CambiamoAgricoltura è una coalizione nata nel 2017 per chiede una riforma della PAC che tuteli tutti gli agricoltori, i cittadini e l’ambiente. Sostenuta da oltre 70 sigle della società civile è coordinata da un gruppo di lavoro che comprende le maggiori associazioni del mondo ambientalista e del biologico italiane. E’ inoltre supportata dal prezioso contributo di Fondazione Cariplo
La Coalizione CambiamoAgricolturaaugura buon lavoro al nuovo Ministro alle politiche agricole, alimentari e forestali, Stefano Patuanelli, ed auspica che il cambio alla guida del Ministero di Via XX Settembre determini un rilancio della transizione agro-ecologica della nostra agricoltura.
Nella sua agenda il Ministro Patuanelli avrà alcuni appuntamenti importanti, primo fra tutti l’avvio del tavolo di concertazione con le parti sociali ed economiche e la società civile per la redazione del Piano Strategico Nazionale della PAC (Politica Agricola Comune) post 2020, atteso da oltre un anno. Il Trilogo UE dovrebbe completare l’iter della riforma della PAC entro il mese di maggio e la partita della prossima programmazione, che sarà operativa dal gennaio 2023, si sposterà completamente nel terreno dei singoli Stati membri. Molti Stati hanno già avviato da tempo il confronto con le Associazioni agricole e ambientaliste, mentre il nostro paese è rimasto fermo al palo, nonostante ripetuti solleciti inviati dalla Coalizione #CambiamoAgricoltura, rimasti inascoltati. Le Strategie UE “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030”, con i loro obiettivi sfidanti (riduzione del 50% dei pesticidi e antibiotici, riduzione del 20% dei fertilizzanti chimici, aumento della superficie in agricoltura biologica fino al 25% a livello europeo, aumento fino almeno al 10% delle aree agricole destinate alla conservazione della biodiversità) impongono un cambio di rotta all’agricoltura italiana, per fare della sostenibilità ambientale e sociale un punto di forza delle produzioni “Made in Italy”.
Per la Coalizione #CambiamoAgricoltura l’Italia ha le carte in regola per puntare ad obiettivi più ambiziosi, come il 40% di superficie agricola utilizzata certificata in agricoltura biologica entro il 2030, e l’utilizzo degli aiuti PAC condizionati alla ristrutturazione delle filiere della zootecnia intensiva, per affrontare la crescente insostenibilità di questo comparto, in particolare in Pianura Padana, e scegliendo senza remore la strada della transizione agroecologica per tutta l’agricoltura, l’unica in grado di coniugare la salute dell’uomo con quella dell’ambiente, nell’ottica di “One Health”.
Per questo sarà importante l’imminente approvazione da parte del Parlamento della nuova Legge sull’agricoltura biologica e il Ministero dovrà assicurare il massimo impegno per la sua rapida e concreta attuazione. Un altro impegno prioritario per il nuovo Ministro, condiviso con i suoi colleghi della Salute e della Transizione Ecologica, è l’approvazione del nuovo Piano di Azione Nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, ormai scaduto dal febbraio 2018. Si tratta del principale strumento per l’attuazione della Direttiva UE sui pesticidi, 2009/128/CE, fondamentale per poter raggiungere gli obiettivi delle Strategie UE “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030”.
La Coalizione #CambiamoAgricoltura è disponibile su tutti questi temi e sul futuro dell’agricoltura italiana ad un confronto e collaborazione costruttiva con il nuovo Ministro ed invierà per questo nei prossimi giorni una richiesta d’incontro.
CambiamoAgricoltura è una coalizione nata nel 2017 per chiede una riforma della PAC che tuteli tutti gli agricoltori, I cittadini e l’ambiente.Sostenuta da oltre 70 sigle della società civile è coordinata da un gruppo di lavoro che comprende le maggiori associazioni del mondo ambientalista e del biologico italiane (Associazione Consumatori ACU, Accademia Kronos Onlus, AIDA, AIAB, Associazione Italiana Biodinamica,CIWF Italia Onlus, FederBio, ISDE Medici per l’Ambiente, Legambiente, Lipu, Pro Natura, Rete Semi Rurali, Slow Food Italia e WWF Italia). E’ inoltre supportata dal prezioso contributo di Fondazione Cariplo.
Con creatività e passione, le donne hanno costruito e guidano aziende agricole multifunzionali in grado di rispondere al bisogno della società di cibo genuino, prodotto con pratiche rispettose dell’ambiente, di servizi alla persona, di inclusione sociale e di attenzione alla tutela delle tradizioni e delle biodiversità locali. Queste aziende, più di altre, hanno saputo contrastare gli effetti negativi della crisi sviluppando azioni di resilienza. È quanto ha sottolineato il WWF in occasione dell’International Day of Rural Women. In Italia circa 1 impresa agricola su 3 è a conduzione femminile e il 32% (dato in crescita) vede la presenza di donne imprenditrici nel settore agricolo, titolari di 361.420 aziende su un totale di 1.145.680 (1). L’agricoltura “in rosa” conta 234.000 donne su un totale di 872.000 addetti, il 26,8%, ma nelle aziende cosiddette multifunzionali, quelle cioè che praticano agriturismo, mercati contadini, fattorie didattiche, fattorie sociali, trasformazione e vendita diretta di prodotti di fattoria, la percentuale di presenza femminile è più alta. Le donne tendono a rendere quindi l’agricoltura più ‘umanistica’ e sostenibile, una maggiore incidenza che si spiega con la naturale propensione femminile all’innovazione e alla multifunzionalità, la maggiore capacità di adattamento, il legame più forte con il territorio, la cultura, la tradizione e i saperi locali. Questa tendenza è anche legata al fatto che le donne non percepiscono l’azienda solo come fonte di reddito, ma anche come stile di vita.
La transizione ecologica del sistema agricolo quindi è donna, un dato importante che il WWF sottolinea in occasione dell’International Day of Rural Women – Giornata Internazionale delle Donne Rurali, una data istituita dall’Onu e che per l’Italia assume quindi un valore importante. L’agricoltura, infatti, è il principale ‘imputato’ per la perdita di biodiversità in Europa e in Italia il modello della multifunzionalità per il WWF è un riferimento per lo sviluppo socio-economico nei paesi che vivono gravi crisi, la via maestra per una transizione agroecologica dell’agricoltura.
L’azienda agricola multifunzionale è per il WWF una via preferenziale per promuovere e realizzare pratiche di lavoro basate sulla tutela e la valorizzazione del capitale naturale (natura – biodiversità), definendo e realizzando nuovi servizi (turistici, didattici e sociali), focalizzati su azioni nel settore della tutela e della fruizione dell’ ambiente e valorizzando il ruolo delle aziende agricole multifunzionali nel mercato del turismo di qualità e dei servizi pubblici. L’Italia, con oltre 4,9 miliardi di euro, detiene il primato per valore della produzione delle attività di servizi forniti dall’agricoltura multifunzionale, seguita dalla Francia (4,5 miliardi) e dalla Germania (2,7 miliardi). In termini di incidenza delle attività di servizi sull’intero valore della produzione agricola per singoli paesi, l’agricoltura italiana si conferma essere la più multifunzionale d’Europa. Sono 22.661 il numero di aziende agrituristiche autorizzate ad operare in Italia nel 2016 (+1,9% rispetto al 2015), di cui circa il 39% sono a conduzione femminile. Sono 2.291 il totale delle fattorie didattiche iscritte negli elenchi regionali istituiti dalle Regioni nel 2016, ma il numero stimato di fattorie didattiche in Italia è di 2.500 – 2.900 (se si considerano anche le aziende non riconosciute dalle Regioni). Sono invece 1.000 le aziende agricole in Italia coinvolte in progetti di agricoltura sociale, fra imprese agricole, cooperative sociali ed aggregazioni. Le fattorie didattiche e sociali sono essenzialmente aziende a conduzione femminile (2).
Le donne hanno saputo costruire, con creatività e passione, aziende in gran parte a conduzione familiare, in grado di rispondere al bisogno della società di cibo genuino, prodotto con pratiche rispettose dell’ambiente, di servizi alla persona, di inclusione sociale e di attenzione alla tutela delle tradizioni e delle biodiversità locali. Queste aziende, più di altre, hanno saputo contrastare gli effetti negativi della crisi sviluppando azioni di resilienza.
Le aziende al femminile hanno maggiori rendimenti economici
Dalla Banca dati RICA (2016) risulta che l’incidenza percentuale delle attività connesse in agricoltura sulla Produzione Lorda Vendibile (PLV) è passata a livello nazionale da 2.51% del 2008 al 7.04% del 2016. In particolare, per le aziende condotte da uomini aumenta dal 2.44% del 2008 a 6.80% del 2016, mentre per quelle condotte da donne dal 2.81% del 2008 all’8.19% del 2016. Le aziende a conduzione femminile sono efficienti anche nell’utilizzo dei fondi della Politica Agricola Comune dell’Unione Europea (PAC). Dal 2007 al 2013 sono state pagate 120.613 aziende condotte (27%) da imprenditrici e hanno ricevuto importi pari a circa 5.381 miliardi di euro (17%) – (Dati Rete Rurale Nazionale 2017)
Le maggiori difficoltà per le imprese agricole al femminile in Italia
Le imprenditrici che vogliono aprire una loro attività hanno spesso difficoltà a reperire terreni in zone ad alta redditività e questo le costringe a ripiegare verso zone di montagna o comunque svantaggiate. Inoltre, un ulteriore aspetto di difficoltà per le aziende condotte da donne, tendenzialmente di piccole dimensioni, è rappresentato dal minore accesso al credito. Infatti, in seguito alla crisi economica il sistema bancario ha fortemente inasprito i criteri di erogazione dei prestiti aumentando le richieste di garanzie provocando un peggioramento delle condizioni di accesso al credito da parte delle imprese, soprattutto per quelle più piccole (Macrì e Scornaienghi, 2014).
Parità di genere nel mondo: per l’agricoltura siamo ancora indietro
Le donne sono un potente vettore di cambiamento nelle aree rurali del mondo, hanno un ruolo chiave nella gestione della famiglia e contribuiscono in modo preponderante all’attività agricola e non solo. Purtroppo le ineguaglianze tra i sessi impediscono loro di esprimere pienamente il proprio potenziale. Le donne rurali rappresentano oltre un quarto della popolazione mondiale. Esse sono protagoniste attive dello sviluppo economico, sociale e ambientale sostenibile dell’intero pianeta.
Nei paesi in via di sviluppo rappresentano circa il 43 per cento della forza lavoro e producono la maggior parte del cibo disponibile, ricoprendo così un ruolo primario per la sicurezza alimentare (il 70% del cibo consumato da oltre 7 miliardi di persone viene oggi prodotto da piccole aziende agricole di tipo familiare dove le donne svolgono un ruolo fondamentale). Malgrado ciò, la maggior parte di esse vive nell’insicurezza e subisce gravi discriminazioni e violenza, che sono aggravate dagli effetti prodotti dalla povertà, dalla crisi economica, alimentare e dal cambiamento climatico. Se infatti le donne potessero accedere a determinate agevolazioni (l’accesso al credito, alla formazione, etc.) al pari degli uomini, automaticamente si ridurrebbe del 17% il numero delle persone affamate, dati (riferiti all’anno 2013) che non possono essere trascurati, se si pensa oltretutto che in due dei cinque continenti (Africa e Asia) le donne lavorano 52 ore in più al mese rispetto agli uomini.
Elaborazioni ISMEA su dati Eurostat – Farm structure survey – FSS 2016
Poco più che ventenne, Sara ha già avviato un suo birrificio nato dall’amore per la Terra, per la coltivazione del luppolo e per i processi di birrificazione. Questa passione le ha consentito di scoprire un mondo incentrato sul saper fare, sulla tradizione, ma anche sulla creatività. Vi raccontiamo la sua storia. Sulle pendici del Gran Sasso, nell’antico borgo medievale di Castel del Monte, c’è una giovane ragazza che ha unito l’amore per la sua terra all’interesse nella coltivazione del luppolo, dando vita a un’azienda agricola che si è già distinta fra le Eccellenze Italiane 2020: l’azienda agricola Mappavel’s. La ragazza in questione si chiama Sara Aromatario. Ventunenne, titolare dell’azienda già dai diciannove anni, ci ha raccontato un po’ di com’è nato e cresciuto il suo interesse per il luppolo e il suo progetto.
«Ho aperto l’azienda agricola tre anni fa, quando ancora andavo a scuola – frequentavo il liceo scientifico. Durante la gita del quarto anno eravamo andati a Praga e lì ho visto delle piante di luppolo. Avendo sempre avuto una passione per l’agricoltura mi sono incuriosita e tornata a casa ho messo su le prime quattro piante». Raccolte le prime quattro piante di luppolo, Sara ha contattato il CREA, ente governativo che curava il progetto luppolo.it. «Hanno analizzato le mie piante e mi hanno raccomandato di metterne di più così da poter far parte dei loro campi sperimentali. Quindi, con il loro supporto e monitoraggio, ho messo su settanta piante». Da lì, il passo verso la nascita dell’azienda agricola è stato breve. «Quello che riesco lo faccio io, con l’aiuto di mio padre e del mio fidanzato. Altre cose, invece, le facciamo ancora per conto terzi e anche per la produzione della birra ci appoggiamo a un birrificio di Pescara – comprare un impianto sarebbe costosissimo».
La coltivazione delle piante necessarie alla produzione della birra e la sperimentazione di nuove ricette, realizzate con grani antichi, ricopre un ruolo centrale nell’attività avviata da Sara. «La prima birra che ho fatto è stata al farro. Poi c’è stata una seconda, al grano di sorrina – un grano antico che cresce solo sopra ai 1300 metri. Castel del Monte si trova a 1346 metri, quindi riusciamo a coltivarlo senza problemi. C’è stata poi una Red Ale, una rossa tradizionale che ho voluto dedicare a una manifestazione importante qui in paese, la Notte delle Streghe, che ogni 17 e 18 agosto rianima le antiche credenze popolari nel centro storico attraverso spettacoli itineranti».
Da un incidente di percorso, infine, è nata anche un’altra attività importante di Mappavel’s: la tintura della lana con il luppolo, che ben intreccia l’innovazione alla tradizione agropastorale presente sul territorio. «Qualche tempo fa abbiamo avuto dei problemi nella procedura di essiccamento del luppolo, che ha reso un lotto non birrificabile. Mi dispiaceva buttarlo, anche se noi destiniamo gli scarti alla zootecnia, e siccome qui ci sono delle ragazze che tingono la lana con dei prodotti vegetali mi sono chiesta se fosse possibile tingere la lana con il luppolo. Il risultato è stato buono: un filato di un color giallo ocra molto particolare».
Negli anni passati Sara e la sua azienda agricola hanno avuto modo di farsi conoscersi e apprezzare in varie fiere e, con l’intenzione di rendere disponibili le proprie birre con più continuità a Mappavel’s, si era perfino pensato di aprire una birreria in centro. L’emergenza sanitaria di quest’anno, tuttavia, ha messo in discussione il progetto e portato all’annullamento delle fiere a cui Sara era solita partecipare. Anche in questo caso la risposta di Sara è stata creativa. «Abbiamo avviato una collaborazione con un’altra azienda agricola di Castel del Monte, specializzata nella trasformazione di salumi e formaggi. Loro propongono dei taglieri, mentre io somministro la birra: sta andando molto bene».
Guardando al futuro, oggi particolarmente difficile da prevedere, Sara procede passo per passo, portando avanti l’attività e studiando Scienze e Tecnologie Agroalimentari presso l’Università di Perugia.
Nella campagna a nord di Roma ha preso vita una comunità fondata sulla fiducia, la condivisione e la coltivazione del cibo sano. Si tratta della CSA Semi di Comunità, un modello di produzione e distribuzione dei prodotti alimentari nonché un esperimento sociale di successo da diffondere e replicare. Una delle particolarità della città di Roma (se davvero fosse possibile generalizzare la sua variegata geografia) è la sua capacità di cambiare aspetto da un momento all’altro. Come si usa dire, “tutte le strade portano a Roma” così come molte, allo stesso tempo, partono da qui. Una di queste è la Via Cassia, via di fuga verso Nord dal centro cittadino, che percorro praticamente da sempre. Una delle ramificazioni di questa arteria è la Via Cassia Veientana, al suo inizio caratterizzata da un grande cavalcavia. Per raccontarvi la storia di oggi, per la prima volta ho attraversato questo ponte da sotto, percorrendo una strada di campagna che, quasi in un battito di ciglia, mi ha condotto nel cuore della campagna romana per andare a scoprire un “esperimento sociale” di compartecipazione tra agricoltori e comunità: la CSA Semi di Comunità. CSA sta per “Community Supported Agricolture”, traducibile in italiano come “Comunità che Supporta l’Agricoltura”. Si tratta di un modello di reciproco supporto tra una determinata comunità di persone e una cooperativa di agricoltori: la comunità diventa “proprietaria”, insieme agli agricoltori, di una qualsiasi iniziativa di produzione agricola, investendo una quota per finanziare la produzione e ricavandone in cambio una certa quantità di cibo per la famiglia, regolarmente distribuita. Insieme, dunque, si condividono rischi e opportunità di un’iniziativa del genere, si sperimenta la condivisione in gruppo di decisioni strategiche come, ad esempio, quali colture produrre, quali costi sostenere e quali investimenti programmare, come ripartire le quote tra i diversi soci e quale modello organizzativo scegliere. Stabilite queste basi comuni, non esiste un modello organizzativo comune per tutte le CSA: noi vi abbiamo raccontato, tempo fa, la “madre” di tutte le CSA in Italia, cioè Arvaia, alla quale la CSA romana “Semi di Comunità” si ispira. Vi invitiamo a guardare il video qui da noi realizzato, dove potrete scoprire il modello organizzativo e distributivo che incarna il senso di questa esperienza.
L’asta delle quote: come funziona nella pratica la CSA Semi di Comunità
In “Semi di Comunità” esistono dei concetti cardine: naturalmente la creazione di comunità, come avete potuto vedere all’interno del video. Un altro concetto fondamentale è l’accessibilità al cibo naturale: «Un esperimento che rende ancora più orizzontale il nostro progetto – ci racconta Saverio Carrara, socio lavoratore e Presidente della Cooperativa – è lo strumento dell’asta delle quote. Una volta stabilito il piano economico annuale, i costi e gli investimenti previsti vengono divisi in quote, che ogni singolo socio deve versare. Il problema è che se i costi delle quote sono cari non tutti possono partecipare. Durante l’asta delle quote da noi qualche socio offre un quantitativo di denaro più alto rispetto al dovuto, per permettere così ad altri di partecipare anche con una quota più bassa. Il tutto a parità di prodotto, naturalmente: il quantitativo di verdure rimane lo stesso. Abbiamo usato per la prima volta questo strumento quest’anno ed abbiamo chiuso il nostro piano economico con seicento euro di avanzo. Questo strumento, condiviso da tutto il gruppo, ci ha così consentito di rendere la CSA il più inclusiva possibile, permettendo di raggiungere l’obiettivo fondamentale di rendere il cibo sano e naturale accessibile possibilmente a tutti».
Oggi “Semi di Comunità”, nata a Gennaio 2019, conta circa duecentotrenta soci, contribuendo al fabbisogno alimentare di circa centotrenta famiglie. Il terreno su cui opera è grande circa cinque ettari, di cui tre a seminativo e due a bosco: attualmente sono già giunti alla giusta proporzione tra soci fruitori e capacità produttiva.
La differenza Tra CSA e GAS (Gruppo di Acquisto Solidale)
Perché la CSA rappresenta, probabilmente, l’evoluzione naturale dei Gruppi di Acquisto Solidale, in termini di partecipazione e responsabilizzazione delle persone? Non solo per la compartecipazione al rischio di impresa. «Non è sufficiente acquistare una quota e basta per fare parte di Semi di Comunità – ci spiega il socio Davide Gentili – Siamo divisi in soci volontari e soci fruitori, ma anche il socio fruitore che acquista le quote deve garantire la presenza sui campi almeno quattro volte l’anno. Noi, tutti insieme, stiamo costruendo a partire dal cibo una comunità, perché il cibo sano e genuino rappresenta il collante giusto per tenere unite le persone e condividere momenti insieme. Il nostro è anche un atto politico: è un modo di stare a contatto con i campi diverso,evitando le storture messe in pratica dalla GDO e appoggiando un certo modo di fare agricoltura che sia rispettoso dell’uomo e dell’ambiente circostante. Chiunque può venire sui campi e può partecipare, provare cosa significa fare parte di una comunità inclusiva come questa: il problema è proprio capire come far partecipare tutte le persone che vogliono far parte di questa esperienza».
Altra differenza fondamentale rispetto al GAS è la distribuzione, ben spiegata nel video sopra dal socio volontario Bruno Sclavo: «Alla fine del raccolto, che di solito avviene di martedì pomeriggio o di mercoledì, si effettua la suddivisione delle verdure in base ai nostri otto attuali punti di distribuzione. Questi otto punti di distribuzione sono suddivisi in varie parti di Roma ed ognuno dei soci fruitori si occupa della distribuzione qui in sede. I soci fruitori si recheranno al punto di distribuzione e sapranno la parte che spetta loro: a differenza delle cassette tradizionali su ordinazione, i soci non trovano una cassetta già preparata, ma una tabella con la quantità di ortaggi che possono prendere, componendo loro stessi le proprie cassette. Ciò introduce il discorso della fiducia, altro tassello importante per noi: nessuno controlla il singolo socio fruitore quanto prende per la propria cassetta, ed ognuno si assume la propria responsabilità nella buona riuscita della distribuzione».
La costruzione della Comunità e gli obiettivi futuri
Semi di Comunità non è solo produzione e distribuzione di cibo ma costruzione di reti e relazioni: «io sono venuta a conoscenza di questa realtà tramite mia madre» ci racconta divertita la socia volontaria Marta de Marinis «e sapevo che per diventare almeno socio sostenitore bastava compilare un formulario su Internet. A dir la verità mi sono innamorata di questo luogo frequentandolo prima come volontaria che come socia, perché l’atmosfera che si crea è davvero particolare».
«È come una seconda casa per me, ormai» aggiunge la socia volontaria Giada Serina «e le occasioni di incontro non sono legate solamente al lavoro sui campi e alla produzione di cibo. Anche nella gestione degli spazi qui in sede, vale il discorso della condivisione: ad esempio prossimamente, insieme ai soci volontari, ci ritroveremo a sistemare nuovamente la cucina e gli spazi comuni. Organizziamo eventi di incontro con la comunità come la proiezione di film. E poi ci sono i tornei a biliardino tra di noi, le serate passate a parlare e a godere di tramonti stupendi. È davvero bello trascorrere le giornate qui».
Un altro tentativo per costruire una comunità attiva in Semi di Comunità è stato quello della condivisione dei saperi: «Una volta al mese, prima del lockdown – spiega Saverio – abbiamo organizzato dei corsi di formazione anche non direttamente collegati alla produzione di cibo, come quelli per la costruzione di forni in terra cruda o per produrre saponi naturali . L’idea alla base di questa iniziativa è mettere a disposizione la propria competenza di tutti i soci come dono. Questo significa condivisione pura e possibilità di crescita per tutti, perché la condivisione del sapere aiuta a costruire dei legami forti tra le persone».
Non poteva andare in altro modo, lo sapevamo perfettamente e lo diciamo da sempre: una società che adora il dio denaro, alla prima crisi, crolla miseramente.
Non poteva andare in altro modo, lo sapevamo perfettamente e lo diciamo da sempre: una società che adora il dio denaro, alla prima crisi, crolla miseramente. La gente ha così fiducia in se stessa e nello Stato in cui vive, che svuota i supermercati presa dal panico; del resto, se si costruisce una società basata sulla dipendenza energetica e alimentare in primis, i risultati non potevano che essere questi catastrofici in cui veniamo privati anche delle libertà fondamentali.
E perché siamo arrivati a questo punto? Per fare contenti i mercanti che ci vendono qualsiasi cosa e attraverso la pubblicità ci hanno fatto credere di essere nel paese dei balocchi dove tutto si può comprare all’infinito senza nessun problema di approvvigionamento, di inquinamento, di esaurimento risorse. Poi arriva una crisi qualsiasi, vera o presunta che sia, e l’intera Italia si ferma. E questa sarebbe la sicurezza, la modernità, il progresso tanto decantato?
Se fossimo in un paese che ha a cuore i propri abitanti, la prima cosa da fare da tempo sarebbe stata di garantire il più possibile proprio l’autosufficienza alimentare e energetica; ma, al contrario, nonostante l’Italia sia un paese dalle ricchezze immense in questi settori, siamo fortemente dipendenti sia dal punto di vista energetico che alimentare.
Invece di darci più sicurezza ed autonomia, continuiamo a creare dipendenza e insicurezza. Costruiamo il metanodotto TAP riempiendoci di gas che viene dall’estero e scoppiamo di sole, facciamo arrivare cibo scadente e di bassissima qualità da tutto il mondo, quando in Italia, paese fertilissimo e baciato da una posizione geoclimatica eccezionale, si potrebbe produrre di tutto. Si spera quindi che non ci sia bisogno di ulteriori drammi per capire che la vera soluzione sta nell’aumentare il più possibile l’autosufficienza energetica e alimentare, ricostruendo i legami comunitari distrutti da un sistema che per guadagnare ci vuole tutti individualisti e dipendenti, con i pessimi risultati che si vedono in questi giorni. Ovvio quindi che bisogna collaborare e anche ripensare un graduale ma deciso ritorno alla terra, non solo per la pura e semplice sopravvivenza ma anche per la tutela, salvaguardia del territorio e delle basi della vita. E speriamo che finalmente la si smetta di dire che non è realistico coltivare la terra e ripopolare le campagne.
Ma elenchiamo ancora una volta il perché è necessario e possibile.
1) L’Italia è strapiena di posti abbandonati e campagne che vanno in rovina e i luoghi sono così tanti che sono ormai molte le proposte degli stessi Comuni per fare ritornare le persone, anche dando contributi, vendendo le case a un euro, ecc. E spesso chi ne approfitta? Gli stranieri che apprezzano ben più di noi le nostre meravigliose ricchezze.
2) Anche in città è possibile creare le condizioni di resilienza diminuendo drasticamente gli sprechi e creando orti ovunque sia possibile; certo bisognerà smettere di cementificare per speculare producendo edifici vuoti ma invece ridare alla città spazi verdi e coltivabili. Del resto non stiamo dicendo nulla di fantascientifico, dato che ormai già varie città al mondo si stanno orientando in questa inevitabile direzione.
3) In Italia si continua a cementificare e ci sono milioni di alloggi vuoti e tantissimi sono proprio in zone di campagna; non si può certo dire che non ci sia posto.
4) Per avere una buona produzione agricola non servono chissà quanti ettari e coltivare la terra non è più il massacro di fatica che ci raccontano i nonni. Con le varie tecniche e conoscenze di agricoltura biologica e naturale di tutti i tipi che stanno nascendo come funghi, la fatica si è ridotta di molto e le rese sono migliori dell’agricoltura chimica, soprattutto nei piccoli appezzamenti. Su questi aspetti si veda il bellissimo libro Abbondanza miracolosa che sfata tutti i falsi miti che dicono che l’agricoltura chimica sia più produttiva di quella biologica.
5) In Italia meno del 4% delle persone lavora nel campo agricolo e la stragrande maggioranza di questo 4% esercita una agricoltura di dipendenza totale dai combustibili fossili. L’inversione di tendenza è quindi inevitabile se si pensa che fino agli anni sessanta (non mille anni fa), le persone impegnate in agricoltura erano il 30%.
In merito all’autosufficienza energetica, un paese pieno di sole, dalle potenzialità geoclimatiche immense, è agonizzante, ancora attaccato alla flebo dei combustibili fossili che generano costi, rischi enormi, inquinamento e ci tengono dipendenti dall’estero. Sarà il caso di cambiare rotta? Ognuno di noi può ridurre drasticamente gli sprechi a parità di confort e potenzialmente autoprodursi l’energia che gli serve e anche in città si possono fare moltissimi passi avanti in questa direzione. Quindi agendo così non solo ridurremmo dipendenza, inquinamento e spese ma daremmo da lavorare a milioni di persone nei settori che sono per noi vitali come quelli agricoli ed energetici. Ritrovare poi il senso di comunità è la soluzione alla disperazione, solitudine, paura e senso di dipendenza. Ricostruire i legami comunitari significa anche far fiorire lo scambio, la conoscenza, la cultura e la resilienza cioè la capacità di reagire efficacemente a cambiamenti improvvisi. E tutto questo si può fare senza limitare le libertà di nessuno anzi esaltando la libertà, le qualità e l’intelligenza di ognuno. I soldi, e le carte di credito potranno ben poco in situazioni di emergenza dove se non sai coltivare, se non sai produrti energia, rimani con i tuoi soldi in mano senza farci granchè. Puoi provare a mangiarli o ad accenderci un fuoco ma non si avranno grossi risultati. E vista la situazione attuale, non sarà il caso di rivedere tutte quelle sicurezze che si stanno dimostrando totalmente illusorie e smettere di credere a coloro che ci dicono che bisogna crescere a tutti i costi? Ma quale crescita? Qui l’unica cosa importante che deve crescere sono le piante dei propri orti. Deve crescere la collaborazione, l’aiuto reciproco, devono crescere le idee, le soluzioni affinché tutti si possa vivere dignitosamente, liberi, in pace, salvaguardando l’ambiente e i nostri simili.
In Val Susa Massimiliano Spigolon ha recuperato un vecchio mulino che ora sta facendo rinascere l’intera filiera agricola locale, stimolando la collaborazione tra gli agricoltori della valle e nuove produzioni agricole improntate alla riscoperta dei grani antichi e di una sovranità alimentare per rilanciare una nuova economia. Ci troviamo nella suggestiva Val Susa e quella che vi raccontiamo oggi è una storia che narra di vecchie tradizioni e di un antico mulino che, attraverso lo scorrere dell’acqua e il movimento della sua macina, ha scandito per più di un secolo il tempo e la vita di un’intera valle. Ora questo antico mulino, rimasto inattivo per lungo tempo, è stato recuperato per rilanciare l’intero territorio e riattivare una filiera locale che unisca i produttori agricoli della zona promuovendo una nuova e diffusa sovranità alimentare. Nel comune di Bruzolo vive Massimiliano Spigolon, protagonista della nostra storia, che qui ha deciso di riportare in vita l’antico mulino ad acqua risalente al 1884 che prende ora il nome di “Mulino Valsusa”. Scopo principale del progetto è contribuire a ripopolare i terreni della Val di Susa tornando a coltivare e diffondere le varietà tradizionali, antiche e moderne dei cereali, salvaguardando e valorizzando la biodiversità. Il tutto per costruire nel tempo e con l’aiuto degli agricoltori del luogo una filiera cento per cento chilometro zero attraverso materie prime nate, prodotte e trasformate localmente.
Come racconta Massimiliano Spigolon «la riattivazione del mulino è stata avviata inizialmente in una dimensione casalinga, per la produzione di cibi buoni e sani per l’intera famiglia. È stato poi il contatto con diversi mugnai italiani e col variegato mondo dei grani antichi a darmi lo stimolo per sviluppare un progetto agricolo sostenibile e territoriale per l’intera valle. Mi piace dire che il Mulino Valsusa è una bella scusa per riattivare una filiera che parta dall’agricoltura fino alla trasformazione dei prodotti».
Quello di Mulino Valsusa è un sogno che guarda in grande attraverso un progetto di ampio respiro che vuole impattare positivamente le attività produttive ma anche culturali e turistiche del territorio. «La nostra volontà è riuscire, come agricoltori, a ritornare custodi di un patrimonio che nel tempo è andato perduto». E ridare vita al mulino permetterà in questo modo di creare nella valle una nuova economia locale.
«L’obiettivo è quello di rispondere a un’esigenza sempre più sentita, quella di sapere cosa si mangia e da dove proviene, soprattutto per garantire un futuro migliore alle generazioni a venire» aggiunge Massimiliano Spigolon. «Il progetto prende infatti il nome di “Mulino Valsusa. Per un futuro più buono”: buono sia in termini di ciò che sui territori si coltiva sia di ciò che troviamo sulle nostre tavole».
Il Mulino, che ha incominciato a funzionare a fine ottobre, è il primo a riprendere vita nell’intera valle unendo tradizione e innovazione, attraverso l’utilizzo delle macine in pietra naturale capaci di produrre farine di pregio proprio come si faceva una volta ma anche strumenti tecnologici per una miglior automatizzazione e controllo dell’attività.
«In valle uno degli aspetti più complessi è proprio l’ambito agricolo, per questo il nostro progetto ha voluto trasmettere con forza una nuova fiducia agli agricoltori», spiega Massimiliano Spigolon. «Il Mulino diventa quel progetto che alla Valle di Susa mancava, in grado di generare entusiasmo e ravvivare le collaborazioni, capaci di sviluppare filiere corte e produzioni agricole locali. Abbiamo incontrato e condiviso il progetto con moltissime persone che coinvolgono tutta la filiera, in grado di dare il proprio contributo intellettuale e pratico».
Mulino Valsusa sta collaborando con il Crea – Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria e con altre realtà locali per riportare in Val di Susa alcune varietà di grani antichi migliori dal punto di vista salutistico, nutrizionale e ambientale, con un’attenzione rivolta, oltre che ai grani, ad altre colture ed eccellenze valsusine.
A livello didattico verranno presto avviate nuove attività. Come mi spiega Massimiliano, «per noi è importante partire dalle cose più semplici: mostrare ai bambini com’è fatta una spiga, far provare loro la sensazione di mettere le mani nel grano e trasmettere l’importanza di un’alimentazione sana e locale. Inoltre, vorremmo lavorare sul territorio in sinergia con le realtà presenti, non creando concorrenze ma bensì collaborazioni attraverso dinamiche didattiche da costruire insieme».
Con l’avvio del mulino, il compito non è solo produrre, ma anche fare cultura. «Non cerchiamo di essere i migliori ma di essere migliori», mi confida Massimiliano. «Se insegniamo a riconoscere e ad utilizzare le diverse farine, allora il progetto può crescere e quindi il nostro compito è trasmettere al meglio le nostre conoscenze».
Un’ode alla terra e un invito a riparare la
nostra relazione con essa. È così che potremmo definire l’ultimo rapporto IPCC
sui cambiamenti climatici dal quale emerge lo stretto legame tra l’uso del
suolo ed il riscaldamento globale. Le previsioni cupe del report non
rappresentano però una sentenza definitiva e gli esperti tracciano la strada da
seguire per fronteggiare la crisi ambientale in atto. “Né le nostre identità individuali o sociali, né l’economia
mondiale esisterebbero senza le molteplici risorse, servizi e sistemi di
sostentamento forniti dagli ecosistemi terrestri e dalla biodiversità. Il
valore annuale dei servizi ecosistemici terrestri totali del mondo è stato
stimato a 75-85 trilioni di dollari nel 2011. Ciò supera sostanzialmente il PIL
annuale mondiale. La terra e la sua biodiversità rappresentano anche benefici
essenziali e immateriali per l’uomo, come l’arricchimento cognitivo e
spirituale, il senso di appartenenza e i valori estetici e ricreativi.
Valorizzare i servizi ecosistemici con metodi monetari spesso trascura questi
servizi immateriali che modellano le società, le culture e la qualità della
vita e il valore intrinseco della biodiversità. L’area terrestre della Terra è
limitata. L’uso sostenibile delle risorse della terra è fondamentale per il
benessere umano”.
Si apre così, quasi
con un’ode al nostro pianeta, il Rapporto speciale “Il cambiamento climatico e la terra” del gruppo intergovernativo di esperti sui
cambiamenti climatici (IPCC) delle Nazioni Unite. L’anno scorso l’IPCC ha
pubblicato il famoso “Rapporto speciale sul riscaldamento globale di 1,5° C”,
in cui ci dice che abbiamo 12 anni per scongiurare il peggio. Questa è la prima
volta nella storia dei rapporti dell’IPCC che la maggior parte degli autori –
53% – proviene da paesi in via di sviluppo. Il team degli autori ha attinto al
contributo di 96 autori partecipanti; ha incluso oltre 7000 riferimenti citati
nel rapporto; e considerato un totale di 28.275 commenti di esperti e dei
governi. I rapporti dell’IPCC contengono solo dati e previsioni su cui c’è
accordo nella comunità scientifica, e sottolineano anche il grado di consenso
esistente sulle singole affermazioni contenute nel rapporto.
“Con l’aumento del
riscaldamento, si prevede che la frequenza, l’intensità e la durata degli
eventi legati al calore, comprese le ondate di calore, continueranno ad
aumentare nel corso del 21° secolo (alta fiducia). Si prevede che la frequenza
e l’intensità della siccità aumenteranno in particolare nella regione
mediterranea e nell’Africa meridionale (media fiducia). Si prevede che la
frequenza e l’intensità degli eventi con precipitazioni estreme aumenteranno in
molte regioni (elevata sicurezza)”. La probabilità che l’onda calda della
scorsa estate si ripeta nelle prossime è praticamente certa. Meno sicuro è che
in Europa faremo esperienza di siccità, seppure anche questo resta mediamente
probabile. In generale, nel mondo, circa 500 milioni di persone vivono in aree
soggette a desertificazione. Cosa c’entra la terra con tutto questo? Non
sono solo le emissioni di gas serra a causare il riscaldamento globale? Sembra
di no. Il modo in cui utilizziamo la terra, ha un impatto sul riscaldamento
globale. Questo per due motivi, ci spiega il rapporto. La deforestazione
dovuta all’agricoltura e le pratiche agricole industriali impoveriscono il
terreno, diminuisce l’umidità e la biodiversità, e quindi la naturale capacità
della terra di mitigare il clima, produrre precipitazioni e assorbire anidride
carbonica dall’atmosfera.
Contemporaneamente,
però, azioni come la riforestazione, l’agricoltura rigenerativa, la protezione
e il restauro degli ecosistemi, possono aumentare la capacità della terra di
prelevare carbonio e immagazzinarlo nel terreno. Mentre noi esseri umani lo
estraiamo dal sottosuolo e lo rilasciamo nell’atmosfera, le piante e i
microrganismi del suolo lo riportano a terra. “L’agricoltura, la silvicoltura e
altri tipi di utilizzo del suolo rappresentano il 23% delle emissioni
umane di gas serra. Allo stesso tempo, i processi naturali terrestri assorbono
l’anidride carbonica equivalente a quasi un terzo delle emissioni di anidride
carbonica da combustibili fossili e dall’industria ”, spiega Jim Skea,
copresidente del terzo gruppo di lavoro dell’IPCC. Ci siamo indignati per il
disboscamento dell’Amazzonia voluta dal Governo Bolsonaro per soddisfare gli
appetiti della lobby agricola. Ma circa tre quarti della superficie terrestre
libera dai ghiacci a livello globale è utilizzata dall’uomo per attività
produttive. E non basta. Si legge nel rapporto che se la dieta media dei
paesi ricchi fosse consumata a livello globale, “la superficie agricola
necessaria per fornire queste diete aumenterebbe di 14 volte”.
Ultimamente si
parla molto di piantare alberi per contrastare l’innalzamento delle temperature,
e recentemente è stata lanciata una campagna anche in Italia. Il Rapporto dedica molte pagine agli effetti dei
programmi di forestazione e riforestazione. Tuttavia non tutto è così semplice.
Piantare alberi dove ci sono praterie o pascoli, per esempio, può addirittura
ridurre la capacità di assorbimento di carbonio del terreno. Può anche portare
a un consumo maggiore di acqua. Le foreste di monoculture a rapida crescita,
purtroppo diffusissime, hanno un impatto negativo sulla biodiversità, e alcune
specie come il pino e l’acacia risultano spesso invasive e dannose per le
specie autoctone. Se si guarda ai “potenziali effetti collaterali di tali
misure su larga scala, in particolare per i paesi a basso reddito, si
potrebbero verificare aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari causati
dall’aumentata concorrenza per la terra”.
Riscaldamento
atmosferico, aumento di eventi climatici estremi, spostamento degli ecosistemi
stanno già causando instabilità nell’approvigionamento di cibo. “I modelli
previsionali globali – si legge nel rapporto – prevedono un aumento mediano del
7,6% (intervallo dall’1 al 23%) dei prezzi dei cereali nel 2050 a causa dei
cambiamenti climatici, portando a un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari
e a un aumento del rischio di insicurezza alimentare e fame (media
fiducia). Le persone più vulnerabili saranno maggiormente colpite (alta
sicurezza)”.
Ma le previsioni
cupe contenute nel rapporto non sono una sentenza definitiva. Infatti, si
legge, “esistono molte opzioni di gestione del territorio sia per
ridurre l’entità delle emissioni sia per aumentare l’assorbimento di carbonio.
Queste opzioni migliorano la produttività delle colture, lo stato dei nutrienti
del suolo, il microclima o la biodiversità e quindi supportano l’adattamento ai
cambiamenti climatici (elevata fiducia)”.
Il bello è che
queste opzioni coincidono con quanto sostenuto da quelli che fino a poco
tempo fa apparivano come sognatori utopici. C’è infatti, scrive il rapporto,
“un elevato accordo su (una combinazione di) scelte come l’agroecologia,
l’agricoltura conservativa e le pratiche forestali, la diversità delle specie
vegetali e forestali, adeguate rotazioni di colture e foreste, agricoltura
biologica, gestione integrata dei parassiti, conservazione e protezione dei
servizi di impollinazione, raccolta delle acque piovane, gestione della gamma e
dei pascoli e sistemi di agricoltura di precisione. L’agricoltura e la
silvicoltura conservativa utilizzano pratiche di gestione con un minimo
disturbo del suolo come nessuna lavorazione del terreno o minima
lavorazione, copertura del suolo permanente con pacciamatura combinata con
rotazioni per garantire una superficie del suolo permanente o rapida
rigenerazione della foresta dopo il raccolto”. Sono queste le pratiche agricole
del futuro, perché sono le uniche che possono sia mitigare i cambiamenti
climatici, che facilitare l’adattamento ad essi. Inoltre, queste opzioni
“possono contribuire a sradicare la povertà eliminando la fame, promuovendo nel
contempo buona salute e benessere, acqua pulita e servizi igienico-sanitari,
azione per il clima e vita sulla terra”.
Per implementare
queste opzioni nella scala e rapidità necessarie, tuttavia, servono sistemi di
governance innovativi, in grado di coinvolgere i diversi stakeholder,
consultare le popolazioni locali, creare processi decisionali deliberativi,
costruire istituzioni policentriche e multilivello e attingere alle conoscenze
indigene. “La natura, la fonte e le modalità di generazione della
conoscenza sono fondamentali per garantire che le soluzioni sostenibili siano
di proprietà della comunità e completamente integrate nel contesto locale.
L’integrazione della conoscenza indigena e locale con le informazioni
scientifiche è un prerequisito per tali soluzioni di proprietà della
comunità”.
Nel parlare dei sistemi
di pensiero indigeni il Rapporto specifica che “la conoscenza indigena
locale è anche olistica dal momento che gli indigeni non cercano soluzioni
volte ad adattarsi ai soli cambiamenti climatici, ma cercano invece soluzioni
per aumentare la loro capacità di resistenza a una vasta gamma di shock e
stress”.
Come ha scritto la
biologa nativa americana Robin Wall Kimmer nel suo meraviglioso libro “Braiding
Sweetgrass”, sottotitolato “Saggezza indigena, conoscenza
scientifica e gli insegnamenti delle piante”, occorre integrare le antiche
conoscenza indigene con le moderne indagini scientifiche. Come emerge dal
Rapporto dell’IPCC, infatti, abbiamo un vitale bisogno di entrambe. Come scrive
Kimmer, “antiche e nuove storie che possano essere medicina per la nostra
relazione spezzata con la terra, una farmacopea di storie curative che possano
consentirci di immaginare una relazione diversa, nella quale gli esseri umani e
la terra siano buona medicina gli uni per l’altra”.
Dopo l’Austria, anche la Germania (patria della
Bayer) mette al bando il glifosato. L’Italia invece nicchia e lo fa pubblicando
la bozza del nuovo Piano d’azione nazionale per “l’uso sostenibile” dei
pesticidi (Pan) con parecchi mesi di ritardo e… partorendo il consueto
topolino.
Riportiamo
l’interessante intervento che l’avvocato Stefano Palmisano, esperto di
diritto ambientale, ha reso disponibile sul blog che cura per Il Fatto
Quotidiano.
«In Austria, meno
di due mesi fa, il Parlamento ha approvato un divieto totale di utilizzo dei
pesticidi a base di glifosato sul proprio territorio. Questo nonostante il noto
rinnovo dell’autorizzazione all’uso del più celebre erbicida al mondo concesso
dalla Commissione Europea nel dicembre 2017 per altri cinque anni. Lo strumento
grazie al quale l’assemblea austriaca ha potuto permettersi questo mirabile
esempio di tutela dell’ambiente, dell’alimentazione e della salute pubblica per
via legislativa è il principio di precauzione. Quello sancito nella legge
fondamentale della sicurezza alimentare dell’Unione europea, il regolamento n.
178/2002, che all’art. 7 statuisce: “Qualora, in circostanze specifiche a
seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la
possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione
d’incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure
provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato
di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori
informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio.”
Principio che,
peraltro, governa la più complessiva materia della tutela ambientale in ambito
unionale in forza di un’altra norma, ancor più cogente perché contenuta nel
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, al cui art. 191 si dispone che
“la politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela,
tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione.
Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul
principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati
all’ambiente, nonché sul principio ‘chi inquina paga’.”
Il Parlamento
austriaco ha fatto proprio questo: pur in presenza di una situazione di, più o
meno effettiva, incertezza sul piano scientifico, ha adottato le misure di
gestione del rischio.
Siccome il rischio,
nel caso di specie, è del livello ormai notorio – e che si ricorderà nelle
prossime righe – le misure che in una situazione siffatta competono, anzi
gravano su un’assemblea legislativa – quelle “necessarie per garantire il
livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue” – non possono
che essere drastiche: come quella che ha adottato Vienna. Come dovrebbe essere
sempre quando la “possibilità di effetti dannosi per la salute” emerge in
maniera sempre più concreta. E, nel caso del glifosato, quella possibilità ha
assunto ormai da tempo le vesti sinistre di una elevata probabilità. Senza
ripercorrere la storia, ormai lunga e sempre meno contrastata, delle evidenze e
dei pronunciamenti scientifici sugli effetti nocivi di questa sostanza sulla
salute umana (che annoverano, tra l’altro, anche una monografia dell’Agenzia
internazionale per la ricerca sul cancro – IARC); senza indugiare sui numerosi
e convergenti “precedenti giudiziari” del glifosato (di cui ci siamo più volte
occupati su questo blog), qui è solo il caso di rammentare che appena pochi
mesi fa è stato pubblicato un altro studio in tal senso. Si tratta di una
meta-analisi dell’Università di Washington, ossia una ricerca particolarmente
rilevante perché “fornisce l’analisi più aggiornata delle correlazioni tra
glifosato e il linfoma non-Hodgkin, includendo uno studio del 2018 su oltre
54.000 persone che nelle loro attività lavorative utilizzano pesticidi
autorizzati”, come ha spiegato Rachel Shaffer, co-autrice della ricerca.
L’esito del lavoro scientifico in questione è difficilmente equivocabile:
“Complessivamente, in accordo con le evidenze che vengono dagli studi
sperimentali sugli animali e da quelli meccanicistici, la nostra attuale
meta-analisi degli studi epidemiologici umani suggerisce un legame convincente
tra esposizioni al Gbh (glifosato, ndr) e aumento del rischio di Nhl (linfoma
non Hodgkin)”. Anche sulla base di queste ultime e autorevolissime evidenze
scientifiche, appena qualche settimana fa, la Federazione internazionale di
ginecologia e ostetricia – che collabora con l’Oms e ha un ruolo consultivo con
l’Onu – ha pubblicato una dichiarazione con la quale chiede la messa al bando
del glifosato nel mondo. Presa di posizione che – si legge – affonda le sue
radici nei risultati emersi negli anni da numerosi studi scientifici; ma anche
nello stesso principio di precauzione illustrato all’inizio di questo scritto.
Insomma, è una massa sempre più ponderosa e concludente di dati scientifici. E
tale deve averla ritenuta non solo il Parlamento austriaco, autore della
decisione storica su citata; ma anche, e soprattutto, le Autorità della
locomotiva d’Europa, la Germania, che proprio in questi giorni hanno approvato
un piano che prevede progressive restrizioni nell’uso del glifosato per
arrivare a una riduzione del 75% entro metà del 2023 e a un completo divieto
unilaterale dalla fine di quell’anno, cioè alla scadenza
dell’autorizzazione quinquennale concessa alla sostanza dalla Commissione
Europea.
La decisione di
Berlino risulta oltremodo emblematica se si considerano, tra l’altro, due
elementi:
1. la Germania è la
patria della Bayer, la società che ha incorporato poco più di un anno fa la
Monsanto, la “madre” mondiale del glifosato nella forma del rinomato Roundup –
operazione di mercato che, peraltro, non dovrebbe regalare ai suoi ideatori un
posto nel Pantheon dei capitani più illuminati dell’industria germanica;
2. il rinnovo della
licenza d’uso del glifosato su ricordato era stato rilasciato anche e
soprattutto per il decisivo ruolo giocato nella vicenda dall’agenzia federale
tedesca per la valutazione dei rischi, la Bfr, la quale avrebbe effettuato la
valutazione del rischio seguendo peculiari protocolli scientifici nella stesura
della propria relazione. Tipo il copia-incolla di oltre il 50% degli studi che
i produttori, tra cui l’ovvia Monsanto, avevano presentato a sostegno della
domanda di rinnovo dell’autorizzazione. In pratica, il controllato avrebbe
scritto più della metà del parere rilasciato dal controllore. E alla fine il
verdetto della Bfr è stato curiosamente favorevole. Oggi la Germania, ad appena
due anni di distanza, dichiara di voler cambiare radicalmente rotta.
Significherà qualcosa in ordine alla reale natura dell’oggetto della questione,
ossia il glifosato. Anzi, significherà parecchio. Nel Belpaese, intanto, un
mese fa è stata pubblicata la bozza del nuovo Piano d’azione nazionale per
“l’uso sostenibile” dei pesticidi (Pan), con parecchi mesi di ritardo rispetto
alla scadenza del primo Pan (febbraio 2019). Secondo i primi commenti, ad onta
delle grandi aspettative che circondavano questo atto, si tratterebbe
dell’ennesima montagna che ha prodotto il consueto topolino.
Ma a questo tema
specifico toccherà dedicare qualche riga ad hoc a brevissimo».
Vi proponiamo la storia di Giorgia e Francesca,
due giovani donne che hanno riabitato una vecchia casa nell’entroterra ligure,
ristrutturando l’abitazione e ridando vita al terreno agricolo, passo dopo
passo e seguendo i principi della permacultura. La Tabacca è oggi un progetto
ambientale e sociale e la dimostrazione di come si possa passare dalla teoria
alla pratica rimboccandosi le maniche e avendo chiaro l’obiettivo da
raggiungere. Il giorno in cui finalmente
intervisto Giorgia Bocca e Francesca Bottero (dopo anni in cui ci ripromettiamo
di incontrarci) è davvero fuori dal comune. Arrivo, infatti, con il mio camper
a Voltri, nei pressi di Genova, e lì incontro una troupe della Rai, “capitanata”
dalla giornalista Elisabetta Mirarchi. Sono venuti ad intervistarmi sul nostro
lavoro con Italia che Cambia e contestualmente a seguirmi mentre intervisto
Giorgia e Francesca. Lasciamo il mio camper e la macchina della RAI in un
vicino parcheggio e saliamo su una piccola auto 4X4 con la quale è venuto a
prenderci un volontario che collabora a La Tabacca. La strada per raggiungere la sede del nostro
incontro, infatti, è impervia e impossibile da percorrere con mezzi ordinari.
In effetti ci inerpichiamo su una stradina tipicamente ligure che ci porta a
passare in pochi minuti dal mare a terre interne, premontane, selvatiche. Ed
eccoci giunti a casa di Giorgia e Francesca. Dopo aver gustato tutti
insieme un pranzo meraviglioso e aver visitato gli orti e la casa che si sono
auto-ristrutturate in molti anni e secondo i criteri della bioedilizia,
intervistiamo le due ragazze.
I primi passi
Francesca e Giorgia
si sono conosciute molti anni fa e hanno lavorato entrambe per l’Associazione Terra! Onlus. Qui hanno incontrarono uno psichiatra di Torino che, inaspettatamente,
decise di donar loro la sua casa e il suo terreno a patto che ci realizzassero
un progetto sociale. Racconta Francesca: “È stato un percorso
travagliato, perché lui non era mai venuto qua, e aveva a sua volta ereditato
questo luogo da alcuni zii, ma in breve tempo siamo riuscite a risolvere i
problemi di successione. Il primo gennaio 2011 siamo venute qui in
perlustrazione per la prima volta. Abbiamo incontrato subito gli alberi che
custodiscono questo luogo, che ti accompagnano lungo il sentiero. È spuntata
questa casa in mezzo alla natura spoglia, completamente rustica; una
casa che aveva l’imprinting della casa contadina di un tempo; sotto c’erano
stalle e mangiatoie, cucina con vecchi manufatti, un vecchio forno di mattoni e
una vecchia cucina fatta con un rufo. Questo era lo scenario: una casa immersa
in un bosco, con un solo pezzo di terra coltivato. Non c’era una strada di
accesso e tutta la casa era da ricostruire… ma il sogno era talmente grande che
ci siamo messe subito in cammino per poterlo realizzare”.
Il primo passo fu
ricostruire il tetto. Per farlo, tagliarono 12 castagni del loro bosco e con
essi costruirono le travi del nuovo tetto. “L’inizio è stato abbastanza
turbolento – continua Giorgia – qui non ci conoscevano, eravamo come piantine
infestanti che si stavano insediando in un luogo non loro. Abbiamo cercato sin
da subito di creare rapporti con le famiglie del borgo, ma all’inizio è
stato un po’ difficoltoso: siamo due donne, che volevano vivere di agricoltura
in un bosco e che per di più si portavano dietro tutti questi giovani vestiti
colorati che sapevano di spezie e curcuma… sembravamo una banda del ’68 e
questo ha creato resistenza. Ma piano piano, le persone si sono abituate a
vederci, a parlare con noi, i bambini hanno iniziato a curiosare, e oggi in
molti ci vogliono bene. La signora Tina, ad esempio, ci prepara le focacce”.
La progettazione in
permacultura
La ristrutturazione
della casa e la coltivazione della terra sono state realizzate seguendo i
principi della permacultura e le logiche della bioedilizia. La progettazione è
stata realizzata su tutto: l’uso e riutilizo dei materiali, la luce e il design
interno, i mobili antichi, il recupero delle acque di sorgente e la successiva
fitodepurazione. Prima hanno sperimentato “nel piccolo” e poi replicato “nel
grande”. Per questo ci sono voluti otto anni per ristrutturare l’abitazione
e avviare l’azienda agricola. Questa è composta da sette ettari di bosco.
Francesca si sta occupando personalmente del miglioramento boschivo così
come in passato molti dei lavori di ristrutturazione sono stati eseguiti
fisicamente con l’aiuto delle due donne. Qui, infatti, mancava fino a pochi
mesi fa una strada di accesso. Giorgia e Francesca, quindi, hanno trasportato
con la carriola i materiali dalla strada alla casa, attraversando il bosco,
giorno dopo giorno e spesso con l’aiuto di amici e volontari. Lo stesso è
avvenuto con bosco e parte agricola: Francesca ha lasciato la sua attività in
Terra Onlus per avviare l’azienda agricola e realizzare potature e giardini.
Racconta Francesca: “Nelle zone limitrofe a casa abbiamo già avviato un piccolo
frutteto recuperando delle vecchie varietà di prugne che erano tipiche di
questo luogo. Inoltre stiamo valorizzando piante autoctone, come la Mela
Carla, tipica delle zone liguri, e abbiamo inserito altre varietà generose, per
la futura autosufficienza delle galline. Coltiviamo anche alcuni grani antichi
e facciamo orticultura”.
Le attività
ambientali e sociali
Non è tutto.
Accanto alle attività agricole, la Tabacca ospita percorsi di educazione
ambientale ed è la sede di riferimento de La Scuola diffusa della Terra Emilio
Sereni. Non meno
importante, il filone sociale: “Crediamo – continua Giorgia – che nello scambio
con le persone ci sia sempre un aumento di possibilità e una maggiore capacità
di risolvere i problemi. Inizialmente abbiamo coinvolto la nostra prima rete
sociale, costituita dalle persone amiche e da quelle collegate
all’Associazione, per poi passare ad innescare processi di partecipazione con
il territorio, con le famiglie vicine, facendo comunicazione, creando
relazione, facendoci conoscere, coinvolgendo le persone e mettendo a
disposizione quello che noi avevamo in competenze e risorse in termini di scambio.
Questo ha soddisfatto i bisogni anche di altri. In questo momento storico,
infatti, sempre più persone sentono il bisogno di luoghi di accettazione, senza
giudizio. Partecipiamo e organizziamo eventi culturali, occasioni di
divulgazione, campeggi. L’apporto dell’associazione Terra Onlus è fondamentale
in questo processo e cambia completamente il nostro approccio, perché ci
permette di fare formazione con obiettivi precisi da raggiungere”.
Molte delle scelte
portate avanti dalle due donne hanno anche un risvolto politico: l’idea,
infatti, è quella di andare a influenzare il legislatore locale per rendere più
semplici le soluzioni architettoniche e di servizio che loro stanno mettendo in
pratica nella loro abitazione in modo che possano poi essere adottate anche da
altri.
Le radici
“Ho memoria delle
mie fotografie da bambina – confida Francesca – venivo sempre ritratta mentre
scavavo una buca per terra o in mezzo alle vigne o in un campo, e rivedendo
quelle foto ho visto il mio desiderio di vivere in campagna, in modo semplice,
a contatto con la natura, e forse questo è stato il regalo più bello di questi
sette ettari di bosco”.
“Il nome La Tabacca
– continua Giorgia – deriva dal contrabbando del tabacco che – come ci hanno
narrato gli anziani del posto – si svolgeva in queste terre. Già allora, una
donna teneva le fila della famiglia e curava le piante. Il luogo viveva quindi
una gestione molto matriarcale: i bambini venivano qui a giocare e c’era una
forte integrazione. Noi ci sentiamo un prolungamento di questa famiglia”.
Il futuro
“Io sono pronta per
La Tabacca 2.0 – esclama Giorgia – a ottobre verremo finalmente a vivere qui e
saremo pronte per valorizzare l’esterno soprattutto dal punto di vista
dell’economia basata sul turismo culturale. Sogno una multifunzionalità
dell’agricoltura legata all’accoglienza e al turismo. Stiamo già collaborando
con una azienda agricola vicina, che è sempre di una donna, con cui faremo
trasformazione del prodotto e quindi piano piano vorremo espandere il nostro modello
nella valle. Vogliamo creare un modello replicabile che sia utile per tutti”.
Ispirata ad Arvaia, è nata “Semi di comunità”, la
prima CSA romana. Si tratta di una forma di organizzazione pensata per produrre
e distribuire prodotti agricoli in modo nuovo e collaborativo e, al contempo,
tessere relazioni umane basate sulla condivisione e le buone pratiche di
sostenibilità. Anche a Roma… si può!
“Il cibo può essere
una dimensione attraverso la quale possiamo trovare delle connessioni. La
ricerca di buon cibo locale può diventare parte della costruzione della
comunità. Tra le città europee Roma possiede i più ampi spazi dedicati al
verde e dove c’è verde può nascere buon cibo. Insieme agli agricoltori si
possono creare luoghi per la rigenerazione dell’economia, della democrazia, della
conoscenza e della nostra libertà”.
Mentre ascolto il
racconto di Saverio e Alice sulla nascita della prima CSA romana, mi
tornano alla mente le parole pronunciate da Vandana Shiva mentre parlavamo di sovranità alimentare in uno dei
tanti orti/giardini inaspettati della capitale. Il tema della terra,
dell’agricoltura, solidale e sostenibile, della provenienza del cibo che
mangiamo, della sua produzione, e conseguentemente della nostra salute, è un
tema centrale nel cambiamento di paradigma. Ad esso si legano strettamente
molti temi, compreso quello, meno scontato, del tessere relazioni e ricreare
comunità. Un aspetto ben chiaro a questa neonata CSA che non a caso si chiama Semi di Comunitàe in seno a due comunità è stata
ideata, ponendo come base del progetto “la creazione di una comunità agricola
di persone e competenze”.
Ma che cosa è una
CSA?
Il termine CSA
significa Comunità che Supporta l’Agricoltura ed è una particolare forma di
organizzazione, in cui la comunità dei soci è legata da un reciproco impegno di
collaborazione. Tutti i soci prendono insieme le decisioni sulle scelte
aziendali, sostengono la produzione e si distribuiscono cibo fresco, sano e
prodotto nel rispetto dell’ambiente. Questo vuol dire anche assumersi il
rischio d’impresa, che viene condiviso da tra tutti soci. In Italia la prima
CSA è stata quella di Arvaia, fondata nel 2013, una delle storie che abbiamo
raccontato e da cui Semi di Comunità ha tratto ispirazione e sostegno.
“I semi di questo
progetto risalgono a un anno e mezzo fa. Io sono arrivato quando si era da poco
costituito un gruppo incubatore di idee – racconta Saverio Inti Carrara, uno
dei soci lavoratori della CSA – Tutto è partito da due comunità che fanno parte
dell’associazione nazionale MCF “Mondo di Comunità e Famiglia”, quella di
Casale Vecchio, a Prima Porta, dove ci sono anche i campi che
coltiviamo, e l’altra in zona Bufalotta, La collina del Barbagianni. In questo
gruppo lavoravamo su varie idee e buone pratiche da poter trasferire anche nel
mondo del lavoro e che avessero come base la solidarietà, l’etica,
l’uguaglianza. Ho fatto studi artistici ma a 23 anni ho deciso di dedicarmi
all’azienda familiare, un’azienda agricola biologica nel bergamasco. Per 5 anni
mi sono occupato del frutteto, dell’orto, facendo di tutto, dalla potatura alle
consegne ed ho poi continuato a lavorare e sperimentare anche una volta
approdato a Roma”.
Un’esperienza che
ha fatto ben comprendere a Saverio come in agricoltura ci siano pochi margini
economici. “Poi un giorno ho ricevuto una mail in cui si parlava di Arvaia e
sono partito, sono andato a trovarli , ho riportato l’idea che avevo trovato al
gruppo ed abbiamo deciso di intraprendere la strada della CSA. Due soci
di Arvaia sono poi venuti da noi per due giorni e abbiamo allargato la
condivisione dell’idea, coinvolgendo attraverso il passaparola tra le persone
che ruotano intorno a queste due comunità. Ed è stato tutto molto veloce, il 23
gennaio di quest’anno abbiamo costituito la cooperativa. C’erano già circa
cinquanta persone interessate e volevamo tenere alto questo interesse partendo
con la produzione dalla primavera. A livello pratico, i lavori sui campi
sono iniziati a metà marzo. Abbiamo autocostruito insieme ai soci quattro
serre, seminato 10000 piante, sistemato il vivaio, pulito i campi che abbiamo
in affitto dalla comunità in via del Prato della Corte 1602/a, all´interno del
Parco di Veio. Ci sono 2 ettari e mezzo di terreno coltivabile e altrettanto di
bosco e sono campi già certificati biologici”.
Come funziona la
CSA
A raccontare come
funziona la CSA è Alice Bognetti, l’altra attuale socia lavoratrice, che è
arrivata a settembre a cavallo della prima assemblea pubblica in cui si
cominciava a proporre il progetto già delineato. “All’interno della CSA ci sono
diversi tipi di socio. C’è il “socio semplice” che aderisce alla
cooperativa attraverso un contributo di 100€ al capitale sociale, e che, come
tutti gli altri può partecipare alla fattoria didattica, alle giornate
conviviali e di scambi di sapere, e alla produzione, contribuendo
volontariamente con qualche giornata di lavoro durante l’anno. Ci sono poi i
soci sovventori e prestatori, che con nostro grande stupore sono arrivati sin
da subito, che fanno donazioni a fondo perduto o prestiti alla cooperativa. E
ci sono i soci lavoratori che garantiscono il raccolto, stilano un piano
delle colture e sottopongono il bilancio dei costi a tutti i soci per
l’approvazione. Secondo il nostro piano ideale dovrebbero essere una persona a
tempo pieno e due part time ma attualmente c’è una persona full time e un
partime diviso tra due soci lavoratori. Infine i soci fruitori a cui spetta
settimanalmente una parte dei prodotti coltivati”.
“Un punto cardine
della CSA è l’asta delle quote – prosegue Saverio – Prima dell’asta
viene condivisa con i soci la proposta di piano economico annuale che comprende
tutti i costi previsti e, in base a questo, si calcola il costo di una quota
ideale, facendo una divisione per il numero di soci fruitori. Se ad esempio si
prevedono 80000€ di costi e abbiamo 100 soci, la quota ideale sarebbe 800€ a
testa, questo significa che se ognuno mettesse 800€ il progetto sarebbe
sostenibile e si potrebbe partire con la produzione.
L’asta però è uno
strumento che serve anche per garantire l’accesso alla CSA alle fasce
meno abbienti, quindi durante l’asta si concorda un valore minimo, inferiore
alla quota ideale, e uno massimo, superiore alla quota ideale, e ogni socio
scrive la cifra che può dare. A questo punto si calcola il totale raggiunto e,
se ad esempio mancano 2000€ per raggiungere le previsioni di spesa, si propone
di dividerli fra tutti i soci fruitori. Nel caso di 100 soci sarebbero 20€ a
testa in più. Quest’anno però non è stato possibile perché sapevamo già che non
avevamo i numeri per farlo, la quota ideale sarebbe stata altissima e abbiamo
quindi stabilito una quota fissa di 800€ scommettendo che il progetto che si
allargasse. Oggi i soci sono arrivati a 100 e a 40 le quote per quanto riguarda
i soci fruitori. Considerando che si possono acquisire anche mezze quote, sono
circa 60 i soci fruitori. Ma per essere sostenibili abbiamo bisogno di arrivare
almeno a 50 quote. Anche se dalla seconda metà maggio inizieremo la distribuzione,
continueremo la campagna per l’acquisizione di nuovi soci”.
Le quote, che si
possono pagare in due rate entro la fine di giugno, garantiscono 5/6 chili di
verdura a settimana per le quote intere, e ¾ chili per le mezze quote, per 48
settimane l’anno, escludendo quindi il mese di agosto durante il quale le porte
dell’azienda rimangono aperte a chi vuole prendere li prodotti in autonomia.
Semi di comunità ha
già anche un piano per la distribuzione che conta sette punti della città: il
primo direttamente in azienda, uno presso la comunità de La collina del
Barbagianni, presso un vivaio in zona Monteverde, a Capena e in due parrocchie
a Piramide e Nomentana e a Testa di Lepre.
“L’intento della
CSA è sì distribuire il prodotto ma anche creare rapporti umani,
comunità, per fare questo ci siamo di nuovo ispirati ad Arvaia anche per la
distribuzione. Dall’azienda partono delle cassette monovarietari e nei punti di
distribuzione c’è una bilancia e una bacheca con la lista delle persone e le
quantità di prodotti per tipologia che ognuno può prendere in autonomia e in
fiducia. E poi c’è una cassetta per gli scambi. Ciò che eventualmente avanza
viene lasciato a chi ci ospita per la distribuzione. Da statuto la nostra idea
è quella di una cooperativa a impatto zero, che si basa sul riuso e sul minor
spreco di cibo, di materie e non solo. E questa sarà una delle nostre sfide”.
Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/05/comunita-agricola-capitale-nasce-prima-csa-roma/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni