Freschette: le tre vite del cibo locale e biologico a Palermo

Da dieci anni Marina e Francesca si battono per diffondere a Palermo, la loro città, la cultura del cibo sano, locale e biologico. Lo fanno nonostante le mille peripezie che le hanno costrette a chiudere e riaprire il loro locale, le Freschette, per ben tre volte. Ma sempre più motivate ed entusiaste di prima!

PalermoSicilia – Ricordate la leggenda secondo cui secondo le leggi della fisica il calabrone non potrebbe volare, eppure lui non lo sa e vola lo stesso? Questo aneddoto viene spesso usato come analogia sull’esistenza dell’impossibile e dello scientificamente inspiegabile. Ed è proprio una storia simile che vi sto per raccontare e cioè quella del primo bar/ristorante biologico con grande scelta di piatti vegetariani e vegani nato a Palermo e di tutte le sue trasformazioni per sopravvivere: Freschette. Quando Marina Scalesse e Francesca Leone decidono di aprire questo luogo assolutamente nuovo e innovativo per la Palermo del 2011 hanno appena 27 anni. Dopo aver lavorato insieme in un ristorante molto famoso – Il Fresco, poi chiuso lasciando le due con un pugno di mosche – non si scoraggiano e decidono di aprire un posto tutto loro. Marina è la chef e Francesca si occupa della gestione.

Grazie a un bando di Invitalia, nel novembre del 2011 apre in piazza Monteleone Freschetteprimo locale in città con la cucina a vista, che usa prodotti completamente biologici e siciliani e con un market all’interno. La loro cucina è da subito contraddistinta dalla ricerca di produttori incontrati e scelti personalmente dalle due fondatrici in Sicilia.

Da quella cucina, oltre ai piatti nascono mille connessioni, collaborazioni, festival, idee. Nel 2016 viene affidata loro anche la caffetteria di Palazzo Riso, sede di un museo d’arte regionale in pieno percorso Arabo Normanno dell’Unesco. Le due portano a Palazzo Riso il primo festival di illustrazioni della città – Ciciri –, il See You Sound Festival Film da Torino e una edizione straordinaria del SiciliAmbiente. Inoltre organizzano un capodanno insieme al circolo Arci Porco Rosso e Moltivolti per devolvere metà dell’incasso a Mediterranea e ospitano 22 tirocini di minori stranieri non accompagnati, ragazzi provenienti da case famiglia e detenuti. Purtroppo Palermo sa conquistare il cuore di molti con il suo fascino decadente e un attimo dopo si trasforma in degrado e inciviltà e anche la piazza dove con tanto amore era nato Freschette, come la peggiore delle metamorfosi, si trasforma, presa d’assalto dalla movida, dai locali notturni con musica a decibel da fare impallidire il concertone del primo maggio a Roma. Cocktail a pochi euro chiamano a raccolta solo giovani che hanno voglia di divertirsi e, in più, la piazzetta viene riempita di cassonetti: «Erano ben 22 quando abbiamo deciso di mollare gli ormeggi e salpare alla ricerca di un nuovo locale», racconta Francesca Leone. «Tutto quello che ci circondava strideva con la nostra ricerca, cura e attenzione».

Nel settembre del 2018, dopo aver fatto tutti i dovuti lavori di adeguamento al nuovo locale, aprono la nuova sede in via Grande Lattarini. Anche da questa viuzza nel centro storico partono mille connessioni, incontri e idee, una fra tutte è quella di fare diventare la via pedonale e in accordo con il Comune partono le prime sperimentazioni. Il festival di illustrazioni Ciciri si sposta in quella via diventata temporaneamente pedonale e per Natale si organizza un market di artigianato, aperitivi teatrali e pranzi sociali domenicali.

Poi nel marzo del 2019 arriva il Covid, con la pandemia e i lokdown. Freschette non regge la botta d’arresto e Francesca e Marina, conti alla mano e la morte nel cuore, sono costrette a chiudere i battenti per la seconda volta. Ma siccome si dice che niente nasce o muore e tutto si trasforma, grazie alla caparbietà e la voglia di farcela, seguendo le loro regole – anche se tutto il mondo sembra remare contro – le Freschette si reinventano.

«Non è resilienza e non è resistenza, è sopravvivenza, volere esserci. Alla fine siamo come un liquido che si adatta ai vari contenitori», continua Francesca. Con questo motto apre in un’altra forma – la terza – il laboratorio di Freschette in via Quintino Sella, dove si fanno asporti e consegne a domicilio solo in bici elettrica, oltre a rifornimenti al banco del fresco di Natura Sì nonché a quattro mense di scuole private. Feel rouge che accompagna ogni loro scelta è la ricerca dei prodotti: dal 2011 Francesca e Marina girano e incontrano fornitori e produttori locali, provano i prodotti e stipulano contratti annuali con queste realtà. L’olio viene dall’azienda agrigentina Carbonia di due donne, mamma e figlia; per le zucche c’è Simeti, per le patate Volo Bio Organic Farm, i formaggi sono di Invidiata Madonie. In tutto sono undici le aziende siciliane dalle quali si riforniscono e sono tassativamente escluse quelle che operano nella grande distribuzione organizzata.

«Nonostante tutto quello che ci è accaduto –- aggiunge Francesca –, nonostante i debiti, le chiusure, i traslochi, le delusioni, penso comunque di essere una persona fortunata e di dover condividere questa mia fortuna, anche se spesso in questa città mi sono sentita come un’erbaccia che cresce spontanea nonostante non la voglia nessuno. La nostra è anche una scelta di autoaffermazione».

«Palermo per adesso straripa di food, spesso di scarsa qualità – dice Marina – e la nostra scelta di esserci in questo modo è anche educativa. In tanti negli anni ci hanno detto “da quando mangio qui sto meglio”. Il nostro segreto in cucina è togliere: togliere il soffritto, togliere il burro… quando la materia prima è buona non c’è bisogno di altro. Ci fanno i complimenti per le nostre patate al forno, forse la chiave di volta è rendere le cose semplici». Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/11/freschette-locale-biologico/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Frigo di quartiere: le comunità si reinventano per aiutare chi ha bisogno

Spreco alimentare e povertà sono due concetti che sempre più spesso si incontrano nei progetti di solidarietà e mutuo aiuto: oggi vi parliamo del “Frigo di quartiere”, iniziativa che si sta diffondendo in sempre più città e che è pensata per donare cibo alle persone in difficoltà attraverso frigoriferi collocati in spazi urbani e a completa disposizione di chi ne ha bisogno. Un esempio è l’esperienza di Torino.

Torino – Avete mai sentito parlare del frigorifero di quartiere o di comunità? Si tratta di un’iniziativa che sta facendo molto parlare di sè e che vede negli angoli delle strade, nei condomini o nei parchi, piccoli o grandi frigo in cui i cittadini si impegnano a riporre cibo a disposizione delle persone bisognose.

In particolare, quella del frigo di quartiere è una tra le numerose iniziative incluse nel progetto Im.patto, lanciato da Nova Coop in sinergia con realtà piemontesi e che porterà nelle diverse province della regione progetti che coinvolgeranno la cittadinanza sul tema del cibo, del benessere e della salute.

A Torino, ad esempio, è pensata per coinvolgere le periferie attraverso un effettivo “patto” con il territorio che si concretizza in nuove alleanze con i soggetti che a diverso titolo hanno partecipato alla Call for Ideas di Nova Coop: un patto che vuole mettere in atto azioni di partecipazione ma anche progetti di scambio e reciprocità capaci di generare benefici sull’intera comunità.

L’INIZIATIVA DEL FRIGO DI QUARTIERE

In cosa consiste il progetto? Due frigoriferi verranno allestiti presso Il Boschetto di via Errico Petrella, progetto che vi abbiamo già raccontato in un nostro precedente articolo e che nel quartiere di Barriera di Milano, grazie al lavoro di Re.Te Ongun angolo di città è stato trasformato in questi anni in un progetto di agricoltura urbana dove bambini, famiglie, soggetti fragili e residenti si prendono cura degli orti che qui sorgono.

L’obiettivo, sin dalla sua nascita, è agevolare l’inclusione sociale di soggetti vulnerabili e svantaggiati attraverso pratiche agroecologiche e stimolare valori di cittadinanza attiva, avvicinando le persone alle pratiche di agricoltura urbana sostenibile e alle tematiche ambientali.

Foto di Peter Wendt tratta da Unsplash

Proprio per questo, il progetto del frigo di quartiere vuole diventare un simbolo per promuovere l’impegno sociale e la solidarietà: i frigoriferi saranno infatti destinati ai cittadini che ne hanno bisogno o che si trovano in condizioni di povertà. Al loro interno potranno trovare frutta fresca, oltre che le eccedenze alimentari donate da Coop e altri negozi, aziende e ristoranti che aderiranno all’iniziativa.

DAI COMMUNITY FRIDGES AL PEOPLE’S FRIDGE

L’iniziativa non è solo pensata per sostenere le persone in difficoltà, ma anche per diventare un elemento culturale di aggregazione sociale e un mezzo di promozione della salute e rafforzamento del legame tra cibo e sostenibilità. D’altronde, l’esperienza dei “frighi di comunità” si sta diffondendo in sempre più città, attraversando i continenti. È il caso dell’America, dove sono nati i “Community fridges”, grazie a movimenti spontanei organizzati dalla comunità per la comunità, per offrire un aiuto concreto a migliaia di americani che si trovano in situazioni di fragilità e la cui situazione già critica è stata resa ancora più difficile con l’arrivo della pandemia. Un altro esempio virtuoso è “The People’s fridge“, iniziativa che è stata realizzata a Brixton da un gruppo di commercianti, ispirata da esperienze simili e precedentemente avviate in Germania, Spagna, India. Così il progetto ha preso piede grazie all’ampio quantitativo di donazioni ricevute dai cittadini attraverso una campagna di crowdfunding che ha riscosso grande successo, stimolando altri quartieri londinesi a replicare l’esperienza. Un’esperienza che riguarda il Regno Unito è poi la comunità formatasi intorno alla Community Fridge Network, rete che ad oggi conta circa 200 realtà che hanno dato vita al loro frigo di comunità. La rete vuole incentivare la nascita di progetti analoghi e per questo offre una guida gratuita ai gruppi di persone che desiderano creare il proprio frigorifero comunitario, fornendo un supporto tra pari e consigli per la progettazione.

Foto tratta da Peoplesfridges

DARE SUPPORTO A CHI È IN DIFFICOLTÁ

Le esperienze, che oltrepassano i confini e si diffondo da una città all’altra, sono diverse e variegate: dai frigoriferi che ospitano cibo appena scaduto o vicino alla scadenza ai frigo collocati nei cortili dei condomini aderenti ai progetti che “salvano” avanzi di frutta e verdura che, a causa di qualche ammaccatura, non sono più considerati facilmente “vendibili”. Ciò che accomuna tutti questi progetti è l’impatto sociale e ambientale che li contraddistingue.

Tutti questi progetti nascono e si sviluppano per creare supporto alle nuove fragilità, con azioni di sostegno basate sulla reciproca responsabilità. La visione di fondo è rafforzare la connessione tra le persone e verso l’ambiente circostante, valorizzare la ricchezza culturale e la tradizione delle comunità locali, dare attenzione alla cura di sé, degli altri e del proprio contesto di vita, educare al consumo consapevole e, certamente, contribuire a una società migliore basata su convivialità e mutuo aiuto.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/11/frigo-di-quartiere-comunita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Too Good to Waste: ecco come gli “scarti” combattono lo spreco di cibo

Una giovane azienda emiliana impegnata nell’elaborare soluzioni per ridurre gli sprechi e favorire l’economia circolare ha lanciato un progetto chiamato Too Good to Waste, che attraverso l’impiego di scarti alimentari ha messo a punto una tecnologia in grado di allungare la vita dei prodotti freschi. Nel mondo si spreca molto cibo, troppo. Secondo recenti stime della FAO, ben un terzo di tutto il cibo prodotto viene perso o sprecato lungo la filiera agroalimentare, dalla produzione al consumo. E le cose stanno peggiorando: secondo autorevoli stime, lo spreco alimentare è in crescita, e nel 2030 toccherà ben il 40% del cibo prodotto a livello globale. Una situazione chiaramente insostenibile, sia in termini ambientali – produrre cibo comporta l’uso di risorse naturali, come ad esempio acqua e suolo, e provoca l’emissione di CO2 – sia economici e industriali, poiché una filiera così inefficiente genera costi a carico di aziende e consumatori. Ancora, lo spreco alimentare è inaccettabile da un punto di vista morale, considerando che nel mondo le persone denutrite sono quasi 700 milioni.

Packtin dà il suo contributo a invertire il trend, attraverso Too Good to Waste, progetto finanziato dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. Packtin è una piattaforma tecno-scientifica per la valorizzazione a 360° dei sottoprodotti agroindustriali, è stata fondata da un team di ricercatori specializzati in microbiologia dell’UNIMORE e ha sede a Reggio Emilia. Packtin sta sviluppando in Emilia-Romagna un impianto-pilota per scomporre i sottoprodotti agro-industriali – cioè quelli che erroneamente vengono definiti scarti agroalimentari, come le bucce di pomodoro o il pastazzo di arancia –, rendendoli disponibili come nuove materie prime per il mercato e per la creazione di prodotti naturali di qualità da usare nell’industria alimentare.

«Spesso le bucce di pomodoro, di carota o il pastazzo di arancia vengono definiti “scarti” dai non-addetti ai lavori», spiega Andrea Quartieri, COO e co-fondatore di Packtin. «In realtà questi sottoprodotti hanno un enorme potenziale a beneficio delle persone, perché contengono vitamine, fibre e antiossidanti preziosi per la salute umana, e dai molteplici impieghi».

E uno dei campi di applicazione più interessanti per le nuove materie prime recuperate da Packtin è la creazione di rivestimenti commestibili e biodegradabili per frutta e verdura fresche allo scopo di migliorarne quella che gli addetti ai lavori chiamano shelf-life (vita di scaffale), agendo sulla maturazione o sulla protezione dalle infezioni microbiche. L’obiettivo del progetto Too Good to Waste è ottimizzare la composizione di rivestimenti per il trattamento di due prodotti d’eccellenza del settore ortofrutticolo italiano: i pomodori e le arance. Partendo dalle fibre e dagli estratti naturali ottenuti con il già citato impianto-pilota, Packtin sta sviluppando, rivestimenti biodegradabili, commestibili e facilmente lavabili che possano costituire un’alternativa ai trattamenti oggi utilizzati, come la ceratura per gli agrumi, che peraltro rende la buccia non edibile. La combinazione di fibre naturali ed estratti vegetali con funzioni antiossidanti e antimicrobiche può diminuire la percentuale di prodotti scartati rallentando la maturazione e proteggendo dagli agenti infettivi, con un ovvio calo degli sprechi a beneficio del pianeta, dei consumatori e delle aziende.

«Questi rivestimenti migliorano la vita post-raccolta degli alimenti ortofrutticoli, che di solito “durano” pochi giorni», spiega Quartieri. «Com’è noto, il settore ortofrutticolo subisce grosse perdite lungo la filiera, dal campo alla tavola. Attraverso il progetto Too Good to Waste la nostra tecnologia, “allungando la vita” a frutta e verdura, permette di migliorare la gestione del prodotto fresco in modo da ridurre gli sprechi durante le fasi di lavorazione, stoccaggio, trasporto, vendita e infine consumo».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/09/too-good-to-waste/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

In un terreno confiscato alla mafia in Sicilia nasce una food forest

In provincia di Palermo si sta compiendo il primo percorso di progettazione strutturata di una food forest in Sicilia. Nascerà su un fondo confiscato grazie alla sinergia fra due cooperative locali che si occupano di agricoltura sociale e una realtà svizzera. Un progetto di rete che testimonia la forza della cooperazione e del lavoro di gruppo, dando nuova vita a un terreno che ospitava illegalità e malaffare e, al tempo stesso, promuovendo una buona pratica agronomica e alimentare. Ci troviamo a Partinico, in un appezzamento di cinque ettari confiscati alla mafia e affidati alla Cooperativa NoE. Qui, grazie alla collaborazione con la Cooperativa Agricola Valdibella e con molte altre realtà della zona, nascerà una food forest strutturata.

Non solo: sconfinando nel settore del consumo consapevole, il progetto prevede anche la collaborazione di Crowd Container, un’associazione svizzera che già da diversi anni collabora con la cooperativa Valdibella e che mette in rete acquirenti e produttori che praticano un’agricoltura etica e sostenibile.

Ma partiamo dal cuore del progetto: la food forest, ovvero “foresta commestibile”, è un sistema agroforestale ecosostenibile che permetterà la piantumazione di 1500 tra alberi, piante ed erbe aromatiche. L’obiettivo è dare vita a un agrosistema capace di garantire un elevato grado di autosufficienza alimentare, che diversifica le colture e protegge la biodiversità.

Per finanziare la creazione della food forest è stata promossa una campagna di crowfounding sul canale svizzero wemakeit dove in poco tempo sono stati raccolti i 60mila euro necessari all’avvio. Per quanto riguarda le coltivazioni si prevede la piantumazione di piante tropicali (avocado, annona e passiflora), le varietà antiche di fruttiferi e frassini da manna, noci, agrumi, moringa, ortive e piante aromatiche come rosmarino, salvia, origano, timo. Sono anche previste lunghe linee di siepi con la duplice funzione di frangivento e protezione dagli incendi, così come un giardino mediterraneo con specie tipiche quali querce, corbezzoli, rosa canina, mirto, ginestra e biancospino al fine di aumentare la biodiversità, produrre frutti da destinare alla trasformazione e fornire risorse alimentari alle api. I prodotti della food forest siciliana verranno successivamente commercializzati attraverso la vendita diretta sia nel mercato siciliano, attraverso gruppi d’acquisto solidali, sia in Svizzera, grazie all’associazione Crowd Container. La foresta commestibile avrà quindi inevitabilmente una ricaduta economica e occupazionale sul territorio, rafforzata da obiettivi di carattere sociale e inclusivo, poiché a farne parte saranno in particolare quei soggetti fragili a cui le due cooperative si sono sempre rivolti, ragazzi affidati dal tribunale o persone con disabilità fisiche o psichiche.

Carla Monteleone, agronoma della cooperativa, ci racconta infatti che la cooperativa NoE è un progetto etico che lega il cibo all’inserimento lavorativo di persone con diverse fragilità e che, ormai da anni, svolge un’intensa attività culturale e di promozione della legalità collaborando con diverse associazioni presenti nel territorio con le quali condividono principi e valori. Il progetto è molto ambizioso: si tratta di una food forest in Sicilia che prevede un’ampia progettazione alle spalle. L’obiettivo, come dice anche il nome, è quello di riprodurre l’equilibrio dinamico di una “foresta commestibile”, seguendo i principi della agroecologia e integrando altre pratiche come la permacultura. Un pensiero di Ninni Conti, della cooperativa Noe, sintetizza il cuore di molti dei progetti che abbiamo incontrato nell’isola: «Soltanto avendo il coraggio di sbagliare si può cambiare». I lavori per la realizzazione della food forest nel frattempo proseguono senza sosta: in queste settimane è stato piantumato l’agrumeto e si è conclusa la costruzione del biolago. Il sogno sta sorgendo e chissà che non possa essere il primo di tanti nuovi progetti che ridisegneranno il volto della Sicilia Che Cambia.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/05/terreno-mafia-food-forest-sicilia/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Povertà e ambiente, uno stretto legame che va affrontato seriamente

Come sfamare la popolazione mondiale preservando al contempo il pianeta? La produzione di cibo è l’attività umana che ha avuto il maggior impatto sul pianeta rispetto a qualsiasi altra. Quindi, che fare? Dobbiamo cambiare i metodi con i quali produciamo il nostro cibo.

Sistemando alcuni appunti ho ritrovato un post scritto 5 anni fa da Jason Clay, vice-presidente del WWF internazionale, e allora pubblicato su “The Huffington Post”. Sembra, purtroppo, scritto oggi, visto che il tema trattato non ha trovato ancora una soluzione. Il tema è quello di come sfamare la popolazione mondiale preservando al contempo il nostro pianeta. Se vogliamo cercare di salvaguardare veramente il nostro pianeta, è necessario domandarsi seriamente dove e come produciamo il nostro cibo.

La produzione di cibo è l’attività umana che ha avuto il maggior impatto sul pianeta rispetto a qualsiasi altra. Inoltre, essa contribuisce da una parte all’esacerbarsi dell’emergenza sui cambiamenti climatici e, dall’altra, ne viene profondamente affetta. La crescita della popolazione non aiuta e i 7,4 miliardi di abitanti sulla terra nel 2016 sono diventati oggi 7,9: 500 milioni di persone in più in 5 anni. Il consumo delle risorse terrestri avviene, già da diversi anni, ad un ritmo considerato non rinnovabile e, quindi, non sostenibile. Secondo il WWF, le dimensioni delle popolazioni di mammiferi, uccelli, pesci, anfibi e rettili sono drasticamente diminuite (-68%) dal 1970 e uno specifico indice (Living Planet Index) sintetizza lo stato della biodiversità globale, segnalando lo stato di salute del nostro pianeta. Questo indice, pubblicato per la prima volta nel 1998, registra oggi un declino globale del 60% nella dimensione delle popolazioni di vertebrati, un crollo di più della metà in meno di 50 anni. Al momento, con lo stile di vita degli italiani, servirebbero 2,6 pianeti come la Terra per soddisfare i bisogni di tutti. Prima o poi, le conseguenze di questa emergenza toccheranno tutti, se non corriamo ai ripari fin da subito. La sempre crescente domanda di alcuni alimenti è causa di deforestazione, violazione dei diritti umani, inquinamento delle acque, conversione di habitat, per non parlare delle attività illegali. Nelle prossime tre decadi, la popolazione mondiale toccherà la cifra di 10 miliardi e l’impatto potrebbe essere devastante. Ma non dimentichiamo che già oggi questo impatto è, per una buona fetta della popolazione mondiale, insostenibile. Il consumo pro-capite di proteine animali, così come di frutta e vegetali aumenterà drammaticamente e si dovrà scontrare con la disponibilità del territorio utilizzabile per le coltivazioni; territorio che non può essere considerato illimitato. Sono ormai diversi anni che a livello internazionale si discute sul legame tra biodiversità e produzione alimentare e si arriva sempre a dichiarare che dobbiamo cambiare i metodi con i quali produciamo il nostro cibo. Ogni caloria che consumiamo, proveniente sia da alimenti freschi che dal cibo spazzatura, ha un costo che non è solo economico. La produzione alimentare è la principale causa del radicale cambiamento degli habitat, inclusa la deforestazione, la perdita di biodiversità e, a seconda della fonte, la prima o la seconda causa delle emissioni di gas serra. E’ inoltre il principale utilizzatore di prodotti chimici e acqua dolce. La produzione di cibo utilizza il doppio di acqua di tutte le altre attività umane messe insieme. E quindi sorge spontanea la domanda: è possibile sfamare tutti continuando con questi ritmi e mantenere in salute il pianeta?

Negli ultimi 10 anni, in particolare, la sostenibilità alimentare è diventata un fattore di marketing e questo non va bene, non è l’approccio giusto. La sostenibilità va considerata dall’inizio, fin dalla produzione delle materie prime. Tutti i principali attori in gioco, in ogni settore agro-industriale, devono attivarsi per fare in modo che le proprie materie prime siano prodotte in modo sostenibile, oltre che legalmente. La produttività per ogni raccolto agricolo può differire di un fattore cento e anche all’interno di una stessa area alcuni produttori possono risultare 10 volte più efficienti dei loro vicini. E’ necessario quindi sostenere i più poveri e coloro che non ce la fanno, piuttosto che incaponirsi ad incrementare la resa agricola inondando il terreno di veleni. Ma questa è una visione che potremmo definire “olistica”, ancora troppo lontana da come va il mondo oggi. Però è chiaro che ognuno di noi deve fare il possibile per far capire a chi ci è più vicino quali sono gli impatti delle proprie azioni: non è tollerabile che oltre il 30% dell’equivalente in calorie prodotte (tonnellate e tonnellate di cibo…) venga scartato e quindi non immesso sul mercato. Questa è la fotografia che ci accompagna ormai da tempo: persone che muoiono di fame e altre che muoiono per gli effetti di un’alimentazione eccessiva, oltre che sbilanciata. Sono oltre 800 milioni le persone che non hanno abbastanza da mangiare ed è paradossale che la maggior parte di esse vivano su terreni agricoli. Per quanto riguarda l’Italia, secondo l’Istat, nel 2020 le persone in povertà assoluta sono state un milione in più rispetto all’anno precedente, per un totale di 5,7 milioni. Quelle a rischio povertà rischiano un’esplosione e già nel 2019 erano più del 20% della popolazione italiana. Di recente, il centro studi Unimpresa ha fatto riferimento a oltre 10 milioni di persone. Il numero dei lavoratori poveri è aumentato in molti paesi europei e, nello specifico, del 28% in Italia. Rispetto a un anno fa il tasso di occupazione è più basso di 2,2 punti percentuali e quello di disoccupazione più alto di 0,5 punti. La Caritas ce lo ricorda puntualmente: nelle grandi città, la povertà è ormai una prospettiva, anzi una dimensione, che aggredisce fasce sociali sempre più ampie. Anche nella Capitale, il 18% dei residenti è a rischio povertà, il 10% va in crisi per spese fisse o improvvise e il 7% vive in condizioni di grave deprivazione abitativa. Quindi, in definitiva, è evidente che per una parte della popolazione esiste un problema di accesso al cibo. Questa ineguaglianza dovrebbe far vergognare ognuno di noi, cittadini occidentali che ci sentiamo sempre più oberati dai problemi ma che, ancora in gran parte, abbiamo spesso la pancia troppo piena.

Fonte: ilcambiamento.it

Gruppo di Appoggio Mutuo: a Roma si condividono cibo, saperi e relazioni

Da un fertile humus di solidarietà e impegno civile è nato un gruppo che per decine di famiglie della periferia romana sta rappresentando una risorsa fondamentale in questo periodo di crisi e incertezza. Dalla distribuzione di pacchi al bookcrossing, fino all’autoproduzione, vi raccontiamo le sue attività. Si chiama GAM, Gruppo di Appoggio Mutuo, è nato all’inizio della pandemia e proprio con l’ingresso della primavera ha “festeggiato” un anno di attività. Questa realtà romana territoriale è figlia della Libera Assemblea di Centocelle (LAC), costituita per rispondere agli incendi che avevano colpito il quartiere nell’inverno del 2019 e in particolare una libreria, la Pecora Elettrica. Con l’arrivo di una nuova emergenza, quella del COVID-19, le attiviste e gli attivisti si sono messi nuovamente in gioco, chiedendosi quali potesse essere l’esigenza principale per chi ha dovuto smettere di lavorare improvvisamente a seguito delle misure restrittive. Senza dubbio la distribuzione dei pacchi alimentari è stata una risposta dettata dalla situazione emergenziale, ma con il tempo la richiesta non solo non è diminuita ma è addirittura aumentata. Se a settembre 2020 l’utenza del GAM raggiungeva un numero di 120 famiglie a settimana, a Natale sono diventate 150, per arrivare nell’ultimo periodo a ben 180 famiglie.

Da un fertile humus di solidarietà e impegno civile è nato un gruppo che per decine di famiglie della periferia romana sta rappresentando una risorsa fondamentale in questo periodo di crisi e incertezza. Dalla distribuzione di pacchi al bookcrossing, fino all’autoproduzione, vi raccontiamo le sue attività. Si chiama GAM, Gruppo di Appoggio Mutuo, è nato all’inizio della pandemia e proprio con l’ingresso della primavera ha “festeggiato” un anno di attività. Questa realtà romana territoriale è figlia della Libera Assemblea di Centocelle (LAC), costituita per rispondere agli incendi che avevano colpito il quartiere nell’inverno del 2019 e in particolare una libreria, la Pecora Elettrica. Con l’arrivo di una nuova emergenza, quella del COVID-19, le attiviste e gli attivisti si sono messi nuovamente in gioco, chiedendosi quali potesse essere l’esigenza principale per chi ha dovuto smettere di lavorare improvvisamente a seguito delle misure restrittive. Senza dubbio la distribuzione dei pacchi alimentari è stata una risposta dettata dalla situazione emergenziale, ma con il tempo la richiesta non solo non è diminuita ma è addirittura aumentata. Se a settembre 2020 l’utenza del GAM raggiungeva un numero di 120 famiglie a settimana, a Natale sono diventate 150, per arrivare nell’ultimo periodo a ben 180 famiglie.

«Ci siamo mobilitati fin dall’inizio tramite passaparola, social network e volantini – racconta Alessandra La Porta, portavoce del GAM –, siamo scesi nelle strade, quando era possibile, e in tutti quei luoghi che già frequentavamo». Il radicamento sul territorio e il legame tra le persone sono infatti le componenti fondamentali che hanno permesso a questa realtà di fare la differenza. I momenti di distribuzione di pacchi alimentari e beni di prima necessità sono quattro a settimana e si svolgono in due giorni diversi, il giovedì a Villa Gordiani, Centocelle e Tor Pignattara; il sabato sempre a Centocelle, il quartiere con maggiore richiesta.

«Ci sentiamo un tutt’uno con le persone a cui ci rivolgiamo – prosegue Alessandra La Porta – tanto è vero che molti dei beneficiari conosciuti durante la distribuzione dei pacchi alimentari si sono attivati diventando loro stessi volontari». È un circolo virtuoso di mutualismo e solidarietà che non si ferma solo alla distribuzione di pacchi alimentari, ma mira alla condivisione di pratiche e conoscenza. Sono nati così punti di bookcrossing per lo scambio di libri nel quartiere, ma anche laboratori per la realizzazione di mascherine, fino alla produzione di saponi o detersivi naturali.

«Ci siamo mobilitati fin dall’inizio tramite passaparola, social network e volantini – racconta Alessandra La Porta, portavoce del GAM –, siamo scesi nelle strade, quando era possibile, e in tutti quei luoghi che già frequentavamo». Il radicamento sul territorio e il legame tra le persone sono infatti le componenti fondamentali che hanno permesso a questa realtà di fare la differenza. I momenti di distribuzione di pacchi alimentari e beni di prima necessità sono quattro a settimana e si svolgono in due giorni diversi, il giovedì a Villa Gordiani, Centocelle e Tor Pignattara; il sabato sempre a Centocelle, il quartiere con maggiore richiesta.

«Ci sentiamo un tutt’uno con le persone a cui ci rivolgiamo – prosegue Alessandra La Porta – tanto è vero che molti dei beneficiari conosciuti durante la distribuzione dei pacchi alimentari si sono attivati diventando loro stessi volontari». È un circolo virtuoso di mutualismo e solidarietà che non si ferma solo alla distribuzione di pacchi alimentari, ma mira alla condivisione di pratiche e conoscenza. Sono nati così punti di bookcrossing per lo scambio di libri nel quartiere, ma anche laboratori per la realizzazione di mascherine, fino alla produzione di saponi o detersivi naturali.

Come va avanti tutto questo? Il GAM si sostiene interamente attraverso le donazioni alimentari davanti ai supermercati e con la raccolta dell’invenduto giornaliero nei mercati rionali. «Purtroppo le offerte nell’ultimo periodo sono diminuite – spiega la referente del GAM – mentre la nostra utenza è aumentata significativamente». Per sostenere il progetto, i volontari del Gruppo si sono quindi affidati a un crowdfunding su Produzioni dal Basso a cui tutti possono contribuire. L’obiettivo è quello di continuare a distribuire pacchi alimentari per tutto il 2021, perché le persone in fila aumentano e gli attivisti e le attiviste, per fortuna, non hanno intenzione di fermarsi. «Vogliamo prenderci metaforicamente per mano e attraversare insieme questo momento di difficoltà», conclude Alessandra. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/04/gruppo-di-appoggio-mutuo-roma-cibo-saperi-relazioni/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Negli ultimi sette anni abbiamo visto l’esplosione della piccola agricoltura in Italia. Parola di Nicola Savio

La piccola agricoltura a basso impatto ha avuto una crescita esponenziale nel nostro paese, dando vita a un movimento maturo, fatto di tante reti di piccoli produttori. Ne abbiamo parlato con Nicola Savio, che assieme alla compagna Noemi Zago porta avanti da anni una microfattoria familiare, Officina Walden, e commercia macchinari innovativi per un’agricoltura a bassissimo impatto ambientale. Lo avevamo – o meglio li avevamo, Nicola Savio e Noemi Zago – lasciati alle prese con una piccola fattoria familiare che stava appena nascendo, lo ritroviamo quasi otto anni dopo con un’attività fiorente, un commercio di macchinari per una agricoltura a basso impatto, persino la necessità di diminuire la produzione agricola per evitare il burnout da troppo lavoro. La cosa più incredibile di questi anni, tuttavia, è stata a detta di Nicola quello che è successo attorno a lui, nel resto del Paese.  Ma andiamo con ordine. La seconda puntata di “Dove eravamo rimasti” – il nuovo format video di Italia che Cambia in cui riprendiamo le fila delle prime interviste pubblicate per vedere come sono evoluti nel tempo i progetti – ci porta nelle campagne vicino Ivrea, dove vivono Nicola e Noemi.  

Nicola Savio

La loro prima intervista (che trovate qui) era stata la seconda in assoluto pubblicata sul giornale Italia che Cambia. L’articolo è del 2013, ma il girato è dell’anno precedente. Stavolta di fronte alla telecamera c’è solo Nicola, che però ci rassicura: «Con Noemi siamo ancora felicemente sposati e nostro figlio è cresciuto un bel po’. Solo non le piace apparire davanti a una videocamera»

«Sono passati otto anni – commenta Nicola – e di cose ne sono cambiate tante. Quando Daniel passò a girare il video avevamo appena finito di costruire la casa in cui abitiamo e uscivamo da 3-4 mesi di vita tra il cantiere di casa e un camper nel quale avevamo trascorso l’inverno. Ed era quello il motivo dell’aspetto “asciugato”».

In effetti l’aspetto di Nicola è piuttosto cambiato nel tempo, capelli più lunghi, qualche chilo in più, un’aria più riposata. «La situazione di allora era al limite. Fortunatamente le basi che abbiamo messo in quel momento sono ci hanno permesso di crescere, di mettere su un po’ di ciccia e di prosperare allegramente nel nostro piccolo progetto». 

Piccolo progetto che nel frattempo si è stabilizzato ed è cresciuto, diventando una microfattoria familiare, chiamata Officina Walden, che produce verdura per il mercato locale attraverso un sistema di abbonamento e cassette, sullo stile delle Community supported agriculture, un modello nato negli Usa e diffusosi anche da noi basato sulla consociazione fra produttori e consumatori.  All’attività di coltivatore, da qualche anno Nicola ha affiancato anche quella di rivenditore di attrezzatura tecnica per un’agricoltura a basso impatto. «Nello strutturare la nostra attività abbiamo scoperto degli strumenti, delle attrezzature e delle tecniche di pianificazione e di progettazione che abbiamo cominciato a divulgare. A un certo punto ci siamo resi conto che una delle cose che un mancava nel panorama della piccola agricoltura italiana erano proprio gli attrezzi e la conoscenza di come usarli. Quindi ci siamo buttati in questo nuovo campo tant’è che adesso il nostro lavoro si divide a metà: da un lato la produzione di cibo, dall’altro il lavoro di supporto per chi sta facendo il nostro stesso percorso, attraverso il rifornimento di attrezzature e una formazione continua».

Oltre alla crescita dell’attività familiare, Nicola è testimone – e forse anche un pizzico testimonial – della crescita vertiginosa della piccola agricoltura non invasiva in Italia. «La crescita di questo movimento è stata quasi esponenziale, dieci anni fa io ero uno dei pochi che faceva cose del genere, oggi ce ne sono centinaia, migliaia. Siamo collegati a tante piccole reti di produttori, progetti che lavorano bene, crescono, si stabilizzano. Che fosse un fenomeno in crescita era evidente già otto anni fa, ma ci sono caratteristiche diverse fra queste due “ondate”. Allora parte dei progetti rischiavano di fallire perché erano basati più sull’idea del ritorno alla campagna che sul lavoro e lo sviluppo di professionalità. Ma chi è riuscito a superare quelle difficoltà iniziali ed è rimasto in piedi, oggi sta dando vita a questa seconda primavera, più consapevole».

Nemmeno la pandemia sembra aver fermato la crescita di queste esperienze. Anzi, sembrerebbe essere successo il contrario. «Le piccole realtà, che erano anche quelle più flessibili, più in grado di modificare il proprio assetto in corsa, sono riuscite a svilupparsi ad aumentare i propri clienti, ad aumentare la propria rete di relazioni. Durante il lockdown molte persone non potevano o non volevano più andare ai supermercati, perciò hanno iniziato ad approfittare dei produttori vicini a casa loro. Produttori che in molti casi si sono anche attrezzati con sistemi di consegne a domicilio, per cui molti sono cresciuti. E forse per la prima volta tutta la rete di piccoli produttori si è presentata al mondo come un’entità professionale: non più come persone che hanno pensato di trasferirsi in campagna e vivono in mezzo alle galline, ma come gli unici in grado di farti arrivare il cibo a casa». 

Molti fra i lettori di Italia che Cambia sognano, o stanno pianificando, o stanno già intraprendendo iniziative simili a quella di Nicola, e allora non possiamo non chiedergli quali consigli può dispensare a chi stia iniziando adesso. «Per gli aspetti pratici consiglio prima di tutto e contattare qualche ente locale che si occupi di agricoltura, che sia Confagricoltura, la Coldiretti, o quello che capita tra le mani, perché loro hanno informazioni su burocrazia e pratiche necessarie per quella che comunque è un’attività professionale». 

«Noi siamo partiti con l’idea che non volevamo avere nessun debito, perché non avevamo soldi da parte per coprirli, i debiti, e non c’era nessuna certezza di guadagnare abbastanza in futuro. Per cui siamo partiti piccoli, con una semplice partita Iva in regime di esenzione e poi piano piano siamo cresciuti. Certo, niente vieta di aprire fin da subito un’azienda agricola, accedere ai fondi, però lì si va direttamente su un campo in cui bisogna fare un business plan, diventa tutto più articolato». 

Un aspetto importante è scegliere dove aprire la propria attività. «Sconsiglio vivamente a chiunque voglia fare una cosa del genere di ritirarsi in un eremo. La base del nostro sostentamento è la vendita di parte dei nostri prodotti sul mercato locale, perciò deve esistere un mercato locale. Molti dei progetti che abbiamo visto fallire erano progetti di persone che avevano scelto di vivere magari in valli bellissime, con panorami stupendi, ma dove non c’è anima viva nel raggio di 50 chilometri». 

Prima di salutarci, Nicola ci lascia con un auspicio. «Se dovessimo risentirci fra 8 anni, mi auguro che siano aumentati ancora i miei colleghi, e che i mercati locali così come le realtà delle produzioni locali siano ormai dati per scontati, diventati la normalità».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/01/esplosione-piccola-agricoltura-italia-nicola-savio/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Milano, food policy: oltre 100 orti didattici nelle scuole, pubblicate le linee guida per crearli

Anche in vista della riapertura di questo particolare anno scolastico, che richiede l’individuazione di progetti all’aperto, sono state pubblicate dal Comune di Milano le “Linee Guida per gli orti didattici nelle scuole milanesi”

La realizzazione di un orto scolastico è tra le opportunità formative più efficaci e coinvolgenti per bambini e ragazzi. Già oggi sono 107 quelli attivi nelle scuole comunali e statali di Milano: 62 nelle Scuole dell’Infanzia e 20 nei Nidi, 12 in Istituti comprensivi, 9 in Scuole Primarie, 2 in Scuole secondarie di I grado e 2 in Scuole dell’Infanzia statali. Tra gli orti didattici realizzati nelle scuole del Comune di Milano, 36 sono stati creati e vengono gestiti con il supporto di professionisti, 26 con l’aiuto di volontari e 20 sono completamente ‘fai-da-te’.  Proprio partendo da queste esperienze e con l’obiettivo di educare al valore della natura e del cibo fin da piccoli e garantire attività costruttive all’aperto – a maggior ragione in vista della riapertura di questo particolare anno scolastico, che richiede l’individuazione di progetti all’aperto per fronteggiare l’emergenza Covid-19 – sono state pubblicate dal Comune di Milano le “Linee Guida per gli orti didattici nelle scuole milanesi”: www.foodpolicymilano.org/wp-content/uploads/2020/02/Linee-Guida-Orti-Didattici.pdf.

All’interno vengono spiegati tutti gli aspetti più pratici. Dai costi (intorno ai mille euro, se ci si avvale dell’aiuto di professionisti) alle possibili fonti di finanziamento, dalle fasi della realizzazione del progetto (definizione delle opzioni tecniche, presentazione agli uffici, acquisto del materiale, formazione, preparazione del terreno, semina, raccolta e produzione) alle diverse tipologie (dall’orto a pieno campo a quello nei cassoni, dalla serra al frutteto), fino alle tante esperienze di successo da cui prendere spunto: ‘MiColtivo’ di Fondazione Riccardo Catella, ‘Scuola nell’orto’ dell’Istituto Rinnovata Pizzigoni, il metodo montessoriano dell’Istituto Riccardo Massa, gli orti di via Padova di Legambiente Lombardia, quelli delle associazioni Quei dei Tredesin e Nonni amici, della Scuola Rinascita, ‘Orto in condotta’ di Slow Food e quelli a pieno campo del Rotary Club San Siro. L’idea alla base della realizzazione dell’orto didattico è che diventi uno stimolo per l’apprendimento attivo. Per questo il progetto deve mettere insieme diverse materie, come scienze, matematica, educazione civica, geografia, letteratura e arte. La realizzazione permetterà a bambini e ragazzi di sviluppare competenze sociali, di rafforzare il lavoro di gruppo e la responsabilità individuale, di favorire dialogo e scambio intergenerazionale e fornirà, soprattutto ai più grandi, elementi per valutare la sostenibilità nel tempo di un’iniziativa e gli aspetti imprenditoriali ad essa legati. Ultimo, ma non meno importante in una città che vuole ripensare anche ai suoi tempi, è che la realizzazione di un orto può insegnare il valore dell’attesa dei tempi della natura

Lo scorso autunno, la Food Policy del Comune di Milano, insieme agli assessorati al Verde, all’Educazione ed Edilizia scolastica e alla Direzione Quartieri, aveva lanciato l’idea di un vademecum sugli orti didattici traendo spunto dalle esperienze virtuose di insegnanti, educatori e addetti ai lavori di tante scuole della città. Da qui sono nate le linee guida, promosse insieme alla Fondazione Cariplo, nell’ambito delle azioni attuative della Food Policy di Milano, e realizzate con il supporto del centro di ricerca Està – Economia e Sostenibilità: saranno distribuite alle scuole in autunno, dopo la riapertura.

Fonte: ecodallecitta.it

Il Coronavirus e la fragilità della globalizzazione

È bastato un virus per creare il panico mondiale, con tanto di crisi economiche, perdite di punti del PIL, turismo in pericolo, merci e container fermi, fabbriche vuote, personale a spasso. Tutto questo è un poco simpatico regalo della globalizzazione.

Il Coronavirus e la fragilità della globalizzazione

È bastato un virus per creare il panico mondiale, con tanto di crisi economiche, perdite di punti del PIL, turismo in pericolo, merci e container fermi, fabbriche vuote, personale a spasso. Tutto questo è un poco simpatico regalo della globalizzazione, che poi è il nome più gentile di mercantilizzazione. Nel mondo dove tutto è mercato e le merci devono attraversare continenti in meno di un attimo, ci si è accorti che chi dipende da questo sistema va in tilt in poco tempo. Non sembrerebbe una bella cosa, infatti è il cappio che ci siamo messi al collo da soli.

Se la Cina è il supermercato mondiale, quindi anche il nostro, e se per qualche motivo si ferma, cosa succede? Grandissimi problemi. 

La mercantilizzazione infatti significa la dipendenza totale. Siamo dipendenti  dai combustibili fossili, dagli alimenti chimici e dal supermercato cinese che grazie al suo esercito di schiavi ci rifornisce di tutto a prezzi irrisori. E così la nostra società è un gigante dai piedi di argilla che va in crisi velocemente proprio a causa delle sue dimensioni, della sua rigidità e della sua incapacità di reagire a eventi improvvisi. E’ chiaro che i fautori di quello che erroneamente si considera progresso, della tecnologia lanciata a tutta velocità al solo servizio del profitto, non possono che percorrere la strada della dipendenza perché è quella che gli garantisce i maggiori profitti. E quindi ci siamo cacciati in questa situazione estremamente pericolosa dove basta un niente per metterci nei guai. Ma quando suonano questi campanelli d’allarme, si spera che passi la nottata e poi si continua tutto come prima, senza avere imparato nulla e soprattutto senza fare nulla per evitare nuove possibili crisi. Perché la mercantilizzazione  non può aspettare, non si può fermare e chi primo arriva, vince. Quale è la soluzione per non rimanere incastrati in questo gioco perverso? Innanzitutto diventare il meno dipendenti possibile nei due aspetti fondamentali per la sopravvivenza: il cibo e l’energia. Poi si dovrebbero progressivamente diminuire i consumi superflui e la conseguente dipendenza dai supermercati cinesi o di chiunque sia, che sfornano cianfrusaglie a getto continuo.  Contare il più possibile sulle nostre forze, riscoprire i tanti talenti e risorse che abbiamo, senza doverle fare arrivare da chissà dove. Abbiamo troppo abbandonato la nostra eccezionale creatività e capacità di saper fare, abbiamo importato cibo spazzatura che è un insulto alla nostra tradizione di cibo sublime e cosa ci ha portato tutto questo? Le case piene di merci di scarsissima qualità, poco durevoli e i nostri corpi avvelenati da alimenti che non meritano questo nome. Per non parlare poi dell’inquinamento e delle montagne di rifiuti che sono il fardello immancabile della mercantilizzazione. Di fronte ad una presa di coscienza in cui si iniziasse ad emanciparsi, gli apprendisti stregoni della crescita e del falso progresso, grideranno allo scandalo, al ritorno indietro, all’autarchia, senza tenere presente che indietro ci torniamo di sicuro se si prosegue nella strada della dipendenza totale e sarà un indietro doloroso dalle tinte assai fosche. Meglio quindi andare avanti e progredire nella giusta direzione, quella della riscoperta di quanto di bello, efficace, utile e importante abbiamo già qui da noi in Italia senza dover dipendere dal vero virus che è quello della mercantilizzazione di tutto e tutti

Fonte: ilcambiamento.it

Foodbusters: acchiappacibo in azione per salvare gli avanzi degli eventi

Recuperare il cibo avanzato degli eventi, in particolare dei matrimoni, per donarlo a chi ne ha bisogno. Un’idea semplice ma necessaria in un momento storico in cui regna il paradosso della povertà alimentare e dello spreco di cibo, che proprio in alcune occasioni raggiunge livelli elevatissimi. Ne abbiamo parlato con Diego Ciarloni, portavoce di Foodbusters, la prima associazione di recupero cibo delle Marche e tra le primissime in Italia. Immaginatevi la scena: il vostro giorno più bello, programmato nei minimi dettagli, finalmente la festa può iniziare. Tutto è perfetto proprio come ve lo eravate immaginato, la location, l’atmosfera, i fiori, la musica e i vostri invitati che condividono con voi questa gioia. Ovunque ci sono prelibatezze, il buffet degli antipasti, i vari angoli a tema, i dolci. La parola d’ordine è: abbondanza. A fine evento, quando avete salutato tutti e iniziate a pensare alla luna di miele nel lasciare il ristorante, vi rendete conto che di tutte quelle prelibatezze, molte sono ancora intatte nei vassoi e notate la grande quantità di cibo avanzato. Riflettete sul fatto che molto probabilmente tutto questo ben di Dio verrà buttato via. E poi vi viene un’idea: perché non donare tutto quello che è avanzato a chi ne ha bisogno?

Molte persone oggi sono in seria difficoltà economica, anche chi fino al giorno prima aveva una vita “normale” può ritrovarsi per una serie di eventi a non riuscire a mettere insieme tre pasti al giorno. Di contro le statistiche parlano chiaro: in Italia gli sprechi alimentari superano i 15 miliardi di euro all’anno. Un aiuto concreto si può dare. Nelle Marche c’è un gruppo di persone che hanno fondato la prima associazione Onlus di recupero del cibo, fra le primissime in Italia. Abbiamo incontrato il portavoce di Foodbusters, Diego Ciarloni, ed ecco cosa ci ha raccontato.

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Quando e come è nato il progetto?

Il progetto è nato nel 2016 da un gruppo di amici. Una sera mi sono trovato a parlare con una signora con gravi problemi di salute che si è ritrovata all’improvviso senza lavoro e in seria difficoltà. Mi ha raccontato che lei ed altre persone nella sua situazione hanno trovato un grande aiuto da un fruttivendolo e un macellaio della loro zona che a fine serata, dona loro quanto è avanzato. Mi è quindi venuta l’idea, pensando ai retroscena degli eventi, soprattutto i matrimoni, dove spesso avanza una grande quantità di cibo che quasi sempre viene buttata via. Ho sentito l’urgenza di fare qualcosa di concreto, sono tornato a casa e ne ho parlato con mia moglie e con una coppia di amici e così ci è venuta l’idea.

E poi?

E poi abbiamo dovuto pensare a come poterlo fare concretamente perché sappiamo bene che non basta prelevare il cibo avanzato ma bisogna fare in modo che arrivi a destinazione rispettando tutte le norme igienico sanitarie.

Come avviene il vostro lavoro?

Previo accordo con gli sposi o con gli organizzatori dell’evento, ci rechiamo personalmente a evento finito e ci occupiamo della raccolta del cibo cotto, prestando particolare attenzione alla suddivisione in base alle esigenze alimentari delle persone, per cui stiamo attenti a dividere le pietanze senza glutine o vegetariane. Utilizziamo guanti di protezione, contenitori di alluminio termici e antibatterici. Una volta terminata la raccolta, lo consegniamo personalmente alla mensa sociale più vicina.

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In base a quali criteri avviene la distribuzione?

Abbiamo mappato le mense sociali in modo da individuare la mensa più vicina alla location dell’evento garantendo così che il cibo arrivi il più velocemente possibile e inoltre, chiunque si trova in difficoltà, visitando il nostro sito può sapere dove si trovano le mense non trovandosi così nella situazione di dover chiedere.

In che modo chi organizza l’evento può aiutarvi?

Noi chiediamo un contributo di 1 euro a persona, parlando con gli sposi o gli organizzatori degli eventi, forniamo tutto il materiale informativo e diamo la possibilità di usare il nostro logo e i nostri riferimenti. Potranno così spiegare ai loro invitati, che ci stanno dando una mano concreta, che il loro giorno speciale lo sarà ancora di più perché avranno la possibilità di aiutare chi è meno fortunato.

In quali altri modi cercate di sensibilizzare le persone a questo argomento?

Andiamo agli eventi, alle fiere e soprattutto nelle scuole dove parliamo con i ragazzi. Li coinvolgo, lancio loro delle “sfide” e gli chiedo di partecipare attivamente allo spreco alimentare, l’ultima volta ho ricevuto una telefonata da una maestra che mi ha messo in viva voce i ragazzi che in coro mi hanno detto: “Sfida accettata”! Andiamo inoltre nelle università parlando con chi fa ricerca e proponendo loro di lavorare a progetti che affrontano questo problema reale.

Un evento particolare?

Una volta siamo andati ad un matrimonio, a fine evento e siamo entrati cercando di dare nell’occhio il meno possibile, non volevamo disturbare o creare imbarazzo. All’improvviso abbiamo sentito un applauso e al momento ho pensato che forse gli sposi stavano entrando in cucina per qualche ragione e l’applauso fosse per loro. Dopo qualche minuto ho capito che gli invitati stavano applaudendo noi, è stato bello, abbiamo sentito tutto il loro sostegno.

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Quali sono invece le difficoltà?

Purtroppo ne abbiamo trovate parecchie, altrimenti non si chiamerebbe “lotta allo spreco”. Abbiamo ricevuto molte porte in faccia, persone che non vedono quanto sia reale e grave questo problema e che riguarda tutti noi. Inoltre spesso le persone non comprendono come mai richiediamo un contributo. Ci tengo a precisare che di tutto quello che raccogliamo noi non tratteniamo assolutamente nulla. Chiunque può vedere che documentiamo online in tempo reale sia il ritiro che la consegna del materiale. Il contributo ci serve per poter affrontare i costi che dobbiamo sostenere per portare a termine ogni ritiro e consegna. Spesso non ci riusciamo e non è raro che ci rimettiamo del nostro, spesso abbiamo macinato chilometri in piena notte per recuperare cibo che altrimenti sarebbe finito in discarica. Ci crediamo, abbiamo un sogno e quindi andiamo avanti.

Quali sono i prossimi progetti?

Gli scenari in cui il cibo viene sprecato sono moltissimi, oltre agli eventi stiamo cercando di sensibilizzare i ristoranti, gli hotels e i supermercati. Vorremmo far capire loro che il valore aggiunto è enorme. Oltre a dare un contributo concreto donando il cibo avanzato a chi ne ha bisogno, renderanno i loro clienti consapevoli che la loro azienda è a favore della lotta allo spreco e inoltre, avranno un potenziale risparmio sui tributi comunali.

Ma si può fare ancora di più.

Cioè?
Pensa a come sarebbe se grazie a questo contributo che chiediamo ci fosse la possibilità di creare un nuovo lavoro magari proprio per chi è disoccupato: il “recuperatore”, una persona che recupera il cibo e lo consegna direttamente a casa delle persone anziane in difficoltà. Molte di loro hanno problemi seri e non hanno più la forza né di fare la spesa, né di cucinare. Così facendo il recuperatore consegna fino alla loro porta di casa del cibo pronto creando così un circolo virtuoso: il potenziale alimento-rifiuto mantiene le sue qualità intatte divenendo una risorsa che sfama e offre anche un’occasione di reintegro sociale creando valore etico.

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Cosa può fare il singolo?

Ognuno di noi può fare piccole azioni per evitare lo spreco. Piccoli gesti quotidiani che facciamo inconsapevolmente ma che possono fare una grande differenza. Un esempio? Al supermercato scegliete prodotti vicini alla scadenza, sarete così più attenti a consumarli per primi anziché lasciarli nel frigo fino alla scadenza e come spesso accade buttandoli via senza averli consumati. A una pizzata tra amici, anziché ordinare qualcosa mentre si aspetta, sforzatevi di aspettare che vi arrivi quello che avete ordinato e se proprio desiderate prendere qualcos’altro, fatelo dopo che avete terminato la prima portata. Spesso ho visto tornare indietro pizze quasi intere perché ci si era riempiti con i vari antipasti e stuzzichini durante l’attesa oppure, pratica che inizia per fortuna a prendere piede anche da noi, non abbiate timore di chiedere il doggy bag.

Avete un motto?

Certo: “Non salviamo il mondo ma insieme possiamo provarci”.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/01/foodbusters-acchiappacibo-azione-salvare-avanzi-eventi/?utm_source=newsletter&utm_medium=email