L’Asino e la Luna: cambiare vita nel segno della permacultura.

Una psicoterapeuta e una militare dell’aeronautica si incontrano a un corso di facilitazione e scoprono di avere entrambe cambiato vita per lo stesso sogno e con gli stessi strumenti. E allora decidono di fondare un luogo che possa ispirare altre anime in transizione a svoltare e ritrovarsi. La storia di Manuela e Denia e del loro centro esperienziale in permacultura a Cerveteri, la fiaba dell’asino e della luna.

RomaLazio – «Abbiamo conosciuto tante persone che volevano cambiare vita e che non sapevano da dove iniziare. E allora abbiamo fondato un centro esperienziale per fargli toccare con mano alcune fra le opzioni più interessanti». C’erano una volta (e ci sono ancora) Manuela e Denia, le due facce della Luna, l’energia femminile. Attorno a loro gironzola Silvio, il loro asino, forza fisica e semplicità maschile. Il luogo, così incantato da fungere da perfetto scenario per una moderna fiaba senza antagonisti, ha un nome non casuale: L’Asino e la Luna.

IL CAMBIO VITA

Eh sì, loro di cambio vita se ne intendono. Prendete Manuela Bocchino, per esempio. Originaria di Cerveteri, sulla costa a nord di Roma. Nel 2005 si arruola in aeronautica militare e si trasferisce a Milano. A poco a poco, la città finisce per starle sempre più stretta. E così, a partire dall’esigenza di alimentarsi in maniera più sana, incontra lo yoga, la meditazione, la ricerca della spiritualità, la riduzione dei bisogni, con tutto quel che ne consegue.

Non è una sorpresa se nel 2015 – pur non mollando il lavoro – sceglie di trasferirsi in natura, «per evolvere, rallentare, cambiare», dice. E così torna nella sua terra e compra 4 ettari tra mare e bosco, con sopra una casa, una vigna dismessa e qualche quercia spelacchiata. Il suo sogno? Un castello chiamato ecovillaggio. E adesso prendete Denia Franco. Toscana che più non si può, ha sempre condotto a Firenze «una vita normale: la famiglia, gli amici, lo studio, l’università». Nel 2016 si accorge che manca qualcosa, che si sente in gabbia. «Non volevo più vivere per lavorare, il lavoro doveva diventare solo uno strumento per vivere secondo i miei desideri».

E così traccia una bella riga e tira le somme. Nel senso letterale del termine. Gli addendi: cura delle persone, più cura degli animali (è una psicoterapeuta che lavora anche con i cavalli), più desiderio di armonia con la natura. Totale: downshifting, pure lei, e ritorno all’essenziale. Senza mollare il lavoro, pure lei, ma senza soccombere ad esso. Il suo sogno? Un castello chiamato ecovillaggio.

Ebbene, cosa accade quando due persone con lo stesso sogno nel cassetto si incontrano al momento giusto? Nella vita normale ci provano, vero, avete indovinato. Ma nelle fiabe? Ecco, nelle fiabe non solo ci provano. Nelle fiabe riescono. È il 2017. Manuela vive da due anni sul suo terreno a Cerveteri, ma il suo progetto non decolla, i contrasti imperano e la sua comunità è ancora nella sfera di cristallo.

La permacultura è come una valigetta degli strumenti: quando impari a usarla poi resta con te e da lì puoi estrarre lo strumento che ti serve di volta in volta, approfondendone l’uso con il tempo

Denia ci è già passata. Il suo gruppetto si è appena sciolto, definitivamente, e lei si è iscritta a un corso di facilitazione per evitare di cadere nelle stesse trappole in futuro. A quel corso di facilitazione incontra Manuela, che ci è arrivata per lo stesso motivo. La domanda di Manuela sorge spontanea: «Mi aiuti a risollevare il mio gruppo?».

Non penserete mica che siamo arrivati alla fine della storia? Un po’ di pazienza. Persino nelle più brevi fiabe per bambini la principessa dev’essere rinchiusa nella torre prima che qualcuno – o qualcuna – accorra a liberarla. Qui succede che, nonostante l’intervento di Denia, il gruppo di Manuela non si risolleva. Anzi, si scioglie. Restano loro due, da sole. Vengono entrambe da un radicale cambio vita che ha salvato solo il loro lavoro, desiderano entrambe il contatto con la natura, hanno lo stesso sogno comunitario e la stessa ferita ancora aperta.

Insomma, anche stavolta due più due fa quattro. E così Manuela e Denia decidono di sperimentarsi insieme. Prima un mese, poi altri due, poi ulteriori tre. I periodi di prova vanno bene, ognuno meglio di quello precedente. La comunità, sebbene meno numerosa di quella che avevano immaginato da sole, è nata; insieme a un senso di famiglia elettiva che entrambe mai avevano provato prima. Cosa manca ancora, direte voi? Semplice. La pozione magica.

LA PERMACULTURA

Nel 2017, poco prima di conoscere l’altra metà della Luna, Manuela scopre la permacultura. Un altro mondo le appare improvvisamente all’orizzonte, al punto che riesce finalmente a ipotizzare la possibilità di coltivare il suo terreno senza aver ancora sviluppato alcuna competenza in campo agricolo. L’altra metà della Luna, dal canto suo, aveva cominciato ad avvicinarsi alla permacultura da qualche anno; e più l’approfondiva, più scopriva che quella poteva essere una cornice di riferimento su cui impostare persino il quotidiano. È Denia stessa a raccontare che la permacultura «mi risuonava perché era composta da elementi che ho sempre sentito dentro, sebbene separati l’uno dall’altro». Per cui, quando li ha trovati integrati tutti insieme in quella che poi ha iniziato a considerare come una vera e propria filosofia di vita, ha capito che aveva ormai imboccato la sua strada: «Era ciò che sentivo e che non riuscivo a esprimere a parole».

Manuela e Denia hanno dunque trovato nella permacultura la loro pozione magica, ossia la visione comune che hanno scelto di usare come intento per riprogettare il terreno di Manuela, che dal 2019 hanno deciso di chiamare “centro esperienziale”, basandolo sulle tre etiche della Permacultura: cura della Terra come fosse un organismo, cura della propria specie e condivisione. Nel video che trovate in questo articolo, le due protagoniste raccontano cos’è oggi L’Asino e la Luna e cosa si immaginano potrà essere in futuro.

«Il centro è “esperienziale” perché la permacultura è come una valigetta degli strumenti: quando impari a usarla poi resta con te e da lì puoi estrarre lo strumento che ti serve di volta in volta, approfondendone l’uso con il tempo», spiegano. Una valigetta che contiene anche uno specchio fatato. «A volte quando ci si forma in qualcosa ci si estrania e si finisce sul tecnicismo», continua Denia. «Invece con la permacultura questo non accade, perché il suo approccio, che tende alla massima integrazione possibile, conserva dentro di sé gli strumenti per evitarlo».

E ora, come in tutte le fiabe che si rispettino, è il momento dei doni, ossia dei meritati premi che gli eroi o le eroine ricevono per le loro peripezie. Manuela stila una lunga e ricca lista: «Sono gli ottimi rapporti con i contadini e gli allevatori della zona e la rete di telecomunicazioni Noinet, che ci ha sponsorizzato nella realizzazione della nostra food forest».

E ancora, «sono le reti di cui facciamo parte, in particolare la RIVE e l’Accademia Italiana di Permacultura, che ci ha dato persino l’onore di ospitare un’assemblea plenaria nazionale; sono gli altri eventi che abbiamo ospitato e che ospiteremo; sono i tanti volontari pronti ad aiutarci in ogni iniziativa; sono gli alberi che abbiamo seminato in questi anni e che presto inizieranno a produrre frutti».

Cosa manca ancora, dunque? Ah, la morale. Beh, per quella vi toccherà cliccare sulla loro intervista video e ascoltare le parole finali di Denia. Perché la luna, in fondo, non è poi così lontana: montare su un asino per raggiungerla lentamente, passo dopo passo, possono farlo tutti. E tutte. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/03/lasino-e-la-luna-permacultura-2/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Sadhguru a Roma: “Senza un suolo sano non c’è sopravvivenza”

Sabato scorso il tour attraverso Europa e Asia del leader ambientalista indiano Sadhguru si è fermato a Roma. Supportato da personaggi del mondo della musica e dello spettacolo, il guru ha lanciato con forza il messaggio su cui si fonda Conscious Planet, il progetto da lui stesso creato: «In questo momento l’aspetto più importante della conservazione della natura è il suolo». La nostra inviata Brunella Bonetti ci racconta com’è andata.

RomaLazio – C’è grande trepidazione nell’aria. Fermento. Centinaia di persone nel piazzale ovale antistante l’Auditorium in attesa di Sadhguru, il guru indiano fondatore di Conscious Planet, il movimento che si batte per la salvaguardia del suolo. Lui viaggia in moto, in solitaria. Sta attraversando 27 paesi in 100 giorni riunendo esperti, leader e persone di tutto il mondo per affrontare una crisi imminente. Piove tutto il giorno su Roma. Poi smette e, all’improvviso, esce il sole, proprio quando ha inizio l’evento gratuito che ha come ospite d’onore Sadhguru, il cui messaggio viene cantato da artisti come Malika Ayane, Elisa, Noemi, Brunori Sas, Giovanni Caccamo e personaggi tra cui Fabio Volo. «In tutto il mondo – dicono –, il degrado del suolo sta raggiungendo livelli che minacciano la produzione di cibo, la stabilità del clima e la vita stessa di questo Pianeta».

Sadhguru ha iniziato il suo viaggio di 30.000 chilometri attraverso l’Europa e l’Asia, per accelerare gli interventi di politiche per la protezione del suolo, sostenuto da leader mondiali, celebrità e istituzioni di rilievo. Ed oggi è a Roma, accompagnato da grandi artisti, pronti a testimoniare il cambiamento attraverso canzoni e performance a sfondo e tema naturale. Sulle note di Cambiamento, il guru ci ricorda che «le Nazioni Unite affermano che tra sessant’anni non avremo più terreno coltivabile. Il 52% dei suoli agricoli del mondo sono degradati e, a questo ritmo, una disastrosa crisi alimentare globale sarà inevitabile nel prossimo futuro».

«La verità è che cambiare fa paura e che non sappiamo rinunciare a quelle quattro o cinque cose a cui non si crede neanche più», suona Brunori Sas, vate della situazione presente. Tuttavia è ancora possibile produrre un cambiamento in senso positivo e sostenibile. Poi canta Elisa, partner dell’ONU, in partenza per un tour all’insegna e a sostegno della sostenibilità ambientale.

Se non fermiamo il degrado del suolo, il Pianeta non sarà più un luogo favorevole alla vita degli esseri umani

Sadhguru non è il solito guru. Non porta il turbante ma occhiali da sole, maglietta dai colori sgargianti e gira in moto con un sorriso contagioso e accogliente, proprio come la terra che si batte per difendere. A dialogare con lui, sale sul palco Manoj Juneja, direttore esecutivo e capo finanziere del World Food Programme (WFP) delle Nazioni Unite.

Juneja spiega l’importanza di tutelare il suolo, oggi più che mai, per la salvaguardia della biodiversità e della nostra stessa esistenza. Poi ringrazia il guru per la sua missione e per l’importante messaggio che porta in giro per il mondo a milioni di persone: «Save soil. Let’s un make it happen!».

Quando sale sul palco Sadhguru è una standing ovation: occhiali da sole e lunga barba, bianca, come la scoppola che porta in testa «Namastè», saluta emozionato. Poi intona un mantra che fa vibrare tutti i presenti, uniti in un canto per la terra. «È importante capire che senza un suolo sano non c’è sopravvivenza. Non c’è vita. Dobbiamo agire subito per le future generazioni, per garantire loro un futuro più sostenibile».

Possiamo fare molto nel nostro quotidiano per andare nella giusta direzione, come «renderci conto, innanzitutto, dei disastri e dei danni che stiamo arrecando alla terra e poi compiere piccole ma efficaci azioni in senso opposto, come piantare alberi. Milioni di alberi. Ci aspetta un lungo percorso, tante battaglie e milioni di persone sono da mobilitare». Ma tutto ciò è possibile, fa capire il guru con la sua stessa presenza e con il suo incredibile viaggio: «Si può sognare. Fate in modo che i vostri sogni diventino realtà».

«Avrò cura di te», recita la canzone di Battiato. E lo stesso dovremmo fare noi per la nostra Madre Terra: averne cura. Lo fanno già il Dalai Lama, il cantautore Maluma, l’attore Omar Sy, la direttrice della FAO Maria Helena, il pilota automobilistico Nico Rosberg, il giocatore di football Tom Brady, il DJ Pete Tong e decine di altro sostenitori di Conscious Planet, che mira ad attivare il sostegno di oltre 3,5 miliardi di persone e a promuovere un cambiamento nelle politiche di tutte le nazioni democratiche per la rivitalizzazione del suolo aumentando il suo contenuto organico.

Sadguru lo fa già e offre l’opportunità di unirsi a un movimento che ha proprio questo come scopo. «In questo momento l’aspetto più importante della conservazione della natura è il suolo. Se non fermiamo il degrado del suolo, il Pianeta non sarà più un luogo favorevole alla vita degli esseri umani». Il cambiamento è possibile. Facciamolo accadere!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/04/sadhguru-roma-suolo/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

La storia di Chiara, la giovane imprenditrice che crede nella canapa

Affascinata dal mondo di questa pianta antica e versatile, qualche anno fa Chiara Lo Cascio ha aperto un piccolo negozio per lanciarsi in un settore dalle grandi potenzialità, troppo spesso represse da una normativa retrograda e ottusa. Attraverso il suo racconto scopriamo meglio tutto ciò che ruota intorno alla canapa.

RomaLazio – Dopo un percorso di studio e di lavoro che l’ha portata dall’economia aziendale al marketing online, dalla programmazione di app all’incubazione d’impresa, nel 2018 Chiara, un po’ stanca dell’innovazione prettamente digitale, apre un hemp-shop nella capitale, a San Lorenzo, la zona dove vive: Zia Maria.

«Sono partita solo due dipendenti part-time, ero piccina – ricorda –, ma felice di fare impresa grazie a una pianta dalle mille opportunità. «Vivo un po’ di innovazione anche oggi, ma di stampo diverso: ha a che fare con la natura, con le piante, con l’economia reale. Ho scelto di provare a investire in me stessa e in quella che credo essere tutt’ora, nonostante le mille difficoltà, una grande opportunità per il nostro paese: la canapa».

Come sta proseguendo il tuo percorso di studio e di crescita professionale?

Mi sono iscritta di nuovo all’università: frequento la triennale di scienze farmaceutiche applicate per diventare erborista. Il mio sogno è creare e vendere prodotti innovativi, a partire dalle piante. Non so se mai ci riuscirò, ma intanto la strada l’ho intrapresa. Bisogna essere preparati per coltivare e ancor più forse per trasformare e vendere la canapa. Non solo per sentirsi inattaccabili nella giungla normativa che subiamo come nessun altro settore in questo paese, ma anche per essere all’altezza delle domande dei clienti. I fiori rappresentano per quasi tutti i negozi la maggior parte del fatturato. Il fiore di canapa, praticamente privo di principio attivo stupefacente, ma dalle interessanti qualità fisiologiche, in Italia non è normato per il consumo umano a differenza di tanti altri paesi anche europei che lo classificano come alimento o integratore alimentare (tisana) o al limite come “novel food” (nel caso di cibi con aggiunta di cbd).

Chi sono le persone che frequentano il tuo negozio?

Sin dall’apertura l’età media dei miei clienti è over 30, ma ho anche tanti clienti over 50 e 60. Faccio le spedizioni ad alcuni affezionati che si sono trasferiti in un’altra regione e a volte fanno il passaparola. In negozio ho anche la cosmetica bio e cruelty free a base di olio di canapa e altre piante, i superfood e gli integratori alimentari vegetali, accessori e merchandising. Con il Covid mi è parso che l’attenzione alla natura, la voglia di tornare agli spazi aperti e alla terra, di farsi l’orto anche solo in balcone, sia esplosa. Ho aggiunto quindi tutta la parte grow e giardinaggio; per esempio ho i terricci specifici per i vari i tipi i piante: grasse, orchidee, orto, acidofile, agrumi eccetera. Oltre che, naturalmente, fertilizzanti e ammendanti organici e minerali.

Come ti promuovi?

È difficile nel mio settore, non si possono fare pubblicità a pagamento su google e sui social. A dire il vero non ho nemmeno ancora il mio sito: ho un po’ di ansia da prestazione venendo dal mondo delle startup. A parte gli scherzi le vendite sono buone: uso instagram, senza fare ads a pagamento. E poi c’è sempre il passaparola e mi promuovo magari moderando alcune iniziative come il 420 HempFest di Milano nel 2019 o alcuni incontri online.

Come va l’attività di coltivatrice?

Il primo anno è stato davvero duro, non abbiamo inserito automazioni di alcun tipo, non conoscevamo ancora il luogo e l’impianto. Abbiamo coltivato in vaso, non avevamo ancora fatto le analisi del terreno. Quest’anno le stiamo facendo, ma abbiamo già visto che ci sono tanti lombrichi a soli 20 centimetri di profondità: a occhio sembra essere un ottimo terreno vivo! Mi divido con un’altra azienda una serra di cui occupo solo il 25%, ma il mio sogno è mettere a punto un piccolo laboratorio per la prima trasformazione e la coltivazione indoor in ambiente protetto, magari non occupandomi solo di canapa, ma anche di aromatiche e officinali.

Come vedi il futuro degli agricoltori e dei commercianti di canapa?

Il mercato della canapa industriale oggi in Italia è più efficiente: si stanno riducendo i distributori, la filiera si accorcia, ci sono sempre meno passaggi dalla produzione al cliente. From Farm to Fork è uno dei titoli della nuova strategia europea, speriamo di rientrarci prima o poi. Il mercato potrà finalmente mostrare le sue potenzialità quando in Italia il fiore sarà normato anche per uso umano. Non essendolo, non sono ancora arrivati i grandi colossi che sono presenti altrove. Arriveranno anche investimenti italiani ed esteri. I piccoli imprenditori come me potranno restare in vita se sapranno offrire qualità, magari innovare. Se avranno la possibilità di creare una filiera corta, quindi praticare la vendita diretta o con pochi passaggi, come per esempio già accade con le piccole cantine italiane d’eccellenza.

Essere parte di una comunità ti aiuta, in particolar modo a destreggiarti in ambito legale?

Conosco Canapa Sativa Italia dagli albori, devo al gruppo facebook omonimo tutte le nozioni e le basi iniziali necessarie per avviare l’attività. Mi sono resa conto che anziché destinare tempo alla botanica, dovevo studiare molto molto bene la legge! CSI mi ha dato tante informazioni preziose di cui avevo bisogno, oltre che darmi un luogo dove informarmi su ciò che accadeva alla canapa e alla cannabis nel resto del mondo. Mi sono resa conto col tempo che è fondamentale partecipare ad un’associazione di settore, soprattutto se lavori in un ambito giovane e incerto come il nostro: non solo per informarti, ma anche per difenderti dai preconcetti e quindi particolari interpretazioni della legge.

Come valuti la situazione italiana?

Rivesto di nuovo i panni della piccola imprenditrice: agricoltori e negozianti hanno necessità di certezza normativa oggi. Si tratta di aziende che hanno già investito, anche piccole imprese familiari che dopo la legge 242 del 2016 hanno scommesso su questa pianta. Mentre ormai in moltissime parti del mondo si sta normando la cannabis ad alto tenore di THC, in Italia si fa ancora la guerra a malati come Walter de Benedetto o al fiore di canapa, che praticamente non ha principio attivo. In Sardegna è stata diramata una circolare molto restrittiva e – a parere di CSI – non legittima. Bisogna capire che, al di là della politica, parliamo di scienza e di lavoro: si tratta di un settore che in Italia si è creato praticamente da solo, che non chiede aiuti economici, solo certezza normativa. Parliamo di tanti giovani, perché il nostro è un comparto con un’età media molto bassa. Con l’avvento della legge 242 del 2016 e grazie al mercato con le sue richieste, negli ultimi 4/5 anni gli operatori hanno acquisito tanto know-how. Siamo italiani, ci piace scoprire, inventare, innovare. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/09/chiara-imprenditrice-canapa/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Gruppo di Appoggio Mutuo: a Roma si condividono cibo, saperi e relazioni

Da un fertile humus di solidarietà e impegno civile è nato un gruppo che per decine di famiglie della periferia romana sta rappresentando una risorsa fondamentale in questo periodo di crisi e incertezza. Dalla distribuzione di pacchi al bookcrossing, fino all’autoproduzione, vi raccontiamo le sue attività. Si chiama GAM, Gruppo di Appoggio Mutuo, è nato all’inizio della pandemia e proprio con l’ingresso della primavera ha “festeggiato” un anno di attività. Questa realtà romana territoriale è figlia della Libera Assemblea di Centocelle (LAC), costituita per rispondere agli incendi che avevano colpito il quartiere nell’inverno del 2019 e in particolare una libreria, la Pecora Elettrica. Con l’arrivo di una nuova emergenza, quella del COVID-19, le attiviste e gli attivisti si sono messi nuovamente in gioco, chiedendosi quali potesse essere l’esigenza principale per chi ha dovuto smettere di lavorare improvvisamente a seguito delle misure restrittive. Senza dubbio la distribuzione dei pacchi alimentari è stata una risposta dettata dalla situazione emergenziale, ma con il tempo la richiesta non solo non è diminuita ma è addirittura aumentata. Se a settembre 2020 l’utenza del GAM raggiungeva un numero di 120 famiglie a settimana, a Natale sono diventate 150, per arrivare nell’ultimo periodo a ben 180 famiglie.

Da un fertile humus di solidarietà e impegno civile è nato un gruppo che per decine di famiglie della periferia romana sta rappresentando una risorsa fondamentale in questo periodo di crisi e incertezza. Dalla distribuzione di pacchi al bookcrossing, fino all’autoproduzione, vi raccontiamo le sue attività. Si chiama GAM, Gruppo di Appoggio Mutuo, è nato all’inizio della pandemia e proprio con l’ingresso della primavera ha “festeggiato” un anno di attività. Questa realtà romana territoriale è figlia della Libera Assemblea di Centocelle (LAC), costituita per rispondere agli incendi che avevano colpito il quartiere nell’inverno del 2019 e in particolare una libreria, la Pecora Elettrica. Con l’arrivo di una nuova emergenza, quella del COVID-19, le attiviste e gli attivisti si sono messi nuovamente in gioco, chiedendosi quali potesse essere l’esigenza principale per chi ha dovuto smettere di lavorare improvvisamente a seguito delle misure restrittive. Senza dubbio la distribuzione dei pacchi alimentari è stata una risposta dettata dalla situazione emergenziale, ma con il tempo la richiesta non solo non è diminuita ma è addirittura aumentata. Se a settembre 2020 l’utenza del GAM raggiungeva un numero di 120 famiglie a settimana, a Natale sono diventate 150, per arrivare nell’ultimo periodo a ben 180 famiglie.

«Ci siamo mobilitati fin dall’inizio tramite passaparola, social network e volantini – racconta Alessandra La Porta, portavoce del GAM –, siamo scesi nelle strade, quando era possibile, e in tutti quei luoghi che già frequentavamo». Il radicamento sul territorio e il legame tra le persone sono infatti le componenti fondamentali che hanno permesso a questa realtà di fare la differenza. I momenti di distribuzione di pacchi alimentari e beni di prima necessità sono quattro a settimana e si svolgono in due giorni diversi, il giovedì a Villa Gordiani, Centocelle e Tor Pignattara; il sabato sempre a Centocelle, il quartiere con maggiore richiesta.

«Ci sentiamo un tutt’uno con le persone a cui ci rivolgiamo – prosegue Alessandra La Porta – tanto è vero che molti dei beneficiari conosciuti durante la distribuzione dei pacchi alimentari si sono attivati diventando loro stessi volontari». È un circolo virtuoso di mutualismo e solidarietà che non si ferma solo alla distribuzione di pacchi alimentari, ma mira alla condivisione di pratiche e conoscenza. Sono nati così punti di bookcrossing per lo scambio di libri nel quartiere, ma anche laboratori per la realizzazione di mascherine, fino alla produzione di saponi o detersivi naturali.

«Ci siamo mobilitati fin dall’inizio tramite passaparola, social network e volantini – racconta Alessandra La Porta, portavoce del GAM –, siamo scesi nelle strade, quando era possibile, e in tutti quei luoghi che già frequentavamo». Il radicamento sul territorio e il legame tra le persone sono infatti le componenti fondamentali che hanno permesso a questa realtà di fare la differenza. I momenti di distribuzione di pacchi alimentari e beni di prima necessità sono quattro a settimana e si svolgono in due giorni diversi, il giovedì a Villa Gordiani, Centocelle e Tor Pignattara; il sabato sempre a Centocelle, il quartiere con maggiore richiesta.

«Ci sentiamo un tutt’uno con le persone a cui ci rivolgiamo – prosegue Alessandra La Porta – tanto è vero che molti dei beneficiari conosciuti durante la distribuzione dei pacchi alimentari si sono attivati diventando loro stessi volontari». È un circolo virtuoso di mutualismo e solidarietà che non si ferma solo alla distribuzione di pacchi alimentari, ma mira alla condivisione di pratiche e conoscenza. Sono nati così punti di bookcrossing per lo scambio di libri nel quartiere, ma anche laboratori per la realizzazione di mascherine, fino alla produzione di saponi o detersivi naturali.

Come va avanti tutto questo? Il GAM si sostiene interamente attraverso le donazioni alimentari davanti ai supermercati e con la raccolta dell’invenduto giornaliero nei mercati rionali. «Purtroppo le offerte nell’ultimo periodo sono diminuite – spiega la referente del GAM – mentre la nostra utenza è aumentata significativamente». Per sostenere il progetto, i volontari del Gruppo si sono quindi affidati a un crowdfunding su Produzioni dal Basso a cui tutti possono contribuire. L’obiettivo è quello di continuare a distribuire pacchi alimentari per tutto il 2021, perché le persone in fila aumentano e gli attivisti e le attiviste, per fortuna, non hanno intenzione di fermarsi. «Vogliamo prenderci metaforicamente per mano e attraversare insieme questo momento di difficoltà», conclude Alessandra. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/04/gruppo-di-appoggio-mutuo-roma-cibo-saperi-relazioni/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Mal’Aria edizione speciale: le città peggiori sono Torino, Roma, Palermo, Milano e Como

Nuovi dati raccolti da Legambiente nel report Mal’aria edizione speciale, in cui l’associazione stila una “pagella” sulla qualità dell’aria di 97 città italiane sulla base degli ultimi 5 anni – dal 2014 al 2018. Giorgio Zampetti: “Serve una politica diversa che non pensi solo ai blocchi del traffico e sporadiche misure”

Che aria si respira nelle città italiane e che rischi ci sono per la salute? Di certo non tira una buona aria e con l’autunno alle porte, unito alla difficile ripartenza dopo il lockdown in tempo di Covid, il problema dell’inquinamento atmosferico e dell’allarme smog rimangono un tema centrale da affrontare. A dimostrarlo sono i nuovi dati raccolti da Legambiente nel report Mal’aria edizione speciale nel quale l’associazione ambientalista ha stilato una “pagella” sulla qualità dell’aria di 97 città italiane sulla base degli ultimi 5 anni – dal 2014 al 2018 – confrontando le concentrazioni medie annue delle polveri sottili (Pm10, Pm2,5) e del biossido di azoto (NO2) con i rispettivi limiti medi annui suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): 20µg/mc per il Pm10; 10 µg/mc per il Pm2,5; 40 µg/mc per il NO2. Limiti quelli della OMS che hanno come target esclusivamente la salute delle persone e che sono di gran lunga più stringenti rispetto a quelli della legislazione europea (limite medio annuo 50 µg/mc per il Pm10, 25 µg/mc per il Pm2,5 e 40 µg/mc per il NO2) e il quadro che emerge dal confronto realizzato da Legambiente è preoccupante: solo il 15% delle città analizzate ha la sufficienza contro l’85% sotto la sufficienza. Delle 97 città di cui si hanno dati su tutto il quinquennio analizzato (2014 – 2018) solo l’15% (ossia 15) raggiungono un voto superiore alla sufficienza: Sassari (voto 9), Macerata (8), Enna, Campobasso, Catanzaro, Grosseto, Nuoro, Verbania e Viterbo (7), L’Aquila, Aosta, Belluno, Bolzano, Gorizia e Trapani (6). Sassari prima della classe con voto 9 in quanto dal 2014 al 2018 ha sempre rispettato i limiti previsti dall’OMS per le polveri sottili (Pm10 e Pm2,5) e per il biossido di azoto (NO2) ad eccezione degli ultimi 2 anni in cui solo per il Pm10 il valore medio annuo è stato di poco superiore al limite OMS; analoghe considerazioni con Macerata (voto 8), in quanto pur avendo sempre rispettato nei 5 anni i limiti, per il Pm2,5 non ci sono dati a supporto per gli anni 2014, 2015 e 2016 che quindi la penalizzano. Le altre città sopra la sufficienza, pur avendo spesso rispettato i limiti suggeriti dall’OMS mancano di alcuni dati in alcuni anni, a dimostrazione che per tutelare la salute dei cittadini bisognerebbe comunque garantire il monitoraggio ufficiale in tutte le città di tutti quegli inquinanti previsti dalla normativa e potenzialmente dannosi per la salute.

La maggior parte delle città – l’85% del totale – sono sotto la sufficienza e scontano il mancato rispetto negli anni soprattutto del limite suggerito per il Pm2,5 e in molti casi anche per il Pm10. Fanalini di coda le città di Torino, Roma, Palermo, Milano e Como (voto 0) perché nei cinque anni considerati non hanno mai rispettato nemmeno per uno solo dei parametri il limite di tutela della salute previsto dall’OMS. Dati che Legambiente lancia oggi alla vigilia del 1 ottobre, data in cui prenderanno il via le misure e le limitazioni antismog previste dall’«Accordo di bacino padano» in diversi territori del Paese per cercare di ridurre l’inquinamento atmosferico, una piaga dei nostri tempi al pari della pandemia e che ogni anno, solo per l’Italia, causa 60mila morti premature e ingenti costi sanitari. Il Paese detiene insieme alla Germania il triste primato a livello europeo. Per questo con Mal’aria edizione speciale Legambiente chiede anche al Governo e alle Regioni più coraggio e impegno sul fronte delle politiche e delle misure da mettere in campo per avere dei risultati di medio e lungo periodo. Un coraggio che per Legambiente è mancato alle quattro regioni dell’area padana (Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto) che, ad esempio, hanno preferito rimandare all’anno nuovo il blocco alla circolazione dei mezzi più vecchi e inquinanti Euro4 che sarebbe dovuto scattare questo 1 ottobre nelle città sopra i 30 mila abitanti. Una mancanza di coraggio basata sulla scusa della sicurezza degli spostamenti con i mezzi privati e non pubblici in tempi di Covid, o sulla base della compensazione delle emissioni inquinanti grazie alla strutturazione dello smart working per i dipendenti pubblici.

“Per tutelare la salute delle persone – dichiara Giorgio Zampetti, Direttore Generale di Legambiente – bisogna avere coraggio e coerenza definendo le priorità da affrontare e finanziare. Le città sono al centro di questa sfida, servono interventi infrastrutturali da mettere in campo per aumentare la qualità della vita di milioni di pendolari e migliorare la qualità dell’aria, puntando sempre di più su una mobilità sostenibile e dando un’alternativa al trasporto privato. Inoltre serve una politica diversa che non pensi solo ai blocchi del traffico e alle deboli e sporadiche misure anti-smog che sono solo interventi palliativi. Il governo italiano, grazie al Recovery Fund, ha un’occasione irripetibile per modernizzare davvero il Paese, scegliendo la strada della lotta alla crisi climatica e della riconversione ecologica dell’economia italiana. Non perda questa importante occasione e riparta dalle città incentivando l’utilizzo dei mezzi pubblici, potenziando la rete dello sharing mobility e raddoppiando le piste ciclopedonali. Siamo convinti, infatti, che la mobilità elettrica, condivisa, ciclopedonale e multimodale sia l’unica vera e concreta possibilità per tornare a muoverci più liberi e sicuri dopo la crisi Covid-19, senza trascurare il rilancio economico del Paese”.

“L’inquinamento atmosferico nelle città – aggiunge Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente –  è un fenomeno complesso poiché dipende da diversi fattori: dalle concentrazioni degli inquinanti analizzati alle condizioni meteo climatiche, passando per le caratteristiche urbane, industriali e agricole che caratterizzano ogni singola città e il suo hinterland. Nonostante le procedure di infrazione a carico del nostro Paese, nonostante gli accordi che negli anni sono stati stipulati tra le Regioni e il Ministero dell’Ambiente per ridurre l’inquinamento atmosferico a cominciare dall’area padana, nonostante le risorse destinate in passato e che arriveranno nei prossimi mesi/anni con il Recovery fund, in Italia manca ancora la convinzione di trasformare concretamente il problema in una opportunità. Opportunità che prevede inevitabilmente dei sacrifici e dei cambi di abitudini da parte dei cittadini, ma che potrebbero restituire città più vivibili, efficienti, salutari e a misura di uomo”.

Focus Mal’aria: Tornando ai dati del report Mal’aria edizione straordinariai giudizi che ne seguono per le 97 città analizzate sono il frutto quindi del “rispetto” o “mancato rispetto” del limite previsto per ciascun parametro (inteso come concentrazione media annuale) rispetto a quanto suggerito dall’OMS per ogni anno analizzato. Tra gli altri dati che emergono: per le polveri sottili la stragrande maggioranza delle città abbia difficoltà a rispettare i valori limite per la salute: infatti per il Pm10 mediamente solo il 20% delle 97 città analizzate nei cinque anni ha avuto una concentrazione media annua inferiore a quanto suggerito dall’OMSpercentuale che scende drasticamente al 6% per il Pm2,5 ovvero le frazioni ancora più fini e maggiormente pericolose per la facilità con le quali possono essere inalate dagli apparati respiratori delle persone. Più elevata la percentuale delle città (86%) che è riuscita a rispettare il limite previsto dall’OMS[1] per il biossido di azoto (NO2). Il non rispetto dei limiti normativi imposti comporta l’apertura da parte dell’Unione europea di procedure di infrazione a carico degli Stati membri con delle conseguenze economiche per gli stessi.

Focus auto: Nel report Legambiente, inoltre, dedica un focus sulle auto come fonte principale di inquinamento in città e ricorda che le emissioni fuorilegge delle auto diesel continuano a causare un aumento della mortalità, come è emerso anche da un recente studio condotto da un consorzio italiano che comprende consulenti (Arianet, modellistica), medici ed epidemiologi (ISDE Italia, Medici per l’Ambiente) e Legambiente, nonché la piattaforma MobileReporter. Lo studio in questione stima per la prima volta in assoluto la quota di inquinamento a Milano imputabile alle emissioni delle auto dieselche superano, nell’uso reale, i limiti fissati nelle prove di laboratorio alla commercializzazione.  Se tutti i veicoli diesel a Milano emettessero non più di quanto previsto dalle norme nell’uso reale, l’inquinamento da NO2 (media annuale) rientrerebbe nei limiti di qualità dell’aria europei (già nel 2018). Invece il mancato rispetto ha portato alla stima di 568 decessi in più per la sola città di Milano, a causa dell’esposizione “fuorilegge” agli NO2 per un solo anno. Quindi per Legambiente si dovrebbero bloccare tutti i veicoli diesel troppo inquinanti, persino gli euro6C venduti sino ad agosto 2019. Lo studio si inquadra nella più ampia iniziativa transfrontaliera sull’inquinamento del traffico urbano Clean Air For Health (https://cleanair4health.eu/), progetto lanciato dall’Associazione europea sulla salute pubblica (EPHA) che coinvolge healthcare partner in diversi Stati Membri.

Proposte: Per aggredire davvero l’inquinamento atmosferico e affrontare in maniera concreta il tema della sfida climatica, servono misure preventive, efficaci, strutturate e durature. Tutto quello che non sta avvenendo in Italia. Per questo Legambiente torna a ribadire l’urgenza di puntare su una mobilità urbana sempre più condivisa e sostenibile, di potenziare lo sharing mobility e raddoppiare i chilometri delle piste ciclabili, un intervento, quest’ultimo, già previsto nei PUMS, i Piani urbani per la mobilità sostenibile, che i Comuni devono mettere in campo al più presto. Legambiente ricorda che la Legge di Bilancio 2019, che ha visto stanziare i primi bonus destinati ai veicoli elettrici (auto e moto), ha permesso di sperimentare la micromobilità elettrica, mentre con la Legge di Bilancio 2020 è stato possibile equiparare i monopattini con la ciclabilità urbana a cui si è aggiunto il bonus mobilità senz’auto. Tutte misure convergenti e allineate che sono proseguite, anche in tempo emergenziale attraverso i “decreti Covid-19”, con la definizione di nuovi percorsi ciclabili urbani, la precedenza per le bici e le cosiddette “stazioni avanzate”.

Fonte: Legambiente

Le macchinette ‘mangiaplastica’ arrivano nei mercati di Roma, siglata intesa con Coripet

Accordo tra Roma Capitale e CORIPET (consorzio per la gestione degli imballaggi in PET) per l’installazione anche nei mercati cittadini, dopo le stazioni della metro, di ecocompattatori per il riciclo delle bottiglie in plastica. Le macchinette mangiaplastica per la raccolta e il riciclo delle bottiglie arriveranno a breve anche nei mercati cittadini di Roma. 
La sigla del protocollo tra Roma Capitale e CORIPET, consorzio per la gestione degli imballaggi in PET per liquidi, prevede infatti l’installazione di ecocompattatori su tutto il territorio urbano.  Questi ultimi, già presenti in otto stazioni della metropolitana, garantiscono un implemento della raccolta delle bottiglie in PET nella Capitale, in linea con la Direttiva Europea SUP.

“Dalle stazioni della metropolitana ai mercati di Roma, estendiamo la presenza delle macchinette mangiaplastica ai luoghi più frequentati della città. Roma è capofila in Italia di questo progetto che è piaciuto moltissimo ai cittadini. In soli otto mesi, sono già stati riciclati 3,2 milioni di bottiglie: un’ottima risposta dei cittadini all’insegna della tutela ambientale e della sostenibilità. Per chi conferisce il materiale in PET, ci saranno meccanismi di premialità analoghi a quelli della campagna +Ricicli +Viaggi”, dichiara la sindaca Virginia Raggi. La logica di raccolta e riciclo è quella del bottle to bottle: i materiali raccolti avranno nuova vita, sempre in vista dell’obiettivo europeo fissato al 2025 di produrre bottiglie contenenti un 25% di PET riciclato (R-pet).  

“La positiva esperienza di riciclo nelle stazioni metro di Roma organizzata insieme al Campidoglio e ad Atac, ha creato le premesse per questo accordo complessivo – commenta Corrado Dentis presidente CORIPET – e ci auguriamo che l’esempio di Roma Capitale possa funzionare da stimolo anche per gli altri comuni che abbiamo interessato anche in seguito al recente accordo siglato con l’ANCI. Desideriamo fare cultura del riciclo perché la cittadinanza e tanti turisti in visita hanno dimostrato di apprezzare il servizio aggiungendo anche una certa curiosità sul processo che subiscono le bottiglie tra la loro distribuzione e il loro riutilizzo. Abbiamo già avviato contatti anche con altri soggetti, come la GDO e le grandi infrastrutture, per ripetere quest’esperienza anche con le realtà private”.

Fonte: ecodallecitta.it

La CSA di Roma: la comunità che supporta l’agricoltura e costruisce nuovi legami.

Nella campagna a nord di Roma ha preso vita una comunità fondata sulla fiducia, la condivisione e la coltivazione del cibo sano. Si tratta della CSA Semi di Comunità, un modello di produzione e distribuzione dei prodotti alimentari nonché un esperimento sociale di successo da diffondere e replicare. Una delle particolarità della città di Roma (se davvero fosse possibile generalizzare la sua variegata geografia) è la sua capacità di cambiare aspetto da un momento all’altro. Come si usa dire, “tutte le strade portano a Roma” così come molte, allo stesso tempo, partono da qui. Una di queste è la Via Cassia, via di fuga verso Nord dal centro cittadino, che percorro praticamente da sempre. Una delle ramificazioni di questa arteria è la Via Cassia Veientana, al suo inizio caratterizzata da un grande cavalcavia. Per raccontarvi la storia di oggi, per la prima volta ho attraversato questo ponte da sotto, percorrendo una strada di campagna che, quasi in un battito di ciglia, mi ha condotto nel cuore della campagna romana per andare a scoprire un “esperimento sociale” di compartecipazione tra agricoltori e comunità: la CSA Semi di Comunità. CSA sta per “Community Supported Agricolture”, traducibile in italiano come “Comunità che Supporta l’Agricoltura”. Si tratta di un modello di reciproco supporto tra una determinata comunità di persone e una cooperativa di agricoltori: la comunità diventa “proprietaria”, insieme agli agricoltori, di una qualsiasi iniziativa di produzione agricola, investendo una quota per finanziare la produzione e ricavandone in cambio una certa quantità di cibo per la famiglia, regolarmente distribuita. Insieme, dunque, si condividono rischi e opportunità di un’iniziativa del genere, si sperimenta la condivisione in gruppo di decisioni strategiche come, ad esempio, quali colture produrre, quali costi sostenere e quali investimenti programmare, come ripartire le quote tra i diversi soci e quale modello organizzativo scegliere. Stabilite queste basi comuni, non esiste un modello organizzativo comune per tutte le CSA: noi vi abbiamo raccontato, tempo fa, la “madre” di tutte le CSA in Italia, cioè Arvaia, alla quale la CSA romana “Semi di Comunità” si ispira. Vi invitiamo a guardare il video qui da noi realizzato, dove potrete scoprire il modello organizzativo e distributivo che incarna il senso di questa esperienza.

L’asta delle quote: come funziona nella pratica la CSA Semi di Comunità

In “Semi di Comunità” esistono dei concetti cardine: naturalmente la creazione di comunità, come avete potuto vedere all’interno del video. Un altro concetto fondamentale è l’accessibilità al cibo naturale: «Un esperimento che rende ancora più orizzontale il nostro progetto – ci racconta Saverio Carrara, socio lavoratore e Presidente della Cooperativa – è lo strumento dell’asta delle quote. Una volta stabilito il piano economico annuale, i costi e gli investimenti previsti vengono divisi in quote, che ogni singolo socio deve versare. Il problema è che se i costi delle quote sono cari non tutti possono partecipare. Durante l’asta delle quote da noi qualche socio offre un quantitativo di denaro più alto rispetto al dovuto, per permettere così ad altri di partecipare anche con una quota più bassa. Il tutto a parità di prodotto, naturalmente: il quantitativo di verdure rimane lo stesso. Abbiamo usato per la prima volta questo strumento quest’anno ed abbiamo chiuso il nostro piano economico con seicento euro di avanzo. Questo strumento, condiviso da tutto il gruppo, ci ha così consentito di rendere la CSA il più inclusiva possibile, permettendo di raggiungere l’obiettivo fondamentale di rendere il cibo sano e naturale accessibile possibilmente a tutti».

Oggi “Semi di Comunità”, nata a Gennaio 2019, conta circa duecentotrenta soci, contribuendo al fabbisogno alimentare di circa centotrenta famiglie. Il terreno su cui opera è grande circa cinque ettari, di cui tre a seminativo e due a bosco: attualmente sono già giunti alla giusta proporzione tra soci fruitori e capacità produttiva.

La differenza Tra CSA e GAS (Gruppo di Acquisto Solidale)

Perché la CSA rappresenta, probabilmente, l’evoluzione naturale dei Gruppi di Acquisto Solidale, in termini di partecipazione e responsabilizzazione delle persone? Non solo per la compartecipazione al rischio di impresa. «Non è sufficiente acquistare una quota e basta per fare parte di Semi di Comunità – ci spiega il socio Davide Gentili – Siamo divisi in soci volontari e soci fruitori, ma anche il socio fruitore che acquista le quote deve garantire la presenza sui campi almeno quattro volte l’anno. Noi, tutti insieme, stiamo costruendo a partire dal cibo una comunità, perché il cibo sano e genuino rappresenta il collante giusto per tenere unite le persone e condividere momenti insieme. Il nostro è anche un atto politico: è un modo di stare a contatto con i campi diverso,evitando le storture messe in pratica dalla GDO e appoggiando un certo modo di fare agricoltura che sia rispettoso dell’uomo e dell’ambiente circostante. Chiunque può venire sui campi e può partecipare, provare cosa significa fare parte di una comunità inclusiva come questa: il problema è proprio capire come far partecipare tutte le persone che vogliono far parte di questa esperienza».

Altra differenza fondamentale rispetto al GAS è la distribuzione, ben spiegata nel video sopra dal socio volontario Bruno Sclavo: «Alla fine del raccolto, che di solito avviene di martedì pomeriggio o di mercoledì, si effettua la suddivisione delle verdure in base ai nostri otto attuali punti di distribuzione. Questi otto punti di distribuzione sono suddivisi in varie parti di Roma ed ognuno dei soci fruitori si occupa della distribuzione qui in sede. I soci fruitori si recheranno al punto di distribuzione e sapranno la parte che spetta loro: a differenza delle cassette tradizionali su ordinazione, i soci non trovano una cassetta già preparata, ma una tabella con la quantità di ortaggi che possono prendere, componendo loro stessi le proprie cassette. Ciò introduce il discorso della fiducia, altro tassello importante per noi: nessuno controlla il singolo socio fruitore quanto prende per la propria cassetta, ed ognuno si assume la propria responsabilità nella buona riuscita della distribuzione».

La costruzione della Comunità e gli obiettivi futuri

Semi di Comunità non è solo produzione e distribuzione di cibo ma costruzione di reti e relazioni: «io sono venuta a conoscenza di questa realtà tramite mia madre» ci racconta divertita la socia volontaria Marta de Marinis «e sapevo che per diventare almeno socio sostenitore bastava compilare un formulario su Internet. A dir la verità mi sono innamorata di questo luogo frequentandolo prima come volontaria che come socia, perché l’atmosfera che si crea è davvero particolare».

«È come una seconda casa per me, ormai» aggiunge la socia volontaria Giada Serina «e le occasioni di incontro non sono legate solamente al lavoro sui campi e alla produzione di cibo. Anche nella gestione degli spazi qui in sede, vale il discorso della condivisione: ad esempio prossimamente, insieme ai soci volontari, ci ritroveremo a sistemare nuovamente la cucina e gli spazi comuni. Organizziamo eventi di incontro con la comunità come la proiezione di film. E poi ci sono i tornei a biliardino tra di noi, le serate passate a parlare e a godere di tramonti stupendi. È davvero bello trascorrere le giornate qui».

Un altro tentativo per costruire una comunità attiva in Semi di Comunità è stato quello della condivisione dei saperi: «Una volta al mese, prima del lockdown – spiega Saverio – abbiamo organizzato dei corsi di formazione anche non direttamente collegati alla produzione di cibo, come quelli per la costruzione di forni in terra cruda o per produrre saponi naturali . L’idea alla base di questa iniziativa è mettere a disposizione la propria competenza di tutti i soci come dono. Questo significa condivisione pura e possibilità di crescita per tutti, perché la condivisione del sapere aiuta a costruire dei legami forti tra le persone».

A questo link trovate l’intervista integrale.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/09/csa-roma-comunita-che-supporta-agricoltura-costruisce-nuovi-legami-io-faccio-cosi-298/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Thomas Torelli: “Vuoi un altro mondo? Choose Love!”

Un altro mondo, Pachamama, Choose Love. Sono alcuni dei documentari autoprodotti e autodistribuiti del regista Thomas Torelli. I suoi film si muovono tra ricerca del bello, visione ecologica, ricerca spirituale, fisica quantistica. L’obiettivo? Rendere visibile la bellezza del mondo e mostrare che possiamo scegliere il nostro destino. Io e Paolo siamo appena rientrati dal viaggio in Calabria quando, in una caldissima mattinata romana, incontriamo Thomas Torelli nel suo studio vicino alla stazione Trastevere. Prima dell’incontro sono un po’ emozionato. Conosco i suoi documentari e sento da anni parlare di lui ma non ci siamo mai visti di persona. Una volta accomodati e montata la telecamera, l’emozione passa e inizia la chiacchierata. È strano ascoltarlo, perché quando parla del suo lavoro – per molti aspetti – mi sembra di sentire raccontare Italia che Cambia! Nel video qui sotto potete ascoltare la sua storia e scoprire la poetica che lo ha guidato nei sui film degli ultimi anni, da Un altro mondo a Choose Love.

La svolta arriva nel 2011, dopo la morte del padre. Come spesso accade, da una separazione o da un dolore nasce la voglia di un cambiamento. «Così è nato Un altro Mondo – racconta Torelli – un film che ha racchiuso la mia teoria di vita. Era il modo migliore di entrare anima e corpo in questo nuovo percorso. Da qui ho deciso di occuparmi di soluzioni e non di problemi. Oggi le persone conoscono le cose solo da determinati punti di vista. È difficile trovarne altri, se sei preso dall’ipnosi collettiva e non ti fai domande, non vedi che il mondo è molto più vasto». 

Un altro mondo è un film che cerca di raccontare come scienze apparentemente diverse tra loro parlino la stessa lingua o abbiano lo stesso obiettivo, il senso di unione. I film successivi hanno continuato ad approfondire le tematiche di quel film ma in maniera verticale: ogni film una tematica. 

Pachamama è un film che racconta i popoli nativi e la loro visione, il loro concetto di tempo, di noi. Pachamama significa madre terra, e il film vuole sensibilizzare il pubblico sull’importanza della creazione della carta dei diritti della terra, che riconoscere il nostro pianeta come entità viva e quindi difendibile giuridicamente. 

Food Relovution approfondisce l’impatto del nostro cibo sul mondo, approfondendo come ciò che mangiamo può avere una forte influenza sul pianeta, sul benessere della società. È stato anche l’inizio di una rivoluzione alimentare personale. 

Choose love parte da un invito: smettila di avere ragione! Il film “porta a riflettere sul fatto che il nostro punto di vista è determinato dalla nostra scuola, dai nostri genitori, dal quartiere in cui siamo nati, dai nostri amici e che l’altra persona ha un’influenza diversa e quindi un punto di vista diverso sulle cose. Il 90% dei conflitti del mondo è data da questioni di principio… Inoltre questo film è stato anche influenzato dall’incontro di Torelli con Daniel Lumera e dal suo lavoro sul perdono. La scienza dimostra che la nostra salute è influenzata dal nostro stato d’animo, dal modo in cui interagiamo con gli altri, dal nostro modo di affrontare la vita. Ed ecco Choose Love.

Thomas Torelli presenta Choose Love

Un altro mondo, oltre ad avviare il percorso cinematografico appena descritto, è stato una svolta anche da un punto di vista distributivo: il film, infatti, è stato distribuito in maniera autonoma. «L’idea di autodistribuirmi – racconta Thomas – è stata dettata da due fattori: da un lato alcuni miei film precedenti non erano stati pagati da distributori ed editori; dall’altro – molto più importante – mi ero reso conto che c’era una discrepanza tra il modello di distribuzione tradizionale e il vero interesse delle persone. Ero e sono convinto che le persone stiano vivendo un grande momento di risveglio e siano pronte ad affrontare certe tematiche. E se questo era vero, pensavo sarebbe stato vero che se avessi reso il pubblico protagonista della possibile vita del film forse avrebbe avuto un’aurea diversa. È stata una scommessa vinta! Abbiamo dato il film a chiunque lo volesse distribuire; le persone andavano a bussare ai cinema del paese, ai centri culturali, al centro yoga, ai festival… insomma tutti modi che esistono per portare il film e così facendo Un altro mondo è diventato uno dei film più distribuiti di Italia. Parliamo di oltre 500 proiezioni, in 5 anni. A quel punto abbiamo capito che il nostro pubblico, che era diventato protagonista della distribuzione, poteva esserlo anche della produzione! Ed ecco che i nostri film sono stati prodotti grazie a campagne di crowfunding che hanno avuto un successo crescente.
In questi cinque anni di infinita tournée una delle cose che più spesso mi capitava era di trovare persone che mi domandassero: “Thomas, come faccio a rimanere con questo senso di benessere che mi è venuto guardando il film

Non avevo molte risposte, non sapevo come permettere loro di vedere film analoghi. Mi ero reso conto che c’era un totale distaccamento tra ciò che il pubblico chiedeva e ciò che i mass media offrivano e offrono. Pensa che nessuna televisione ha voluto mandare in onda qualcuno dei nostri documentari. E non succede solo a noi. Partecipo a molti festival e vedo documentari stupendi di cui non esiste nemmeno in DVD. Da qui è nata l’idea della televisione!». 

Si chiama UAM TV, acronimo di Un Altro Mondo TV, è una web tv indipendente che si pone l’obiettivo di diffondere documentari, notizie e vari contenuti che propongano modelli culturali e sociali che documentino quella parte di società che si attiva nel proporre un cambiamento costruttivo. Abbiamo trattato l’argomento in un articolo e in un video precedenti. Quello che accomuna il lavoro cinematografico di Torelli, con questa nuova televisione e con la proposta informativa di Italia che Cambia è senz’altro la ricerca della bellezza. «La bruttezza influenza la vita delle persone – conclude Thomas – le convince che il mondo è un posto brutto. Se tu ti focalizzi su un problema questo si amplifica; ma se il problema diventa un modo per trovare nuove soluzioni, metterti in gioco, tutto cambia! Si può essere felici se si vuole, con piccole scelte quotidiane. Proviamo a mostrare il bello che c’è! Il cinema può aiutare in questo percorso». 

Intervista: Daniel Tarozzi

Riprese e montaggio: Paolo Cignini Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/08/thomas-torelli-vuoi-un-altro-mondo-choose-love-io-faccio-cosi-258/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Foreste in città? Sì, grazie!

La città ha mille potenzialità, ma anche forti limiti per la qualità della vita. Per favorire il superamento di tali limiti, diverse amministrazioni stanno investendo in quelle che vengono chiamate “infrastrutture verdi”. Vediamo cosa sono.

Le città rappresentano grandi catalizzatori di idee, cultura, produttività, commercio e sviluppo sociale e offrono ai cittadini diverse opportunità di occupazione, educazione e nuovi stili di vita. Il potenziale delle città è però minacciato da una crescita urbana senza precedenti e da un aumento esponenziale della popolazione urbana su scala globale. In molte città nel mondo, il benessere delle comunità è a rischio con l’aumento dell’inquinamento, del degrado ambientale, della domanda di acqua, cibo ed energia, e della disoccupazione, oltre alla mancanza di spazi pubblici di qualità per la socializzazione e il tempo libero. Molte amministrazioni locali stanno lottando per cercare di rispondere adeguatamente alle loro crescenti popolazioni, in particolare nei paesi a reddito medio-basso dove la popolazione urbana cresce spesso non in sintonia con il proprio sviluppo socio-economico. La mancanza di capacità nell’affrontare queste sfide poste da una crescita incontrollata della popolazione urbana produce povertà e fame, esacerbando l’esclusione sociale e aumentando il divario tra poveri e ricchi. Ciò è stato riconosciuto anche dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che nell’obiettivo per lo sviluppo sostenibile numero 11 (SDG 11) invita “a rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili”. E’ una sfida giornaliera quella che urbanisti e decisori politici mettono in atto al fine di mantenere un determinato livello di benessere per i cittadini, includendo l’accesso ad una alimentazione sicura, acqua pulita e potabile, energia, spazi verdi e condivisi e affrontando continuamente i conflitti di interesse legati all’utilizzo del territorio. Le soluzioni sono a portata di mano, basta volerlo. Negli ultimi decenni, diverse città hanno iniziato una vera e propria transizione verso città più verdi, più sostenibili e adottando un modello di sviluppo urbano più resiliente. Stanno investendo in foreste, zone umide e altri spazi verdi – denominati nel complesso “infrastrutture verdi” – per risolvere tematiche precedentemente affrontate con soluzioni ingegneristiche che spesso includono cemento, asfalto ed acciaio. Opportunamente pianificate, le infrastrutture verdi possono risultare più economiche e, al contempo, generare reddito ed occupazione, e aumentare anche la qualità dell’ambiente urbano. Se pienamente integrati nella pianificazione e gestione urbana locale, alberi e foreste possono aiutare a trasformare le città in luoghi più sostenibili, resilienti, salutari, equi e piacevoli in cui vivere. Come contributo alla discussione e aumentare la consapevolezza del ruolo delle foreste nelle città, lo scorso anno la FAO, in occasione della Giornata Internazionale delle Foreste, ha invitato 15 sindaci di città di diverse regioni a livello mondiale a presentare le proprie esperienze e i risultati raggiunti. La pubblicazione che ne è nata (“Forests and sustainable cities – Inspiring stories from around the world”) testimonia come, spesso sottostimati, gli alberi possono essere potenti strumenti per affrontare molte delle moderne sfide urbane, incrementando il benessere delle comunità coinvolte. Gli alberi migliorano la qualità dell’aria rimuovendone gli inquinanti; assorbono l’anidride carbonica dando un notevole contributo alla lotta al cambiamento climatico; ombreggiando strade e palazzi, essi raffrescano le città, riducendo il consumo di energia e facendo quindi risparmiare soldi; molti alberi producono frutti commestibili per l’uomo, contribuendo quindi alla sicurezza alimentare; infine, piantare alberi in spazi pubblici accresce il senso estetico dei quartieri e, di conseguenza, il valore economico delle abitazioni.

Sebbene ogni singolo albero fornisca un concreto contributo alla qualità della vita in città, è la loro integrazione nelle diverse reti di spazi verdi a massimizzarne i benefici. Ad esempio, foreste urbane e peri-urbane ben pianificate e gestite aiutano la regolazione dei flussi idrici nelle città, intercettando e assorbendo le piogge; creano un ambiente favorevole per gli animali e le piante, contribuendo quindi alla conservazione della biodiversità; forniscono spazi ideali per l’esercizio fisico e la ricreazione, aumentando quindi il benessere e la coesione sociale delle comunità urbane. Foreste ben gestite intorno alla città garantiscono ai cittadini la fornitura di acqua di buona qualità e prevengono i fenomeni di erosione e degrado del territorio.

Ecco alcuni esempi di risultati raggiunti in città in diverse parti del mondo:

–       a Pechino (Cina) sono stati piantati oltre 54 milioni di alberi tra il 2012 e il 2016;

–       a Bangkok (Thailandia) a partire dal 2014 sono stati creati 10 nuovi parchi, dando priorità alle specie vegetali locali;

–       a Phoenix (Arizona – USA) gli oltre 3 milioni di alberi forniscono benefici stimati in oltre 40 milioni di dollari all’anno;

–       a Lubiana (Slovenia) sono stati definiti 1.150 ettari di foresta naturale per scopi ricreativi;

–       a Vitoria-Gasteiz (Spagna) sono stati creati 6 nuovi parchi per un totale di 800 ettari;

–       a Moreland (area metropolitana di Melbourne – Australia), a seguito di consultazione pubblica, i fondi per le foreste urbane sono stati incrementati del 50%.

Sono solo alcuni esempi che, insieme a tutti gli altri che si possono approfondire nella pubblicazione sopra richiamata, rappresentano certamente una fonte di ispirazione per i decisori politici locali che quotidianamente si trovano a lottare contro gli effetti avversi del cambiamento climatico.

E in Italia? Cosa si fa nel nostro Paese, e in particolare nelle nostre città, per mitigare gli effetti, purtroppo già evidenti del clima che cambia? In molte città sono partiti interessanti programmi di riforestazione urbana ma oggi qui ci concentriamo sulla capitale, la città di Roma.

Roma Capitale ha aderito al Patto dei Sindaci per il Clima e l’Energia ed entro il mese di novembre di quest’anno dovrà presentare il proprio Piano di Azione per l’Energia Sostenibile e il Clima (PAESC) nel quale evidenziare le azioni che concorreranno alla riduzione delle emissioni climalteranti della città di almeno il 40% entro il 2030. Una parte del PAESC di Roma Capitale, annunciata in diverse occasioni pubbliche, è dedicata alle aree forestali urbane che, questo era l’obiettivo dichiarato, avrebbero raddoppiato il numero di alberi presenti nella città entro il 2030. Stiamo parlando di circa 25-30.000 alberi da mettere a dimora ogni anno nei prossimi dieci anni. Cifre molto lontane dalla realtà odierna, laddove l’Amministrazione capitolina ha evidenziato molte carenze già nel solo mantenimento degli alberi attualmente presenti. In attesa di sapere in che modo l’Amministrazione capitolina affronterà questa sfida, credo molto utile, proprio come fonte di ispirazione, far conoscere un’iniziativa molto interessante già lanciata a Roma, in collaborazione proprio con l’Amministrazione locale nell’ambito delle iniziative PAESC: si tratta del progetto ReTree Porta Metronia.

Il progetto nasce da un’idea di un cittadino residente nel quartiere di Porta Metronia che ha presentato l’idea progettuale al Comune di Roma, dopo aver già messo in atto alcune azioni propedeutiche per il successo dell’iniziativa. Al fine di coinvolgere maggiormente la popolazione residente, il progetto è stato condiviso con il Comitato Mura Latine, storico comitato di quartiere attivo da anni sul territorio. Si tratta quindi di un progetto partecipato con l’obiettivo di ripiantare gli alberi dove non ci sono più. La zona di Porta Metronia ha visto negli ultimi anni una continua perdita di alberi senza una conseguente e pianificata azione di ripiantumazione. ReTree Porta Metronia si propone come progetto ad alto grado di replicabilità e con un duplice obiettivo: da una parte, rivalorizzare l’area, reinserendo gli alberi negli spazi già destinati a tale modalità, ridando vita e vigore al verde della zona e, dall’altra, coinvolgere gli abitanti aumentandone la consapevolezza rispetto all’importanza del tema ambientale e di cura del verde. Il progetto si sviluppa in diverse fasi: l’analisi territoriale, il finanziamento, la scelta delle specie da piantumare, l’eliminazione delle ceppaie e la piantumazione di nuovi alberi. Dall’analisi territoriale è emerso che nell’area si contano al momento un totale di 229 tazze con alberi mancanti, specificatamente categorizzate in 122 spazi liberi da ceppaie, 18 occupati da ceppaie piccole, 29 occupati da ceppaie medie, 53 occupati da ceppaie grandi e 7 occupate da piante abusive. Il finanziamento avverrà in due modalità distinte e complementari: a livello territoriale, attivando dei punti di raccolta fondi nella zona e in rete, attivando una campagna di crowdfunding per i cittadini e per le imprese. Modalità che sono già operative e che hanno portato ad oggi alla raccolta di oltre 6.000 euro a fronte di un costo totale del progetto stimato in circa 41.000 euro. Questi primi fondi raccolti sono stati subito impiegati per l’acquisto e la piantumazione di alberi in alcune strade del quartiere. Per quanto riguarda la selezione delle specie di alberi da piantumare si è fatto tesoro delle esperienze provenienti dal progetto GAIA del Comune di Bologna e da quelle del comitato di quartiere Monteverde Attiva, altro comitato di quartiere storico attivo a Roma. Per il progetto ReTree Porta Metronia si è giunti, anche in sinergia con le indicazioni ricevute dal Servizio Giardini di Roma Capitale, alla selezione di sette specie adatte alla conformazione delle strade dell’area di riferimento. Il Servizio Giardini di Roma Capitale si occuperà direttamente dell’eliminazione delle vecchie ceppaie e del coordinamento delle azioni di ripiantumazione. Una prima analisi ha stimato che le nuove piantumazioni consentiranno l’assorbimento di circa 6.700 kg di CO2 all’anno. Per maggiori informazioni e rimanere aggiornati sul progetto:  https://it.ulule.com/retree-porta-metronia/

ReTree Porta Metronia è un piccolo ma grande progetto. Piccolo nelle dimensioni ma grande nelle prospettive. Cittadini, associazioni ed imprese locali e amministrazione locale: solo se si lavorerà insieme per il bene comune si avrà successo. E ReTree Porta Metronia può essere un ottimo esempio. E’ necessario adesso che l’Amministrazione Capitolina creda fortemente in progetti di questa natura e li faciliti al massimo, magari destinando anche delle risorse economiche adeguate, al pari di quanto fatto da altre capitali nel mondo.

Fonte: ilcambiamento.it

Roma, i rifiuti e noi

Partendo dall’emergenza rifiuti, che è da tempo una costante per Roma e altre città, Mariella Lancia riflette sul nostro modo di gestire anche le nostre scorie interiori, oltre a quelle materiali. In che modo potremmo prevenire l’impatto distruttivo di eventi esterni cominciando a guardarci dentro e a trasformare noi stessi?

Ciclicamente un popolo, una parte del mondo, un gruppo o anche solo un individuo si fan e “manifestatore” di un male dell’umanità. È come se per un misterioso atto sacrificale qualcuno si facesse carico di una carenza, di una incapacità che viene posta sotto una lente di ingrandimento in modo che attraverso lo choc che questo evento provoca – soprattutto oggi attraverso l’esposizione mediatica – si possa prendere coscienza di qualcosa di cui tutti, seppure in gradi diversi, siamo portatori. E cominciamo a interrogarci, a cercare soluzioni e forse ad apprendere qualche lezione. I piromani inceneriscono boschi e pinete. Adolescenti annoiati ammazzano di botte un ignaro pensionato. Una nave vaga nel Mediterraneo per 17 giorni col suo penoso carico di migranti senza che un solo porto le dia il permesso di attraccare. Crollano ponti. Allora ci si agita, si va in piazza a protestare, si condanna, si aprono inchieste, si fanno in fretta e furia nuove leggi. Raramente ci si ferma a riflettere su di noi, su che cosa questi eventi rispecchino di noi stessi, come individui e come gruppo umano.

Prendiamo l’ “emergenza spazzatura”. Quale può essere la lezione dei rifiuti? A me pare che questa “emergenza rifiuti” che ricorrentemente affiora e mette in crisi, ci parli della nostra incapacità di gestire non solo le scorie materiali (di questo stanno parlando tutti), ma anche quelle psichiche. Della nostra poca dimestichezza, per esempio, con stati mentali che consideriamo negativi e di cui vogliamo liberarci al più presto: come la sofferenza, l’incertezza, la frustrazione, la tristezza, la noia, la paura, la rabbia. Oppure con situazioni difficili come fallimenti, errori, conflitti. Della nostra incompetenza nell’analizzare questi stati e questi eventi, per vedere quanto c’è di utilizzabile (per conoscerci meglio, per la nostra crescita interiore, per produrre pensiero, poesia, arte, condivisione…) e quanto di questa materia prima possa, quindi, essere estratto e trasformato. Ci siamo costruiti delle sane discariche per le nostre emozioni disturbanti? O le scarichiamo fuori dalla nostra porta, sul primo malcapitato passante? Abbiamo delle strutture per trasformarle in fertilizzanti e in energie alternative? O le lasciamo accumulare a casaccio, fino a esserne sopraffatti, a volte fino ad esplodere, con effetti distruttivi su noi stessi e sugli altri?  Sentiamo ad esempio cosa dice Gandhi, nella sua autobiografia, a proposito della rabbia: “Ho imparato la lezione suprema di non sopprimere la mia rabbia, ma di conservarla e come il calore conservato si tramuta in energia così la rabbia conservata e controllata si tramuta in un potere che può cambiare il mondo”.

Può darsi che per diventare abili nella trasformazione delle energie fisiche occorra iniziare imparando a trasformare le energie emotive e mentali. Che ne direste di avviare riflessioni simili anche su altri “eventi specchio” come quelli prima elencati ? Di che cosa potrebbero essere il “correlativo oggettivo” gli incendi dolosi, le “morti bianche”, l’emergenza migranti, le risse dei tifosi, i crolli di ponti e di edifici.? In che modo potremmo prevenire o almeno diminuire l’impatto distruttivo di eventi come questi cominciando a guardarci dentro e a trasformare noi stessi? Anche questo può essere l’Italia che cambia.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/07/roma-rifiuti-e-noi/