oggi –prosegue Zanchini– non si è capito
quale idea abbia il governo per il rilancio dell’offerta per i pendolari e per
il trasporto pubblico locale. Si fa un gran parlare di Tav, ma il rischio è che
come nelle precedenti legislature vadano avanti solo le autostrade, mentre le
opere che servono ai pendolari rimangono ferme, rinviate e incompiute”.
Il cambiamento
avvenuto negli spostamenti nazionali è rilevante, con numeri comunque inferiori
rispetto alle tratte regionali: 40 mila persone circa che prendono ogni giorno
gli Intercity e 170 mila l’alta velocità (tra Frecce di Trenitalia e Italo) per
spostarsi su collegamenti nazionali. Le persone che prendono il treno ogni
giorno aumentano sia sui treni a lunga percorrenza, in particolare con il clamoroso
successo dell’alta velocità, sia sui treni regionali e sulle ferrovie
metropolitane, purché ci siano. Perché se in questo inizio di secolo sono state
costruite nuove linee ad alta velocità per
1.213 chilometri, nel frattempo sono avvenute cancellazioni per 1.120 km è
sospensioni in altri 321 km, in territori rimasti ora senza collegamenti
ferroviari. Come poche volte in passato, i pendolari sono stati al centro degli
annunci del ministro delle Infrastrutture in questo inizio di legislatura. E
nel contratto di governo tra i due partiti che compongono la maggioranza
l’impegno è scritto con chiarezza. Tuttavia, in questi mesi, anche in
conseguenza del crollo del viadotto Morandi a Genova, al centro dell’attenzione
politica ci sono state le scelte sulle grandi opere. Nella legge di bilancio
ci sono alcune misure positive per interventi nelle città e sulla rete
ferroviaria. Inoltre è stato istituito un fondo presso il ministero
dell’Economia finalizzato al rilancio degli investimenti
delle amministrazioni centrali dello Stato e allo sviluppo del Paese
e una quota del fondo è destinata alla realizzazione, allo sviluppo e alla
sicurezza di sistemi di trasporto pubblico di massa su sede propria.
Purtroppo negativa e in continuità con il passato è la scelta di destinare
ingentissime risorse all’autotrasporto anche in questa legge di bilancio.
Sono stanziati 1,58 miliardi di euro per le esenzioni dell’accisa
all’autotrasporto merci, a cui si sommano 240 milioni di euro per
rimborsi vari. Va ricordato poi che nel decreto Genova sono stati previsti 20
milioni di euro per gli autotrasportatori. Secondo Legambiente se il ministro
Toninelli vuole davvero rilanciare il trasporto ferroviario pendolare deve
aumentare le risorse, perché quelle attuali sono di oltre il 20% inferiori al
2009, e rischiano di ridursi ulteriormente se non si blocca la clausola nella
legge di bilancio. Il ministero delle Infrastrutture deve poi esercitare un
vero ruolo di coordinamento e controllo sulla rete, per evitare che continuino
tagli e disservizi in alcune Regioni. E occorre cambiare le priorità
infrastrutturali: mancano 10 miliardi di euro per le 26 incompiute che servono
ai pendolari italiani, individuate da Legambiente, mentre sono previste
ingenti risorse per autostrade e altre strade. Secondo Legambiente, la sfida
per il rilancio del servizio ferroviario in Italia consiste nel puntare
sulle città,che sono il cuore della domanda di trasporto nel nostro
Paese, sul Sud, dove i ritardi e i problemi sono incredibili, e su un
progetto di mobilità sostenibile per la grande area inquinata della Pianura
Padana. “Nel rapporto presentiamo proposte concrete che consentirebbero di
rilanciare le città e l’economia italiana. Ci auguriamo che il governo del
cambiamento scelga di percorrere questa strada” aggiunge Zanchini.
Legambiente
sottolinea come nel bilancio dello Stato già esistano le risorse per realizzare
un salto di qualità nel servizio ferroviario. Il problema è di indirizzare le
rilevanti risorse presenti in maniera differente rispetto ad oggi, ridisegnando
con chiari obiettivi le entrate legate ai trasporti (accise, Iva, tariffe
autostradali, ecc.) e le voci di spesa (sussidi all’autotrasporto, servizio
ferroviario, infrastrutture). In particolare per rilanciare il trasporto
ferroviario servono risorse per: potenziare il servizio ferroviario
regionale, e per garantire che il numero di treni sulla rete aumenti
servono almeno 500 milioni di euro all’anno da destinare al fondo per il TPL e
il trasporto ferroviario regionale per potenziare il servizio al sud con
Intercity e Frecce; rilanciare gli investimenti infrastrutturalidavvero
utili al sud e nelle città, garantendo che almeno 2 miliardi di euro
all’anno dei fondi introdotti con le Leggi di Bilancio 2018 e 2019 per gli
investimenti dello Stato siano indirizzati a nuove linee di tram e
metropolitane nelle città; acquistare nuovi treni per potenziare il servizio
regionale e intercity, aggiungendo agli investimenti previsti almeno 600
milioni di euro all’anno per continuare il rinnovo del parco regionale
circolante.
Piero Gattoni,
Presidente del CIB – Consorzio Italiano Biogas a Roma: “Dobbiamo segnalare
l’esistenza di cortocircuiti burocratici che continuano a bloccare lo sviluppo
del nostro settore”
“Progettare un cambio di paradigma dei
processi produttivi verso un modello di economia circolare è
un’occasione per rimettere la natura e l’agricoltura al centro del dibattito
nazionale. Gli agricoltori e gli allevatori italiani che hanno scelto la strada
del Biogasfattobene® hanno dimostrato in questi anni che si può produrre
di più con meno e che dalla terra può partire un processo virtuoso di uso
consapevole delle risorse, di riduzione delle emissioni in atmosfera, di
riutilizzo degli scarti e di produzione di energia e di biocarburanti
rinnovabili. Questa non è teoria, quando parliamo di biogas e biometano
agricoli ci riferiamo alle tecnologie e al know-how di circa
1200 aziende che hanno investito negli ultimi dieci anni oltre 4,5 mld di euro
nel tessuto economico del nostro Paese, dando vita a uno dei laboratori di
economia circolare più importanti a livello europeo.”
Così Piero
Gattoni, Presidente del CIB – Consorzio Italiano Biogas, intervenuto
stamane a Roma all’incontro “La corsa ad ostacoli dell’economia circolare in
Italia”, organizzato da Legambiente, alla presenza del Ministro dell’Ambiente e
della tutela del territorio e del mare Sergio Costa.
“L’attuale Governo
è sensibile ai nostri valori ma, purtroppo, dobbiamo segnalare l’esistenza di cortocircuiti
burocratici che continuano a bloccare lo sviluppo del nostro settore,
imponendo, ad esempio, delle restrizioni assurde sul fronte dell’alimentazione
dei biodigestori e impedendo, di fatto, le riconversioni degli impianti
esistenti dalla produzione di biogas per la produzione elettrica a quella di
biometano per i trasporti. Chiediamo dunque al Ministro Costa di intervenire
per sbloccare le potenzialità del più grande giacimento di energia verde
italiana, che tanto può dare al nostro sistema energetico e alla nostra
economia anche in termini di occupazione e di nuovi investimenti”.
Ridurre i consumi aumenta il benessere. È quanto
dimostra Bilanci di giustizia, una rete che raccoglie centinaia di famiglie
italiane che hanno modificato il proprio stile di vita rendendolo più etico e
sostenibile. L’obiettivo è quello di cambiare l’economia mondiale partendo
proprio dai consumi familiari. L’ingiustizia, a
livello globale, è un tema quanto mai attuale. Un tema sul quale una rete di
famiglie in Italia, ha iniziato ad interrogarsi oltre vent’anni fa, cercando di
comprendere come realizzare un cambiamento personale e politico.
“Quando l’economia
uccide bisogna cambiare”. Partendo da questa considerazione nel 1994 nasce Bilanci di Giustizia, coinvolgendo ai suoi esordi qualche centinaio di famiglie, per poi
arrivare alla fine degli anni ’90 a interessare oltre mille famiglie. Famiglie
in rete che hanno iniziato a prendere consapevolezza dei propri consumi
con l’obiettivo di orientarli a dei criteri di giustizia, intesa nei suoi
molteplici aspetti, dalla sostenibilità ambientale, considerando come il
consumo di risorse implichi anche che queste non siano più a disposizione di
noi tutti e del pianeta, al rispetto dei diritti dei lavoratori e alle
questioni sociali e relazionali.
La riflessione
centrale – che si è arricchita negli anni attraverso incontri, esperienze,
strumenti, davvero difficili da poter raccontare con esaustività – è su come i
propri stili di consumo e di vita potessero essere utili al cambiamento. Per
toccare tutte le modalità attraverso le quali si può cambiare il proprio
stile di vita, si sono creati momenti di approfondimento su temi come il
consumo energetico e dell’acqua, sui prodotti alimentari e tessili. Il primo
strumento di cui Bilanci di Giustizia si è dotato è quello individuale del bilancio
mensile che ogni famiglia compila con lo scopo di controllare e modificare
la capacità di cambiamento della propria famiglia. Accanto a questo, strumenti
collettivi, come l’incontro con le altre famiglie del gruppo locale e, una
volta all’anno, l’incontro di riflessione collettiva su un tema emerso nel
processo di ricerca di tutti gli aderenti. Un momento anche di ricarica per le
famiglie che poi continuano a progettare il cambiamento personale e sociale
all’interno dei loro nuclei e nei gruppi locali. I tanti dati raccolti in
questi anni hanno permesso di dare una risposta positiva all’intuizione di
queste famiglie: spostare i consumi, modificare il bilancio familiare, e quindi
il sistema economico, orientandolo verso criteri di giustizia, non solo non
riduce la qualità della vita, ma aumenta il benessere delle famiglie. Le
famiglie bilanciste sono più felici della media. Un dato importante anche sul
piano politico, che dimostra che un altro modello è possibile.
Dalla ricerca è
emerso un altro importante dato: se da una parte c’è stato negli ultimi anni un
calo di partecipazione ed adesso le famiglie coinvolte in Bilanci di Giustizia
sono meno numerose, molti dei bilancisti della prima ora sono stati promotori
del cambiamento intorno a loro. Hanno creato gruppi di acquisto solidale,
reti di economia solidale e promosso azioni politiche nei propri territori di
appartenenza. L’esperienza bilancista è diventata molla per fare altro, c’è
stata un’evoluzione e contaminazione al di là di essa. Quella di Bilanci di
Giustizia è una storia di persone che hanno deciso di prendersi la
responsabilità della propria vita e di fare scelte consapevoli, persone
che si mettono in gioco continuamente, come abbiamo avuto modo di vedere
all’ultimo incontro annuale a Stresa, al quale ha partecipato anche Italia che
Cambia.
Un incontro aperto
a tutti e a tutte, non solo a chi è già un bilancista, in cui quest’anno i
partecipanti si sono confrontati per quattro giorni intorno al tema “come
sarebbe il mondo senza denaro?”, riflettendo e ragionando sulle criticità del sistema
economico attuale dal punto di vista monetario e interrogandosi sul rapporto
che abbiamo con il denaro. Un processo di apprendimento collettivo attraverso
il metodo della comunità di ricerca, in cui la conoscenza non è “già data” ma
viene ricercata insieme. Dove la conclusione non è mai statica e dove
l’importante è di nuovo il processo e la relazione.
Discariche di rifiuti
tossici, falde inquinate, fanghi di depurazione, terre e prodotti agricoli avvelenati,
epidemie di polmonite e non solo; terre intrise di pesticidi, natura tutta
messa a dura prova dai cambiamenti climatici, olivi disseccati. Ma la colpa di
chi è? Dei batteri, di chi se no?
Nell’estate del
2018 in Italia abbiamo avuto un’epidemia di polmonite particolarmente violenta,
in alcuni casi mortale. Non lo sapevate? Vi era sfuggito? Ve ne eravate
dimenticati? E’ comprensibile, dato che i cosiddetti media mainstream, cioè
quelli che vanno con la corrente, un’unica corrente come i condotti fognari,
non hanno battuto la grancassa. E come mai non hanno battuto la grancassa della
mortale pandemia, come invece facevano per ogni caso di morbillo vero o
presunto, almeno fino a che c’è stata rivolta e polemica per la serqua di
vaccini obbligatori con cui imbottire creature appena nate? Per lo stesso
motivo: il direttore d’orchestra. Il quale ha alzato e agitato vigorosamente la
bacchetta per il morbillo ecc., mentre l’ha abbassata intimando un “pianissimo”
per la polmonite.
Proviamo a capire
il perché di sinfonie tanto diverse per problemi apparentemente simili.
Nel settembre 2018,
con temperature che si aggiravano sui 23-24 gradi, nella zona di pianura padana tra Brescia, Cremona e Mantova c’erano circa
600 persone con la polmonite, più di 200 erano state ricoverate, molte erano in terapia intensiva, 5 erano morte. L’epidemia è proseguita anche in
ottobre ma la sorte degli altri non la conosciamo perché a quel punto l’orchestra
si è azzittita del tutto. Una volta la polmonite era collegata alle temperature
invernali, colpiva più nei climi freddi e la ragione è evidente: con il freddo
l’apparato respiratorio è sottoposto ad un maggiore sforzo e subisce una
maggiore minaccia. L’aria fredda inalata, in poche parole, non fa bene ai
nostri polmoni e il loro sistema immunitario deve darsi da fare più del solito.
Un’altra conoscenza un tempo di dominio pubblico era che di polmonite si moriva
prima della scoperta degli antibiotici. Quante vite aveva salvato la
penicillina! Quante volte l’abbiamo sentito dire ed era senz’altro vero. Ma
l’epidemia di polmonite padana si è sviluppata in estate e gli antibiotici non
hanno sempre funzionato. Come mai? Cosa è successo nella bassa bresciana, e
in particolare tra Montichiari, Calvisano e Carpenedolo, per farlo diventare il
triangolo della polmonite violenta e resistente ai medicinali usuali? La
scienza medica nelle vesti della ASL è andata alla ricerca della risposta. Cosa
ha cercato? Ma il batterio! Il batterio assassino.
L’umanità
sviluppata e la sviluppata scienza del 2000 vedono nella natura, cioè nella
vita, la fonte di tutti i mali, la nostra nemica numero uno. Forse perché noi
siamo i suoi nemici e, come tutti i colpevoli, demonizziamo le nostre vittime.
Perché, cos’è il batterio, infine? E’ l’origine di tutta la vita, e non si
tratta di un particolare insignificante. I batteri sono i primi organismi
viventi apparsi sul pianeta, più di 3 miliardi di anni fa. Se ne deduce
logicamente che tutti noi siamo i loro eredi biologici, anche se molto alla
lontana. Di batteri è pieno il nostro organismo, che senza di loro non potrebbe
funzionare. Non solo i più conosciuti batteri della flora intestinale, che ci
permettono di elaborare e assimilare il cibo, ma… udite, udite! Pare che ci
siano batteri persino nei nostri cervelli. Batteri che forse presiedono a qualche funzionamento
del cervello stesso, ancora non compreso dalla moderna scienza. Visto come sta
funzionando il cervello di gran parte di noi umani all’apice del progresso,
direi che quei batteri sono messi a dura prova.
Comunque sia, senza
i batteri siamo tutti morti, ma non solo per
quelli che ospitiamo direttamente. La vita del suolo e la sua fertilità, cioè
tutto ciò che cresce sulla terra e che produce ossigeno, tutto ciò che
coltiviamo e mangiamo non può prescindere dai batteri: sono loro che, insieme a
insetti e funghi, trasformano in humus foglie morte, legni morti e… cacca.
Sono loro che creano i presupposti per tutta la vita vegetale, che significa
aria e cibo per tutti noi animali. Dunque? Ah, già, ci sono i batteri patogeni,
cioè portatori di malattie. Batteri che possono essere veicoli di malattie,
possono infettarci. Possono. Non sempre lo fanno, anzi non lo fanno quasi mai,
altrimenti, dato che loro sono innumerevoli e noi molto meno, saremmo tutti morti
o, per essere più precisi, se non fossimo resistenti anche ai batteri patogeni,
non saremmo proprio mai esistiti. Dunque, quando ci infettano? Quando il
nostro sistema immunitario non
funziona bene, è debole o
squilibrato o sovraffaticato. Ecco dunque la domanda che una scienza degna di
questo nome avrebbe dovuto farsi: “Perché il sistema immunitario di una
parte così ingente di abitanti della pianura padana tra Montichiari, Calvisano
e Carpenedolo è talmente indebolito che, con temperature estive, 600 persone si
ammalano di polmonite e, nonostante tutte le cure della moderna scienza medica
e gli antibiotici a sua disposizione, alcune muoiono e buona parte fatica a
guarire?”
Voi vi sareste
posti il problema ma la ASL no. La ASL ha trovato qualche batterio di
Legionella (dato che li ha cercati con tenacia, doveva trovarli per forza) e ha
dato a loro la colpa di tutto. Il coro dei mediazombi ha cantato, appunto, in
coro.
Il fatto che
l’epidemia si sia sviluppata nella zona più inquinata d’Italia (d’Europa? del
mondo?) non conta per i suddetti individui delle varie categorie. Il fatto che
in un comune di 23.000 abitanti, Montichiari, ci siano 21 discariche di rifiuti, in buona parte rifiuti tossici e speciali, non ha
importanza nella ricerca delle cause di un’epidemia. Il fatto che 364.000
tonnellate di fanghi di depurazione ogni anno vengano trattati da impianti tra Lonato,
Calcinato e Calvisano, e poi sversati in parte nei campi della zona,
avvelenando terra e acqua (e anche l’aria non se la passa bene), non conta. Il
fatto che la stessa ASL nel maggio 2017 sia stata costretta dal furore popolare
a fare un’indagine epidemiologica sul territorio di Montichiari, i cui
risultati erano che nel suddetto territorio si registra il 55% di morti in più per tumori delle vie respiratorie e il 23% in più di
morti per patologie respiratorie (e la polmonite non è forse una patologia
respiratoria?) sembra essere stato dimenticato dalla stessa ASL. E’ troppo
scomodo incolpare i rifiuti tossici e speciali e il loro smaltimento
inadeguato, che permette a dei mostri umani di guadagnare cifre stratosferiche
di denaro; è ancora più scomodo incolpare il sistema che produce quelle
montagne di rifiuti non biodegradabili, un sistema di cui tutti facciamo parte
e che non vogliamo fare lo sforzo di cambiare, anche se ci sta uccidendo.
Meglio incolpare i
batteri, allora. Per quelli bastano gli
antibiotici. O no? Pare di no ma l’evidenza non conta. Conta quello che dice la
scienza, nelle vesti della ASL. E che i mediaservi ripetono, amplificandolo
fino al rintontimento. E’ colpa del batterio, cioè della maledetta vita. Non
dei benedetti affari e affaristi, consumi e consumisti; dei dementi arraffatori
speculatori mafiosiomeno e carrieristi di dutte le specie. Un batterio risolve
sempre tutto! E già ce l’aveva dimostrato la famigerata Xylella, il batterio in
questo periodo più famoso al mondo. Al quale hanno dato la colpa del
Disseccamento Rapido degli Olivi, e in questo caso nonostante la scienza,
nelle vesti del professor Piero Perrino, ricercatore del CNR, ex direttore
dell’istituto del Germoplasma del CNR di Bari, docente all’Università di
Birmingham e a quella di Bari (sappiamo che per i cultori della Scienza sono
importanti i curricula, ma solo quando la scienza dice quello che fa comodo al
business) dicesse, con argomentazioni particolareggiate e difficilmente
confutabili, che gli olivi del Salento stanno morendo di avvelenamento da glifosato,
quell’erbicida che è stato capace a suo tempo di far morire anche gli alberi
della giungla vietnamita e milioni di bambini vietnamiti come effetto
collaterale. E nonostante la scienza, nelle vesti di una ricerca commissionata
dall’Unione Europea, abbia trovato il batterio (non) pernicioso solo in una metà delle piante ammalate.
La logica ci
direbbe che, dove grandi quantità di glifosato vengono irrorate anno dopo
anno, come succede in buona parte del Salento, per avere terreni
trasformati in terra battuta, completamente nudi come sono quelli di molti
uliveti pugliesi, tali quantità di glifosato basterebbero da sole a uccidere
anche quelle creature straordinariamente resistenti e longeve che sono gli
ulivi. Tuttavia, come l’araba fenice, essi risorgono dalle proprie ceneri (se
gliene si dà la possibilità), ributtano nuovi rami e foglie ostinatamente. Non
importa. Nonostante la logica, il buonsenso e una parte della scienza, oltre
all’esperienza degli agricoltori e abitanti del Salento, dicano che non è il
batterio a determinare il disseccamento degli ulivi, come se niente fosse si
continua a colpevolizzare l’innocente. Che è presente in ogni prato e in ogni
campo, ma sembra più difficile sia presente dove il glifosato viene sparso a
vagonate.
Perché? Perché il
povero batterio permette e promette lauti guadagni a un’ampia fetta dei già
citati mostri umani, quegli adoratori del Dio Denaro a cui sacrificano ogni
giorno vite innocenti. Altro che i sacrifici umani sugli altari degli Aztechi! Gli
ulivi secolari sradicati (a spese di chi? A spese nostre) diventano combustibile
per le centrali a biomasse: ed ecco i primi guadagni, sradicare e bruciare. E
poi, udite, udite! Sono già pronti gli ulivi industriali brevettati della
multinazionale Agromillora Group, “leader mondiale nel settore
vivaistico” e grande sovvenzionatrice dell’Università di Bari nella
ricerca di cultivar brevettate di cui si spartiranno felicemente i “diritti
d’autore”.
Ulivi da coltivare
a spalliera, che producono subito e muoiono dopo 15 anni; ogni 15 anni si
devono ricomprare, pagando le royalties-mazzette ai pirati dell’agroindustria e
ai loro manutengoli “scientifici”. Però, c’è un però: non hanno
bisogno di manodopera, essendo rachitici e coltivati a spalliera. Una macchina
con un essere umano può far tutto, potare, concimare, raccogliere. E allora
questi “ulivi d’autore”, a cui si può dare tutto il veleno
(sovvenzionato) che si vuole, tanto sono già moribondi appena nati, piacciono a
una parte dei latifondisti, detti “agrari”, del sud. Che possono
prendere i rimborsi (pagati da tutti noi) per gli ulivi spiantati, le
sovvenzioni per quelli inadatti alla vita, e lasciare a casa qualche decina di
operai. Benedetta xylella! Quanti divoratori del pianeta e delle nostre tasse
mette d’accordo!
Peccato, un vero
peccato che piccoli e medi agricoltori e i soliti ambientalisti fanatici degli
alberi mettano sempre i bastoni tra le ruote. Neanche i batteri riescono a
fermarli.
Si tratta di un
progetto innovativo in cui vi è la collaborazione di tutti gli attori del
sistema: le aziende impegnate a donare e favorire il recupero delle eccedenze
alimentari, le Onlus che rappresentano il punto di contatto con gli indigenti e
l’autorità pubblica che ne favorisce lo sviluppo. Nel 2015 Milano ha promosso
una Politica Alimentare per rendere più sostenibile il sistema
alimentare della città con un approccio multidisciplinare e partecipato, nel
quale il Comune assume un ruolo di stimolo e facilitazione. La riduzione
dello spreco alimentare è una delle priorità della Politica
Alimentare e si sviluppa attraverso l’ingaggio di diversi attori locali come
centri di ricerca, istituzioni, settore privato, fondazioni ed attori sociali. Per
tradurre tale priorità in azioni concrete, nel 2016 il Comune di Milano, Assolombarda e Politecnico
di Milano hanno condiviso il protocollo di intesa, che hanno definito “ZeroSprechi”,
con l’obiettivo di ridurre lo spreco di cibo e innovare le modalità di recupero
degli alimenti da destinare agli indigenti, progettando e sperimentando un
modello di recupero e ridistribuzione delle eccedenze alimentari basato
su reti locali di quartiere.
Il Comune
di Milano ha individuato uno spazio pubblico non utilizzato nel
Municipio 9 e lo ha reso disponibile come hub del progetto per lostoccaggio
e la distribuzione degli alimenti recuperati agli enti del terzo settore,
organizzazioni beneficiarie e organizzazioni non profit.
Il Politecnico di
Milano ha elaborato uno studio di fattibilità della rete e monitorerà
l’operatività dell’hub e gli impatti generati dal progetto per 12 mesi,
costruendo un modello logistico estendibile e replicabile in altri quartieri
della città.
Assolombarda, dopo un importante percorso di sensibilizzazione, ha
individuato e coinvolto alcune aziende che hanno aderito al progetto, e ha
fornito il bollino “ZeroSprechi”, ideato e offerto dal Gruppo Armando
Testa, per valorizzare le imprese virtuose e porre l’attenzione sul grande
tema della gestione delle eccedenze alimentari. Banco Alimentare della
Lombardia, vincitore del bando di assegnazione dell’hub, garantirà la
gestione operativa e quotidiana del modello elaborato dal Politecnico,
recuperando le eccedenze alimentari e distribuendole alle strutture caritative
partner del territorio.
Il Programma
QuBì – la ricetta contro la povertà infantile – che ha già avviato un
hub simile in via degli Umiliati, aderisce al progetto finanziando allestimento
e gestione dell’hub di via Borsieri e favorendo le connessioni con le reti del
territorio sostenute e coinvolte dallo stesso Programma QuBì. Si tratta di un
progetto innovativo in cui vi è la collaborazione di tutti gli attori del
sistema: le aziende impegnate a donare e favorire il recupero delle
eccedenze alimentari, le Onlus che rappresentano il punto di contatto con gli
indigenti e l’autorità pubblica che favorisce lo sviluppo di queste iniziative
virtuose.
“Sono soddisfatta
dell’apertura di questo hub perché è frutto degli sforzi congiunti di molti
attori della città – afferma Anna Scavuzzo, Vicesindaco di Milano
delegata per la Food Policy –. Questo è un primo esempio di rete
locale per la raccolta e ridistribuzione del cibo prima che sia sprecato e
diventi rifiuto. La collaborazione con il Municipio 9 ci ha permesso di
restituire alla città uno spazio pubblico non utilizzato, e allo stesso tempo
valorizzare l’impegno per ridurre gli sprechi alimentari, una delle priorità
della Food Policy di Milano. Questo progetto si affianca alla riduzione del 20%
della parte variabile della TARI per le imprese che donano il cibo, alla
promozione di raccolta e ridistribuzione di eccedenze dalle mense scolastiche e
ad azioni di sistema che stiamo studiando con AMSA. L’hub di Via Borsieri è un
ulteriore passo avanti per una Milano sempre più sostenibile, inclusiva ed
equa”.
“Sono orgoglioso
che il Municipio 9 ospiti un progetto che mette al centro del dibattito sia il
diritto dell’accesso al cibo, sia la distribuzione di quanto non utilizzato.
Temi che, considerate le nuove povertà delle smart cities, esortano tutti noi a
fare meglio. Senza dimenticare che ridurre lo spreco alimentare aiuta a
diminuire i rifiuti e a consumare più cibi sani deperibili quali frutta e
verdura – aggiunge Giuseppe Lardieri, Presidente del
Municipio 9 –. Sono sicuro che gli attori presenti nel territorio del
Municipio 9 – industria, GDO, ristorazione, Terzo Settore, Istituzioni – siano
in grado di fare la loro parte per la riuscita dell’iniziativa”.
“All’interno del
progetto, il Politecnico di Milano è fiero di portare il suo contributo per
l’elaborazione del modello di raccolta ai fini di favorirne la replicabilità in
altre parti della città e in altri luoghi – dichiara Marco Melacini,
Professore di Logistica e Direttore Scientifico dell’Osservatorio Food
Sustainability del Politecnico di Milano -. Il progetto non si
esaurisce con l’attivazione dell’hub di via Borsieri ma saranno organizzati
degli incontri periodici volti a verificarne, oltre che l’efficacia in termini
di eccedenze raccolte, l’efficienza dei processi di raccolta e ridistribuzione.
Il gruppo di lavoro si impegna a fornire periodicamente informazioni sullo
stato di avanzamento del progetto”.
“Oggi tagliamo un
importante traguardo nella sfida contro gli sprechi, inaugurando un efficace
processo di raccolta e ridistribuzione delle eccedenze alimentari e promuovendo
un modello replicabile che vede Milano capofila – ha sottolineato Alessandro
Scarabelli, Direttore Generale di Assolombarda Confindustria Milano, Monza e
Brianza, Lodi–. Un risultato frutto della virtuosa collaborazione tra
associazioni, enti, imprese, università, organizzazioni non profit, che unisce
i diversi contributi in una prospettiva di sistema capace di ottimizzare,
attraverso circuiti veloci, la consegna e il consumo di beni in eccedenza.
Inoltre, con il bollino ‘ZeroSprechi’ vogliamo mettere in evidenza le imprese
che svolgono un ruolo attivo nel progetto e che, aderendo all’iniziativa, si
fanno promotrici di diffondere le buone pratiche e la cultura della riduzione
dello spreco alimentare”.
“Banco Alimentare
della Lombardia vuole essere sempre più vicino alle organizzazioni caritative
partner dei quartieri nei Municipi 8 e 9 della città di Milano nel contrasto
alla povertà alimentare. Insieme a tutte le realtà profit, le istituzioni, le
associazioni di categoria e le fondazioni di erogazione siamo una squadra
vincente per dare risposte concrete al bisogno” afferma Marco Magnelli,
Direttore Banco Alimentare della Lombardia.
“Il problema della
povertà alimentare infantile a Milano è un problema che va affrontato e risolto
con un modello di intervento che chieda a tutte le forze in campo di lavorare
insieme. L’inaugurazione dell’Hub di Via Borsieri rappresenta un importante
passo in questa direzione: il Programma QuBì ha già sostenuto il Banco
Alimentare della Lombardia nell’avvio dei primi due punti di raccolta cittadini
e ora, grazie alla sinergia con gli altri attori coinvolti, si potrà
massimizzare la raccolta del cibo, riducendo lo spreco e rafforzando la
capacità di raggiungere le famiglie in povertà alimentare. Il contrasto alla
povertà alimentare è una delle azioni cardine del Programma pluriennale QuBì
promosso da Fondazione Cariplo – con il sostegno di Fondazione Vismara, Intesa
Sanpaolo, Fondazione Enrica e Romeo Invernizzi e Fondazione Fiera Milano- in
collaborazione con il Comune di Milano e le organizzazioni del Terzo Settore
che operano sul territorio. Una sfida pari a 25 milioni di euro che intende
coinvolgere la città di Milano nel suo complesso: aziende, istituzioni e
singoli cittadini sono chiamati a creare una ricetta comune che permetta di
dare risposte concrete alle famiglie in difficoltà e creare percorsi di fuoriuscita
dal bisogno” conclude Giuseppe Guzzetti, Presidente della Fondazione
Cariplo.
“L’usura
soprattutto degli pneumatici e anche dei freni influisce addirittura per il 57%
nella produzione delle polveri sottili” queste le conclusioni del Seminario
Internazionale RespiraMi 3: Air Pollution and our Health
“Il tubo di scappamento degli
autoveicoli incide per il 43% nella produzione delle polveri sottili, ma
secondo alcune stime l’usura soprattutto degli pneumatici e anche dei freni
influisce addirittura per il 57% – osserva Sergio Harari,
co-presidente del Seminario e Direttore Unità Operativa di Pneumologia Ospedale
San Giuseppe di Milano – Gli pneumatici sopportano il peso del veicolo e
nell’attrito con l’asfalto si frantumano, producendo piccoli frammenti di gomma
che poi di disperdono nell’aria e si depositano sulle strade, secondo il peso
del particolato o il vento. Oggi sappiamo che il 60% di questa polvere
microscopica che deriva dagli pneumatici può entrare nei polmoni, con effetti
dannosi che solo di recente si sono iniziati a comprendere. Se
calcoliamo che uno pneumatico perde circa il 20% del proprio peso otteniamo una
quantità enorme di materiale disperso nell’ambiente”.
La fabbricazione
della gomma per pneumatici coinvolge molti prodotti chimici tossici, dal
benzene alla nafta, dai solventi clorati, fino a composti plastificanti,
petrolio, acidi a cui si aggiungono metalli pesanti fra cui zinco, cadmio e
piombo. Un mix ‘sporco’ di sostanze cancerogene e neurotossiche, che rendono il
particolato inquinante presente nelle strade più trafficate particolarmente
deleterio. “Nelle zone dove il traffico è intenso le polveri da pneumatici
possono contribuire all’incremento degli attacchi di asma in bambini e anziani
– aggiunge Pier Mannuccio Mannucci, co-presidente del Seminario, Professore
Emerito di Medicina Interna, Università degli Studi di Milano – Inoltre
la polvere degli pneumatici non solo può incrementare le allergie generiche ma
essere causa anche di quelle specifiche, perché la gomma con cui sono prodotti
deriva da una combinazione di lattice naturale e gomme sintetiche da derivati
del petrolio: entrambi questi componenti possono indurre allergie e quella al
lattice è particolarmente diffusa. La perdita della parte di battistrada dovuta
al consumo, sotto forma di pulviscolo e microparticelle, si riversa sulle
strade ed entra nei polmoni soprattutto dei bambini che, inalano più particelle
degli adulti, in quanto camminano o vanno sui passeggini più a rasoterra. In
questi casi sarebbe perciò preferibile l’utilizzo di zaini o marsupi. La
polvere da pneumatico costituisce una particolare minaccia anche per gli
anziani perché hanno polmoni già indeboliti dall’età e dalle malattie
soprattutto se fumatori”.
“Purtroppo non è
semplice misurare i tassi, il formato, la distribuzione e la composizione di
questo inquinante poco conosciuto e largamente sottovalutato né esiste un
rimedio a tale problema. Ma una proposta per ridurne l’impatto potrebbe essere
lavare più spesso le strade per rendere più pulita anche l’aria che respiriamo”
conclude Harari.
I numeri dello smog
– 9 milioni di morti premature ogni anno nel mondo,
790mila in Europa, 81mila in Italia, secondo gli studi epidemiologici del
Global Burden of Disease e del World Health Organization;
– per ogni metro cubo d’aria, un aumento di 20
microgrammi di PM produce un aumento dell’1% delle morti da tutte le cause;
– 136 morti ogni 100mila abitanti ogni anno in Italia,
meno rispetto a Germania (154) e Polonia (151), ma più che in Francia (105) e
Regno Unito (98);
– 3 milioni di miliardi di dollari i costi da ‘aria
cattiva’ per le malattie respiratorie;
– nel 2018 Viterbo capitale italiana dell’aria pulita,
maglia nera a Brescia con 87 sforamenti, seguita da Torino e Lodi con 69,
secondo i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca
ambientale.
Più bravi a scuola se si studia nel verde
Il verde fa bene
alla mente e non solo perché è un colore rilassante: nuovi studi mostrano che
scuole “green”, con alberi e piante nelle immediate vicinanze o anche nei
cortili o nei corridoi, aiutano gli studenti ad avere voti migliori. L’aria
inquinata infatti “soffoca” i polmoni ma pure il cervello, come spiegano gli
esperti riuniti a Milano dal 24 al 26 gennaio per il Seminario Internazionale RespiraMi
3: Air Pollution and our Health organizzato dalla Fondazione IRCCS Ca’
Granda Ospedale Maggiore Policlinico e dalla Fondazione Internazionale
Menarini: lo smog peggiora le performance cerebrali e addirittura accelera
il declino cognitivo correlato all’età, aumentando anche il rischio di
Alzheimer. Vivere e studiare in ambienti verdi, dove alberi e piante
ripuliscono naturalmente l’aria, è un ottimo “antidoto”: nelle scuole più green
l’apprendimento migliora, fin dalla primaria, grazie a un miglioramento della memoria
e delle capacità di attenzione.
“Un numero
sempre maggiore di studi indica che lo smog, che ogni anno in Italia uccide
prematuramenteoltre 80.000 persone per colpa dei suoi effetti dannosi
sull’apparato respiratorio e sul sistema cardiovascolare, è deleterio anche per
la funzionalità cerebrale – osserva Sergio Harari, co-presidente del
Seminario e Direttore Unità Operativa Pneumologia, Ospedale San Giuseppe di
Milano – Un’ampia ricerca su circa 25.000 cinesi ha per esempio
dimostrato che i livelli di esposizione all’inquinamento atmosferico correlano
con le capacità in test matematici e di linguaggio: quanto più si è esposti
allo smog, tanto più con l’andare degli anni peggiorano le abilità cognitive
necessarie a svolgere i test, soprattutto negli uomini e in chi appartiene a
fasce socioculturali svantaggiate. Altri dati confermano che lo smog si associa
a un peggioramento delle capacità cognitive a ogni età, con un aumento del
rischio di demenze e Alzheimer nei soggetti più anziani: l’associazione è
particolarmente evidente con alcuni inquinanti derivanti dal traffico
veicolare, come ossidi di azoto e particolato fine”.
I meccanismi
precisi attraverso cui lo smog può diventare tossico sul sistema nervoso
centrale non sono noti, ma sembra che possano essere coinvolti un incremento
dell’infiammazione delle cellule immunitarie presenti soprattutto nei bronchi e
nei polmoni che a loro volta innescano una reazione infiammatoria generalizzata
e sistemica, nonché un’alterazione delle difese antiossidanti. I danni sono
evidenti a ogni età e perfino se si è esposti allo smog durante il periodo
fetale: una recente ricerca su oltre 700 bambini olandesi, seguiti dalla
gestazione fino a dieci anni d’età, ha verificato che anche livelli di
inquinamento inferiori alle soglie stabilite dall’Unione Europea (medie annuali
di PM10: 40 microgrammi per mm3)comportano alterazioni nello sviluppo
del cervello dei bimbi. La corteccia cerebrale risulta più sottile in alcune
aree e questo sarebbe correlato a una maggiore impulsività e quindi a un
maggior rischio di problemi come il disturbo da deficit dell’attenzione e
iperattività. “Altrettanto dimostrati sono i rischi per le donne in
gravidanza – commenta Harari – l’esposizione prolungata alle polveri
sottili si associa ad una riduzione del peso alla nascita del neonato che, in
proporzione, respira volumi d’aria doppi rispetto all’adulto, mentre elimina in
modo meno efficiente le sostanze tossiche”.
“L’esposizione
allo smog è dannosa sulle capacità cognitive, ma c’è un modo per proteggersi
– interviene Pier Mannuccio Mannucci, co-presidente del Seminario e
Professore Emerito di Medicina, Interna Università degli Studi di Milano – Il
verde delle piante purifica l’aria delle nostre città intrappolando le polveri
sottili, con un effetto positivo non soltanto per la salute cardiorespiratoria
(non a caso infatti in città più verdi si vive più a lungo), ma anche per il
cervello. Uno studio spagnolo su quasi 2600 bambini della scuola primaria ha
dimostrato che gli spazi verdi nella scuola e nell’ambiente circostante aiutano
l’apprendimento, portando a un miglioramento dello sviluppo cognitivo. Piante e
alberi riducono l’inquinamento atmosferico e in parallelo nell’arco di un anno
portano i ragazzini ad avere un miglioramento nelle capacità di memoria e di
attenzione, a tutto vantaggio della performance scolastica. Tutto ciò dimostra
che, se l’urbanizzazione che oggi riguarda il 55% della popolazione mondiale e
raggiungerà nel 2050 il 75%, ha ridotto drammaticamente la qualità e la quantità
delle aree verdi, è ormai necessaria un’inversione di rotta. Aumentare gli
spazi verdi nelle città e soprattutto vicino alle scuole sarebbe certamente il
miglior mezzo per proteggere il “capitale mentale” della popolazione. Tuttavia
le piante vanno scelte con attenzione evitando quelle che possono avere effetti
allergizzanti, che possono essere amplificare dall’inquinamento atmosferico,
come ad esempio le graminacee. La capacità degli alberi di ripulire l’aria da
particolati e ozono però dipende soprattutto dalla specie. Bisogna pertanto
prevedere la scelta di determinate piante in determinate aree in base alle
sostanze inquinanti presenti in quella zona. Anche negli ambienti chiusi è
preferibile scegliere piante ‘anti-smog’ come ficus, benjamin ed edera più
efficaci contro benzene e ammoniaca che sono le sostanze inquinanti
maggiormente presenti in scuole, case e uffici”.
La sedicenne Greta Thunberg,
dopo la partecipazione a Cop24 in Polonia, è salita sul palco anche a Davos al
World Economic Forum e ha lanciato un monito: «Sul clima voglio che andiate nel
panico, dovreste agire come la vostra casa fosse in fiamme».
Occorre agire
immediatamente per il clima, «come se la vostra casa fosse in fiamme, voglio
che andiate nel panico». Sono state le parole che la sedicenne svedese Greta
Thunberg, che da tempo si batte per portare l’attenzione sui cambiamenti
climatici, ha pronunciato al meeting di Davos del World Economic Forum. Non
ha mancato di fare effetto sui media la comparsa della ragazza alla ribalta
dell’incontro in Svizzera tra i “guru” della crescita; un po’ meno
effetto e suggestione probabilmente ha ottenuto sui leader stessi presenti al
meeting, estremamente indaffarati a concentrarsi invece sugli interventi
dedicati al rallentamento della crescita cinese o alla Brexit. Quella di Davos
si è riconfermata una routine, la routine dell’elite economica mondiale,
concentrata su se stessa e autoreferenziale. Ma almeno per qualche minuto,
l’adolescente svedese ha catturato qualche sguardo. Greta Thunberg ha solo 16
anni ma è già il “volto” della rinnovata consapevolezza che le
nuove generazioni stanno sviluppando sull’emergenza climatica e ambientale
e sui tempi strettissimi per individuare e imboccare in velocità una via
d’uscita. Lo scorso dicembre aveva fatto parlare di sé e della sua battaglia
alla Cop24 in Polonia, con un suo intervento alla conferenza Onu sul
clima. Qualche giorno fa, al suo arrivo nella stazione della località sciistica
nelle Alpi svizzere dove si è tenuto il World Economic Forum, Greta ha
affermato: «È un evento molto importante, dove si ritrovano le persone più
potenti al mondo, e sto andando lì, la mia intenzione è quella di attirare
l’attenzione sul clima».
Dall’agosto 2018, tutti i venerdì Greta salta la scuola, un’originale protesta per chiedere misure concrete
nella lotta al surriscaldamento globale.
«Se non ci
preoccupiamo di questo – ha detto – allora nessun altro argomento avrà
importanza. Io guardo i fatti e vedo che ciò che bisogna fare e ho deciso di
farlo perché se non lo facessi mi sentirei male e vorrei, quando sarò più
grande, essere capace di guardarmi indietro e dire che ho fatto quello che
potevo». E non ha mancato di sottolineare come alcuni politici sappiano
benissimo quali valori hanno sacrificato per guadagnare cifre di denaro
inimmaginabili.
«Non voglio il
vostro aiuto, non voglio che siate senza speranza – ha detto a Davos – Voglio
che andiate nel panico per sentire la paura che provo io ogni giorno. È il
momento di essere chiari: risolvere la crisi climatica è la sfida più grande e
complessa che l’umanità abbia mai affrontato».
Le azioni di Greta
hanno ispirato altri adolescenti e giovani che hanno scioperato per focalizzare
l’attenzione sul problema del cambiamento climatico. Il 18 gennaio migliaia di
giovani sono scesi nelle strade di tutta la Svizzera per uno “sciopero del
clima”. Scolari, studenti e apprendisti hanno saltato le lezioni per
manifestare, chiedendo che le emissioni di gas serra siano eliminate entro il
2030 e che venga dichiarata l’emergenza ambientale. A Losanna vi erano oltre
8000 giovani. Eloquenti i numerosi cartelloni branditi dalla folla, che hanno
preso di mira il nucleare e affrontato temi come l’innalzamento del livello
degli oceani. “Salvare la Terra non è domandare la Luna” e “Non
c’è un pianeta B” recitavano alcune delle scritte apparse. A Zurigo erano
in 2000, altre migliaia a Ginevra e Basilea, in centinaia in altre città
svizzere.
Lo scorso novembre
in migliaia di studenti erano invece scesi in piazza nelle città australiane
con l’azione chiamata “Strike 4 Climate Action” e avevano
chiesto al primo ministro misure per contrastare il cambiamento climatico.
Sono elencati in una
delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni i 120 Comuni
italiani che saranno i primi a sperimentare il 5G, la tecnologia di nuova
generazione intorno alla quale stanno sorgendo innumerevoli preoccupazioni
riguardanti l’esposizione della popolazione all’elettrosmog.
La delibera numero
231/18/CONS dell’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni ha da tempo
reso noti i 120 Comuni d’Italia che per primi dovranno sperimentare a breve
l’esposizione della popolazione alle tre bande del 5G.
Da pag 144 a pagina
147 della delibera che potete TROVARE QUI si può leggere l’elenco completo, al quale potrebbero
aggiungersene altri. Le regioni coinvolte sono Abruzzo, Calabria, Campania,
Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria,
Marche, Molise, Trentino Alto Adige, Sardegna, Sicilia, Toscana, Valle d’Aosta
e Veneto. L’obiettivo dichiarato è quello di arrivare, entro il 2022, a fare in
modo che fin dentro le case di almeno l’80% della popolazione nazionale (salirà
al 99,4% entro giugno 2023) ci sia la copertura per il 5G. Preoccupa, dunque,
come spiega il giornalista Maurizio Martucci autore del libro
“Manuale di autodifesa per elettrosensibili” (Terra Nuova Edizioni),
l’esposizione massiccia della popolazione a livelli di elettrosmog destinati ad
aumentare a dismisura, con mini-antenne collocate ovunque, persino sui lampioni
della luce.
«Leggendo la
delibera del garante, la domanda viene spontanea: ma allora chi si salverà? si
domanda Martucci che da tempo si occupa della questione – Chi potrà sottrarsi
al 5G, evitando di essere irradiato? Ciò sarà possibile solo nei Comuni sotto i
5.000 abitanti che, inseriti in una cosiddetta ‘lista libera’, potrebbero nelle
more svincolarsi rimanendo “eventualmente scoperti”. Ma sembrerebbe non per
molto tempo, perché saranno comunque gli aggiudicatari dell’asta bandita dal
Governo a disporre gli aggiornamenti territoriali (cioè a decidere in
quale Comune italiano scoperto piazzare di punto in bianco il 5G e in quale
no)».
La portata del
problema è comprensibile solo se si conosce fino in fondo la diffusione e la
capillarità che avrà il 5G, cioè l’internet delle cose, non solo dei cellulari.
A Torino si sperimentano i droni che volano sulle teste dei cittadini, i
sensori nei cassonetti dell’immondizia per dire ai camion quando svuotarli; ci
sono porti dove i sensori sono in ogni container; poi ci sono l’ambulanza smart
a Milano, i robot nelle industrie telecomandati col wifi, invece dei cavi, i
sensori nei palazzi all’Aquila che al minimo tremolio chiudono i rubinetti del
gas e lanciano l’allarme. Ce lo ha spiegato anche Maria Maggiore dalle pagine
de Il Fatto Quotidiano e arriveranno le auto senza conducente, i frigoriferi
che dicono quando un alimento è scaduto, gli elettrodomestici che si
azioneranno a distanza e i campi di grano che diranno al contadino quando
devono essere annaffiati.
Tutto l’ambiente
sarà costantemente connesso…
Il 5G ha quasi
l’unanimità dei consensi: politica, istituzioni europee, industria e università
applaudono alla trasformazione digitale che, si stima, porterà 900 miliardi di
crescita in Europa e 1,5 milioni di nuovi posti di lavoro. Ma a che prezzo?
«Il 5G viaggia su
frequenze altissime, mai usate finora, fino a 27,5 GHz mentre con il 4G si
arriva al massimo a 2,6 GHz, quindi un’energia 11 volte superiore, ma che ha
una “durata” di viaggio limitata – ha spiegato Maria Maggiore – Quindi, per
poter connettere tra loro fino a un milione di oggetti per chilometro quadrato,
bisognerà installare migliaia di piccole antenne, ogni cento metri, che
rilanceranno il segnale proveniente da un’antenna base più grande».
Il mondo accademico
è diviso sulla pericolosità delle onde elettromagnetiche sull’uomo, spiega
sempre Maggiore. Da una parte ingegneri e fisici riconoscono un effetto termico
pericoloso, se per esempio teniamo il cellulare all’orecchio per troppo tempo;
dall’altra biologi, oncologi e epidemiologi si battono perché vengano
riconosciuti anche gli effetti non-termici, quelli sulle nostre cellule.
«Un campo
elettromagnetico interferisce con il nostro sistema elettrico interno,
alterando il funzionamento delle cellule – dice Francesca Orlando
dell’Associazione per le Malattie da Intossicazione Cronica e/o Ambientale – ma
purtroppo ingegneri e fisici sono quelli più ascoltati oggi dai politici e
dall’industria». Un’equipe di ricercatori australiani – come riporta la
prestigiosa rivista scientifica Lancet in un articolo di dicembre – ha però
analizzato 2.266 studi, arrivando alla conclusione che «nel 68% dei casi sono
stati dimostrati effetti biologici e sulla salute umana per l’esposizione ai
campi elettromagnetici».
Nel 2018 sono stati
pubblicati due studi importanti, durati dieci anni e finanziati con soldi
pubblici. Il Dipartimento per la Sanità americano ha finanziato con 25 milioni
di dollari il National toxological program (Ntp) dove 7mila topi da laboratorio
sono stati sottoposti per tutta la vita a radiazioni corrispondenti
all’intensità solo del 2G e 3G. Nello stesso tempo, l’Istituto Ramazzini di
Bologna ha portato avanti la stessa ricerca, finanziata con contributi di
privati cittadini, ma usando frequenze più basse, corrispondenti a 50
Volt/metro (il picco a cui si può arrivare in Italia per rispettare la media
giornaliera di 6volt/metro). Entrambi gli studi sono arrivati alle stesse
conclusioni. «Come negli Usa, abbiamo constatato un aumento ‘statisticamente
rilevante’ del numero dei tumori, rarissimi schwannomi, al cervello e al cuore»,
spiega Fiorella Belpoggi, direttrice della ricerca all’istituto
Ramazzini. «Bisogna agire in fretta, fermare l’avanzata del 5G e informare
adeguatamente la popolazione sui rischi», dice l’epidemiologa italiana che ha
già lavorato sulle plastiche, sul glifosato e da 40 anni studia i legami tra
tumori e ambiente. Belpoggi spera che alla luce di questi due nuovi studi,
l’agenzia dell’Oms sui tumori, la Iarc, riveda le sue priorità e metta le onde
elettromagnetiche un gradino più su nella pericolosità: da “possibili
cancerogene”, come dichiarato nel 2011, a “probabili cancerogene”. Ma la
percentuale di topi ammalati è bassa, intorno al 2,4%: quindi c’è chi si
domanda perché preoccuparsi? «Se invece di tremila topi ci fossero tre miliardi
di persone, quante avrebbero sviluppato un tumore? Abbiamo provato
scientificamente il nesso tra radiofrequenze e cancro. In materia di salute
umana i numeri non devono avere la meglio. Dovrebbe prevalere il principio di
precauzione».
Intanto i giudici
del Tar del Lazio hanno condannato i Ministeri
dell’Ambiente, della Salute e dell’Istruzione a promuovere entro i prossimi sei mesi una campagna
d’informazione per denunciare i rischi dell’uso di telefoni cellulari. Inoltre,
il Tribunale di Firenze ha disposto l’immediato spegnimento del WiFi in una
scuola per proteggere la salute di un minore. Si è trattato di una decisione
prudenziale, “inaudita altera parte” come si dice in gergo giuridico.
Come ha spiegato l’avvocato Agata Tandoi, difensore della famiglia in
questione, si è trattato di un atto preliminare il cui obiettivo è evitare di
esporre a immediati pericoli il bambino. In marzo si terrà l’udienza per
discutere se lo spegnimento del Wi-Fi sarà temporaneo o definitivo. In Italia,
intanto, la preoccupazione tra i cittadini sta crescendo e l’Alleanza
nazionale STOP 5G (di cui fanno parte Terra Nuova, Oasi Sana, il
giornalista Maurizio Martucci, l’ Associazione italiana elettrosensibili, la
dottoressa Fiorella Belpoggi dell’ Istituto Ramazzini, l’ Associazione
elettrosmog Volturino, l’Associazione obiettivo sensibile, i comitati Oltre la
MCS e No Wi-Fi Days e l’equipe che ha realizzato il docu-film Sensibile) ha
organizzato per il 2 marzo a Vicovaro (Roma) il primo meeting nazionale per
sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema e chiedere con forza una
moratoria.
L’aggiornamento del
paniere tiene conto dei cambiamenti emersi nelle abitudini di spesa delle famiglie,
dell’evoluzione di norme e classificazioni e in alcuni casi arricchisce la
gamma dei prodotti che rappresentano consumi consolidati. Ogni anno l’Istat
rivede l’elenco dei prodotti che compongono il paniere di riferimento
della rilevazione dei prezzi al consumo e aggiornando contestualmente le
tecniche d’indagine e i pesi con i quali i diversi prodotti contribuiscono alla
misura dell’inflazione. Nel paniere del 2019 utilizzato per il calcolo degli indici NIC (per l’intera collettività nazionale) e FOI
(per le famiglie di operai e impiegati) figurano 1.507 prodotti elementari (1.489 nel 2018),
raggruppati in 922 prodotti, a loro volta raccolti in 407 aggregati.
Per il calcolo
dell’indice IPCA (armonizzato a livello europeo) si adotta un paniere di 1.524
prodotti elementari (in lieve ampliamento rispetto ai 1.506 nel 2018),
raggruppati in 914 prodotti e 411 aggregati. L’aggiornamento del paniere tiene
conto dei cambiamenti emersi nelle abitudini di spesa delle famiglie,
dell’evoluzione di norme e classificazioni e in alcuni casi arricchisce la
gamma dei prodotti che rappresentano consumi consolidati. Per quanto
riguarda l’ingresso di prodotti che hanno acquisito maggiore rilevanza nella
spesa delle famiglie, sono da segnalare: tra i beni alimentari, Frutti di bosco
e Zenzero; nei trasporti, Bicicletta elettrica e Scooter sharing. Entra
inoltre nel paniere la Cuffia con microfono (tra gli apparecchi audiovisivi,
fotografici e informatici), l’Hoverboard (tra gli articoli sportivi) e la web
TV (nell’ambito degli abbonamenti alla pay tv). Ad arricchire la gamma dei
prodotti che rappresentano consumi consolidati, entrano nel paniere Tavolo,
Sedia e Mobile da esterno (tra i mobili da giardino), Pannoloni e Traversa
salvaletto (tra gli altri prodotti medicali) e i prezzi dell’Energia
elettrica del mercato libero, affiancano quelli del regime di maggior
tutela nel contribuire alla stima dell’inflazione. Escono dal paniere il
Supporto digitale da registrare e la Lampadina a risparmio energetico. Nel
complesso, le quotazioni di prezzo usate ogni mese per stimare l’inflazione
sono circa 6.000.000 e hanno una pluralità di fonti: 458.000 sono raccolte sul
territorio dagli Uffici comunali di statistica e 238.000 direttamente
dall’Istat; oltre 5.200.000 tramite scanner data; più di 86.000 arrivano dalla
base dati dei prezzi dei carburanti del Ministero dello Sviluppo economico.