Da impiegata a contadina: la nuova vita in natura di Elisa, tra alberi e maixei

Un rimorchio per cavalli riadattato a piccolo bar racchiude una storia di cambio vita e di riscoperta di felicità. Oggi vi parliamo di Elisa, che dopo aver lavorato per anni in un ufficio ha deciso di lasciarsi tutto alle spalle e coronare il suo sogno: ora la troverete nella sua oasi di pace, l’azienda agricola Maixei, un punto ristoro lungo il percorso dell’acquedotto storico di Genova.

Genova – Dopo aver gestito per secoli l’approvvigionamento idrico dell’intera città, l’acquedotto storico della val Bisagno oggi è una comoda passeggiata semi-urbana. Chi la percorre non può dimenticare il suono dei passi sulle lastre di pietra che rimbomba sul vuoto delle antiche condotte. Per parecchi chilometri il percorso asseconda a mezza quota il profilo delle colline, restando in buona parte al di sopra dei caseggiati costruiti nelle vicinanze e regalando insospettabili scorci rurali. Si cammina affiancando muretti a secco, i cosiddetti maixei, e fasce di ulivi; e poi si incontrano capre, pecore, galline e tartarughe che fanno emozionare i più piccoli lungo il percorso. Un luogo di storia e natura ancora poco conosciuto da chi non abita in zona che negli ultimi anni sta vivendo un progressivo aumento di interesse. Passeggiando in una domenica di sole, alla ricerca di un luogo dove mia figlia potesse collaudare il suo primo aquilone, ho scoperto l’azienda agricola Maixei. Sono stata attirata dal raglio dell’asino Roby, colui che dà il benvenuto a chiunque si avvicina all’ingresso, e ho passato il pomeriggio in compagnia degli animali dell’azienda agricola. Ecco perché ho voluto parlarvene oggi.

Le mascotte di Maixei

LA STORIA

L’idea di Maixei è nata nel 2020. «Era un momento buio della mia vita – racconta Elisa Pezzoli, la titolare – ed ero giù di morale perché avevo perso da poco entrambi i miei genitori. Conscia del fatto che nei periodi no la natura sa come venire in aiuto, mi sono decisa».

Lei e suo marito trovano in vendita un grande appezzamento di terreno vicino casa, inizialmente pensato come orto familiare, e lo acquistano: «Abbiamo impiegato diversi mesi a pulirlo, era ridotto a una discarica. Abbiamo trovato quintali di spazzatura, bottiglie di vetro e cinque carcasse di motorini. Più ci lavoravamo però più ci legavamo a quella terra. E in pochissimo tempo ci siamo letteralmente innamorati del posto».

Dopo qualche mese la coppia si rende conto che quell’appezzamento di terreno era troppo per la propria famiglia e lì arriva l’illuminazione. Elisa, dopo aver lavorato per diciotto anni nello studio di un commercialista, decide di cambiare vita e installa in una porzione di quel campo un chiosco di prodotti genuini. Che diventa subito un punto di ritrovo in natura.

L’AZIENDA AGRICOLA MAIXEI

«Abbiamo aperto la nostra azienda agricola – affiliata a Coldiretti – che abbiamo chiamato Maixei, il cui nome si ispira ai tanti muretti a secco che abbiamo recuperato qui. Abbiamo creato una società semplice, intestata a me e mio marito, che invece continua a lavorare come avvocato».

Così a fine maggio 2021 un rimorchio per il trasporto cavalli diventa il punto di ristoro dell’Acquedotto storico. «L’abbiamo trasformato in un piccolo bar, con un frigo e un lavandino su misura». E da qui escono taglieri di salumi del territorio, birre biologiche di Sassello, succhi di frutta prodotti da un’azienda agricola savonese, frizzantini al sambuco che arrivano da Vallombrosa, vicino a S. Olcese, così come marmellatine e tante prelibatezze tutte liguri. E ora Elisa vive nel suo sogno: «Ogni mattina alle 6 sono nell’orto, ma non mi pesa perché il contatto con la terra mi piace e mi diverte. E poi ci sono i miei figli di pomeriggio che mi aiutano tanto».

Elisa Pezzoli e suo figlio il giorno dell’inaugurazione di Maixei

L’azienda agricola produce olio, frutta e ortaggi biologici e nell’annessa fattoria ci sono conigli, galline, un asino e delle caprette, che fanno tutti parte del grande branco Maixei e moriranno di vecchiaia. «A parte quando è brutto tempo, sono in tanti che si fermano a fare merenda o aperitivo da noi. Nonostante questi anni duri, le persone che vengono qui sostengono la grande rivalutazione delle cose buone e genuine del territorio che stiamo vivendo in questo momento. E il profondo bisogno di natura che la gente sente».

Ogni mattina alle 6 sono nell’orto, ma non mi pesa perché il contatto con la terra mi piace e mi diverte. E poi ci sono i miei figli di pomeriggio che mi aiutano tanto

I PROGETTI FUTURI

Oltre ad aver restaurato tanti maixei – i muretti a secco del ‘600 crollati perché il terreno era abbandonato da tempo –, Elisa e suo marito hanno anche trovato un vecchio fienile a cui sognano di dare nuova vita: «Potrebbe diventare un laboratorio o una struttura chiusa dove poter lavorare in caso di maltempo. Non è grandissima, ma è su due piani… chissà!». Per ora hanno richiesto un finanziamento alla regione per poter restaurare i muretti rimasti. L’area verde che circonda il chiosco ogni weekend si riempie di bambini, perché Maixei diventa anche sede di laboratori educativi. Sì, perché mentre i genitori si rilassano, i più piccoli si avvicinano agli antichi mestieri di campagna: «Dalla raccolta delle uova nel pollaio alla preparazione dei biscotti, passando per le olive da portare al frantoio. Collabora con noi un’insegnante, maestra Serena, che accompagna i bambini – alcuni dei quali non hanno mai visto dal vivo una gallina – in questa realtà rurale e, per molti, sconosciuta». E si divertono tantissimo. Elisa mi confessa che sono tante le idee che le frullano in testa: non possiamo che augurarle buona fortuna nel portare avanti questo suo piccolo scrigno di autentica genovesità!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/04/maixei-elisa-contadina/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

EERT: gli orologi in legno da cui nascono nuovi alberi

Economia circolare, consumo consapevole, sostenibilità e rispetto dell’ambiente sono gli ingredienti alla base di EERT, una start-up di giovani imprenditori attenti alla salvaguardia dell’ecosistema. Grazie alla vendita di orologi in legno, al riuso dei materiali e alla piantumazione di nuovi alberi infatti, EERT promuove un modello di business più sostenibile.

Nasce come un gioco l’idea di quattro giovani amici: aprire un green e-commerce dedicato alla vendita di preziosi orologi in legno. Così mi racconta Claudio, account manager di EERT. Classe 2000, amante del mare e della vela, è uno studente di ingegneria elettronica appassionato di informatica e attento alle tematiche ambientali, come i suoi compagni di avventura Giuseppe e Gianluca – anche loro studenti di ingegneria – e Agostino, esperto di digital marketing. A settembre dell’anno scorso, i ragazzi decidono di lanciarsi in questa avventura: «Abbiamo creato tutto da zero: dal sito al brand, occupandoci della ricerca dei fornitori e della scelta dei prodotti», prosegue Claudio. «Non è stato semplice, anzi, soprattutto abbiamo faticato a conciliare gli impegni universitari con questa attività». Quando iniziano a pensare al progetto, i quattro ragazzi sono in città diverse per motivi di studio. Poi la pandemia li riporta a casa e proprio lì scocca una scintilla: creare un progetto nuovo, nella propria terra. Claudio lascia Trieste e rientra a Scanzano Jonico, in provincia di Matera.

Da una passione condivisa per gli ingranaggi degli orologi analogici, nasce l’idea di dedicarsi alla vendita di questi prodotti, oggetti dal fascino antico eppure al passo con i tempi. La scelta ricade sul legno, materiale naturale i cui processi di lavorazione sono molto più sostenibili rispetto a quelli dei materiali di derivazione chimica comunemente impiegati nell’industria orologiera. Il design di questi orologi è studiato in ogni minimo dettaglio per ridurre il più possibile le parti che li compongono. Grazie a un processo circolare volto a diminuire al massimo gli sprechi, anche agli scarti della lavorazione viene data nuova vita. I trucioli di legno, infatti, vengono assemblati per produrre delle custodie per gli orologi o utilizzati come imballaggio, evitando l’impiego della plastica. Il legame con il territorio è fondamentale nella scelta delle materie prime e nelle varie fasi produttive. Da qui l’idea di realizzare queste scatole di legno in collaborazione con falegnami e artigiani del posto, riciclando anche gli scarti derivanti da altre produzioni. L’impegno di EERT per la tutela ambientale va ben oltre l’utilizzo di un materiale dalla filiera sostenibile. Come suggerisce il nome stesso, letto al contrario, per ogni orologio acquistato vengono piantati degli alberi, alimentando un circolo virtuoso di cui l’acquirente è il principale artefice. Attualmente la piantumazione degli alberi è gestita da Teamtrees, in Madagascar. Il sogno di Claudio e dei suoi compagni è quello di contribuire alla tutela del proprio territorio, collaborando con il WWF. In particolare, grazie alla vendita dei loro orologi, vorrebbero sostenere il Bosco Pantano di Policoro, un importante bene naturalistico, spesso danneggiato dall’incuria, designato Sito di Importanza Comunitaria e Zona di Protezione Speciale, in quanto habitat naturale di numerose specie di avifauna selvatica.

«Ci piacerebbe che dei manufatti dalla filiera sostenibile diventassero anche degli oggetti di tendenza, apprezzati da consumatori attenti e consapevoli – conclude Claudio – disposti a scegliere la qualità, senza dover rinunciare a nulla». L’entusiasmo inesauribile di questi ragazzi è una vera e propria fucina di nuove idee. Un giorno vorrebbero ampliare EERT e realizzare un marketplace sostenibile, una vera e propria vetrina virtuale di soli prodotti dalla filiera controllata e a basso impatto ambientale, nell’ottica di ridurre al minimo le emissioni inquinanti dovute al trasporto e alla distribuzione. Quello di Claudio e i suoi compagni è un sogno nato per gioco, ma capace di migliorare il mondo, a piccoli passi.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/06/eert-orologi-legno-nuovi-alberi/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

In un terreno confiscato alla mafia in Sicilia nasce una food forest

In provincia di Palermo si sta compiendo il primo percorso di progettazione strutturata di una food forest in Sicilia. Nascerà su un fondo confiscato grazie alla sinergia fra due cooperative locali che si occupano di agricoltura sociale e una realtà svizzera. Un progetto di rete che testimonia la forza della cooperazione e del lavoro di gruppo, dando nuova vita a un terreno che ospitava illegalità e malaffare e, al tempo stesso, promuovendo una buona pratica agronomica e alimentare. Ci troviamo a Partinico, in un appezzamento di cinque ettari confiscati alla mafia e affidati alla Cooperativa NoE. Qui, grazie alla collaborazione con la Cooperativa Agricola Valdibella e con molte altre realtà della zona, nascerà una food forest strutturata.

Non solo: sconfinando nel settore del consumo consapevole, il progetto prevede anche la collaborazione di Crowd Container, un’associazione svizzera che già da diversi anni collabora con la cooperativa Valdibella e che mette in rete acquirenti e produttori che praticano un’agricoltura etica e sostenibile.

Ma partiamo dal cuore del progetto: la food forest, ovvero “foresta commestibile”, è un sistema agroforestale ecosostenibile che permetterà la piantumazione di 1500 tra alberi, piante ed erbe aromatiche. L’obiettivo è dare vita a un agrosistema capace di garantire un elevato grado di autosufficienza alimentare, che diversifica le colture e protegge la biodiversità.

Per finanziare la creazione della food forest è stata promossa una campagna di crowfounding sul canale svizzero wemakeit dove in poco tempo sono stati raccolti i 60mila euro necessari all’avvio. Per quanto riguarda le coltivazioni si prevede la piantumazione di piante tropicali (avocado, annona e passiflora), le varietà antiche di fruttiferi e frassini da manna, noci, agrumi, moringa, ortive e piante aromatiche come rosmarino, salvia, origano, timo. Sono anche previste lunghe linee di siepi con la duplice funzione di frangivento e protezione dagli incendi, così come un giardino mediterraneo con specie tipiche quali querce, corbezzoli, rosa canina, mirto, ginestra e biancospino al fine di aumentare la biodiversità, produrre frutti da destinare alla trasformazione e fornire risorse alimentari alle api. I prodotti della food forest siciliana verranno successivamente commercializzati attraverso la vendita diretta sia nel mercato siciliano, attraverso gruppi d’acquisto solidali, sia in Svizzera, grazie all’associazione Crowd Container. La foresta commestibile avrà quindi inevitabilmente una ricaduta economica e occupazionale sul territorio, rafforzata da obiettivi di carattere sociale e inclusivo, poiché a farne parte saranno in particolare quei soggetti fragili a cui le due cooperative si sono sempre rivolti, ragazzi affidati dal tribunale o persone con disabilità fisiche o psichiche.

Carla Monteleone, agronoma della cooperativa, ci racconta infatti che la cooperativa NoE è un progetto etico che lega il cibo all’inserimento lavorativo di persone con diverse fragilità e che, ormai da anni, svolge un’intensa attività culturale e di promozione della legalità collaborando con diverse associazioni presenti nel territorio con le quali condividono principi e valori. Il progetto è molto ambizioso: si tratta di una food forest in Sicilia che prevede un’ampia progettazione alle spalle. L’obiettivo, come dice anche il nome, è quello di riprodurre l’equilibrio dinamico di una “foresta commestibile”, seguendo i principi della agroecologia e integrando altre pratiche come la permacultura. Un pensiero di Ninni Conti, della cooperativa Noe, sintetizza il cuore di molti dei progetti che abbiamo incontrato nell’isola: «Soltanto avendo il coraggio di sbagliare si può cambiare». I lavori per la realizzazione della food forest nel frattempo proseguono senza sosta: in queste settimane è stato piantumato l’agrumeto e si è conclusa la costruzione del biolago. Il sogno sta sorgendo e chissà che non possa essere il primo di tanti nuovi progetti che ridisegneranno il volto della Sicilia Che Cambia.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/05/terreno-mafia-food-forest-sicilia/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Il Seme di Chico: “Facciamo a gara a chi pianta più alberi?”

Una sfida lunga 365 giorni: coltivare il rispetto e la cura per la Terra. Poche le regole del gioco: basterà piantare un albero autoctono, fotografarlo e condividere l’immagine su un gruppo facebook in modo da stimare quanti nuovi alberi saranno stati messi a dimora in un anno. Questa la scommessa lanciata dall’Associazione Straula con il progetto Il seme di Chico. Era il 2006 quando Fabio e i suoi compagni diedero vita all’Associazione Straula, a San Cataldo (CL), nell’entroterra siciliano. Un territorio minacciato dal problema dello spopolamento e dell’abbandono, dove crescere troppe volte vuol dire andar via, lasciandosi alle spalle affetti e radici. Le parole di Fabio hanno un suono antico mentre racconta di strumenti di lavoro, musiche e danze popolari, scorci di un mondo perduto. O quasi. «La straula, spesso trainata dai buoi, era usata in campagna per trasportare attrezzi e ortaggi», mi racconta Fabio. A quest’immagine s’ispira l’associazione. Il principale obiettivo: «traghettare le vecchie tradizioni verso le nuove generazioni, rimodulandole ai tempi che cambiano ed evitando che vadano perdute per sempre». Diverse le tematiche affrontate negli anni: dall’integrazione sociale alla lotta contro la mafia, al fianco di altre associazioni del territorio. Il filo conduttore delle diverse iniziative è sempre stato la rivalutazione di spazi comuni, sottratti all’incuria attraverso eventi culturali e musicali.

L’Associazione Straula si impegna quindi a preservare il territorio siciliano dai mali sociali e soprattutto ambientali, nel tentativo di renderlo un posto migliore per vivere. «Il problema della desertificazione affligge l’entroterra siciliano. La siccità estiva, inoltre, favorisce il propagarsi di incendi, soprattutto in aree abbandonate», anche a causa di un impoverimento drastico della biodiversità. Così a novembre 2020, nasce un nuovo progetto: Il seme di Chico, in onore dell’attivista brasiliano Chico Mendez, assassinato nel 1988 a causa delle sue battaglie in difesa dell’Amazzonia. Negli ultimi anni, questa foresta è stata ulteriormente sfregiata da incendi e disboscamento massivo. Le lobby dell’agribusiness, così come la mancanza di azioni politiche di tutela ambientale, minacciano tuttora il polmone verde del mondo. «La storia di Chico Mendez è di grande ispirazione ancora oggi. Ci siamo chiesti, come spargere il seme della consapevolezza e dei valori per cui quest’uomo si è battuto fino alla morte», spiega Fabio.

Chico Mendes

È nata così l’idea di una challenge sul web: piantare un albero autoctono – in un giardino, in un terreno comunale o abbandonato –, scattare una foto e postarla nel gruppo facebook “conta alberi”. La sfida è stata lanciata il 21 novembre 2020 grazie ad un video realizzato da Infedeforesta con la partecipazione di Luca Mercalli, Roy Paci, Stefano Ciafani (presidente Nazionale di Legambiente Onlus), Roberto Zeno e Francesco Moneti (Modena City Ramblers), Salvatore Nocera (Pupi Di Surfaro) e Enrico Greppi, in arte Erriquez (Bandabardò), scomparso prematuramente domenica 14 febbraio. Questi volti noti si sono uniti all’appello dell’Associazionea Straula, invitando tutti a prendere parte al gioco. «Inizialmente speravamo che venissero piantati almeno trecento alberi. I giorni correvano e il numero di alberi messi a dimora è raddoppiato, allora abbiamo deciso di non porci alcun limite».

Oggi dal seme di Chico sono nati quasi mille alberi: dalla Sicilia, alla Toscana, passando per la Campania, la Lombardia, la Calabria, il Friuli. Un albero è stato piantato persino a New Jersey. Ciò che conta, è che il seme di Chico abbia fatto breccia nel cuore di molti. Nei prossimi mesi, verranno condivisi video e consigli per prendersi cura degli alberi messi a dimora, soprattutto nel delicato periodo dell’attecchimento.

«Il flashmob virtuale – chiarisce Fabio – è nato anche a causa dell’attuale situazione sanitaria, che impedisce di ritrovarsi e piantare insieme degli alberi come era stato fatto negli anni scorsi a San Cataldo, nel tentativo di rivalutare un’area in completo stato di abbandono», progetto ambizioso, avviato nel 2016 per dar vita a un parco urbano, proprio a San Cataldo, in una zona lasciata nell’incuria e deturpata da frequenti incendi. «Nel piano regolatore del comune si parla di un parco, mai sviluppato. Abbiamo proposto all’amministrazione comunale di prendercene cura e oggi vi crescono più di 300 alberi».

La piantumazione è stata organizzata per due anni, in occasione della giornata nazionale dell’albero, il 21 novembre. Secondo la legge n.10 del 2013, infatti, per ogni nuovo nascituro le amministrazioni comunali sono tenute a piantare un albero. Ed è proprio grazie al lavoro dell’Associazione Straula, che oggi il parco Achille Carusi non è più un terreno incolto, ma «un’area in cui vivono alberi alti circa due metri, non ancora un vero parco», precisa Fabio, «occorrono ancora molti lavori strutturali, che al momento sono fermi».

Quando la challenge si concluderà a novembre prossimo, l’Associazione Straula vorrebbe coinvolgere le scuole per creare dei vivai, «ritornando al seme, ma soprattutto cercando di lavorare con i più piccoli, perché se la nostra generazione ha fallito, c’è ancora speranza che le nuove possano riscattarci degli errori commessi». Piantare degli alberi permette di confrontarci con una misura del tempo diversa, dilatata rispetto alla durata media della vita dell’uomo. All’ombra degli alberi che piantiamo oggi, sicuramente non riusciremo a sederci, scriveva il premio Nobel Tagore, eppure un giorno questi saranno rifugio, fonte di sostentamento per chi verrà dopo. E in qualche modo gli alberi racconteranno di noi a chi verrà domani. Restituendo alle generazioni future, un paesaggio che conserva la traccia degli abitanti del luogo. Accogliamo insieme l’invito dell’Associazione Straula a «sporcarci le mani di terra e sentirne l’odore». Diventiamo tutti dei piantatori d’alberi, anche solo per un giorno. Esattamente come l’uomo di cui racconta Jean Giono (nell’Uomo che piantava gli alberi), capace di trasformare una landa deserta, in un luogo rigoglioso, pieno di vita, grazie unicamente alle proprie risorse fisiche e morali dedicate per tutta la vita al bene di tutti e della Terra.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/02/il-seme-di-chico-gara-a-chi-pianta-piu-alberi/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Un garante del verde per difendere gli alberi delle città italiane

Il gruppo Difensori della Natura e Giacomo Castana di Prospettive vegetali lanciano una campagna per promuovere il Garante del verde, del suolo e degli alberi, una figura indipendente da istituire a livello comunale al fine di proteggere il verde pubblico e promuovere la cultura ambientale.

Gli esseri umani sono le sole creature sulla terra che tagliano degli alberi per fare della carta su cui scrivere “salvate gli alberi” (anonimo).

Vieste, Riccione, Bresso, Peschiera Borromeo,.. sono solo alcuni. Ogni giorno leggiamo di abbattimenti incontrollati – spesso giustificati da patologie degli alberi e dal solito criterio della pericolosità –, capitozzature estreme, mancata manutenzione, potature drastiche, scelte ingiustificate delle Amministrazioni pubbliche nella gestione degli alberi e del verde pubblico. Parlano di riqualificazione, termine equivoco e pericoloso per giustificare le continue mattanze di alberi a livello nazionale. Serve una svolta! Per questo – prendendo spunto dall’iniziativa del Comune di Milano, dove il consiglio comunale ha istituto la figura del “garante del verde” –, stiamo lavorando per promuovere l’istituzione in ogni Comune/città del Garante del verde, del suolo e degli alberi.

Una figura di riferimento imparziale, competente e soprattutto indipendente dalle Amministrazioni, da istituire in ogni Comune da Nord a Sud, che suggerisca soluzioni tecniche alternative e garantisca la corretta manutenzione e gestione del suolo e del patrimonio arboreo. Perché la tutela e la cura del verde devono diventare un bene comune.

L’idea sta attecchendo e in questa iniziativa non siamo soli: diversi comitati, esperti, associazioni, singoli cittadini si stanno attivando per invertire questa drammatica tendenza. Non esiste la formula giusta per delineare la figura del Garante e ogni Comune dovrà cucirla sul misura rispetto alla propria realtà.

Sappiamo però che dovrà

  • vigilare a livello cittadino sulla corretta applicazione delle normative di riferimento in materia di consumo del suolo e di tutela del verde
  • ricevere segnalazioni e reclami e promuovere azioni volte a consentire l’ascolto e la partecipazione della cittadinanza, comprese iniziative di sensibilizzazione pubblica
  • formulare proposte per il miglioramento del verde urbano
  • contribuire a garantire la salvaguardia del consumo di suolo e l’incremento del verde e degli alberi esistenti
  • attivare adeguate forme di pubblicità, diverse da quelle già stabilite dalle norme vigenti, per progetti di interventi, pubblici e privati, anche nel caso in cui sia prevista l’adozione di una variante allo strumento urbanistico vigente
  • proporre e discutere, con il supporto della Sezione Urbanistica, le eventuali modificazioni al PGT vigente
  • monitorare e verificare i dati forniti dagli uffici comunali relativi all’evoluzione del consumo di suolo e alla quantità e qualità del verde nel territorio comunale utilizzando gli strumenti di gestione degli uffici comunali e regionali di controllo
  • vigilare sull’evoluzione del consumo di suolo e sulla dotazione di superfici verdi, di alberi e sul loro incremento
  • interfacciarsi con altri Enti preposti alla tutela del verde pubblico

È arrivato il momento di essere protagonisti del nostro futuro! Per fare il punto, dare voce a chi, da tempo, a diversi livelli, si sta occupando del tema e condividere esperienze, ne parleremo in diretta Facebook sulla pagina del gruppo ambientalista Difensori della Natura in Italia il 4 marzo dalle 18:00.

Modera: Jék Castana, Giardiniere, Garden Designer e Video Maker, autore di “Botanica per tutti”, una ricerca etnobotanica che conta sulla voce di 260 esperti di tutti i rami della conoscenza, frutto di un viaggio che ha attraversato l’Italia). Considerato dall’inserto de “Il Sole 24 Ore” il più “anticonvenzionale tra i biofili” nella lista degli “Under 35” che stanno cambiando il volto all’ambientalismo italiano grazie al progetto Prospettive Vegetali.

Intervengono Rodolfo Luffarelli, avvocato, creatore ed amministratore del gruppo pubblico e della pagina Difensori della Natura in Italia; Daniele Zanzi, agronomo varesino di fama internazionale e Vicesindaco di Varese; Paolo Rava e Gabriele Mannino, Presidente e Segretario di ANAB Associazione Nazionale Architettura Bioecologica; Carlo Monguzzi, Consigliere comunale e Presidente Commissione Ambiente del Comune di Milano; Claudio Bondioli Bettinelli, Per Mantova; Maurizio Marrese di WWF di Foggia, laureato in Scienze agrarie.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/03/garante-del-verde-difendere-alberi-citta-italiane/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Ritrovare il contatto con la natura per vivere bene e in salute

Sono ormai noti i benefici che la vicinanza ad un ambiente naturale comporta per la nostra salute, intesa come stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale. Recuperare il contatto con la natura attraverso la promozione di pratiche come le immersioni forestali, proposte in Italia da A.I.Me.F., è dunque fondamentale per vivere bene.

 “Finché c’è salute, c’è speranza” e “finché c’è natura, c’è vita”. Così potrebbero essere riletti i fondamenti della nostra esistenza di esseri umani. Specie in questo periodo, in cui la salute di tutti è tanto a rischio ed è tanto legata alle sorti dell’ambiente. Ma cos’è la salute e quali fattori la promuovono? Il concetto di Promozione della Salute è stato teorizzato in varie epoche storiche, fino ad una codifica avvenuta nel 1986 ad opera dell’Organizzazione Mondiale della Sanità attraverso la Carta di Ottawa che ne fa una forma di impegno ed un obiettivo di ogni Società Civile. Nel testo, la  Salute viene definita come “il processo che consente alle persone di esercitare un maggior controllo sulla propria salute e di migliorarla”.
A che punto siamo, oggi, rispetto a questo obiettivo? È sempre più evidente che sia necessario un radicale cambio di paradigma, che avverrà forse quando inizieremo a diventare pienamente e  individualmente responsabili della nostra salute. In che modo? In primis rilanciando l’intrinseca capacità di adattamento e le risposte del nostro sistema immunitario, unica vera salvaguardia per la promozione della salute. Oltre a questo, è ormai nota a tutti l’importanza della nutrizione, della giusta idratazione, del movimento, della meditazione, del riposo e della lotta ai numerosissimi fattori stressogeni. Tutto ciò, ha un potenziale enorme di promozione della salute individuale. Accreditati studi internazionali hanno effettuato stime quantitative dell’impatto di alcuni fattori sulla longevità e la salute delle comunità. Tra questi, viene sottolineata l’incidenza dei servizi sanitari, gli stili di vita e i fattori genetici ereditari. Ma, ciò che più ci interessa mettere in evidenza, è l’importanza delle condizioni ambientali sulla salute, a cui si vorrebbe un’incidenza 20-30% (1).

Dunque, concentrare l’attenzione e le risorse sul rapporto tra salute e natura è oggi più che mai necessario se si vuole intraprendere un percorso di responsabilizzazione verso la propria salute, e quella delle persone che ci circondano.

Quali pratiche possono favorire tale rapporto, tra l’altro ancestrale e fondamentale? Molte le risposte. Una, in particolare, si caratterizza per il suo carattere innovativo ed inaspettato. Si tratta della Medicina Forestale (Forest Therapy), una scienza proveniente dall’Asia e diffusa ormai  in tutto il mondo, che sta dimostrando quanto possa essere efficace il potere terapeutico della Natura. Negli  anni ’80, il medico immunologo giapponese Qing Li e il medico ed amministratore forestale Yoshifumi Miyazaki hanno dimostrato che il semplice avvicinamento alla natura e agli alberi sia enormemente efficace nel promuovere la salute e potenziare il sistema immunitario. Le loro ricerche hanno evidenziato gli effetti calmanti, drenanti, miorilassanti, antinfiammatori, antidolorifici, antitumorali, antibatterici, antivirali e molto altro, i quali si attivano nell’organismo a seguito dell’inalazione delle sostanze volatili diffuse spontaneamente e continuamente dalle piante attraverso le foglie, la corteccia, i fiori e anche le radici. Queste sostanze, identificate a migliaia e ad oggi classificate in circa 3000 tipologie, sono definite B-VOC: Composti Organici Volatili di origine Biogenica. Sono proprio i BVOC che rendono l’ambiente forestale tanto salutare e benefico per la salute dell’ecosistema, essendo, per esempio, l’alfabeto attraverso cui gli esseri vegetali comunicano. E per noi esseri umani? A cosa si deve tanto beneficio? Per capirlo, basta guardare ai nostri antenati che si sono evoluti dentro le foreste respirando e assorbendo gli stessi B-VOC che curavano le malattie delle piante. Proprio allora è nata la prima forma di fitoterapia, branca antichissima della medicina su cui si basa oltre il 90% dei farmaci esistenti. La buona notizia è che ancora oggi, noi uomini, presunti civilizzati, conserviamo sulla nostra pelle i recettori giusti, di membrana e intracellulari, per interagire ed assorbire queste molecole volatili.

Ma, andiamo un po’ più a fondo della pratica di Forest Therapy, che niente ha a che fare con la magia o la superstizione. Tutt’altro : è scienza, ricerca ed esperienza. In Giappone, infatti, la Medicina Forestale è oggi prescritta regolarmente dai medici che raccomandano a molti pazienti lo Shinrin-yoku, traducibile con Bagno nel Bosco o Immersione Forestale, al fine di recuperare il benessere fisico e psichico mediante il lento e consapevole inoltrarsi in una foresta trascorrendo del tempo immersi nella natura a diretto contatto con gli alberi. Se opportunamente mediata da facilitatori preparati, e testata con appositi apparecchi medici, tale esperienza ha un effetto benefico per le difese immunitarie e antitumorali, per la funzionalità dei sistemi cardiovascolare, broncopolmonare, metabolico e muscolo scheletrico, oltre a combattere lo stress, di cui è cronicamente affetta la nostra società globale. Cosa prescrivere, allora, come miglior farmaco, se non la natura?! E, viceversa, come non prendersi cura di quella patologia che deriva dalla sua mancanza?! A tal proposito, il giornalista e autore Richard Louv (2), nel 2005 ha coniato il termine “Sindrome da Deficit di Natura”. Con questo concetto si riassumono tutti quei disturbi, dal diabete, all’ipertensione, la depressione, l’ansia, il deficit di memoria e le malattie neurodegenerative, riscontrati soprattutto nei cittadini abituati oggi a trascorre oltre il 95% del proprio tempo al chiuso e sotto continui stimoli di stress. Questo Deficit di Natura ci fa ammalare più facilmente facendoci divenire fragili e più soggetti all’attacco di agenti patogeni. Per fortuna, oggi, molti medici in tutto il mondo, e in piccola parte anche in Italia, stanno iniziando a fare riferimento a questa patologia prescrivendo come cura, il semplice ed economico contatto con la natura, oltre ad uno stile dai ritmi più lenti e consapevoli. In poche parole, più naturali! Ecco, allora che pratiche come i bagni di Bosco, lo Shinrin yoku, e le immersioni forestali, diventano un vero e proprio Atto Terapeutico, efficace ad ogni età e in tutte le circostanze.

Anche in Italia, dal 2018, grazie all’A.I.Me.F.,  l’Associazione Italiana di Medicina Forestale, hanno iniziato ad operare sul campo esperti facilitatori di Forest Therapy e stanno sorgendo dei Forest Bathing Center, ovvero dei luoghi qualificati e certificato dove svolgere le attività di Medicina Forestale (3). In questi luoghi, sparsi per tutta Italia, grazie all’A.I.Me.F.. è scientificamente provato che il contatto con la natura abbia un effetto benefico nella promozione della salute individuale.
Ma quanto tempo bisogna trascorrere in natura, in particolare accanto agli alberi? La medicina forestale, raccomanda almeno 4-6 ore a settimana, in ogni stagione. Ovviamente, maggiore è il tempo trascorso in foresta, in un bosco o un parco urbano, maggiori saranno i benefici a vantaggio del sistema immunitario, l’aumento delle capacità di adattamento e la promozione dei meccanismi di autoguarigione. Tuttavia, è possibile mantenere attivi gli effetti salutari della forest therapy trascorrendo anche solo 30-40 minuti ogni giorno in quei luoghi. Quindi l’invito è di favorire sempre più il processo di riavvicinamento alla natura. In fondo, come esulta il motto dell’A.I.Me.F.: “La natura siamo noi!”.

Note:

  1. Influenzano salute e longevità soltanto per il 10-15%, mentre gli stili di vita contribuiscono per il 40-50%, e i fattori genetici ereditari per un altro 20-30% (Canciani L., Struzzo P.L., 2011. La Promozione della Salute, capitolo in Gasbarrini Cricelli: Trattato di Medicina Interna. Verducci Editore, Roma)
  2. Richard Louv. Last Child in the Woods: Saving Our Children from Nature-Deficit Disorder 2005
  3. Zavarella P., Sigismundi G., Dell’Aquila L., MANIFESTO della Medicina Forestale. Edizioni A.I.R.O.P. 2019.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/01/ritrovare-contatto-natura-per-vivere-bene-in-salute/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Manu Manu Riforesta! In Salento si piantano alberi per combattere monocolture e desertificazione

Il territorio salentino è fortemente minacciato dalla desertificazione, dal fenomeno del disseccamento rapido delle piante, dal batterio della Xylella e dallo sfruttamento scellerato del territorio anche attraverso l’uso massiccio di pesticidi. Per combatterli è nata dal basso Manu Manu Riforesta!, un’associazione che porta avanti un progetto di piantumazione di una foresta nella storica area dei Paduli e che, anche attraverso l’espressione artistica, si batte per difendere la biodiversità del territorio.

 “Il Salento è nudo, ha perso le sue chiome, ha perso il suo ossigeno, ha perso la sua ombra. Vogliamo piantare alberi, ricreare la biodiversità, contrastare la desertificazione, lasciare un’Eredità Verde a chi verrà dopo di noi”.

Da millenni l’arte accende le coscienze, risveglia gli animi più intorpiditi, smuove montagne con la forza delle immagini e delle parole. È arte raccontare una storia, volteggiare con leggiadria su un palco o scattare una foto. Ma è arte anche piantare un albero. La creatività artistica è ciò che ha ispirato gli attivisti e le attiviste di Manu Manu Riforesta!, il progetto che sta cercando di difendere il Salento dallo scempio di chi, ormai da decenni, vede la sua Natura un tempo rigogliosa come un mero serbatoio di risorse da sfruttare. In collaborazione con Ada Martella, responsabile comunicazione dell’associazione, abbiamo approfondito il discorso, coinvolgendo anche Bruna Rotunno, fotografa, regista e autrice del cortometraggio “Canto e Controcanto”, realizzato per ManuManu Riforesta!.

Alcuni soci dell’associazione in un’immagine della campagna della campagna fotografica “Ritratti di Manu Manu” (foto di Basilio Puglia CRIO VISION) 

Com’è nata l’associazione e con quali finalità?

Manu Manu Riforesta! si è costituita nell’inverno del 2019, quando un gruppo di amici molto affiatati e attivo già da decenni nell’ambito delle numerose urgenze ambientali ha deciso di cambiare strategia: non solo combattere per difendere, ma creare. Fare una foresta qui in Salento, dove è in corso una catastrofe ambientale: 11 milioni di ulivi sono moribondi, hanno perso completamente le loro chiome, non producono più ossigeno e non fanno più ombra a una terra in corso di desertificazione da decenni. Come agiredunque? Seguendo il motto salentino: manu manu, ossia piano piano. Perché bisogna avere molta pazienza quando hai come obiettivo quello di creare una foresta, i cui tempi non sono propriamente quelli di una generazione umana. Perché ci vuole tempo per ritrovare l’abitudine a piantare alberi che i salentini hanno perso da generazioni, perché si sono trovati con un patrimonio di ulivi centenari e perché la mania della monocoltura è entrata nel loro DNA. L’intento dell’associazione è quello di contrastare la monocoltura e ricreare la biodiversità realizzando una agro-foresta, dove ci sia spazio per boschi di querce, roverelle, carpini, frassini, ma anche per frutteti minori, macchia mediterranea, piccoli orti. Con la certezza che la biodiversità, attraverso la rigenerazione dei suoli impoveriti – martoriati negli ultimi quarant’anni da pesticidi, diserbanti, discariche abusive, falde acquifere prosciugate con centinaia di pozzi abusivi – possa essere l’unica via per salvare i milioni di alberi di ulivi gravemente ammalati, manu manu. Manu Manu Riforesta!, il punto esclamativo rafforza l’intento e richiama all’urgenza di fare qualcosa per ridare ossigeno al Salento e lasciare un’eredità verde a chi verrà dopo di noi. Con l’aiuto delle comunità locali, degli enti locali e di tutti coloro che hanno a cuore l’ossigeno del pianeta.

Qual è la provenienza di chi partecipa all’iniziativa? Come vi siete incontrati?

Il terreno comune dei soci è stata l’esperienza della battaglia ambientalista ultra decennale contro il progetto di una gigantesca autostrada inutile, la s.s.275 Maglie – S.M. di Leuca, una maxi-speculazione cementizia ai danni del Basso Salento. Ed è il Capo di Leuca – il finibus terrae – il luogo di provenienza della maggior parte di loro, anche se alcuni sono salentini adottati, francesi, austriaci, tedeschi o nord italiani che hanno deciso di mettere radici in Salento, in tutti i sensi!

Prima piantumazione di Manu Manu Riforesta! nel terreno dei Kurumuni

Puoi descriverci le caratteristiche le caratteristiche della zona dei Paduli? Perché secondo voi è così importante recuperarla?

Il paesaggio che vediamo oggi – distese interminabili di ulivi – e che caratterizza il Sud della Puglia non è sempre stato così. Fino a non molto tempo fa, il Salento era ricco di boschi. Uno di questi era l’antico Bosco Belvedere, oggi noto come Paduli, una foresta plurimillenaria risalente al periodo post-glaciale. Con i suoi settemila ettari, nel cuore del Basso Salento era un vero paradiso della biodiversità e ospitava ogni tipo di querce, frassini, olmi, carpini, castagni, piccole paludi, frutteti. Fu letteralmente spazzato via a partire dalla metà dell’800, quando venne introdotta la monocoltura dell’olivo. La necessità era quella di soddisfare la richiesta delle grandi capitali europee di illuminare le strade con l’olio lampante, prima che venisse scoperto il petrolio. La caratteristica del Paduli è che la sua perimetrazione è rimasta invariata nel tempo – la foresta di querce venne sostituita con una ‘foresta’ di ulivi – così da aver sempre rappresentato il polmone verde di questo lembo di terra chiuso tra due mari. Ma questo polmone ora non è più verde, non produce più ossigeno, per via del problema del CoDiRO (disseccamento rapido) aggravato dal batterio Xylella che ha colpito gli ulivi.

All’interno dell’area meridionale dei Paduli è stato disegnato un cerchio ideale che rappresenta il campo d’azione del progetto Manu Manu Riforesta!. Il “cerchio rosso” racchiude circa 300 ettari di uliveti ammalati, molti di quali in stato di abbandono, ma con qualche sparuta e preziosa presenza di querce centenarie, memoria dell’antico bosco. Ed è proprio con le ghiande di questi patriarchi sopravvissuti che è stata avviata la “nursery di comunità”, coinvolgendo le comunità locali e con la collaborazione dell’Università di Lecce e del suo Orto Botanico, per coltivare la futura foresta. C’è poi un vero e proprio gioiello all’interno del “cerchio rosso”: l’area Padula Mancina, designata dal Progetto Europeo Habitat come area ZSC (Zone di Speciale Conservazione) poiché include tre stagni temporanei di particolare pregio paesaggistico. Uno di essi, il Bosco Don Tommaso, è il primo terreno acquistato da Manu Manu Riforesta!, grazie alla campagna di donazioni avviata nell’estate di quest’anno.

La creatività è un aspetto centrale nel vostro progetto: perché questa scelta?

Cosa accade quando si è testimoni di una catastrofe ambientale, paesaggistica, sociale ed economica? Si mette in moto l’immaginazione che, insieme all’istinto di sopravvivenza, fa sì che si possa arrivare a una visione che non miri unicamente a sostituire le piante malate, ma anche a creare un nuovo modello di paesaggio, agricoltura, turismo, economia, con tutto ciò che comporta sul piano sociale. I visionari per eccellenza sono i creativi e la Riforestazione è un atto creativo. All’interno di Manu Manu Riforesta! molti dei soci sono musicisti, attori, scrittori, fotografi, videomaker e la stessa presidente dell’associazione – Ingrid Simon – è un’artista visiva, ma tutti hanno l’uso di piantare e coltivare, poiché hanno un giardino o un’azienda agricola. La riforestazione, dunque, diventa un progetto complesso, articolato, poiché il lavoro di agro-forestazione – studio del territorio, pianificazione delle piantumazioni, cura delle stesse – si interseca e si somma con quello di coinvolgimento delle comunità attraverso la divulgazione tramite il sito, le pubblicazioni, il cortometraggio, le interviste agli anziani contadini e così via. La riforestazione è un’urgenza percepita da chiunque stia vivendo l’apocalisse degli ulivi, poiché – prendendo in prestito un verso del poeta Salvatore Toma – “[…] il selvatico che è in noi prevarrà”. Lo dimostra l’effetto “Pronto, Manu Manu?”: centinaia di messaggi e telefonate – attraverso la pagina facebook molto attiva – come se l’associazione stessa fosse diventata un elemento attrattore di tutte le speranze di verde che nessuno ha mai raccolto. Tra i tanti che offrono piante, braccia per coltivare, terreni per riforestare, ci sono anche i creativi, gli artisti che mettono a disposizione di Manu Manu Riforesta! la propria professionalità. Così è nato il progetto del cortometraggio “Canto e Controcanto”, scritto e diretto da Bruna Rotunno e con il ballerino solista della Scala Gabriele Corrado, e diversi altri progetti messi in cantiere.

Puoi raccontarci qualcosa di più sul cortometraggio “Canto e Controcanto” che sarà trasmesso il 15 dicembre?

(Risponde Bruna Rotunno, che ha scritto e diretto il cortometraggio) Vivo in Salento per metà dell’anno e ho visto morire uno a uno i miei ulivi centenari senza poter far nulla. Durante una piacevole serata salentina, la scorsa estate, ho conosciuto alcuni dei volontari dell’associazione Manu Manu Riforesta! e sono venuta a conoscenza del loro progetto e della loro caparbia e accorata visione. Il giorno dopo ho visitato con loro i terreni che avevano acquisito, ove già erano presenti alcuni alberi appena piantumati, affianco a oliveti secchi e bruciati. È scoppiata una scintilla di emozionante ed empatica intesa col progetto Manu Manu. Basta sconforto e staticità davanti ai milioni di ulivi morti….è tempo di fare qualcosa, tutti. È nata cosi l’idea di un film da girare nei territori distrutti dall’apocalisse del CodiRo e della Xylella. Anche il ballerino solista della Scala Gabriele Corrado, salentino, aveva avuto modo di conoscere il progetto e innamorarsene, mettendosi a disposizione per eventuali iniziative a sostegno di Manu Manu Riforesta! Al team del corto si è aggiunto il violoncellista Redi Hasa, anch’esso residente in Salento da vent’anni, che ha messo a disposizione alcuni brani tratti dal suo disco appena uscito. Rachele Andrioli, magica voce salentina, è entrata nel team come vocalist. Fabrizio Saccomanno, attore e regista teatrale, ha prestato la sua voce narrante. Il film mostra la realtà dell’annullamento quasi totale del patrimonio storico degli ulivi, ma anche la possibilità di evolvere da una situazione drammatica attraverso la creatività e l’azione mirata alla rinascita delle antiche foreste preesistenti. Gli occhi e i movimenti di Gabriele Corrado ci conducono attraverso la desolazione dei territori dove gli olivi sono seccati, eradicati, carbonizzati, per arrivare alla verde rinascita della zona Viva, nella quale si sta attuando il progetto di Manu Manu Riforesta! Ombra e luce, distruzione e rinascita, morte e vita. Canto e Controcanto.

Bruna Rotunno nel backstage del cortometraggio (foto di Ada Martella)

Cosa può fare chi ci legge per sostenere la causa che portate avanti?

Manu Manu Riforesta! è un’associazione senza scopo di lucro, i cui soci prestano le proprie braccia e le proprie professionalità per realizzarne gli intenti. Acquisire i terreni abbandonati, piantumare, la cura nel tempo, il lavoro di divulgazione per sensibilizzare e mettere in atto la “forza centripeta dei Paduli”: riportare le comunità in quel territorio che un tempo era un paradiso della biodiversità e che ora è un luogo quasi del tutto abbandonato. Ad oggi, i terreni acquisiti – acquistati, donati o in comodato d’uso – coprono un’area di poco più di 6 ettari, il progetto-pilota di tre anni prevede di arrivare a 6 ettari. Per questo abbiamo bisogno di aiuto. È semplice, basta visitare il nostro sito e con un semplice click su DONA ORA chiunque potrà contribuire a ridare ossigeno al Salento.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/12/manu-manu-riforesta-salento-alberi-combattere-monocolture-desertificazione/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Vaia, la startup che pianta nuovi alberi nei boschi delle Dolomiti distrutti dalla tempesta

Per commemorare il secondo anniversario del disastro causato dalla tempesta Vaia, domenica 25 ottobre l’omonima startup pianterà sull’altopiano di Piné 726 nuovi alberi, uno per ogni giorno trascorso da quei momenti. L’evento vuole celebrare la rinascita di una comunità resiliente e si inserisce nell’impegno dell’azienda a piantumare 50mila alberi entro la fine del 2021. Con raffiche di vento che hanno raggiunto i 190 km/h, la tempesta Vaia ha raso al suolo interi boschi, spazzando via 8,5 milioni di metri cubi di legname e causando danni economici per 630 milioni di euro. E soprattutto, ha sconvolto il panorama di vaste aree di quelle stesse Dolomiti che dal 2009 fanno parte del Patrimonio Mondiale UNESCO. Per commemorare i due anni dal passaggio della tempesta che spazzato via 40 milioni di alberi, la startup trentina Vaia organizza un evento di riapiantumazione nel quale verrà piantato un albero per ogni giorno passato dalla tempesta, per cui 726 alberi.

Il team di Vaia

La startup VAIA nasce proprio dal desiderio di Federico Stefani, ventinovenne trentino, di aiutare il suo territorio e la sua comunità a rialzarsi dalla devastazione della tempesta. Insieme a Giuseppe Addamo e Paolo Milan, Stefani decide di fondare la startup VAIA per recuperare il legno degli alberi abbattuti dalla tempesta e trasformarlo in un prodotto d’eccezione. Contribuendo ad alimentare un nuovo modo di fare impresa, in un’ottica di arricchimento per la società e l’ambiente. L’oggetto ideato dalla startup è il VAIA Cube, amplificatore passivo costruito artigianalmente (la cassa viene realizzata da artigiani e falegnami locali) che permette di propagare in modo completamente naturale qualunque suono emesso da uno smartphone. Ogni cubo è un pezzo unico e di piccole dimensioni (10 cm per lato), prodotto unicamente con il legno recuperato dagli alberi caduti: l’esterno è realizzato in abete della Val di Fassa, un pregiato tipo di abete rosso da sempre utilizzato per produrre i violini, mentre l’interno è in larice.

Per Federico Stefani “il VAIA Cube è un esempio concreto di come sia possibile produrre senza sprecare preziose materie prime, e rispondendo concretamente alle conseguenze dei cambiamenti climatici”. Allo stesso tempo, l’amplificatore punta anche a mantenere alta l’attenzione sull’emergenza climatica. Attraverso il VAIA Cube, la startup vuole consegnare alle persone una storia, un oggetto di design frutto di un progetto più ampio e basato sui valori di tutela dell’ambiente e sostenibilità, un simbolo di resilienza e fiducia nel futuro. La startup, i cui tre fondatori sono stati inseriti da Forbes Italia nella classifica “100 Number One – L’Italia dei giovani leader del futuro”, punta a piantare nelle zone colpite dalla tempesta un nuovo albero per ogni Vaia Cube venduto, e a piantumare 50mila alberi entro la fine del 2021.

L’ultima ripiantumazione di quest’anno prima dell’inizio della stagione invernale si terrà domenica 25 ottobre sull’altopiano di Pinè, in Trentino, dove saranno messi a dimora 726 alberi: uno per ogni giorno trascorso dalla tempesta Vaia. Secondo Paolo Milan, “amplificare i suoni in modo naturale attraverso il legno è una metafora forte e concreta per risvegliare la coscienza collettiva. I recenti eventi climatici ci stanno dimostrando che dobbiamo necessariamente riconsiderare il nostro modo di produrre, e soprattutto il nostro modo di consumare, restituendo una giusta priorità all’ambiente e alla natura”.

La ripiantumazione sull’altopiano di Pinè sarà trasmessa in streaming sui canali social di Vaia a partire dalle 10:00 di domenica 25 ottobre. Saranno proposti anche contenuti aggiuntivi, interviste ai fondatori e al team della comunità di VAIA, nonché agli artigiani che realizzano il prodotto.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/10/vaia-startup-pianta-alberi-dolomiti-distrutti-tempesta/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Cnr: pochi alberi e consumo di suolo favoriscono le ‘isole di calore urbano’

Lo studio condotto dal Cnr-Ibe e Ispra rivela come il consumo di suolo e la scarsa copertura arborea incide sulla formazione delle isole di calore urbano specialmente d’estate. Uno studio coordinato dal Cnr-Ibe, svolto in collaborazione con Ispra e pubblicato su Science of the Total Environment svela come l’intensità delle isole di calore estive è particolarmente elevata nelle città metropolitane dell’entroterra e cresce con l’aumentare, nel nucleo centrale della città, dell’estensione delle superfici con ridotta copertura arborea e forte impermeabilizzazione.  Oltre la metà della popolazione mondiale vive oggi nelle città, ed è per questo motivo che viene dedicata sempre maggiore attenzione agli studi che indagano la vivibilità degli ambienti urbani. In Italia le persone che vivono in città sono 42 milioni, circa il 70%. L’ecosistema urbano si caratterizza per due elementi fondamentali: le superfici vegetate e quelle impermeabili (consumo di suolo). Il giusto compromesso tra la quantità di questi due elementi influenza la composizione del paesaggio urbano, modificando anche il microclima e favorendo un fenomeno tipicamente urbano noto come “isola di calore urbana”. Con questa definizione si intendono le zone centrali delle città sensibilmente più calde delle aree limitrofe o rurali.

A condurre la ricerca sono stati i ricercatori dell’Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche di Firenze (Cnr-Ibe), in collaborazione con i ricercatori dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). “Lo studio è stato condotto sul periodo diurno estivo, analizzando per la prima volta l’influenza della copertura arborea e del consumo di suolo nel favorire l’isola di calore urbana superficiale nelle 10 città metropolitane dell’Italia peninsulare”, spiega Marco Morabito del Cnr-Ibe e coordinatore del lavoro. La ricerca ha preso in considerazione la città composta dal suo nucleo metropolitano, rappresentato dal comune principale, dai comuni confinanti e da quelli periferici; sono stati esaminati inoltre la quota, la distanza dal mare e la dimensione della città. “Sono stati utilizzati dati satellitari di temperatura superficiale, riferiti al periodo diurno estivo dal 2016 al 2018, mentre utilizzando i dati ad alta risoluzione sviluppati da Ispra è stato possibile comprendere l’influenza del consumo di suolo e della copertura arborea”, aggiunge Michele Munafò dell’Ispra.

 Dall’integrazione di queste informazioni, i ricercatori hanno prodotto così un nuovo strumento informativo chiamato “Urban Surface Landscape layer”, ossia un indicatore di copertura superficiale del paesaggio urbano capace di rappresentare le zone delle città caratterizzate da differenti combinazioni di densità di consumo di suolo e copertura arborea, e in grado di individuare aree critiche urbane, con elevate temperature superficiali, che necessitano di azioni di mitigazione e in particolare di una intensificazione della copertura arborea. “Lo studio dimostra che l’intensità dell’isola di calore urbana superficiale aumenta soprattutto all’aumentare dell’estensione delle aree con bassa densità di copertura arborea nel nucleo metropolitano, oppure intensificando la copertura artificiale dovuta a edifici e infrastrutture”, conclude Morabito. “Le isole di calore più intense sono state osservate nelle città dell’entroterra e di maggiori dimensioni: a Torino, un aumento del 10% nel nucleo centrale di aree con elevato consumo di suolo e bassa copertura arborea è associato a un aumento dell’intensità dell’isola di calore media estiva di 4 °C. In generale quanto più grandi e compatte sono le città, tanto maggiore è l’intensità del fenomeno isola di calore. Quest’ultimo, invece, è risultato spesso meno intenso e poco evidente nelle città costiere a causa soprattutto dell’effetto mitigante del mare”.

Fonte: ecodallecitta.it

Seminiamoli: piantiamo sui balconi gli alberi di domani!

In questo periodo di quarantena piantiamo nei vasi sui balconi i semi della frutta che mangiamo e, quando diventeranno alberi, qualcuno li porterà nelle aree periferiche della città e se ne prenderà cura. Questo l’invito lanciato dal gruppo romano “Alberi in Periferia” che con l’iniziativa “Seminiamoli” vuole proporre un’azione semplice e concreta di tutela ambientale e partecipazione sociale.

La maggior parte di noi ricorda di aver canticchiato almeno una volta, la famosa canzone di Sergio Endrigo che diceva così:

“Per fare l’albero ci vuole il seme

Per fare il seme ci vuole il frutto

Per fare il frutto ci vuole il fiore

Ci vuole un fiore, ci vuole un fiore…”

Spesso abbiamo sotto gli occhi la soluzione, a volte è talmente piccola che non la vediamo e in questo caso, è piccola proprio come il seme di un frutto. La maggior parte delle volte i semi vengono buttati via da tutti noi senza pensare che da un singolo seme può nascere un nuovo albero di frutti. Nasce da qui l’idea di “Seminiamoli”, iniziativa lanciata dal gruppo “Alberi in Periferia”. Si tratta di un invito alle persone a piantare adesso nelle case, sui nostri balconi o nei giardini quelli che diventeranno gli alberi di domani.

“Dopo la quarantena ce ne occuperemo noi”, assicura il gruppo, invitando così a dar vita ai semi della frutta, piantandoli e prendendosene cura finché diventeranno dei piccoli alberi. Il gruppo, infatti, si occuperà poi di piantarli, portando avanti un progetto nato circa un anno fa e che ha dato vita a più di cento alberi piantati in contesti urbani e nelle zone periferiche di Roma. Abbiamo parlato con Andrea Loreti, uno dei fondatori del progetto ed ecco cosa ci ha raccontato.

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Come è nata l’idea di Alberi in periferia?

Abbiamo sentito l’urgenza di fare qualcosa di concreto. Abbiamo pensato a un progetto che poteva unire tre pilastri per noi molto importanti: Ecologia, comunità e cultura.

In che modo piantare alberi ha contribuito a dare un contributo a temi così importanti?

Dal punto di vista dell’ecologia, gli alberi sono un vero toccasana per tutti noi, producono ossigeno e assorbono anidride carbonica, fanno da filtro permettendoci di respirare aria pulita. Abbiamo pensato anche al grande valore che avrebbero avuto soprattutto in luoghi di periferia che avevano la necessità di essere recuperati.

Da qui il contributo sociale?

Esatto, abbiamo coinvolto associazioni no profit che si occupano dei minori e dei ragazzi che vivono in contesti difficili. Abbiamo passato con loro delle bellissime giornate all’aperto facendoli partecipare attivamente con zappe e rastrelli nel piantare gli alberi, creando così qualcosa di importante per loro e per il loro futuro. Posso citarti alcuni di questi progetti importanti, come Il parco di fronte alla Pecora elettrica (libreria della periferia di Roma, Centocelle, incendiata il 25 aprile scorso) dove insieme ai bambini abbiamo piantato alberi di ulivo; Il Polo ex Fienile di Tor Bella Monaca, all’interno del progetto TOY for Inclusion e in collaborazione con l’Associazione 21 Luglio i ragazzi hanno partecipato attivamente e hanno piantato 15 alberi: a La Romanina, zona Tor Vergat , sono stati piantati alberi davanti alla scuola IC Raffaello con la collaborazione del Movimento per la decrescita felice. Tutti questi sono per noi esempi molto importanti perché ogni persona è mossa dal desiderio di fare qualcosa di concreto per la comunità in modo totalmente volontario (noi per primi ci autofinanziamo) ma quello che ci muove è la speranza che crea una rete sociale che resiste anche in contesti difficili. È stato bellissimo vedere i ragazzi impegnati a piantare gli alberi e hanno poi dato un nome a ciascuno.

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Come vi autofinanziate?

Qui entra in gioco l’aspetto culturale. Come anticipavo non facciamo tesseramento e non riceviamo alcun tipo di finanziamento. Organizziamo delle serate di teatro, musica e racconti di poesie. Gli artisti danno il loro contributo in forma completamente gratuita e ogni singolo Euro raccolto dalle serate viene utilizzato per acquistare gli alberi.

E ora parliamo dell’iniziativa “Seminiamoli”

Anche in questa occasione abbiamo pensato a come poter portare avanti il nostro progetto nonostante il periodo che stiamo vivendo tutti. Abbiamo così avuto questa idea, quella di piantare nelle nostre case i semi della frutta: piantiamo oggi gli alberi di domani.

Sulla nostra pagina Facebook abbiamo creato un tutorial che spiega esattamente come fare e quali frutti scegliere. Quando questo periodo sarà passato, ce ne prenderemo cura noi, verranno raccolti e ripiantati nelle aree di periferia aperte a tutti. La tua frutta darà i suoi frutti.

Cosa può fare chi non vive a Roma, dove si trova il vostro gruppo, e non ha spazio per curare le piante una volta diventate grandi?

Può piantarle nel cortile condominiale o donarle a qualche associazione no profit che ha lo spazio o la disponibilità per prendersene cura.

Qual è il vostro obiettivo?

In realtà il nostro primo traguardo l’abbiamo raggiunto e ci ha reso estremamente felici. Quando abbiamo iniziato, ci eravamo dati l’obiettivo di piantare cento alberi in contesti urbani e ce l’abbiamo fatta. Con il contributo delle associazioni che lavorano ogni giorno in contesti difficili e i ragazzi dei quartieri che hanno creduto nel nostro progetto siamo riusciti a creare e a diffondere qualcosa di pratico, tangibile e simbolico. Ora vorremmo continuare a farlo, soprattutto dove ce n’è più bisogno. Come diciamo spesso, “se vogliono il deserto, pianteremo partecipazione”. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/04/seminiamoli-piantiamo-sui-balconi-alberi-domani/?utm_source=newsletter&utm_medium=email