Da impiegata a contadina: la nuova vita in natura di Elisa, tra alberi e maixei

Un rimorchio per cavalli riadattato a piccolo bar racchiude una storia di cambio vita e di riscoperta di felicità. Oggi vi parliamo di Elisa, che dopo aver lavorato per anni in un ufficio ha deciso di lasciarsi tutto alle spalle e coronare il suo sogno: ora la troverete nella sua oasi di pace, l’azienda agricola Maixei, un punto ristoro lungo il percorso dell’acquedotto storico di Genova.

Genova – Dopo aver gestito per secoli l’approvvigionamento idrico dell’intera città, l’acquedotto storico della val Bisagno oggi è una comoda passeggiata semi-urbana. Chi la percorre non può dimenticare il suono dei passi sulle lastre di pietra che rimbomba sul vuoto delle antiche condotte. Per parecchi chilometri il percorso asseconda a mezza quota il profilo delle colline, restando in buona parte al di sopra dei caseggiati costruiti nelle vicinanze e regalando insospettabili scorci rurali. Si cammina affiancando muretti a secco, i cosiddetti maixei, e fasce di ulivi; e poi si incontrano capre, pecore, galline e tartarughe che fanno emozionare i più piccoli lungo il percorso. Un luogo di storia e natura ancora poco conosciuto da chi non abita in zona che negli ultimi anni sta vivendo un progressivo aumento di interesse. Passeggiando in una domenica di sole, alla ricerca di un luogo dove mia figlia potesse collaudare il suo primo aquilone, ho scoperto l’azienda agricola Maixei. Sono stata attirata dal raglio dell’asino Roby, colui che dà il benvenuto a chiunque si avvicina all’ingresso, e ho passato il pomeriggio in compagnia degli animali dell’azienda agricola. Ecco perché ho voluto parlarvene oggi.

Le mascotte di Maixei

LA STORIA

L’idea di Maixei è nata nel 2020. «Era un momento buio della mia vita – racconta Elisa Pezzoli, la titolare – ed ero giù di morale perché avevo perso da poco entrambi i miei genitori. Conscia del fatto che nei periodi no la natura sa come venire in aiuto, mi sono decisa».

Lei e suo marito trovano in vendita un grande appezzamento di terreno vicino casa, inizialmente pensato come orto familiare, e lo acquistano: «Abbiamo impiegato diversi mesi a pulirlo, era ridotto a una discarica. Abbiamo trovato quintali di spazzatura, bottiglie di vetro e cinque carcasse di motorini. Più ci lavoravamo però più ci legavamo a quella terra. E in pochissimo tempo ci siamo letteralmente innamorati del posto».

Dopo qualche mese la coppia si rende conto che quell’appezzamento di terreno era troppo per la propria famiglia e lì arriva l’illuminazione. Elisa, dopo aver lavorato per diciotto anni nello studio di un commercialista, decide di cambiare vita e installa in una porzione di quel campo un chiosco di prodotti genuini. Che diventa subito un punto di ritrovo in natura.

L’AZIENDA AGRICOLA MAIXEI

«Abbiamo aperto la nostra azienda agricola – affiliata a Coldiretti – che abbiamo chiamato Maixei, il cui nome si ispira ai tanti muretti a secco che abbiamo recuperato qui. Abbiamo creato una società semplice, intestata a me e mio marito, che invece continua a lavorare come avvocato».

Così a fine maggio 2021 un rimorchio per il trasporto cavalli diventa il punto di ristoro dell’Acquedotto storico. «L’abbiamo trasformato in un piccolo bar, con un frigo e un lavandino su misura». E da qui escono taglieri di salumi del territorio, birre biologiche di Sassello, succhi di frutta prodotti da un’azienda agricola savonese, frizzantini al sambuco che arrivano da Vallombrosa, vicino a S. Olcese, così come marmellatine e tante prelibatezze tutte liguri. E ora Elisa vive nel suo sogno: «Ogni mattina alle 6 sono nell’orto, ma non mi pesa perché il contatto con la terra mi piace e mi diverte. E poi ci sono i miei figli di pomeriggio che mi aiutano tanto».

Elisa Pezzoli e suo figlio il giorno dell’inaugurazione di Maixei

L’azienda agricola produce olio, frutta e ortaggi biologici e nell’annessa fattoria ci sono conigli, galline, un asino e delle caprette, che fanno tutti parte del grande branco Maixei e moriranno di vecchiaia. «A parte quando è brutto tempo, sono in tanti che si fermano a fare merenda o aperitivo da noi. Nonostante questi anni duri, le persone che vengono qui sostengono la grande rivalutazione delle cose buone e genuine del territorio che stiamo vivendo in questo momento. E il profondo bisogno di natura che la gente sente».

Ogni mattina alle 6 sono nell’orto, ma non mi pesa perché il contatto con la terra mi piace e mi diverte. E poi ci sono i miei figli di pomeriggio che mi aiutano tanto

I PROGETTI FUTURI

Oltre ad aver restaurato tanti maixei – i muretti a secco del ‘600 crollati perché il terreno era abbandonato da tempo –, Elisa e suo marito hanno anche trovato un vecchio fienile a cui sognano di dare nuova vita: «Potrebbe diventare un laboratorio o una struttura chiusa dove poter lavorare in caso di maltempo. Non è grandissima, ma è su due piani… chissà!». Per ora hanno richiesto un finanziamento alla regione per poter restaurare i muretti rimasti. L’area verde che circonda il chiosco ogni weekend si riempie di bambini, perché Maixei diventa anche sede di laboratori educativi. Sì, perché mentre i genitori si rilassano, i più piccoli si avvicinano agli antichi mestieri di campagna: «Dalla raccolta delle uova nel pollaio alla preparazione dei biscotti, passando per le olive da portare al frantoio. Collabora con noi un’insegnante, maestra Serena, che accompagna i bambini – alcuni dei quali non hanno mai visto dal vivo una gallina – in questa realtà rurale e, per molti, sconosciuta». E si divertono tantissimo. Elisa mi confessa che sono tante le idee che le frullano in testa: non possiamo che augurarle buona fortuna nel portare avanti questo suo piccolo scrigno di autentica genovesità!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/04/maixei-elisa-contadina/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Le associazioni ambientaliste: per scongiurare nuove crisi puntiamo sulla transizione ecologica dell’agricoltura

17 associazioni ambientaliste scrivono al Governo rimarcando le cause della crisi in corso e indicando la strada per risolverla. La sicurezza alimentare in Europa e in Italia si difende infatti puntando sulla transizione ecologica dell’agricoltura, non indebolendo le norme della nuova PAC post 2022 e le Strategie UE “Farm to Fork” e “Biodiversità”.

 “Indebolire le Strategie UE Farm to Fork e Biodiversità 2030 dell’Unione Europea e rivedere le norme ambientali della nuova PAC post 2022 sarebbe un grave errore e non risolverebbe i problemi collegati all’aumento dei prezzi e disponibilità di materie prime, problemi ulteriormente aggravati dalla guerra in Ucraina che stanno mettendo in grave difficoltà le aziende agroalimentari europee e nazionali. Serve, invece, accelerare la transizione ecologica della nostra agricoltura rivedendo i modelli di produzione e consumo del cibo”.

È quanto sostengono 17 associazioni ambientaliste, dei consumatori e dei produttori biologici, in una lettera inviata al Presidente del Consiglio, Mario Draghi, e ai Ministri Patuanelli e Cingolani. Una lettera che fa seguito a un analogo appello in difesa della transizione ecologica dell’agricoltura inviato il 10 marzo scorso alla Commissione Europea da quasi 100 Associazioni europee. Con questa lettera le associazioni nazionali rispondono agli argomenti con cui le lobby dell’agricoltura industriale sostengono la necessità di rivedere gli obiettivi del Green Deal per affrontare la crisi dei prezzi e delle materie prime causata, solo in parte, dalla guerra in Ucraina. Le strategie europee che le lobby contestano puntano a tutelare la biodiversità e a ridurre l’impatto che le pratiche agricole intensive determinano su clima e ambiente, con obiettivi al 2030 che riguardano la riduzione dell’utilizzo di pesticidi e sostanze chimiche nei campi e nelle stalle e il mantenimento di uno spazio per la biodiversità nel paesaggio agrario. Le 17 associazioni, nella loro lettera, stigmatizzano la strumentalità e l’inadeguatezza di un dibattito che utilizza la drammatica contingenza della guerra in Ucraina per attribuire alla transizione ecologica la responsabilità delle crisi in corso in Europa. Nel quadro di drammatica incertezza che affligge l’agricoltura occorre invece concentrarsi proprio su interventi che garantiscano un futuro sostenibile per il settore agricolo, anche dal punto di vista economico. È surreale che invece si sposti la discussione sulle strategie della transizione ecologica che si proiettano su scadenze di medio e lungo periodo. La nuova PAC infatti entrerà in vigore dal 2023 e sarà pienamente operativa dal 2025, mentre per molte aziende agricole la sopravvivenza è questione di giorni o settimane. È pertanto urgente intervenire a sostegno delle aziende agricole in grave difficoltà per l’aumento dei prezzi delle materie prime con interventi tempestivi e mirati, tenendo anche conto delle speculazioni finanziarie in atto. Allo stesso tempo però, è necessario accelerare le risposte alle grandi sfide della sostenibilità ambientale e climatica dell’agricoltura, a partire dall’attuazione delle strategie Farm to Fork e Biodiversità 2030 e della nuova PAC post 2022, proprio per rendere i sistemi agroalimentari meno vulnerabili a questi shock. Senza provvedimenti adeguati ed efficaci per la soluzione di questi problemi globali i rischi di nuove crisi saranno sempre maggiori in futuro.

La guerra in Ucraina sta evidenziando la vulnerabilità dell’Europa nella dipendenza da importazioni di materie prime e di energia. Ma il conflitto è l’ultimo di una serie di eventi avversi, iniziati con la pandemia di Covid e proseguiti con la siccità in Nord America che ha dimezzato i raccolti, innescando dinamiche speculative e una pericolosa ascesa dei prezzi. In un mondo sempre più esposto a shock globali e a conflitti, abbiamo bisogno di una radicale riforma dei nostri sistemi agroalimentari per promuovere modelli produttivi e di consumo più resilienti e sostenibili”, sottolineano le 17 Associazioni.

“I timidi passi verso una transizione agroecologica attesi con la riforma della PAC non possono essere vanificati dalla conservazione degli stessi sistemi produttivi e modelli di consumo che ci hanno condotto in questa situazione. Non è aumentando la produzione attraverso un ulteriore degrado dell’ambiente naturale o aumentando la dipendenza da energie fossili che si risolveranno i problemi. Occorrono politiche che favoriscano la sicurezza alimentare, sostengano pratiche estensive e rispettose del benessere degli animali, valorizzino il ruolo degli agricoltori e promuovano diete più sane, con una riduzione e una qualificazione del consumo di prodotti di origine animale”.

Evidenze scientifiche supportano queste posizioni, come il recente rapporto IPCC secondo cui “mentre lo sviluppo agricolo contribuisce alla sicurezza alimentare, l’espansione agricola insostenibile, guidata in parte da diete squilibrate, aumenta la vulnerabilità dell’ecosistema e la vulnerabilità umana e porta alla competizione per la terra e/o le risorse idriche”.

L’ISMEA, nell’analizzare i problemi attuali di disponibilità del mais in Italia, evidenzia come sia divenuta “ormai strutturale la dipendenza degli allevamenti dal prodotto di provenienza estera”: si tratta di un grosso segmento della nostra produzione agroalimentare che si dichiara Made in Italy, ma si basa su importazioni di mangimi, spesso prodotti in Paesi che hanno norme, ad esempio in materia di OGM e pesticidi, molto meno rigorose di quelle europee.

Gran parte dell’insicurezza dei sistemi agroalimentari dipende dalla espansione della zootecnia intensiva, se si considera che il 70% dei terreni agricoli europei è destinato all’alimentazione animale e a questi si sommano le terre coltivate al di fuori della UE da cui importiamo mangimi per alimentare un settore produttivo divenuto ipertrofico e inquinante, oltre che non rispettoso del benessere animale. Per le 17 associazioni, “la risposta in grado di garantire una maggiore sicurezza ai sistemi agroalimentari in Europa passa pertanto dalla riduzione del numero degli animali allevati, che richiede una contemporanea riduzione dei consumi di carne e prodotti di origine animale e consentirebbe di liberare terreni per colture alimentari, capaci di soddisfare meglio diete diversificate e a basse emissioni, garantire il diritto di accesso al cibo locale e biodiverso a prezzi sostenibili”.

In un mondo sempre più esposto a shock globali e a conflitti, abbiamo bisogno di una radicale riforma dei nostri sistemi agroalimentari per promuovere modelli produttivi e di consumo più resilienti e sostenibili

Arare più terreni trasformando i prati-pascoli e le aree naturali in seminativi – come si sta proponendo di fare per incrementare superfici agricole destinate a produrre mangimi, usando ancora più pesticidi e fertilizzanti – aumenterebbe pericolosamente il rischio di collassi degli ecosistemi, riducendo la capacità dell’agricoltura di reagire agli shock esterni.

Una revisione al ribasso degli obiettivi della nuova PAC e delle Strategie UE Farm to Fork e Biodiversità 2030 cancellerebbe ogni residua prospettiva di transizione ecologica della nostra agricoltura, che invece può sganciarsi dalle dinamiche speculative dei mercati globali – come ha già saputo fare in gran parte il settore dell’agricoltura biologica – e puntare su qualità e sostenibilità.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/03/transizione-ecologica-agricoltura/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Hollawint: la rivoluzione creativa delle donne di Malles che ha fermato i pesticidi

La volontà e la creatività tipicamente femminili sono forse le sole forze in grado di opporsi all’avanzata di una nube tossica verso gli incontaminati prati dell’Alta Val Venosta. Così le donne di Malles, grazie al movimento Hollawint, combattono i pesticidi, gli interessi economici e le grandi monocolture intensive. La redazione di NOWA, partner di Italia Che Cambia nel territorio altoatesino, ha incontrato Martina Hellrigl, una delle promotrici del progetto.

BolzanoTrentino Alto Adige – C’è un Comune in Alto Adige che è noto non solo per la sua bellezza, il suo folclore e le sue specialità, ma anche per il coraggio delle sue cittadine e dei suoi cittadini. Molti conoscono già la loro storia, che ha fatto il giro del mondo. Noi vogliamo raccontarvela da un punto di vista meno conosciuto, ma genuino. Abbiamo un appuntamento a Malles con Martina Hellrigl, imprenditrice sociale e mamma. Malles è un paesino dalle cui stradine svettano tre campanili romanici e una torre medievale, circondato da ghiacciai e dalle più alte montagne delle Alpi orientali. Nella piazza di paese si trova anche la farmacia di Johannes Unterpertinger, uno dei primi e più energici promotori della rivoluzione di Malles, che ancora oggi informa, fa rete e attiva attraverso le pagine di La Via di Malles.

Seguiamo le indicazioni di Martina e ci troviamo di fronte a delle bellissime mura medievali, dalle quali spuntano diversi alberi da frutto di varietà antiche e una casa sull’albero di legno per bambini: lei abita qui. Martina ci accoglie insieme alla sua amica Evelyne e ci mette a nostro agio nel suo hoangart, il giardino cinto.

Martina, ci racconti come è iniziata la vostra storia?

Quando sono tornata da Zurigo con la mia famiglia, con i bambini molto piccoli, non lavoravo e non conoscevo nessuno qui. Sono andata a un incontro di paese e ho avuto modo di ascoltare un agricoltore di erbe aromatiche biologiche raccontare di come accanto al suo campo avessero piantato le mele e poco dopo, a un controllo, le sue erbe fossero risultate contaminate da pesticidi, così che non poteva più farle certificare. Qualche mese dopo, trasferita la sua attività in un campo più lontano, di li a poco si ripeté la stessa cosa. Questo fece scattare qualcosa dentro di me, non riuscivo a darmi pace, mi sembrava profondamente ingiusto. Venni a sapere che c’erano diversi gruppi di persone che si occupavano di questo problema da anni, ma avevano difficoltà a comunicare con la popolazione. Ci pensavo in continuazione, ma in paese l’argomento era tabù. La gente non ne parlava apertamente, anche se si sapeva che la stragrande maggioranza degli abitanti di Malles temeva l’arrivo delle monocolture di mele e delle nubi di pesticidi che esse portavano con loro. Era una questione delicata che toccava gli interessi di alcuni e le paure di altri e minacciava l’equilibrio e le relazioni all’interno della comunità.

Come avvenne l’incontro con le tue compagne di avventura?

Un giorno andai dalla parrucchiera del paese, Beatrice. Facemmo amicizia e le raccontai cauta della mia preoccupazione. Trovandola d’accordo le proposi l’idea di scrivere una lettera al giornale locale Vinschger Wind. Lei conosceva il caporedattore, che ci sostenne, e così stamparono la prima di una serie di lettere nelle quali ci esprimevamo contro le monoculture di mele che avanzavano per conquistare, dopo la Bassa Venosta, anche l’Alta Val Venosta, la nostra casa.

Quello che la maggior parte degli abitanti di Malles pensava era improvvisamente lì, nero su bianco, e dal salone di Beatrice si diffondeva. E allora arrivò Pia, che voleva aiutare a fermare quei meleti. E poi arrivò Margit, poi Evelyne e ancora un’altra e poi ancora un’altra e all’improvviso eravamo tante, tutte donne: non era previsto, ma era così ed era bello.

[Martina sorride divertita mentre racconta, con un tono così caldo e confidenziale che pare di conoscerla da sempre]. Cosa avete fatto a quel punto.

Ci siamo incontrate tutte e ci siamo chiamate Hollawint. Volevamo che le nostre parole diventassero visibili. Ma non volevamo che fossero parole “contro”, che aggredissero, ma che spiegassero, che invitassero, parole che comunicassero la nostra idea di una Malles sana e sicura per tutti. Abbiamo stampato le nostre idee su pezzi di stoffa e vecchie lenzuola: “Un Comune libero da pesticidi”, “una casa sana per le persone, le piante e gli animali”, “un paesaggio senza pesticidi per noi e per i nostri ospiti”.

Li abbiamo messi a disposizione di chi li volesse appendere e nel giro di una serata erano stati portati via tutti. Il giorno dopo Malles si è svegliata vestita di quelle parole di speranza, le stoffe erano appese dappertutto e davano forma a quella visione: la visione di una comunità. Insieme alle altre associazioni e ai gruppi di lavoro di tutti i paesi del territorio comunale, abbiamo deciso di organizzare un referendum popolare: per dire “sì” a quella visione di un Comune libero da pesticidi.

Come andò la campagna?

In occasione della presentazione della petizione referendaria presso l’ufficio comunale, abbiamo organizzato una colazione pubblica per promuovere il referendum e per parlare con i partecipanti di cosa avrebbe significato per tutti noi, per le nostre attività, per i nostri bambini e i nostri cari, se non avessimo fermato l’avanzata di quei meleti. Sui nostri tavoli c’erano solo prodotti a km0 di produttori dell’Alta Val Venosta, perché volevamo mostrare quanta ricchezza c’era da proteggere, quanta biodiversità, quanti tesori. Volevamo ricordare anche a noi stesse che abitavamo un paradiso di cui essere orgogliose. Seguirono altre colazioni e ogni settimana erano sempre più frequentate. C’era un’atmosfera di partecipazione, c’erano orgoglio e coraggio. Abbiamo organizzato molte altre iniziative creative. Un giorno a una di noi venne l’idea di riempire delle tute bianche protettive con della paglia per farci delle figure a grandezza umana, con maschere antigas e la scritta “SÍ! a un Comune libero da pesticidi”. Le abbiamo messe in tutto il Comune in un giorno di mercato, all’entrata delle istituzioni, sui gradini delle piazze. Un altro giorno quel “SÍ!” lo abbiamo dipinto su grandi girasoli di legno colorato che abbiamo sparso per le strade, per i vicoli, davanti alle porte delle case. Era un “SÍ!” meraviglioso e pieno di forza. Era un SÍ! che non era più un segreto, ma era sulla bocca di tutti, davanti agli occhi di tutti e in tutti i cuori. A fine agosto 2014, 2477 cittadine e cittadini decisero con il 76% di voti favorevoli di bandire i pesticidi dal territorio comunale di Malles introducendone il divieto all’interno dello Statuto.

A cosa ha portato quella votazione?

Ci sono state e ci sono ancora alcune difficoltà, il referendum non è ancora stato attuato. Ma abbiamo continuato a far sentire la nostra presenza. Quello che prima era un tabù ora era un tema caldo non solo qui, anche nel resto d’Italia, in Germania, in tutto il mondo. Avevamo toccato un nervo scoperto perché allo stesso tempo il dibattito sui pesticidi e le monocolture era già divampato in molti luoghi. Grazie a questa esperienza, grazie al cammino che abbiamo fatto insieme, molte persone hanno cambiato il loro modo di pensare.

La gente non ne parlava apertamente, anche se si sapeva che la stragrande maggioranza degli abitanti di Malles temeva l’arrivo delle monocolture di mele e delle nubi di pesticidi che esse portavano con loro

Ora i prodotti biologici sono molto più richiesti di prima, molti agricoltori sono passati al biologico e molte persone comprano direttamente da loro. Il referendum ha portato a molte altre lotte, anche in tribunale. Alcuni agricoltori hanno chiesto l’intervento dell’Associazione degli Agricoltori e hanno fatto causa ai promotori del referendum. Poi hanno fatto causa ad altre associazioni e istituzioni che sostengono Malles. I processi sono ancora in corso. Ma anche noi siamo andate avanti. Abbiamo fondato la cooperativa sociale Vinterra. Con questa cooperativa affittiamo la terra che vogliamo proteggere. La usiamo bene. Abbiamo già 4,5 ettari tra Malles e Glorenza che coltiviamo con metodo biologico, impegnando persone con difficoltà, donando speranza, producendo cibo buono e sano, rigenerando la terra, creando valore.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/03/hollawint-malles-pesticidi/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Sarah Ruta e il suo amore per le api: “Da questi animali abbiamo tanto da imparare”

Un avvincente percorso di vita e di lavoro ha portato la giovane siciliana Sarah Ruta a condividere la propria esistenza con le api. Il loro valore, secondo lei, non sta solo nel ruolo che rivestono all’interno dell’ecosistema, ma anche nell’esempio che incarnano, ovvero quello di una comunità coesa e solidale.

RagusaSicilia – Questa è una storia nata dall’incontro e dalla conoscenza di un mondo che Sarah Ruta non avrebbe mai pensato di esplorare. Tutto è cominciato da una passione, quella per l’apicoltura e per il miele, che questa giovane donna di Ispica – in provincia di Ragusa – ha fatto sua, prima quasi per caso e poi con determinazione. Sì perché Sarah, classe 1990, titolare di Miele di Cava, al mondo delle api non è arrivata ereditando un’azienda di famiglia, ma scrivendo una storia tutta sua: «Mi sono diplomata all’Accademia di Belle Arti di Catania e sognavo una vita nell’arte e soprattutto nel mondo del teatro. Mentre mi guardavo intorno però ho cominciato a collaborare con un’azienda in un b&b e alla fine della stagione turistica i titolari mi hanno chiesto di continuare ad aiutarli nell’accudimento delle loro api. Sarà stata la curiosità o l’incoscienza, ma ho detto di sì ed è scoccata la scintilla. Mi sono innamorata del mondo delle api e di tutto quello che comportava la loro cura».

In quell’azienda Sarah Ruta comincia a imparare tutto quello che c’è da sapere su api, celle, regine, smielatura. «Per cinque anni – racconta – ho lavorato per grosse aziende del settore imparando a conoscere il mondo delle api in modo approfondito e innamorandomi sempre di più di quello che facevo. Quando la prima azienda per cui lavoravo mi ha licenziata ho sentito venire a mancare una parte fondamentale della mia esistenza. A quel punto ho realizzato veramente che le api non erano più solo un lavoro, ma una forte passione».

Alle conoscenze apprese sul campo, Sarah comincia ad affiancare quelle apprese dai libri, studiando e imparando sempre di più. Poi prende una decisione: avrà un apiario tutto suo. «Nel 2016 per la prima volta ho le mie famiglie di api. In quel momento mi accorgo che produrre quantità di miele da rivendere richiede grossi investimenti.

La cura delle api costa: «Vanno nutrite spesso e curate se si ammalano; il miele monoflora poi – che sia castagno, timo, eucalipto – richiede spostamenti delle arnie in camion su distanze che arrivano a centinaia di chilometri, che non solo hanno un impatto ambientale negativo, ma ci illudono anche di avere un miele di serie A o di serie B per via delle leggi che regolano questo settore».

Insomma, studiando e mettendosi alla prova, Sarah si rende conto che l’apicoltura convenzionale a cui si sta avvicinando è lontana dalla sua esigenza etica di relazione con questo insetto che intanto l’ha conquistata anche con il suo modo di comportarsi. «Ho cominciato a pensare a un progetto mio e grazie a un incubatore di idee l’ho fatto crescere. La soluzione era più vicina di quanto pensassi: sirvagghiu (selvaggio), incontaminato, naturale… queste erano le parole chiave del mio lavoro e del mio miele. E solo un posto poteva rispondere a queste caratteristiche: la Cava d’Ispica. Un luogo meraviglioso, con fioriture spontanee tutto l’anno che permettono alle api di rafforzarsi anche nei periodi dell’anno in cui altrove non si trova più nulla».

Le api possono davvero insegnarci cosa significa collaborare visto che loro si muovono come un unico organismo

Sarah Ruta punta dunque tutto su questo luogo dove l’acqua non manca mai e dove la biodiversità è talmente variegata da contare – come ha rilevato anche l’Università di Catania – 530 specie di piante tipiche che nutrono le api, dando loro un’alimentazione varia che aiuta l’organismo a non ammalarsi ed evitare così cure invasive con sostanze che, ovviamente, passano pure al miele.

«Io non  faccio inseguimento di fioritura – spiega – e non sposto le mie arnie, ma tengo i miei apiari sempre negli stessi posti. Per questo il Miele di cava è solo millefiori: autunnale (carrubbo, edera, nespolo, rosmarino endemiche della zona) e primaverile (agrumi, campanellini bainchi, cetosella), ovvero il risultato delle fioriture tipiche della zona che ne fanno un miele ricco, profumato e cremoso. Ma c’è di più, perché il progetto di Sarah non è solo di tipo alimentare.

«Ho scelto di posizionare il mio apiario proprio nel Convento dei Frati Minori di Gesù, ai margini della città, per due motivi», racconta. «Innanzitutto, in questo modo l’apiario non risente dei trattamenti a base di pesticidi e diserbanti irrorati nella campagna circostante. Inoltre si trova a un passo dalla Cava, dove la vegetazione cresce rigogliosa grazie al fatto che essendo così difficile da raggiungere non è mai stata intaccata dai mezzi dell’agricoltura meccanizzata moderna».

La motivazione però è anche quella della divulgazione. Un sogno che purtroppo il Covid ha messo per ora in stand–by: «Ritengo che sia necessario creare consapevolezza riguardo a un argomento spesso sottovalutato come la qualità del miele e il ruolo importante delle api nel mantenimento di un ecosistema sano e funzionale anche per la nostra sopravvivenza. Inoltre, mi piacerebbe instaurare ampie sinergie con realtà attive in Cava, con l’intento di organizzare dei percorsi agroalimentari per gente del posto, per le scuole e per turisti».

«Ma più di tutto – conclude Sarah Ruta – mi piacerebbe far capire alle persone quanto si possa imparare dalle api, per rispettarle di più non solo per la loro funzione di impollinatori, ma anche per il loro modo di comportarsi come comunità. Le api possono davvero insegnarci cosa significa collaborare visto che loro si muovono come un unico organismo e non lo fanno per sudditanza, ma perché sanno che trovare il meglio per se stesse significa fare anche il meglio per la comunità».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/03/sarah-ruta-amore-api/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Prendersi cura della montagna: nasce la Cooperativa di Comunità Pratomagno

Per contrastare lo spopolamento dei borghi montani e recuperare terreni agricoli e boschivi in stato di abbandono, un gruppo di imprenditori e cittadini ha dato vita alla Cooperativa di Comunità Pratomagno. Ritornare ad abitare la montagna in modo consapevole, facendo rete con le piccole realtà locali, è l’unico modo per preservare il territorio e la sua bellezza. Torniamo sul Pratomagno, in Toscana, per raccontarvi come questo territorio stia rinascendo grazie alle cure dei suoi abitanti, vecchi e nuovi. C’è chi conosce questa montagna sin da bambino e tramanda da generazioni le tradizioni del territorio; e chi invece l’ha scelta per viverci. A ridosso della dorsale appenninica, nella provincia di Arezzo, il massiccio del Pratomagno fa da spartiacque tra il Valdarno Superiore e il Casentino. L’ampio crinale, a cui deve il suo nome, raggiunge nel suo punto più alto i 1590 metri sul livello del mare, dove un’imponente croce in ferro alta diciannove metri resiste al tempo e allo sferzare della tramontana. Nonostante in molti abbiano scelto di ripopolare i borghi incastonati sulle pendici del Pratomagno, avviare imprese agricole e riaprire vecchie botteghe, il paesaggio conserva a tratti i segni di un lungo abbandono. «Ci siamo resi conto che da soli si fa ben poco e per questo lo scorso settembre abbiamo deciso, con imprenditori locali e privati cittadini, di costituire una Cooperativa di Comunità», spiega Lara Lapi, presidente della Cooperativa di Comunità Pratomagno e socia dell’azienda agricola e fattoria didattica Il Bosco Magico. Lara ha deciso recentemente di lasciare il suo lavoro in ufficio per dedicarsi assieme a Claudio a un antico castagneto. Oggi la loro azienda, Il Bosco Magico, è tra i tredici soci fondatori della Cooperativa di Comunità Pratomagno. Insieme a loro si sono uniti al progetto altri imprenditori agricoli, guide ambientali, piccoli commercianti e aziende del posto specializzate nella trasformazione dei prodotti locali.

DIVENTARE CUSTODI DELLA MONTAGNA PER CONTRASTARE L’ABBANDONO

«Ascoltare i bisogni di questa montagna – racconta Lara – ci ha spinto a unirci come comunità e a collaborare». Il principale obiettivo per cui è nata la cooperativa, sebbene richieda molti anni, è proprio quello di recuperare terreni agricoli incolti e boschi abbandonati: «L’idea – chiarisce Lara – è di censirli e mettere in contatto i proprietari dei terreni e le aziende che li prenderanno in gestione, avvalendosi della collaborazione dell’Unione dei Comuni del Pratomagno».

Molti dei castagneti sul Pratomagno sono stati abbandonati. Il rischio è di perdere col tempo varietà di castagne uniche, tipiche di questo territorio. «Quello che si può fare oggi è rinnestare i castagni esistenti e un giorno magari creare un vivaio di castagni da frutto», prosegue Lara. Molto spesso la produzione non riesce a soddisfare la domanda di farina di castagne, perché i boschi in cui poterle raccogliere sono pochi. Recuperare queste aree boschive, quindi, è un bene anche per l’economia locale».

TURISMO RESPONSABILE PER RISCOPRIRE IL PRATOMAGNO

Costellato di piccoli borghi e frazioni montane, il Pratomagno è tutto da scoprire a piedi o in bicicletta. Questo territorio vanta circa 314 chilometri di sentieri, purtroppo non tutti accessibili. «Quarant’anni fa era un piacere camminare per questa montagna. La gestione dei sentieri era comunale, oggi la burocrazia ha complicato le cose e, ahimè, molti sentieri sono stati abbandonati», racconta Lara. Tra gli obiettivi della Cooperativa di Comunità Pratomagno vi è quello di ripristinare molti di questi sentieri e incoraggiare un turismo lento e responsabile. «Da noi – prosegue Lara – è possibile raggiungere i diversi borghi nell’arco di una stessa giornata. Ecco perché vorremmo ripulire alcuni sentieri e riaprire le botteghe e le piccole attività delle frazioni montane».

Ascoltare i bisogni di questa montagna ci ha spinto a unirci come comunità e a collaborare

A questo scopo a maggio verrà inaugurato l’ostello alla Trappola (frazione di Loro Ciuffenna), gestito proprio dalla cooperativa. Ospitato in un antico casale in pietra completamente ristrutturato, l’ostello si colloca all’imbocco di diversi sentieri da percorrere a piedi o in bicicletta, «il luogo ideale da cui partire per scoprire le bellezze del Pratomagno», racconta Lara.

A SPASSO TRA BORGHI E BOSCHI: IL PASSAPORTO DEL PRATOMAGNO

Nell’ambito delle iniziative della cooperativa di comunità si segnala quella del Passaporto del Pratomagno, un libricino con immagini e didascalie dei luoghi più iconici del territorio. L’azienda Il Bosco Magico ha posizionato venti casine in legno in borghi, frazioni e luoghi di interesse. In ognuna di queste si trova un timbrino da raccogliere nel proprio passaporto. «Un modo per coinvolgere i più piccoli e le famiglie – conclude Lara – perché imparino sin da subito ad amare e custodire questi luoghi».

Sulle pendici del Pratomagno, tra borghi e antichi boschi, la montagna torna finalmente a essere abitata e protetta dalla sua giovane comunità: un segno che fa ben sperare, sebbene ci vorrà del tempo e l’impegno di tutti. 

Fonte:; https://www.italiachecambia.org/2022/04/cooperativa-di-comunita-pratomagno/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Chtulucene: come sarebbe il mondo se non fosse dominato dagli esseri umani?

Immaginate la fine dell’Antropocene – l’era dominata dall’Homo Sapiens – e l’avvento dello Chtulucene, una nuova fase in cui gli esseri umani sono solo dei comprimari e i principi che regolano la vita sul pianeta sono diversi rispetto a quelli a cui ci siamo abituati. Per farlo, aiutatevi con la narrazione fantastica della filosofa e biologa Donna Haraway, di cui ci parla Patrizia Ottone, collaboratrice da anni di Spiritualità del Creato e istruttrice di hatha yoga. Come è possibile diventare pienamente consapevoli dei gravi limiti della nostra capacità di aggiustare il mondo senza consegnarsi all’apatia, all’impotenza e alla depressione? Oggi più che mai abbiamo bisogno di storie che nutrano la fiducia verso le residue capacità della nostra specie di vivere e morire bene o almeno di sopravvivere sul nostro pianeta danneggiato.

Per questo possiamo farci ispirare dalle storie di Donna Haraway, filosofa e biologa femminista, che nel saggio Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, ci propone un viaggio tra scienza e arte, storie di fantascienza e di progetti reali, in cui la nostra specie si trova insieme alle altre, in posizione non dominante. Sono storie che hanno per protagonisti orchidee e piccioni, bambine di periferia e di campagna e artiste dell’uncinetto, coralli e api estinte e tanti altri esseri variamente intrecciati tra loro. In ciascuna di esse, l’essere umano perde la sua eccezionalità per assumere un ruolo gregario, collaborativo e responso-abile. Chtulucene, responso-abile: sono due parole del fantasioso lessico di Haraway. Per immaginare un modo per sopravvivere sul pianeta infetto e raccontare intrecci tra specie diverse, il linguaggio è stato arricchito di parole nuove, anch’esse fonte di ispirazione e riflessione, ricreate in italiano dalle traduttrici Claudia Durastanti e Clara Cicconi.

Donna Haraway

Chtulucene è composto dalle radici greche khthon, terra, e kainos, ora, e indica l’era in cui viviamo ora, guardando oltre l’antropocene. Responso-abilità amplia il significato di responsabilità, estendendolo anche al mondo non umano, per indicare la capacità di rispondere all’altrə, secondo le forme e le possibilità della propria specie. Entrare in questo lessico non semplice significa accettare la sfida di rendere i concetti più elastici per far incontrare discipline diverse.

Come nel caso del progetto Ako del Madagascar, in cui convergono zoologia, arte ed educazione. Una storia di guarigione parziale dal classismo e dal colonialismo, avviata dalla primatologa Alison Jolly per restare in contatto con la contraddizione tra il sostegno alle comunità locali, che bruciavano le foreste per le loro piccole coltivazioni e la difesa dell’habitat dei lemuri, oggetto della sua ricerca. Grazie alla collaborazione con illustratrici, ricercatorə non occidentali e insegnanti locali, è stato creato un libro di avventure di giovani lemuri, in inglese e in malgascio, per bambinə delle comunità locali, con scarse risorse educative, che non avevano mai incontrato i lemuri. Un esempio di mondeggiamento, altra parola del lessico di Haraway, tra pratiche e discipline, che ha contribuito a far crescere una nuova generazione di primatologə malgascə.

Chtulucene ci propone un viaggio tra scienza e arte, storie di fantascienza e di progetti reali, in cui la nostra specie si trova insieme alle altre, in posizione non dominante

In tutte le storie del libro emerge chiaramente che per continuare a vivere abbiamo bisogno di creare insieme e generare parentele tra viventi. Nello Chtulucene l’individualismo non è più una risorsa. Non è possibile usare la categoria dell’individuo autonomo e isolato, perché la realtà si mostra come intrecci e relazioni tra corpi viventi e non viventi, nei quali i membri della specie Sapiens sono solo uno dei nodi della tela. I corpi stessi, ci insegna la biologia, sono fatti di compresenze e relazioni multispecie. Di queste interazioni Haraway propone letture multiple, che non mettono in discussione il modello evoluzionista, ma invitano a riflettere sulla possibilità di integrare nelle storie di adattamento e selezione naturale la dimensione affettiva. Come nel caso dell’orchidea Ophrys Apifera, che si è evoluta per produrre fiori che hanno la forma api femmine, ma non trova più l’ape maschio che può impollinarla, perché la sua specie si è estinta. Il fiore si impollina da sé, ma continua a mantenere la forma di quell’ape morta.

“Non ricorda questo un modo complesso di conservare memoria del passato?”, scrive Haraway mentre riporta la vignetta Bee Orchid di xkcd – che illustra la storia della Ophrys Apifera, come se il fiore esprimesse il ricordo dell’ape estinta – e la descrive come forma di ecologia dell’intimità. Per questi e altri esempi discussi nel libro, Haraway fa uso del concetto di simpoiesi, che indica strutture che producono in maniera collettiva, non hanno confini di spazio o di tempo, e sono ambientalmente interdipendenti.

La rete delle idee di Chtulucene, pur essendo radicata nel pensiero materialista, è aperta e non esclude connessioni con tradizioni spirituali che reagiscono alla disperazione, illustrate nel libro con la discussione dei molteplici significati, insieme pratici e cosmologici, dell’arte della tessitura Navajo nella Black Mesa. Possiamo estendere l’intreccio di arte, scienza ed emozioni aggiungendo altre connessioni nello Chtulucene? Nel potenziale trasformativo e affettivo del creare insieme, che Haraway chiama simpoiesi, sembra risuonare la compassione, che Matthew Fox pone al centro della via transformativa. La compassione che, scrive Fox, “abbraccia tutto perché è la nostra risposta all’interdipendenza di tutte le cose”, la compassione come creazione di giustizia, che riguarda “l’unirsi della specie umana alla danza del creato nella sua ricerca di equilibrio”.

Un modo di intendere la compassione che sembra dialogare con l’invito di Haraway a generare parentele oltre la riproduzione: “Allargare e ridefinire la parentela è un processo legittimato dal fatto che tutte le creature della Terra sono imparentare nel senso più profondo del termine e già da tempo avremmo dovuto iniziare a prenderci più cura delle creature affini come assemblaggi e non delle specie una alla volta”.

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Cosa sappiamo del “colossale” quantitativo d’acqua che fuoriesce dai cantieri del TAV?

In Val Susa i lavori delle trivelle per la realizzazione del TAV stanno causando significative perdite di acqua, come testimoniato dai dati diffusi dal Comitato acqua pubblica di Torino e dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua. Ma cosa significano i valori di queste fuoriuscite in termini quantitativi? E quali potrebbero essere gli effetti dello spreco a medio-lungo termine?

Torino – In questi giorni i media riportano con frequenza notizie sulla siccità in Piemonte. Non è la prima volta e certo non sarà l’ultima. Anzi, gli effetti del cambiamento climatico porranno con sempre maggiore urgenza il tema della carenza d’acqua e della disomogenea distribuzione delle precipitazioni nel corso dell’anno. Questa situazione, ad esempio, potrà causare inevitabili impatti sulla popolazione, con rischio di razionamento della distribuzione in alcune zone e problemi per l’irrigazione delle colture agricole. In questo contesto, nel cuore delle montagne della Valsusa e della Maurienne (in Francia) si verifica da anni uno spreco d’acqua definito “colossale”. Infatti, i lavori per la realizzazione del cunicolo esplorativo del TAV Torino-Lione, lungo 7 chilometri, dal 2013 causano fuoriuscite d’acqua provenienti dalle falde intercettate dalle trivelle. La denuncia di questo spreco impattante arriva dal Comitato acqua pubblica di Torino e dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua che hanno elaborato alcuni dati forniti da Telt – Tunnel Euralpin Lyon Turin sas, ovvero la società italo-francese che ha lo scopo di progettare, realizzare e gestire la sezione transfrontaliera della linea ferroviaria Torino-Lione, parte del corridoio delle reti ferroviarie europee TEN-T.

Foto tratta da TELT

COSA CI RACCONTANO I DATI

I dati forniti dalla società e successivamente rielaborati sono stati misurati in corrispondenza del cunicolo esplorativo del Tav presso La Maddalena di Chiomonte, in data 3 dicembre 2021. In questo tratto i lavori hanno avuto avvio a gennaio 2013 e sono terminati a febbraio 2017, per un tunnel della lunghezza totale di 7 chilometri. Durante i lavori del TAV, secondo i dati rielaborati dal Comitato Acqua Pubblica e dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, sono avvenute almeno 245 venute d’acqua (che corrispondono alle fuoriuscite di una limitata quantità d’acqua) con una portata media di 102,6 litri al secondo, che su base annua equivarrebbe al fabbisogno di una comunità di 40.000 persone.

Oltre a questi dati sono state riportate anche alcune stime che, se si dimostrassero veritiere, testimonierebbero un enorme spreco di acqua nel tempo: se in futuro venisse completato il progetto del tunnel di base della linea ad alta velocità Torino-Lione che corrisponde a un’intera galleria di 57 chilometri, ovvero oltre 8 volte la lunghezza del cunicolo esplorativo, si prevede al termine dello scavo la fuoriuscita ogni anno di un volume d’acqua pari a 24.590.500 mc e corrispondente al fabbisogno idrico annuo di 300.000 persone. Ma non è finita qua. Considerata la doppia canna prevista dal progetto, il dato potrebbe raddoppiare, arrivando a corrispondere al fabbisogno annuo di ben 600.000 persone.

Foto tratta da TELT

L’INGENTE SPRECO DI ACQUA

Come afferma il Comitato provinciale Acqua Pubblica Torino, parte del Forum Italiano dei movimenti per l’acqua «è sconcertante che questi “effetti collaterali” siano stati previsti in fase progettuale e approvati dalle autorità competenti. Evidentemente sono stati considerati irrilevanti rispetto agli ipotetici e ampiamente discutibili benefici (per chi?) derivanti dalla realizzazione della “Grande Opera”».

Forse Telt intende prendere alla lettera il tema della Giornata Mondiale dell’Acqua 2022 che si celebrerà il 22 marzo prossimo, ovvero “acque sotterranee – rendere visibile l’invisibile”, ma nella sostanza si sottrae l’acqua al suo ciclo naturale, rischiando così di compromettere interi ecosistemi.

Si prevede al termine dello scavo la fuoriuscita ogni anno di un volume d’acqua pari a 24.590.500 mc e corrispondente al fabbisogno idrico annuo di 300.000 persone

Analoghe sottrazioni si verificano anche sul versante francese, dove i tunnel di servizio sono tre e asciugano le Alpi dal 2010. Considerando che nel complesso questi dati riguardano gallerie secondarie e che sono di limitato chilometraggio e profondità, è ragionevole prevedere che lo scavo dei due tunnel principali – ciascuno dei quali è lungo 57 chilometri e che raggiungerà maggiori profondità – potrà causare perdite d’acqua decisamente più rilevanti. Un altro aspetto importante da considerare è che l’acqua che esce dalle viscere della montagna ha una temperatura superiore a quella dei corpi idrici superficialied è potenzialmente contaminata dai lavori di cantiere, pertanto non può essere immessa nell’ambiente senza essere prima raffreddata e purificata.

Foto tratta da Comitato Acqua Pubblica di Torino

«È sconcertante la distanza tra i dichiarati intenti dei vari organi di governo, locali e nazionale, volti al contrasto del cambiamento climatico e alla tutela delle risorse ambientali, e le azioni concrete che spesso, come in questo caso, vanno nella direzione opposta (nel PNRR il TAV è considerata opera prioritaria)», sostengono le associazioni. E aggiungono che «è sconcertante che finora ciò sia avvenuto nella più totale indifferenza. Si dovrà attendere che i rubinetti restino a secco prima che la nostra classe dirigente inizi ad agire seriamente, scevra da pregiudizi ideologici e senza la pressione di interessi economici, per la tutela del bene comune acqua?».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/03/acqua-cantieri-tav/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

L’Asino e la Luna: cambiare vita nel segno della permacultura.

Una psicoterapeuta e una militare dell’aeronautica si incontrano a un corso di facilitazione e scoprono di avere entrambe cambiato vita per lo stesso sogno e con gli stessi strumenti. E allora decidono di fondare un luogo che possa ispirare altre anime in transizione a svoltare e ritrovarsi. La storia di Manuela e Denia e del loro centro esperienziale in permacultura a Cerveteri, la fiaba dell’asino e della luna.

RomaLazio – «Abbiamo conosciuto tante persone che volevano cambiare vita e che non sapevano da dove iniziare. E allora abbiamo fondato un centro esperienziale per fargli toccare con mano alcune fra le opzioni più interessanti». C’erano una volta (e ci sono ancora) Manuela e Denia, le due facce della Luna, l’energia femminile. Attorno a loro gironzola Silvio, il loro asino, forza fisica e semplicità maschile. Il luogo, così incantato da fungere da perfetto scenario per una moderna fiaba senza antagonisti, ha un nome non casuale: L’Asino e la Luna.

IL CAMBIO VITA

Eh sì, loro di cambio vita se ne intendono. Prendete Manuela Bocchino, per esempio. Originaria di Cerveteri, sulla costa a nord di Roma. Nel 2005 si arruola in aeronautica militare e si trasferisce a Milano. A poco a poco, la città finisce per starle sempre più stretta. E così, a partire dall’esigenza di alimentarsi in maniera più sana, incontra lo yoga, la meditazione, la ricerca della spiritualità, la riduzione dei bisogni, con tutto quel che ne consegue.

Non è una sorpresa se nel 2015 – pur non mollando il lavoro – sceglie di trasferirsi in natura, «per evolvere, rallentare, cambiare», dice. E così torna nella sua terra e compra 4 ettari tra mare e bosco, con sopra una casa, una vigna dismessa e qualche quercia spelacchiata. Il suo sogno? Un castello chiamato ecovillaggio. E adesso prendete Denia Franco. Toscana che più non si può, ha sempre condotto a Firenze «una vita normale: la famiglia, gli amici, lo studio, l’università». Nel 2016 si accorge che manca qualcosa, che si sente in gabbia. «Non volevo più vivere per lavorare, il lavoro doveva diventare solo uno strumento per vivere secondo i miei desideri».

E così traccia una bella riga e tira le somme. Nel senso letterale del termine. Gli addendi: cura delle persone, più cura degli animali (è una psicoterapeuta che lavora anche con i cavalli), più desiderio di armonia con la natura. Totale: downshifting, pure lei, e ritorno all’essenziale. Senza mollare il lavoro, pure lei, ma senza soccombere ad esso. Il suo sogno? Un castello chiamato ecovillaggio.

Ebbene, cosa accade quando due persone con lo stesso sogno nel cassetto si incontrano al momento giusto? Nella vita normale ci provano, vero, avete indovinato. Ma nelle fiabe? Ecco, nelle fiabe non solo ci provano. Nelle fiabe riescono. È il 2017. Manuela vive da due anni sul suo terreno a Cerveteri, ma il suo progetto non decolla, i contrasti imperano e la sua comunità è ancora nella sfera di cristallo.

La permacultura è come una valigetta degli strumenti: quando impari a usarla poi resta con te e da lì puoi estrarre lo strumento che ti serve di volta in volta, approfondendone l’uso con il tempo

Denia ci è già passata. Il suo gruppetto si è appena sciolto, definitivamente, e lei si è iscritta a un corso di facilitazione per evitare di cadere nelle stesse trappole in futuro. A quel corso di facilitazione incontra Manuela, che ci è arrivata per lo stesso motivo. La domanda di Manuela sorge spontanea: «Mi aiuti a risollevare il mio gruppo?».

Non penserete mica che siamo arrivati alla fine della storia? Un po’ di pazienza. Persino nelle più brevi fiabe per bambini la principessa dev’essere rinchiusa nella torre prima che qualcuno – o qualcuna – accorra a liberarla. Qui succede che, nonostante l’intervento di Denia, il gruppo di Manuela non si risolleva. Anzi, si scioglie. Restano loro due, da sole. Vengono entrambe da un radicale cambio vita che ha salvato solo il loro lavoro, desiderano entrambe il contatto con la natura, hanno lo stesso sogno comunitario e la stessa ferita ancora aperta.

Insomma, anche stavolta due più due fa quattro. E così Manuela e Denia decidono di sperimentarsi insieme. Prima un mese, poi altri due, poi ulteriori tre. I periodi di prova vanno bene, ognuno meglio di quello precedente. La comunità, sebbene meno numerosa di quella che avevano immaginato da sole, è nata; insieme a un senso di famiglia elettiva che entrambe mai avevano provato prima. Cosa manca ancora, direte voi? Semplice. La pozione magica.

LA PERMACULTURA

Nel 2017, poco prima di conoscere l’altra metà della Luna, Manuela scopre la permacultura. Un altro mondo le appare improvvisamente all’orizzonte, al punto che riesce finalmente a ipotizzare la possibilità di coltivare il suo terreno senza aver ancora sviluppato alcuna competenza in campo agricolo. L’altra metà della Luna, dal canto suo, aveva cominciato ad avvicinarsi alla permacultura da qualche anno; e più l’approfondiva, più scopriva che quella poteva essere una cornice di riferimento su cui impostare persino il quotidiano. È Denia stessa a raccontare che la permacultura «mi risuonava perché era composta da elementi che ho sempre sentito dentro, sebbene separati l’uno dall’altro». Per cui, quando li ha trovati integrati tutti insieme in quella che poi ha iniziato a considerare come una vera e propria filosofia di vita, ha capito che aveva ormai imboccato la sua strada: «Era ciò che sentivo e che non riuscivo a esprimere a parole».

Manuela e Denia hanno dunque trovato nella permacultura la loro pozione magica, ossia la visione comune che hanno scelto di usare come intento per riprogettare il terreno di Manuela, che dal 2019 hanno deciso di chiamare “centro esperienziale”, basandolo sulle tre etiche della Permacultura: cura della Terra come fosse un organismo, cura della propria specie e condivisione. Nel video che trovate in questo articolo, le due protagoniste raccontano cos’è oggi L’Asino e la Luna e cosa si immaginano potrà essere in futuro.

«Il centro è “esperienziale” perché la permacultura è come una valigetta degli strumenti: quando impari a usarla poi resta con te e da lì puoi estrarre lo strumento che ti serve di volta in volta, approfondendone l’uso con il tempo», spiegano. Una valigetta che contiene anche uno specchio fatato. «A volte quando ci si forma in qualcosa ci si estrania e si finisce sul tecnicismo», continua Denia. «Invece con la permacultura questo non accade, perché il suo approccio, che tende alla massima integrazione possibile, conserva dentro di sé gli strumenti per evitarlo».

E ora, come in tutte le fiabe che si rispettino, è il momento dei doni, ossia dei meritati premi che gli eroi o le eroine ricevono per le loro peripezie. Manuela stila una lunga e ricca lista: «Sono gli ottimi rapporti con i contadini e gli allevatori della zona e la rete di telecomunicazioni Noinet, che ci ha sponsorizzato nella realizzazione della nostra food forest».

E ancora, «sono le reti di cui facciamo parte, in particolare la RIVE e l’Accademia Italiana di Permacultura, che ci ha dato persino l’onore di ospitare un’assemblea plenaria nazionale; sono gli altri eventi che abbiamo ospitato e che ospiteremo; sono i tanti volontari pronti ad aiutarci in ogni iniziativa; sono gli alberi che abbiamo seminato in questi anni e che presto inizieranno a produrre frutti».

Cosa manca ancora, dunque? Ah, la morale. Beh, per quella vi toccherà cliccare sulla loro intervista video e ascoltare le parole finali di Denia. Perché la luna, in fondo, non è poi così lontana: montare su un asino per raggiungerla lentamente, passo dopo passo, possono farlo tutti. E tutte. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/03/lasino-e-la-luna-permacultura-2/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

WWF su emergenza climatica, guerra e sicurezza alimentare: 10 domande e risposte per sfatare i falsi miti

Sono state pubblicate in vista della Campagna Food4 Future, per dimostrare come il nostro futuro e quello del Pianeta dipendano in gran parte dalle scelte che facciamo a tavola e da un sistema alimentare sostenibile

Per anticipare il lancio della Campagna Food4Future, che mostra come il nostro futuro e quello del Pianeta dipendano in gran parte dalle scelte che facciamo a tavola e da un sistema alimentare sostenibile, il WWF pubblica 10 domande – e risposte – per sfatare i falsi miti sulla sicurezza alimentare e capire come creare un sistema alimentare resiliente ed equo anche in situazioni di crisi. Le conseguenze della guerra in Ucraina, infatti, ci ricordano quanto sia fragile la sicurezza alimentare, basata su modelli di produzione agricoli intensivi. Per affrontare l’attuale crisi dei mercati in molti – fra cui diversi politici – hanno chiesto di aumentare le produzioni cancellando o indebolendo le attuali misure ambientali della Politica Agricola Comune e del Green Deal europeo. L’abolizione del divieto dell’uso di pesticidi in aree di interesse ecologico e l’utilizzo dei terreni a riposo – meno produttivi dal punto di vista agricolo ma essenziali per la conservazione della biodiversità – sono solo alcune di queste richieste irrazionali e controproducenti. La verità è che la produzione alimentare globale è sufficiente per sfamare la popolazione mondiale, ma è mal utilizzata. I veri rischi alla sicurezza alimentare nel nostro Paese non derivano dal conflitto in corso in Ucraina, ma dalle bolle speculative che condizionano produzioni e mercati a partire dalle crisi finanziarie del 2008 e 2011. A questo si aggiungono le gravi conseguenze della crisi climatica, che già pesa in maniera significativa sui sistemi agricoli per effetto di siccità e aumento dei fenomeni meteorologici estremi, che – nel medio e lungo periodo- avrà effetti sempre più gravi sulla produzione delle colture strategiche. 

Le conseguenze della crisi in Ucraina in Italia

La guerra in Ucraina ha messo in crisi il sistema agroalimentare italiano? È da questa domanda che il WWF parte per spiegare che gli effetti della crisi collegata alla guerra sui sistemi agroalimentari in Italia sono limitati solo ad alcune materie prime importate dall’est dell’Europa, in particolare mais e olio di girasole. E che l’unico settore che avrà delle ripercussioni dirette è quello zootecnico, grande consumatore di mais: in UE il 70% delle materie prime per i mangimi degli animali (fra cui mais) è infatti di origine extra UE. Su una possibile carenza di grano, invece, rispondiamo con i dati: le aziende agroalimentari italiane importano dall’Ucraina il 5% del proprio fabbisogno, che può essere soddisfatto dalla produzione europea di frumento che supera attualmente la domanda interna degli Stati membri dell’Unione. L’aumento del costo del grano, duro e tenero, è in atto da ben prima del conflitto in Ucraina ed è causato da una parte dalle speculazioni finanziarie e dall’altra dalla riduzione delle produzioni in Canada, conseguenza della grave siccità che ha colpito il nord America nella stagione 2020-21. Nel 2022 eventuali carenze di grano o altri cereali in Italia potrebbero essere generate dalla grave siccità che sta colpendo il nostro Paese e che avrà ripercussioni sul raccolto di quest’estate. Questo solo è uno di quelli che saranno i più violenti impatti del cambiamento climatico sulle produzioni agricole (basti pensare che, per esempio, la scorsa estate il comparto frutticolo italiano ha avuto una perdita media complessiva del 27%). A strumentalizzare la crisi legata alla guerra sono le lobby dell’agricoltura convenzionale, che mirano a fare pressione sui decisori politici per cancellare o ridimensionare le norme ambientali della nuova Politica Agricola Comune (PAC) e gli obiettivi delle due Strategie UE del Green Deal, “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030”, come l’obbligo delle rotazioni delle colture e quello di destinare alla conservazione della natura almeno il 4% delle superfici utilizzate per i seminativi. L’agricoltura, infatti, dipende dai servizi ecosistemici, che a loro volta dipendono dalla presenza di natura.

Fra le soluzioni che possono garantire più sicurezza al comparto alimentare c’è sicuramente la scelta di consumare meno carne e prodotti di origine animale, che consentirebbe di ridimensionare il comparto della zootecnia intensiva (oggi il 70% della superficie agricola utilizzata in Europa è dedicata a materie prime destinate ai mangimi per la zootecnia intensiva) a favore di una produzione animale più estensiva. Intensificare le produzioni non aumenterà la sicurezza alimentare, mentre soluzioni si trovano nell’agroecologia, pratica che attraverso il rafforzamento della vitalità degli ecosistemi nelle zone rurali, una rinaturalizzazione delle campagne, una migliore integrazione di zootecnia e agricoltura e una riduzione degli input chimici in campo e l’utilizzo di filiere corte – dove c’è relazione diretta fra agricoltori e consumatori-, consente di creare sistemi produttivi integrati e resilienti, contribuisce a regimi alimentari sani, sostenibili, equi, accessibili, diversificati, stagionali e culturalmente appropriati.

È evidente che sistemi agroalimentari locali a filiera corta non sarebbero in grado di soddisfare completamente i fabbisogni alimentari di un Paese con milioni di abitanti, in particolare quando esiste una forte concentrazione della popolazione nelle città lontane dalle aree agricole. Per questo serve cercare il giusto equilibrio tra produzioni locali, diversificate e filiere agroindustriali sostenibili, creando relazioni con reti diffuse di produttori a livello nazionale ed europeo, riducendo la dipendenza dalle importazioni da Paesi extra UE e fissando criteri di sostenibilità ambientale, sociale ed economica nella produzione delle materie prime.  Secondo il WWF, purtroppo il governo italiano non sta promuovendo una vera transizione ecologica della nostra agricoltura, ma sta piuttosto accogliendo le richieste delle associazioni agricole e zootecniche e dei grandi gruppi industriali dell’agrochimica. L’atteggiamento del governo italiano nei confronti della riforma della PAC è sempre stato ostile al cambiamento dei sistemi di produzione, tutelando gli interessi economici acquisiti nel tempo dalle grandi aziende. Questa posizione conservatrice è stata confermata con la redazione di un Piano Strategico Nazionale (PSN) della PAC post 2022 non adeguato alla transizione ecologica della nostra agricoltura. Una visione miope e poco lungimirante del futuro della nostra agricoltura che indica chiaramente una scarsa percezione dei rischi connessi alle crisi ambientali globali. Unica nota positiva della politica agricola del nostro governo è l’investimento sull’agricoltura biologica con un obiettivo al 2030 superiore rispetto alla media europea del 25%, indicato dalle Strategie UE “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030”. 

Fonte: ecodallecitta.it

Calanchi del Marchesato: fra le dune di Pasolini salvate da una discarica

Nell’area interna di Cutro (Crotone) esiste una vasta distesa di calanchi che è stata salvata due anni fa da un progetto di discarica. Adesso c’è un’associazione – Calanchi del Marchesato – che la valorizza e tutela.

CrotoneCalabria – «Questa strada è quella che due anni fa facemmo assieme ad Alessia quando venimmo a conoscenza del progetto di una discarica in questo posto». A parlare è Domenico Colosimo, presidente dell’associazione Calanchi del Marchesato, mentre ci incamminiamo su una strada interna e ci lasciamo alle spalle le ultime case di Cutro, paese in provincia di Crotone. Stiamo andando verso una distesa di calanchi, in un’area dove l’erosione delle acque sul terreno argilloso ha agito per milioni di anni creando un paesaggio lunare. Sono famosi quelli della Basilicata, meno conosciuti quelli calabresi, in particolare quelli dove mi trovo in questo momento. «Non avevamo ben chiaro cosa ci fosse qui – continua Domenico – ma quando arrivammo vedemmo uno spettacolo di cui non eravamo assolutamente a conoscenza».

Neanche io, mi dico mentre faccio correre lo sguardo a destra e a sinistra. Le dune si susseguono una dopo l’altra illuminate da qualche raggio di sole sparso e neanche il vento di fine inverno sembra riuscire a scuoterle. Stanno lì, a parlarti con la loro storia di milioni di anni. Sono i luoghi che Pasolini scelse per alcune scene del suo film “Il Vangelo secondo Matteo”, definendo questa parte della Calabria “più palestinese della Palestina”.

Comprendo subito la spinta di tutte quelle persone che, mi spiega Domenico, decidono di mobilitarsi per impedire la costruzione della discarica. Il progetto della discarica era nato nel 2018 all’interno dell’ATO di Crotone (Ambito Territoriale Ottimale, ovvero territori su cui sono organizzati servizi pubblici integrati), che si occupava della gestione dei rifiuti, ed era legato all’amministrazione di Roccabernarda, un comune limitrofo a quello di Cutro, e che in parte comprende anche i calanchi e la porzione di terra dove si sarebbe dovuta allocare la discarica. «Un’idea assurda, anche pensando al fatto che a pochi chilometri da qui c’è già una delle discariche più grandi del Sud, quella della Sovreco», che si trova a Crotone, a pochi chilometri da Cutro. Così un gruppo di cittadini, provenienti anche dall’associazionismo, inizia a riunirsi per capire come impedire quel progetto: «Iniziammo a parlare di tutto questo con dei gruppi di persone sensibili a questioni legate al territorio e decidemmo di lottare per preservare questo luogo con un’idea propositiva, invece che di contrapposizione». In breve tempo, il movimento riesce ad avereun’interlocuzione anche con le istituzioni coinvolte nel progetto di discarica, in particolare l’amministrazione di Roccabernarda, paese a 20 chilometri da Cutro, che si dimostra sensibile sul tema.

I calanchi del Marchesato non godono di alcun riconoscimento ufficiale, anche se l’associazione mira a realizzare un Parco

Ed è proprio grazie a queste riunioni partecipate e alla mobilitazione dal basso se il pericolo di una discarica in quei luoghi viene scongiurato e i calanchi del Marchesato iniziano a diventare un luogo da vivere. C’era già chi li conosceva, ma effettivamente mancava una consapevolezza del territorio sull’importanza di questo patrimonio naturalistico, storico e paesaggistico. Così il movimento diventa un’associazione di promozione sociale e inizia ad approfondire la storia di questo posto, solcato dalle vie che fino a pochi decenni fa erano usate per collegare l’interno crotonese con la costa. Ne traccia i sentieri e dà vita a iniziative volte a farlo conoscere e a tutelarlo, come giornate di raccolta dei rifiuti organizzate con scolaresche ed escursioni, eventi culturali.

Al momento, i calanchi del Marchesato non godono di alcun riconoscimento ufficiale, anche se l’associazione mira a realizzare un Parco dei Calanchi del Marchesato e sta già lavorando in questa direzione con l’Università della Calabria, consapevole che maggiore riconoscimento significhi anche tutela da progetti invasivi e distruttivi per il territorio.

Nel frattempo, il prossimo passo è dietro l’angolo: il 9 aprile l’associazione promuoverà una passeggiata fra i calanchi, con musica, reading e teatro a tema Pasolini. Lo scrittore era passato nei primi anni ‘60 da questi luoghi nel corso di un suo viaggio lungo tutte le coste italiane e, una volta arrivato sul litorale di Cutro, aveva deciso di girare verso l’interno. E alla vista dei calanchi aveva detto: «Il posto che più mi impressiona di tutto il viaggio: sembrano dune immaginate da Kafka».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/03/calanchi-del-marchesato-discarica/?utm_source=newsletter&utm_medium=email