Inceneritori, nuova ricerca Zero Waste Europe rivela: ambiente circostante contaminato da sostanze altamente tossiche

Una nuova ricerca pubblicata da Zero Waste Europe (ZWE) sugli inceneritori di tre paesi – Spagna, Repubblica Ceca e Lituania – ha rilevato un alto livello di contaminazione in prossimità degli impianti. Lo studio ha utilizzato campioni di biomarcatori accuratamente raccolti nelle aree intorno agli inceneritori, come uova di polli da cortile, aghi di pino e muschi, trovando diossine e altri inquinanti molto dannosi per la salute

Se ci fosse ancora qualche dubbio sull’impatto ambientale degli inceneritori, anche quelli di ultima generazione spesso presentati come innocui, ecco che l’ultima ricerca di Zero Waste Europe li dissipa completamente. Per valutare l’impatto reale dell’incenerimento dei rifiuti, il network ambientalista ha affidato alla ToxicoWatch Foundation una ricerca di biomonitoraggio, che ha analizzato la presenza di inquinanti organici persistenti (POP) nei dintorni degli inceneritori di Valdemingómez in Spagna, di Pilsen in Repubblica Ceca e di Kaunas in Lituania.

Lo studio ha utilizzato dei “saggi biologici”, un metodo analitico per determinare la concentrazione o la potenza di una sostanza in base al suo effetto su animali, piante, cellule o tessuti viventi. Sono stati usati dei campioni di biomarcatori accuratamente raccolti nelle aree intorno agli inceneritori, come uova di polli da cortile, aghi di pino e muschi.

La ricerca ha rilevato che:

  • La maggior parte delle uova analizzate supera i limiti definiti dall’UE per la sicurezza alimentare come regolamentato dalla Direttiva UE 2012/711/UE
  • Un’alta percentuale di uova supera il livello di sicurezza per il consumo. Se queste uova fossero state destinate al mercato commerciale, sarebbero state ritirate
  • L’analisi della vegetazione, degli aghi di pino e dei muschi in prossimità degli inceneritori mostra alti livelli di diossine. Questo significa che le persone che vivono nelle vicinanze degli impianti potrebbero subire se danni se mangiassero verdure coltivate in questi terreni

La ricerca mette in guardia sugli impatti per la salute umana dell’attuale strategia di incenerimento e sottolinea l’incompatibilità dell’attuale strategia di incenerimento pesante con l’agenda dell’Unione Europea per l’inquinamento zero. Fornisce inoltre un segnale di avvertimento per la contaminazione dell’ambiente con sostanze tossiche altamente dannose per la salute umana e l’ambiente, come diossine (PCD/F), diossina-simili/PCBIPA e PFAS.

Janek Vähk, coordinatore del programma per il clima, l’energia e l’inquinamento atmosferico di ZWE, ha affermato che è urgente valutare il reale impatto dell’incenerimento dei rifiuti sulla salute umana e sull’ambiente. Le persone che ci vivono vicino devono essere rassicurate sui loro rischi per la salute e sulla sicurezza degli impianti stessi.

Sulla base delle conclusioni del rapporto, ZWE e il gruppo del progetto di ricerca raccomandano vivamente di:

  • Rendere obbligatoria la ricerca sul biomonitoraggio per tutti gli stabilimenti di incenerimento presenti in tutta Europa
  • Inviare la misurazione continua delle diossine clorurate e bromurate anche in condizioni diverse dalle normali, come avviamenti, arresti e incidenti tecnici
  • Mettere una moratoria sui nuovi progetti di incenerimento dei rifiuti e sviluppare piani di eliminazione graduale per quelli esistenti
  • Promuovere e finanziare alternative circolari, sane e sostenibili all’incenerimento dei rifiuti
  •  
  • Leggi il reposrt completo “The True Toxic Toll – Biomonitoring of waste incinerator emissions” .

Fonte: ecodallecitta.it

Pitaya: «Realizzo assorbenti lavabili per diffondere consapevolezza e sostenibilità»

Laura ha deciso di fare delle sue scelte consapevoli durante i giorni di ciclo mestruale una nuova missione di vita. Ha imparato a usare la macchina da cucire e ha creato il progetto Pitaya: ora produce assorbenti lavabili tutti realizzati a mano e diffonde consapevolezza sul rapporto con il proprio corpo e sull’impatto ambientale. Per dire basta alla plastica e all’usa e getta!

Genova – Ligure d’adozione, milanese di origine, Laura lavora da sei anni come tecnico ambientale in una ONG italiana nata nel 2012, Source International, che studia gli impatti sociali e ambientali delle attività di estrazione in diversi territori, come quelli con monocolture di palma da olio. L’intento è quello di valorizzare le risorse naturali locali e supportare le comunità e organizzazioni presenti in loco. Amante dell’ambiente, che fa parte della sua vita a 360°, sia nel tempo libero che sul lavoro, da qualche tempo Laura ha espresso questa sua sensibilità anche in una nuova attività: Pitaya – Autoproduzioni naturali, un progetto nato per offrire prodotti realizzati a mano e a basso impatto ambientale. Lontani dalle fabbriche, vicini alle persone.

LA STORIA

«Durante il lockdown – racconta Laura – mi sono resa conto di quali sono le cose realmente necessarie nella vita e mi sono detta che ognuno dovrebbe almeno provare a essere autosufficiente. Ho deciso quindi di imparare a produrmi da sola le cose di cui ho bisogno».

Complice il tanto tempo libero, Laura decide di adattarsi a un nuovo stile di vita, improntato sull’attenzione al proprio impatto e sul desiderio di fare da sé. Da dove iniziare? Lei ha scelto gli assorbenti lavabili come punto di avvio. Comincia subito a lavorare con una macchina da cucire regalatale da un’amica, crea cartamodelli e produce i primissimi campioni con stoffe di riciclo. «Anche se uso da tempo la coppetta mestruale, ci sono giorni in cui il ciclo è particolarmente doloroso e ho la necessità di usare gli assorbenti, scegliendo però quelli a basso impatto».

Oltre agli assorbenti, Laura ora dà vita anche a giochi per neonati plastic-free in pannolenci, borse in tessuti originali del Mozambico e dischetti struccanti lavabili: «Ho iniziato con materiali di recupero, come spugne, pile e asciugamani. Poi è partito il passaparola, amiche delle amiche hanno iniziato a interessarsi ed è nato il progetto Pitaya».

Da lì prende corpo l’idea di farlo diventare una professione che occupi di più le sue giornate. «Un’amica mi ha disegnato il logo, poco dopo ho creato la pagina Facebook e ho iniziato al tempo stesso a cambiare materiali: ora uso esclusivamente cotone organico biologico».

I prossimi step? Iscriversi a Etsy e iniziare a partecipare ai mercatini dell’artigianato. Nel frattempo Pitaya sta diventando anche un canale di divulgazione dei temi ambientali, per sensibilizzare sempre più persone sull’impatto degli oggetti in plastica usa-e-getta.

I VANTAGGI DEGLI ASSORBENTI LAVABILI

«Certo, con il recente abbassamento dell’IVA, ora ci si sta rendendo conto che gli assorbenti femminili non sono beni di lusso, ma di prima necessità. Ma facendo un rapido calcolo, il confronto economico tra lavabili e usa-e-getta resta comunque impari: considerando che una donna in età fertile utilizza una ventina di assorbenti al mese, nella vita ne userà circa 11.000, spendendo complessivamente almeno 5/6mila euro. Con quelli lavabili ne bastano 5/6 per ciclo, più un paio salvaslip: in 35 anni quindi, contando che ogni assorbente ha una vita media di 5 anni, si spenderebbe sui 600 euro».

Alcuni assorbenti lavabili Pitaya

Oltre al discorso economico c’è poi la questione sanitaria e ambientale. Recentemente è uscito un dossier dell’ANSES, l’Autorità francese per la sicurezza sanitaria, in cui attraverso studi a campione sono stati rilevati pesticidi, glifosato, cloro e diossine all’interno degli assorbenti usa-e-getta. Sostanze tossiche a diretto contatto con la pelle, in una zona del corpo che è delicatissima.

«Dal punto di vista ambientale parliamo di un oggetto che viene usato per 2/3 ore e poi viene buttato nell’indifferenziata per finire in discarica. E lì resta 500 anni. Per tutti questi motivi è urgente iniziare a cambiare stile di vita».

UNA NUOVA CONSAPEVOLEZZA

Grazie a una consulente mestruale, Laura nel contempo ha acquisito una nuova consapevolezza sul ciclo. Avere coscienza di sé, per conoscersi meglio e imparare ad ascoltare il proprio corpo, è diventata una sua personale missione per avvicinare sempre più ragazze al tema.

«Sono tantissime le donne, anche giovanissime, che hanno un blocco forte su questo argomento, che però ritengo sia facilmente superabile se si pensa che con un piccolo cambio di abitudine si contribuisce a ridurre l’inquinamento, ma anche a volersi bene, evitando al proprio corpo di entrare in contatto con gli svariati materiali plastici con cui sono realizzati gli assorbenti monouso». L’esperienza di Laura suggerisce un insegnamento semplice: le soluzioni per cambiare ci sono, basta solo volerlo!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/10/pitaya-assorbenti-lavabili/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Dal turismo di massa alla deforestazione, ecco come la speculazione minaccia montagne e foreste italiane

Dal progetto di deforestazione del monte Terminillo al nuovo testo unico sulle foreste, passando per una scellerata gestione dell’economia montana imperniata su speculazione, cementificazione e deforestazione. Con il professor Bartolomeo Schirone facciamo il punto della situazione su ciò che sta avvenendo sulle montagne italiane, un patrimonio oggi in grave pericolo. È un momento durissimo per le montagne italiane e le foreste di cui questi maestosi giganti sono ammantati. La proverbiale e diabolica accoppiata fra economia speculativa e politica sta sferrando duri attacchi al nostro patrimonio forestale, minacciando l’ecosistema montano e i delicati equilibri ambientali, ma anche sociali, che esso custodisce. Ultimo in ordine di tempo, il provvedimento che prevede l’abbattimento di diversi ettari di faggeta sul monte Terminillo, allo scopo di guadagnare superficie utile per ampliare gli impianti sciistici del comprensorio. Ne abbiamo parlato con il professor Bartolomeo Schirone, coordinatore del Corso di Laurea in Scienze della Montagna presso l’Università della Tuscia.

Il Terminillo è sotto attacco: per realizzare il complesso sciistico si prevede il taglio di 17 ettari di faggeto, con esemplari anche ultracentenari. Cosa ne pensa?

La superficie da assoggettare al taglio sembrerebbe essere minore e non dovrebbe toccare la parte più vecchia (vetusta) della foresta, ma la natura del problema non cambia. Si tratta di un progetto che è nato male perché rispecchia logiche di “valorizzazione“ economica ormai superate sia perché assolutamente incompatibili con la sostenibilità ambientale sia perché scarsamente remunerative anche in una visione strettamente speculativa. Tutti gli indicatori climatici concordano nel prevedere, al di là di fenomeni episodici come l’abbondante nevicata di quest’anno, un futuro con temperature invernali sempre più calde e periodi di innevamento sempre più brevi. Perciò, puntare sullo sci alpino per assicurare lo sviluppo del Terminillo sembra per lo meno azzardato. Per meglio dire, insensato.

Ultimamente si stanno levando diverse voci di dissenso nei confronti della gestione turistica delle nostre montagne, giudicata troppo invasiva. Lei è d’accordo con queste accuse?

Le montagne, e più in generale le aree interne, rappresentano la sola “riserva” di territorio che rimane all’Italia dopo il loro progressivo abbandono determinato dalla crescita economica delle città e delle zone industrializzate. Lì vi sono le condizioni utili a conservare la biodiversità ancora intatta e gli ecosisistemi meno compromessi ossia quelli in grado di mitigare – per quanto possibile – il riscaldamento globale in atto. L’assalto a queste aree, camuffato da sviluppo e per certi versi avallato anche dalla Strategia Nazionale per le aree interne, andrebbe evitato in tutti i modi perché altre “riserve” non ne abbiamo. Ovvio, quindi, che anche il turismo debba essere contenuto e indirizzato verso forme di alta responsabilità. Al momento, salve qualche rara e timida eccezione, il modello di sviluppo turistico che si propone non si discosta molto da quello tradizionale.

Pensa che possa esistere una via di mezzo virtuosa per sostenere l’economia montana senza avere un impatto ambientale troppo elevato sui territori?

Ne sono convinto ed è ciò che cerchiamo di insegnare nel Corso di laurea in Scienze della Montagna che dirigo presso la sede reatina dell’Università della Tuscia. Alla base di tutto vi deve essere una attenta e corretta pianificazione del territorio impostata sulla conoscenza approfondita degli ecosistemi e delle risorse naturali di ciascuna area. Ne deriva che, per prima cosa, occorre porre attenzione alle professionalità chiamate a svolgere questa azione. Non possono essere, ad esempio, ingegneri che non hanno alcuna conoscenza del funzionamento degli ecosistemi (ciò vale anche per gli ingegneri ambientali perché questi argomenti richiedono studi di base specifici ed articolati), ma nemmeno agronomi che conoscono benissimo il funzionamento delle piante e dei sistemi produttivi, ma ben poco sanno delle regole che governano la vita dei sistemi naturali “autonomi” cioè che si perpetuano senza l’aiuto dell’uomo. Ovviamente, in un lavoro complesso come la pianificazione territoriale su base ecologica anche queste figure possono svolgere un ruolo determinante, ma sempre ancillare rispetto a chi gli ecosistemi li ha studiati a fondo. Questi possono apparire giudizi molto duri ma, a prescindere dal fatto che sono rivolti alle categorie e non ai singoli, la situazione del nostro ambiente è tale da non ammettere compromessi. La gestione dell’ambiente naturale è cosa estremamente complicata e non può affrontata in maniera superficiale. Se la pianificazione generale è il primo passo, il secondo è il piano di valutazione quantitativa e qualitativa delle risorse idriche e della loro gestione. Tornando al caso del Terminillo, il piano di sviluppo prevede la realizzazione di bacini idrici per la raccolta dell’acqua necessaria per alimentare gli impianti di innevamento artificiale in caso di mancanza di precipitazioni nevose naturali (cioè quasi sempre). Questa proposta contenuta nel progetto è stata valutata con la dovuta attenzione? Abbiamo delle certezze in tal senso? Alcuni nutrono seri dubbi al riguardo.

Ci può fare qualche esempio in proposito?

Oltre a considerare tutti gli altri aspetti che regolano gli equilibri degli ambienti montani, bisogna sostenere un’economia che sia dimensionata a scala d’uomo. Il che non significa necessariamente ridurre tutto all’ecoturismo (i soliti cammini per escursionisti e simili) o alla gastronomia dei prodotti tipici (le note caciotte e salsicce), che pure sono necessari, ma rendere compatibile anche l’industria, che è il vero motore per lo sviluppo di un Paese. Quale industria? Ovviamente non quella pesante, sia perché consuma quantità spaventose di suolo sia perché l’Italia ha ormai ceduto la maggior parte delle sue industrie di questo tipo, ultima la FIAT (FCA). L’industria sulla quale si deve puntare è quella del futuro – ad altissimo contenuto tecnologico, che non inquina –, è energeticamente autonoma e richiede pochissimi spazi (anche perché si sviluppa in grandissima parte come lavoro al computer) che si possono ricavare dalla ristrutturazione di edifici in disuso, anche vecchi casali. L’importante, in ogni caso, è evitare l’ulteriore consumo di suolo. Anche tutta l’industria dei servizi, che non consuma suolo, può essere spostata in montagna e, a certe condizioni, anche lo spostamento dei servizi sanitari e scolastici. Per non parlare della ricaduta occupazionale che potrebbero avere le attività di manutenzione del territorio.

Ciò che sta avvenendo nel Lazio introduce un altro tema: la nuova norma regionale sulle faggete depresse che intende abbassare la quota da 800 a 300 metri. Che opinione ha in proposito?

È un misero gioco delle tre carte per aggredire faggete altrimenti protette. Per comprendere il senso dell’operazione bisogna premettere che sull’Appennino le faggete si collocano tra 800 e 1200 metri di altitudine e che, per convenzione scientifica, vengono definite depresse tutte le faggete che si trovano significativamente più in basso di tale quota. Nell’agosto del 2017, prima dell’approvazione del TUFF (Testo Unico in materia di Foreste e filiere Forestali), la Regione Lazio per cavalcare l’immagine positiva derivante dal fatto che due faggete vetuste laziali erano state inserite nell’elenco dei siti Unesco patrimonio dell’Umanità, emanò una legge abbastanza avveniristica, impostata sulla gestione conservativa, che tutelava le foreste vetuste perché in questa categoria ricadevano i due siti Unesco di Monte Cimino (Comune di Soriano al Cimino) e Monte Raschio (Comune di Oriolo Romano). Inoltre, dedicava particolare attenzione alle faggete “depresse” indicando nella isoipsa degli 800 metri il limite altimetrico al di sotto del quale le faggete dovevano essere considerate tali. In tal modo la legge intendeva tutelare i boschi intorno a Monte Raschio, dove la faggeta si sviluppa tra 440 e 552 metri. Tuttavia questa legge prevedeva, ai fini applicativi, che venisse fatto l’elenco (registro ufficiale) delle foreste vetuste regionali. Ad oggi però, nonostante le numerose sollecitazioni, detto elenco non è stato mai compilato. Non solo! Per “completare l’opera” e scongiurare il rischio che le faggete diventassero “protette” in via definitiva, a febbraio del 2020, nel pieno della prima ondata covid, quando la gente era distratta da ben più gravi problemi, la Regione Lazio ha abbassato il limite altimetrico superiore delle faggete depresse da 800 e 300 (trecento!) metri vanificando così l’efficacia delle precedente norma. Infatti nel Lazio (e in quasi tutto il resto dell’Italia peninsulare) non risulta che ci siano faggete sotto i 300 metri di quota. Quindi, via libera al taglio.

Allargando il campo, quali sono le criticità della gestione del patrimonio forestale italiano a suo avviso?

Le criticità sono tante e sono aumentate dopo l’approvazione del nuovo Testo Unico in materia di Foreste e Filiere Forestali (D.Lvo 03/04/2018 n 34) avvenuta nel 2018 a Camere sciolte. Questa legge riporta indietro la selvicoltura italiana di almeno cinquant’anni perché, in barba a tutta la politica ambientale seguita negli ultimi decenni in Italia e a livello internazionale, non considera in nessun modo – eccetto una frasetta nell’incipit del provvedimento – gli aspetti e i valori naturalistici e ambientali del bosco e impernia tutta la sua filosofia sulla cosiddetta gestione attiva della foresta ossia sulla sua funzione produttiva. In altre parole, tagli che, per la tipologia descritta dalla stessa legge, sono indirizzati maggiormente verso la produzione di legna a scopo energetico (biomasse). Tutto ciò solo per assecondare l’interesse economico di alcuni settori industriali. Ed è dato perfino di assistere all’indecoroso spettacolo di alcuni esponenti del mondo accademico che, per sostenere tale legge, non esitano a spacciare l’energia da biomasse come energia rinnovabile, tacendo che la combustione da biomasse è altamente dannosa per la salute umana e arrivando ad affermare, contro ogni evidenza scientifica e lo stesso buon senso, che senza l’aiuto dell’uomo il bosco muore. Tuttavia, la conseguenza peggiore è che la legge, contraddicendo il suo stesso titolo di Testo Unico, non unifica nulla e lascia alle singole Regioni totale libertà decisionale in campo forestale. Ne è già derivata una situazione di totale anarchia che, favorita anche dalla soppressione del Corpo Forestale dello Stato, oggi rende pressoché impossibile controllare le attività di taglio nelle nostre foreste. I tagli stanno aumentando dovunque, e cosa più grave, avvengono senza alcun criterio selvicolturale.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/01/turismo-di-massa-deforestazione-speculazione-minaccia-montagne-foreste-italiane/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Rinasce il Mater-Bi. Arriva un nuovo concetto di packaging alimentare, tutto ‘Made in Italy’ e con prestazioni e caratteristiche uniche sul mercato mondiale

Dalla collaborazione tra Novamont, SunChemical Group,Ticinoplast e Uteco Group, – filiera di eccellenze industriali e tecnologiche tutta italiana – nasce un nuovo concetto di imballaggio alimentare, che risponde alla crescente domanda di packaging a minor impatto ambientale

Nasce un nuovo concetto di imballaggio alimentare, che risponde alla crescente domanda di packaging a minor impatto ambientale e che per prestazioni e caratteristiche non ha confronti sul mercato mondiale grazie alla collaborazione tra Novamont, SunChemical Group,Ticinoplast e Uteco Group. Condividendo i rispettivi know-how tecnologici è stata messa a punto una soluzione che combina la biodegradabilità, compostabilità dei materiali (biopolimeri, inchiostri, adesivi, prodotti barriera e substrati) a tecniche di estrusione, stampa e laminazione prime al mondo. Il film flessibile così ottenuto è ottimale per imballaggi alimentari avendo caratteristiche tecniche analoghe alle soluzioni attualmente adottate ma potendo – terminato l’uso – essere destinato alla raccolta della frazione umida ed essere avviato al successivo compostaggio industriale.

“Alle aziende è oggi richiesto uno sforzo congiunto che permetta di realizzare, lungo tutta la filiera e in tempi brevi, soluzioni sostenibili per il packaging alimentare – dice Fabio Deflorian, amministratore delegato di SunChemical Group Italia – In tale ottica, il contributo di innovazione che ciascun partner ha portato su materie prime, tecnologie di trasformazione, macchine da stampa, inchiostri, adesivi e coating è stato un elemento indispensabile per il successo dell’iniziativa”.
Il film flessibile in bioplastica Mater-Bi di Novamont, estruso con tecnologia Ticinoplast, viene trattato con lacca barriera Aerbloc Enhance/SunChemical, stampato con inchiostri all’acqua Aqualam/SunChemical e laminato utilizzando un adesivo senza solvente compostabile SunLam/SunChemical tramite tecnologia di stampa e laminazione di Uteco Group.
Si tratta di una soluzione che abilita la realizzazione di un ampio ventaglio di strutture laminate, adottabili per la realizzazione di molte tipologie imballaggi per alimenti su molteplici linee di confezionamento automatico, orizzontali e verticali, nonché varie buste preformate.

“In questo particolare momento in cui la spinta verso la sostenibilità è molto forte commenta Paolo Rossi, amministratore delegato di Ticinoplast – la collaborazione tra più aziende diventa elemento fondamentale per consentire di accelerare notevolmente il processo di innovazione tecnologica, portando alla realizzazioni di soluzioni adatte ad un imballaggio alimentare nel rispetto dell’ambiente”.

Concetti come riciclabilità ed ecodesign – anche grazie agli stimoli di un consumatore sempre più orientato a indirizzare le proprie scelte di acquisto e consumo verso prodotti confezionati con packaging meno ingombranti e più sostenibili – stanno modificando significativamente il settore dell’imballaggio e la vera sfida oggi è rendere semplice l’adozione di queste soluzioni.

“Grazie alla nostra filiera – commenta Aldo Peretti, presidente di Uteco Group – operatori del comparto del packaging e brand owner possono disporre di un “one-stop-shop” in cui ottenere la soluzione completa, a misura delle esigenze di ciascuno, senza dover spendere tempo ed energie nel selezionare singoli fornitori dei vari componenti necessari alla realizzazione della specifica soluzione”.

Fonte: ecodallecitta.it

Impatto ambientale degli imballaggi riutilizzabili vs monouso, nuovo rapporto Zero Waste Europe

Il lavoro di ZWE in collaborazione con l’Università di Utrecht mette in evidenza come gli imballaggi riutilizzabili producano molte meno emissioni di Co2 rispetto alò packaging monouso

Lunedì 7 dicembre Zero Waste Europe, in collaborazione con l’Università di Utrecht, ha pubblicato il lungo e dettagliato report Reusable VS single-use packaging: a review of environmental impact sull’impatto ambientale degli imballaggi riutilizzabili rispetto a quelli monouso. Ottanta pagine in cui viene messo in evidenza ancora una volta come il packaging riutilizzabile produca molte meno emissioni di Co2 rispetto al packaging monouso. A seguire l’abstract del report e al fondo il link al documento completo:

I rifiuti e la loro cattiva gestione sono diventati una questione globale significativa. Il litter (rifiuti abbandonati volontariamente o involontariamente nell’ambiente, ndr) sembra essere ovunque; lo si può vedere intrappolato lungo  recinti, sparso nelle strade, lungo le spiagge e ai bordi delle carreggiate, dove inquina i corpi idrici, gli oceani, la nostra terra e l’aria.

La gestione tradizionale dei rifiuti si concentra in gran parte sul riciclo, che, sebbene sia importante e rappresenti un segmento del ciclo di vita di materiali e prodotti, chiaramente non è una panacea per i nostri problemi. Negli ultimi anni c’è stata una spinta a concentrarsi su altre strategie di economia circolare che potrebbero ulteriormente evitare il consumo di energia e risorse, come il riuso.

Con la consapevolezza che gli imballaggi da soli rappresentano il 36% dei rifiuti solidi urbani in Europa, questo rapporto si concentra su come e quando il riutilizzo degli imballaggi sia un’alternativa migliore rispetto al monouso. Questo viene fatto analizzando i risultati delle valutazioni del ciclo di vita che confrontano gli impatti ambientali del monouso con le alternative rappresentate da imballaggi riutilizzabili.

I risultati dimostrano che la grande maggioranza degli studi punta a imballaggi riutilizzabili come opzione più rispettosa dell’ambiente. Il report identifica le tipologie di packaging valutate dai vari studi e quali aspetti chiave, come il numero di cicli o distanze e punti di pareggio, favoriscano il successo ambientale degli imballaggi riutilizzabili.
Discute anche, più in dettaglio, come formati di packaging specifici, come bottiglie e casse, differiscano negli impatti.
La relazione si chiude con una discussione su ciò che deve essere migliorato per aumentare ulteriormente i vantaggi dei sistemi di riutilizzo e il ruolo importante dei sistemi di restituzione dei depositi (DRS), di pooling, di standardizzazione, l’accessibilità dei prezzi ai consumatori e altre misure che potrebbero aiutare garantire il successo di un sistema di packaging riutilizzabile.


DOWNLOAD FILE

Fonte: ecodallecitta.it

Maivo, una rete virtuosa per valorizzare l’agricoltura pro-natura – Piccoli produttori

La natura abitua alla pazienza e alla lungimiranza. Lo impara ogni giorno sul campo Matteo Malavolta che insieme alla moglie e ad un amico, quasi per caso ma con una forte passione per la terra, ha dato vita all’azienda Maivo che nella Valle dell’Aso promuove un’agricoltura a basso impatto ambientale e l’educazione ad un’alimentazione di qualità. Matteo è una delle anime che sta dietroMaivo, un’azienda agricola nata quattro anni fa. La moglie Pamela e l’amico di una vita Alessandro lo affiancano in questo lavoro che Matteo non percepisce come tale: è difficile per lui staccarsi dalla terra anche solo per le ferie. Infatti Matteo ha scelto l’agricoltura, non come i suoi nonni che ci sono nati, nell’agricoltura. Lui ci è arrivato dopo aver percorso strade diverse: l’istituto tecnico, l’esperienza da parrucchiere e un tentativo – comunque andato bene – di vita all’estero, in Inghilterra. La prima sensazione che Matteo ha avuto dopo aver iniziato questo capitolo della sua vita è stata quella di sentirsi a casa, allora ha capito che forse la strada giusta sarebbe stata proprio quella della terra.

Dopo aver capito quale fosse la sua strada, Matteo ha anche compreso che avrebbe voluto fare agricoltura in modo diverso. Lui la chiama coltivazione pro-natura, caratterizzata da un metodo di coltivazione specifico che cerca di limitare al massimo l’impatto ambientale e da una chiara filosofia di vita che rispetti tutto ciò che circonda l’azienda: attenzione sugli imballaggi e riutilizzo delle risorse per dire solo alcune delle pratiche messe in pratica in questo senso.

Maivo ha una missione precisa: ci deve essere uno scambio e un rapporto reale tra produttore e consumatore perché, anche in questi tempi in cui siamo tutti di corsa e il supermercato ci tenta con la sua iper-disponibilità di prodotti, non ci devono essere scorciatoie per quanto riguarda la qualità. Per questo Maivo ha creato una rete di consegna interna, in cui tutto dalla raccolta alla consegna finale è autogestito. In questo modo chi consegna ha anche l’opportunità di raccogliere opinioni e consigli dei consumatori ma anche – e soprattutto – di raccontare la filosofia dell’azienda in modo diretto.

Il periodo iniziale dell’emergenza da Covid-19 non è stato facile per Matteo, che ha anche preso in considerazione l’idea di fermare il servizio di consegne – forse a causa del continuo bombardamento mediatico. Ma presto si è capito che nemmeno questa sarebbe stata la soluzione e quindi Maivo ha messo in campo tutte quelle norme cautelative per i clienti e per il personale ed ha continuato a lavorare come sempre (se non di più). Il lavoro nei campi è solitario e promuove naturalmente il distanziamento sociale, inoltre le richieste di cassette di prodotti sono aumentate. L’azienda, però, non è riuscita a soddisfare tutte le chiamate perché l’agricoltura è una pratica di lungimiranza e programmazione e non si può essere pronti in poco tempo. Non esiste un magazzino da chiamare per rifornirsi. Bisogna solo aspettare.  
Nelle parole di Matteo c’è tanta speranza di un futuro più sostenibile, tanto orgoglio di essere parte di un processo di cambiamento, di risveglio delle coscienze dato che forse, lentamente, stiamo capendo che il mondo ci è dato in prestito. L’idea di fondo è quella che tutti siamo legati alla natura in qualche modo, alla fine è un bisogno e un rapporto di cui tutti abbiamo bisogno. Per Matteo questa necessità è molto forte, per lui che sente tantissimo gli odori, che è inondato dalla felicità quando si trova all’aria aperta, per lui che si sente sé stesso in mezzo ad un campo.

La natura, per Matteo e per la sua azienda agricola Maivo, è stata ed è una grande maestra: oltre ad avergli donato benessere psicofisico gli ha insegnato la pazienza, la lungimiranza e gli ha regalato un obiettivo in cui credere e per cui lottare, un obiettivo fatto di tanti piccoli passi, alcuni quotidiani e altri pluriennali, l’idea che ci sia sempre qualcosa da raggiungere davanti a sé e la consapevolezza che quella sia proprio la direzione giusta. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/09/maivo-rete-virtuosa-valorizzare-agricoltura-pro-natura-piccoli-produttori-6/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Linda Maggiori: “Una vita a impatto (quasi) zero con la mia famiglia? Ecco come ho fatto!”

Linda Maggiori è mamma di quattro figli, attivista, scrittrice e docente di un corso online organizzato dal Campus del Cambiamento, di cui Italia Che Cambia è media partner. L’abbiamo intervistata per farci dare qualche anticipazione e chiederle alcuni consigli su come può ciascuno di noi ridurre l’impronta ecologica propria e della sua famiglia. Autrice di diversi libri sul tema, attivista e divulgatrice, Linda Maggiori profonde tutte le sue forze nel cercare di ridurre l’impatto sull’ecosistema suo e di chi le sta vicino. Ma l’argomento più forte fra quelli che porta è sicuramente l’esempio: attraverso piccoli passi, coinvolgendo e responsabilizzando i propri figli, ha attuato una serie di misure che hanno cambiato la vita della sua famiglia, che ora è non solo più sostenibile, ma anche più felice! Se volete imitarla, farvi consigliare, scoprire come potreste cambiare la vostra vita, ad esempio, iniziando ad autoprodurre o rinunciando all’auto privata, vi invitiamo a non mancare il 28 settembre al webinar di presentazione del corso “Stili di vita ecologici, il cambiamento è possibile”, organizzato dal Campus del Cambiamento, di cui Italia Che Cambia è media partner.

Come ti senti dopo aver reso la vita tua e della tua famiglia più sostenibile ed etica?

Felice e appassionata, motivata ad andare avanti, determinata e combattiva. Non voglio essere complice – o almeno voglio provare ad esserlo meno possibile – di un sistema ingiusto e devastante. Non nego che mi sento anche a volte stanca, arrabbiata e pessimista, perché intorno a noi il mondo va da tutt’altra parte e la lotta è dura. Ma non sono sola, ci sono una rete e la mia famiglia meravigliosa e camminare insieme è un sollievo, anche se si va a fatica controcorrente.

Spesso si sente dire “lo farei, ma ho dei bambini”. I figli rappresentano davvero un ostacolo insormontabile?

No, tutt’altro. I figli sono il motivo per cui ci stiamo impegnando così tanto. Senza di loro probabilmente non saremmo arrivati a questo punto. Con la loro stessa esistenza ci hanno chiesto di lasciar loro un mondo migliore. Ho iniziato a interessarmi all’ambiente con il mio primo bimbo, quando capii quanti rifiuti producevano i suoi pannolini usa e getta, e così ho iniziato a usare i pannolini lavabili. Da lì è partito un mondo di scoperte. I bambini aiutano, stimolano, spronano, chiedono, mettono in crisi… e la crisi fa bene, aiuta a cambiare. Fermarsi, ripartire. La rinuncia all’auto ad esempio per loro è stato un enorme regalo, si divertono ad andare in bici, con carrellino, cargobike, a scuola in autonomia, in vacanza con treni e mezzi pubblici… insomma è stato bellissimo e divertente anche e soprattutto con i bambini. Anche parlando di autoproduzione, senza bambini non avrei avuto stimoli per fare tante ricette… e aiuti per farle! Non sempre è facile, lo so, a volte ti succhiano ogni energia e ti mettono in discussione, ma noi impariamo da loro e loro da noi. Però è molto stimolante!

Qual è l’aspetto della tua “vita precedente” che è stato più faticoso modificare?

Ristrutturare la casa, è stato il passo più impegnativo, l’abbiamo portata da classe G a classe A3. Un vecchio appartamento in condominio, faticoso e difficile, ma si può fare.

Una delle giustificazioni più comuni è legata all’aspetto economico, ma è vero che per ridurre il proprio impatto ambientale bisogna spendere di più?

No, non è vero, anzi. Noi siamo in sei e viviamo con un solo stipendio (e poco più) da educatore. Ci viviamo benissimo e risparmiamo pure, mangiando sano, bio e locale. Come facciamo? Sobrietà, economia locale, autoproduzione e, ovviamente, senza auto!

Come sarà strutturato il corso?

In 5 moduli: il primo introduttivo, il secondo incentrato sull’alimentazione, il terzo su igiene e rifiuti zero, il quarto sui trasporti e il quinto sulla ristrutturazione di una casa a impatto (quasi) zero.

Cosa diresti a uno scettico per convincerlo a iscriversi al corso e avviare un percorso di cambiamento?

Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo (Gandhi).

Per saperne di più sul corso che terrà Linda clicca qui.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/09/linda-maggiori-vita-impatto-quasi-zero-famiglia/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Il mito della crescita verde

La crescita verde non può esistere: il Movimento per la Decrescita Felice ha curato e pubblicato la versione italiana di uno studio denominato “Il mito della crescita verde: perché non è possibile disaccoppiare la crescita economica dalla crescita dell’impatto ambientale”, che evidenzia come crescita economica e impatto ambientale siano direttamente collegati. È con piacere che vi presentiamo la traduzione italiana del report “Decoupling debunked – Evidence and arguments against green growth as a sole strategy for sustainability” curata dai volontari del Movimento per Decrescita Felice e pubblicata oggi, in accordo con gli autori del documento originale. Lo studio è stato pubblicato in lingua inglese l’8 Luglio 2019 dall’European Environmental Bureau (EEB), una rete di oltre 143 organizzazioni con sede in più di 30 paesi, e si prefigge il dichiarato scopo di rispondere a quella che – a nostro parere – rappresenta la più importante domanda da porci oggi: “È possibile godere dei benefici della crescita economica e raggiungere allo stesso tempo la sostenibilità ambientale?”. Infatti nell’ultimo decennio, la crescita verde è stata chiaramente la narrazione politicamente dominante: le agende di ONU, Unione Europea e di molti paesi si sono basate sull’assunto che il disaccoppiamento dell’impatto ambientale dal PIL possa permettere in futuro una crescita economica infinita.

https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2019/12/crescita-verde-social-1024x522.jpg

Attraverso una revisione sistematica della letteratura scientifica empirica e teorica, gli autori di questo report arrivano ad una conclusione “allo stesso tempo prepotentemente chiara e deludente: non solo non ci sono prove empiriche per supportare l’esistenza di un disaccoppiamento della crescita economica dall’impatto ambientale, di un’entità anche solo prossima a quella necessaria ad affrontare il collasso ambientale, ma anche – e questo forse è ancora più importante – sembra improbabile che questo disaccoppiamento possa avvenire in futuro.”

Dato che anche noi, come gli autori, riteniamo che sia “urgente considerare le conseguenze di questi risultati nella definizione delle politiche”, abbiamo voluto tradurre e diffondere questo report che ci è sembrato allo stesso tempo chiaro nella trattazione quanto di elevata qualità nell’elaborazione scientifica. La sfida globale per i popoli del mondo è quella di tentare insieme di perseguire lo scenario di mitigazione proposto dall’IPCC di +1.5°C e di attuare gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile; appare chiaro che l’unica soluzione ragionevole sia quella di “allontanarsi dunque per cautela dal perseguimento continuo della crescita economica nei paesi ad alti livelli di consumo. Più precisamente, le strategie politiche esistenti dirette all’incremento dell’efficienza dovranno essere completate dalla ricerca della sufficienza, cioè dalla diretta riduzione della produzione economica in molti settori, e dalla parallela riduzione dei consumi, il che permetterà insieme un’alta qualità di vita all’interno dei limiti ecologici del pianeta”.

Vi invitiamo dunque a scaricare, leggere e diffondere il più possibile questo documento, che in italiano abbiamo deciso di intitolare “Il Mito Della Crescita Verde – perché non è possibile disaccoppiare la crescita economica dalla crescita dell’impatto ambientale”.

È stato per noi un piacere e un onore portare a termine questo progetto e contribuire al dibattito su di una tematica per noi centrale e di vitale importanza. Questo rappresenta solo il primo passo verso una auto-formazione collettiva necessaria all’elaborazione di un immaginario nuovo. Per avere informazioni o organizzare eventi a riguardo non esitate a contattarci.

Ringraziamo qui pubblicamente coloro che hanno attivamente prestato servizio volontario alla traduzione di quest’opera:

Traduzione:

– Marco Sacco (MDF Venezia),

– Ludovica Kirschner (MDF Venezia),

– Michel Cardito (MDF Brescia),

– Karl Krähmer (MDF Torino)

Impaginazione:

– Elena Tioli (Responsabile Comunicazione MDF)

Revisione:

– Ludovica Kirschner (MDF Venezia),

– Silvio Cristiano (Esterno)

Ringraziamo inoltre e gli autori e gli scienziati che hanno contribuito con il loro pensiero e il loro lavoro alla stesura del report originale.

Vi lasciamo infine con il messaggio di speranza contenuto negli ultimi capoversi del report e con l’augurio che questo possa raggiungere più persone possibile:

“Negli ultimi due decenni, i movimenti nel nord del mondo (città in transizione, decrescita, ecovillaggi, città lente, economie sociali e di solidarietà, economie per il bene comune) hanno iniziato a organizzarsi attorno al concetto di sufficienza, e potrebbero ispirare un approccio politico trasversale. Quello che dicono è che “di più non è sempre meglio” e che in un mondo in emergenza climatica, abbastanza può essere abbondanza. Come sostenuto da molti di questi attori, la scelta della sufficienza non è una scelta di sacrificio, disoccupazione, crescente disuguaglianza, povertà e riduzione dello Stato sociale. È invece la scelta di un’economia equa, che rimanga all’interno delle capacità di carico della biosfera o, come è stata definita nel 7° programma di azione ambientale dell’UE, “vivere bene entro i limiti ecologici del pianeta”. Ascoltando queste opzioni alternative, dovremmo riformulare del tutto il dibattito: ciò che dobbiamo disaccoppiare non è la crescita economica dalle pressioni ambientali ma la prosperità e la “bella vita” dalla crescita economica. Questo lavoro evidenzia la necessità di una nuova cassetta degli attrezzi concettuale per influenzare le politiche ambientali. In questa prospettiva, sembra urgente che i responsabili politici prestino maggiore attenzione e sostengano le diverse alternative alla crescita verde già esistenti. Trarre insegnamenti dalla diversità delle persone e delle cornici teoriche che in questo momento sono impegnate nell’immaginare e attuare modi di vita alternativi è un modo promettente per risolvere ciò che percepiamo come una crisi dell’immaginazione politica. Il successo di tale iniziativa è importante, perché c’è in gioco a dir poco il futuro dei nostri figli e nipoti, per non dire dell’intera civiltà umana in quanto tale.”

Il Direttivo, i soci e le socie del Movimento per la Decrescita Felice

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2019/12/il-mito-della-crescita-verde/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Nativa e le B Corp: così è nato il business che può cambiare il mondo

Si può fare business ottenendo, oltre che un valore economico, anche un impatto positivo nel mondo, in termini di rigenerazione ambientale e giustizia sociale. Un approccio agli affari che premia le imprese e rappresenta la chiave di volta per cambiare e salvare il mondo. Ne abbiamo parlato con Eric Ezechieli, cofondatore di Nativa, la prima B Corp e Benefit Corporation in Europa. Oggi l’Italia ha una leadership mondiale in questo settore. Ci sono interviste che realizzi al primo colpo e altre che rimandi per settimane, mesi, anni. Quella con i fondatori di Nativa e il mondo delle B Corp, nella mia avventura di giornalista, fa parte del secondo gruppo.  È  da almeno quattro anni, infatti, che mi ripromettevo di organizzare questo incontro, ma per un motivo o per l’altro era sempre stato rinviato. Ed eccomi finalmente giunto nella sede milanese di questa società. Siamo ad aprile 2019 e dopo una breve attesa incontro Eric Ezechieli, cofondatore con Paolo Di Cesare, di Nativa. Ci sediamo e iniziamo subito a parlare. Lui è un fiume in piena e tanto sono preso dall’ascoltarlo che non mi accorgo che la mia telecamera ha un difetto nella messa a fuoco. Ma tant’è, ormai è fatta.

Parliamo. Parliamo di B Corporation e aziende B Corp, di criteri di sostenibilità, di rischio greenwashing e capitalismo giunto ad un bivio, di Fridays for future e cambiamenti sistemici. Ci interroghiamo sul futuro del mondo, sulle nostre possibilità (come specie umana) di sopravvivere, sul ruolo dell’Italia in questo momento storico. Rimango colpito, mentre lo ascolto, dalle molteplici similitudini tra il suo e il nostro approccio: cambiamento sistemico, approccio transizionista, voglia di fare grandi salti e necessità di fare piccoli passi, difficoltà a distinguere cosa sia lavoro e cosa non, in una passione che tutto travolge. Eric e “i suoi” vogliono cambiare le imprese, le aziende, quelle con gli azionisti. Come in molti sanno, una SPA da statuto deve rispondere appunto agli azionisti e quando dico rispondere, intendo produrre utili. Idem le SRL per i loro soci. Produrre utili. Punto. Ad oggi il modello economico delle più grandi aziende del mondo (e anche di gran parte di quelle medie e piccole) ha questo come primo, e spesso unico, obiettivo.  

Produrre utili. A che prezzo? “Non importa – sembra affermare una voce invisibile – Taglia personale, inquina, investi in speculazioni finanziarie, non interrogarti sui diritti delle donne, non migliorare la qualità della vita dei lavoratori”. Produci utili. E allora qualcuno ha cominciato ad interrogarsi e ha pensato di misurare l’impatto di ogni azienda e di inserire nello statuto di ogni società la sostenibilità sociale e ambientale. Può sembrare un gesto puramente simbolico, e forse in alcuni casi lo sarà anche, ma come vedremo può essere l’avvio di una piccola o grande rivoluzione. Lo statuto di un’azienda, infatti, guida le azioni e le scelte dei management. Se questi “devono” rispondere ad un unico dictat, fare utili, non hanno alcuno strumento per cercare di realizzare politiche di altro genere, ma se tra i loro compiti “statutari” c’è la sostenibilità ambientale, l’etica del lavoro, il sociale e così via, ecco che iniziano ad avvenire piccoli miracoli. Ci si interroga sulle filiere, sugli investimenti, sulle scelte interne ed esterne, sui modelli produttivi e così via. Si entra in transizione. Ci si attiva, si cambia. Si entra a far parte dell’Italia che Cambia, insomma. Ma facciamo un passo indietro e andiamo ad ascoltare la storia di Eric e della sua Nativa. Nativa nasce nel 2012 e fu la prima B Corp e Benefit Corporation in Europa. Oggi occupa circa 15 persone tra Roma e Milano e accompagna le aziende che decidono di intraprendere il percorso per diventare una B Corp o una Società Benefit fungendo da catalizzatore di cambiamenti tesi a progettare futuri sostenibili.

Ma cosa significa essere una B Corp?

Essere una B Corp (Certified B Corporation) significa intraprendere un cammino di sostenibilità sociale e ambientale partendo dall’analisi del proprio impatto sulla società e sul pianeta. Oggi, infatti, la maggior parte delle aziende consuma più risorse di quante ne produce e non è quindi rigenerativa, bensì estrattiva. Per cercare di invertire questa rotta il primo passo consiste nel misurare le proprie attività usando un protocollo che si chiama b impact assessment, uno standard usato oggi in tutto il mondo da oltre 150.000 aziende. “Quando vai a misurare – mi spiega Eric – ti trovi a comprendere se stai creando un valore economico a discapito di un valore sociale e ambientale o lo stai creando rigenerando la società, la natura, la biosfera. Purtroppo oggi moltissime aziende non perseguono il valore sociale e ambientale anche perché la legge non glielo impone… Le B Corp nascono invece esattamente con questa intenzione”. In un mondo ideale, mi confida Eric, un’azienda dovrebbe poter distribuire utili solo se prima ha dimostrato di essere rigenerativa e di non danneggiare ambiente e società. Le B Corp, inoltre, hanno mostrato in questi anni una particolare resilienza. Quando ci sono crisi, infatti, hanno una tenuta migliore perché fondano il proprio business su un modello più radicato sul territorio, sulla fiducia delle persone e così via. Caratteristiche che abbiamo incontrato nella maggior parte delle aziende raccontate dal nostro giornale!

B Corp e Benefit Corporation (o Società Benefit)

Abbiamo visto come la B Corp sia una tipologia di impresa che ha come obiettivo quello di rigenerare la società, la natura, la biosfera nonché di condurre un’attività economica che generi un profitto risolvendo problemi ambientali e sociali. L’obiettivo è creare business orientati ad essere primariamente fonti di rigenerazione. Per ottenere questi obiettivi (e salvare il mondo) secondo questo approccio occorrono due passaggi: 

1) La misurazione degli impatti: come anticipato, grazie al protocollo b impact assessment si può “scansionare” a 360 gradi un’azienda per capire se sta creando valore economico sociale e ambientale per la società. Le aziende che creano più valore di quanto ne “consumino” si possono qualificare come B Corp certificate dopo aver superato un percorso di verifica, validazione e certificazione svolto dalla non profit che ha sviluppato il modello: B Lab. Per essere certificati occorre ottenere almeno 80 punti su una scala di 100. 

2) Il secondo passaggio è legato allo stato giuridico dell’impresa. Fino ad oggi, secondo i codici civili e le leggi vigenti in tutto il mondo, lo scopo unico di una società di capitali è stato distribuire dividendi agli azionisti. Ambiente e persone, di conseguenza, non sono mai rientrati negli scopi statutari di un’azienda. Le Benefit Corporation (chiamate in Italia Società Benefit), invece, non solo devono misurare gli impatti e generare valore, ma devono anche avere una forma giuridica che ti consenta di creare un impatto positivo sia per gli azionisti che per gli altri portatori di interessi (un nuovo scopo giuridico, quindi, con una specifica forma d’impresa oggi disponibile in Usa, Italia e altri paesi). Eric Ezechieli definisce questo strumento un “nuovo sistema operativo per il capitalismo” che consente alle aziende di diventare portatrici di rigenerazione! 

La società Benefit deve specificare esattamente in che modo va a creare questi benefici e deve rendicontare questi impatti, utilizzando il protocollo segnalato prima. È importante precisare che assumere questa forma giuridica non comporta sgravi fiscali o altri vantaggi economici. È uno strumento le cui ricadute, quindi, sono “esclusivamente” sociali e ambientali. Il rischio di greenwashing, però, è sempre dietro l’angolo. Secondo Eric, questo è fortemente limitato proprio dall’assenza di vantaggi fiscali nel modello e, inoltre, l’adozione nel proprio statuto di determinati obiettivi misurabili, potrebbe portare alla denuncia dell’azienda inadempiente che andrebbe controllata dal garante per la concorrenza essendoci gli elementi di “condotta sleale”.  

Il protocollo b impact assessment (disponibile on line gratuitamente e utilizzabile da chiunque) è molto vasto e misura impatti su persone, ambiente, comunità, lavoratori, nonché la trasparenza, i sistemi di governance e il business model. In realtà, non esiste un unico protocollo, ma anzi ci sono più di 150 modelli che variano con dimensioni, area geografica, settore di appartenenza e così via, consentendo a chi aderisce di confrontare le proprie performance con altre aziende di settore che stanno facendo percorsi analoghi.

Summit 2018 delle B Corp

Un avvio difficile… e poi una leadership mondiale!

Quando Eric e Paolo hanno deciso di fondare Nativa come Benefit Corporation hanno redatto uno statuto ispirato a quello americano. Nel luglio 2012, quindi, lo hanno presentato alla Camera di Commercio e… sono stati respinti perché “illegali” avendo costruito un soggetto che non aveva come unico scopo quello di distribuire dividendi. Loro non si sono arresi e al quinto tentativo la camera di commercio li ha accettati “per sfinimento” ma senza che esistesse un ordinamento giuridico in cui potessero davvero rientrare. A quel punto, hanno deciso di attivarsi e grazie anche ad un Senatore, Mauro Del Barba, sono riusciti a far riconoscere il modello di Società Benefit in Italia. Il gruppo di lavoro si costituì nel 2014 e scrisse un disegno di legge che, dopo circa 14 mesi, fu approvato. Dal 1 gennaio 2016 l’Italia è quindi diventata il primo tra gli stati sovrani ad avere una legislazione che riconosceva questo status d’impresa. Oggi, il modello di Benefit Corporation esiste in 34 Stati degli USA, in Italia, in Colombia e Perù e ci sono altri 15 Stati che si stanno ispirando alla legislazione italiana, soprattutto in America Latina. L’Italia ha quindi una leadership mondiale in questo settore ed è il Paese in cui stanno nascendo più B Corp certificate (circa 100 hanno ottenuto la registrazione mentre oltre 2000 si stanno misurando) e Società Benefit (più di 300: da piccole aziende e start up a grandi aziende e multinazionali).

Il modello capitalista deve cambiare

“Per me non si dovrebbe più poter concepire un business che non abbia al centro la rigenerazione ambientale e sociale – mi spiega Eric -. Quando inizi a ragionare in questi termini diventa quasi inconcepibile che un’azienda possa trarre profitti avendo generato impatto negativo a persone o natura. Un’azienda dovrebbe poter distribuire utili solo se non ha causato danni ad ambiente e persone! Siamo ad un punto di non ritorno. O il modello capitalista diventa rigenerativo o… Un modello che sistematicamente danneggia la società non può continuare nel futuro. I limiti ci sono. Se non si autoriforma il sistema, interverranno dei fattori che porteranno all’eliminazione di questo modello. Non va certo dimenticato che il modello capitalista ha portato una fetta di mondo ad emanciparsi da fame e miseria, ma oggi il modello deve cambiare. È giunto al capolinea! Le B Corp rappresentano una delle evoluzioni più forti di questo modello e dimostrano che cambiarlo è possibile anche in modo esponenziale. Ecco perché vedo il ruolo di Nativa come quello di un catalizzatore utile ad accelerare questa trasformazione”.

Le Nazioni Unite e il B Lab

L’ONU, due anni e mezzo fa, ha chiesto a B Lab di collaborare per sviluppare uno strumento utile per misurare il progresso delle aziende rispetto ai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite per il 2030. Questo sarà pronto entro fine 2019. A quel punto, l’ONU proporrà la diffusione di questo strumento a tutte le aziende del mondo.

B Corp ed EBC (Economia per il Bene Comune)

Eric Ezechieli ritiene che ci siano moltissimi elementi di sinergia e allineamento tra i due movimenti. La matrice di EBC viene più dal mondo dell’associazionismo e dell’impresa sociale, quella di B Corp più dal business classico. Ma i due strumenti sono complementari. “Con i rappresentanti di EBC abbiamo iniziato a scambiare alcune idee – conferma Eric – ma ora vogliamo incontrarci per approfondire. Quando ho sentito parlare Christian Felber mi sono ritrovato! Diciamo praticamente le stesse cose”.

Il cambiamento dipende da noi

“Mi occupo di sostenibilità da quando ho 14 anni – conclude il cofondatore di Nativa – studiavo i modelli del MIT che già mostravano i rischi ambientali e sociali a cui saremmo andati incontro e pensavo che gli adulti avrebbero aggiustato le cose. Si sapeva già tutto… Poi passavano gli anni e non cambiava quasi niente. Ho quindi deciso di dedicare la mia vita al cambiamento. Oggi le trasformazioni (e i problemi e le sfide) stanno accelerando in modo esponenziale. Diventa quindi fondamentale agire tutti insieme e in modo rapido per contrastare questi processi. Il modello vigente, che è quello estrattivo, non ha nessuna possibilità di funzionare in futuro! L’Italia, da questo punto di vista, è all’avanguardia nel mondo […]”. 

Ho tagliato volutamente il finale di questa intervista perché vi invito a guardare il video che trovate all’inizio di questo articolo. Nell’ultimo minuto riassume quanto da anni cerchiamo di raccontare con il lavoro di Italia che Cambia. Nonostante il racconto ossessivamente negativo dei media e dei luoghi comuni siamo all’avanguardia nel cambiamento. Un’avanguardia mondiale. Che facciamo, ci attiviamo anche noi?

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/05/nativa-b-corp-business-puo-cambiare-mondo-io-faccio-cosi-248/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni#

Una piattaforma per fare rete: cambiare dentro per ridurre l’impatto fuori

Una “rete di valore aperto” per promuovere progetti, eventi e buone pratiche volti alla riduzione dell’impronta ecologica individuale in Friuli-Venezia Giulia. Abbiamo intervistato Francesco, che dopo un’esperienza da cervello in fuga in giro per il mondo, è rientrato in Italia per raccontare e diffondere la filosofia Zero Waste attraverso una comunità virtuale territoriale. Zero Waste FVG è una piattaforma indipendente e no profit basata su tecnologie Open Source il cui scopo è la diffusione della filosofia zero sprechi in Friuli-Venezia Giulia. A parlarcene è Francesco Marino, giovane laureato in Tecnologie Web e Multimediali che abbiamo intervistato a Udine, dove è tornato a vivere da quando, nel novembre del 2018, è rientrato da sei anni di vita all’estero.

Era il 2012, infatti, quando Francesco ha iniziato a viaggiare grazie a degli stage post-laurea, diventando successivamente un digital nomad e allungando la lunga lista di cervelli in fuga del nostro paese. In questo periodo, passato tra Norvegia, Hong Kong, Filippine e soprattutto Spagna, la sua consapevolezza ambientale è cresciuta moltissimo, “di pari passo con un profondo cambiamento interiore, che è l’unica spinta che può davvero portare le persone a sognare ed agire per un mondo migliore”. 

Durante la sua permanenza in Asia, in particolare nelle Filippine, ha potuto toccare con mano gli effetti dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento su vasta scala. Sicché, dopo un percorso di crescita personale iniziato con lo yoga e durato quattro anni, ha deciso di rimboccarsi le maniche e – prima ancora di rientrare in Italia da Barcellona, ultima tappa della sua esperienza all’estero – ha deciso di fondare prima un gruppo e una pagina Facebook, e poi di aprire il sito www.zerowastefvg.it.

La piattaforma è pensata come un servizio “contenitore”, co-progettato e co-gestito da tutti i membri della comunità che lo utilizzano (più di 1000 nel gruppo Facebook), con l’obiettivo di diventare un bene comune dei cittadini. “Si tratta di un luogo virtuale nel quale chiedere, suggerire, realizzare sondaggi, far nascere collaborazioni tra cittadini, siano essi consumatori, produttori, negozianti, riparatori, comunicatori”, chiarisce Francesco, che sottolinea come il progetto sia su base volontaria per tutti, totalmente orizzontale ed aperto al supporto di chiunque voglia dare una mano. Sul sito è presente una mappa collaborativa, che dà visibilità ai “punti di interesse etici” che già esistono sul territorio regionale e che vuole essere uno stimolo per tutti a lanciare nuovi progetti e attività in questa direzione. Inoltre è presente un calendario degli eventi che vengono organizzati sul territorio e vari gruppi Telegram per gestire attività specifiche (social, giornate ecologiche, riciclo creativo, ecc.).  

Pur non essendo collegato a nessuna delle varie reti internazionali Zero Waste, il progetto di Francesco condivide con esse i valori che ne sono alla base e che possono essere riassunti nei seguenti principi:

– Rifiutare (prevenzione/minimalismo);

– Ridurre (prevenzione/decrescita);

– Riutilizzare (prolungamento della vita dei prodotti);

– Riciclare (recupero della materia);

– Compostare (recupero dell’energia).

Francesco tiene molto a sottolineare come, più che uno stile di vita, Zero Waste sia soprattutto una filosofia. “Se qualcuno mi chiede cosa deve fare per vivere una vita a minor impatto ambientale, io gli rispondo che prima di tutto deve ascoltarsi”, ci dice. Un segno che il cambiamento non si basa tanto (o non soltanto) sulle azioni, pur dettate dal buon senso, ma soprattutto da un lavoro interiore. “Vivere una vita Zero Waste significa anzitutto liberarsi mentalmente del superfluo, a cominciare dal giudizio verso il percorso degli altri”.  

E a ben pensarci è solo così che possiamo accettare con maggior tolleranza chi, per i motivi più disparati – a cominciare dalle possibilità di accesso alle informazioni – non ha (ancora) aderito a un cambiamento strutturale. Aumentando le possibilità di aprire qualche ulteriore varco nella cultura dominante, invece di costruire altri muri.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/05/vita-senza-sprechi-tornato-in-italia-eliminare-rifiuti/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni