Hollawint: la rivoluzione creativa delle donne di Malles che ha fermato i pesticidi

La volontà e la creatività tipicamente femminili sono forse le sole forze in grado di opporsi all’avanzata di una nube tossica verso gli incontaminati prati dell’Alta Val Venosta. Così le donne di Malles, grazie al movimento Hollawint, combattono i pesticidi, gli interessi economici e le grandi monocolture intensive. La redazione di NOWA, partner di Italia Che Cambia nel territorio altoatesino, ha incontrato Martina Hellrigl, una delle promotrici del progetto.

BolzanoTrentino Alto Adige – C’è un Comune in Alto Adige che è noto non solo per la sua bellezza, il suo folclore e le sue specialità, ma anche per il coraggio delle sue cittadine e dei suoi cittadini. Molti conoscono già la loro storia, che ha fatto il giro del mondo. Noi vogliamo raccontarvela da un punto di vista meno conosciuto, ma genuino. Abbiamo un appuntamento a Malles con Martina Hellrigl, imprenditrice sociale e mamma. Malles è un paesino dalle cui stradine svettano tre campanili romanici e una torre medievale, circondato da ghiacciai e dalle più alte montagne delle Alpi orientali. Nella piazza di paese si trova anche la farmacia di Johannes Unterpertinger, uno dei primi e più energici promotori della rivoluzione di Malles, che ancora oggi informa, fa rete e attiva attraverso le pagine di La Via di Malles.

Seguiamo le indicazioni di Martina e ci troviamo di fronte a delle bellissime mura medievali, dalle quali spuntano diversi alberi da frutto di varietà antiche e una casa sull’albero di legno per bambini: lei abita qui. Martina ci accoglie insieme alla sua amica Evelyne e ci mette a nostro agio nel suo hoangart, il giardino cinto.

Martina, ci racconti come è iniziata la vostra storia?

Quando sono tornata da Zurigo con la mia famiglia, con i bambini molto piccoli, non lavoravo e non conoscevo nessuno qui. Sono andata a un incontro di paese e ho avuto modo di ascoltare un agricoltore di erbe aromatiche biologiche raccontare di come accanto al suo campo avessero piantato le mele e poco dopo, a un controllo, le sue erbe fossero risultate contaminate da pesticidi, così che non poteva più farle certificare. Qualche mese dopo, trasferita la sua attività in un campo più lontano, di li a poco si ripeté la stessa cosa. Questo fece scattare qualcosa dentro di me, non riuscivo a darmi pace, mi sembrava profondamente ingiusto. Venni a sapere che c’erano diversi gruppi di persone che si occupavano di questo problema da anni, ma avevano difficoltà a comunicare con la popolazione. Ci pensavo in continuazione, ma in paese l’argomento era tabù. La gente non ne parlava apertamente, anche se si sapeva che la stragrande maggioranza degli abitanti di Malles temeva l’arrivo delle monocolture di mele e delle nubi di pesticidi che esse portavano con loro. Era una questione delicata che toccava gli interessi di alcuni e le paure di altri e minacciava l’equilibrio e le relazioni all’interno della comunità.

Come avvenne l’incontro con le tue compagne di avventura?

Un giorno andai dalla parrucchiera del paese, Beatrice. Facemmo amicizia e le raccontai cauta della mia preoccupazione. Trovandola d’accordo le proposi l’idea di scrivere una lettera al giornale locale Vinschger Wind. Lei conosceva il caporedattore, che ci sostenne, e così stamparono la prima di una serie di lettere nelle quali ci esprimevamo contro le monoculture di mele che avanzavano per conquistare, dopo la Bassa Venosta, anche l’Alta Val Venosta, la nostra casa.

Quello che la maggior parte degli abitanti di Malles pensava era improvvisamente lì, nero su bianco, e dal salone di Beatrice si diffondeva. E allora arrivò Pia, che voleva aiutare a fermare quei meleti. E poi arrivò Margit, poi Evelyne e ancora un’altra e poi ancora un’altra e all’improvviso eravamo tante, tutte donne: non era previsto, ma era così ed era bello.

[Martina sorride divertita mentre racconta, con un tono così caldo e confidenziale che pare di conoscerla da sempre]. Cosa avete fatto a quel punto.

Ci siamo incontrate tutte e ci siamo chiamate Hollawint. Volevamo che le nostre parole diventassero visibili. Ma non volevamo che fossero parole “contro”, che aggredissero, ma che spiegassero, che invitassero, parole che comunicassero la nostra idea di una Malles sana e sicura per tutti. Abbiamo stampato le nostre idee su pezzi di stoffa e vecchie lenzuola: “Un Comune libero da pesticidi”, “una casa sana per le persone, le piante e gli animali”, “un paesaggio senza pesticidi per noi e per i nostri ospiti”.

Li abbiamo messi a disposizione di chi li volesse appendere e nel giro di una serata erano stati portati via tutti. Il giorno dopo Malles si è svegliata vestita di quelle parole di speranza, le stoffe erano appese dappertutto e davano forma a quella visione: la visione di una comunità. Insieme alle altre associazioni e ai gruppi di lavoro di tutti i paesi del territorio comunale, abbiamo deciso di organizzare un referendum popolare: per dire “sì” a quella visione di un Comune libero da pesticidi.

Come andò la campagna?

In occasione della presentazione della petizione referendaria presso l’ufficio comunale, abbiamo organizzato una colazione pubblica per promuovere il referendum e per parlare con i partecipanti di cosa avrebbe significato per tutti noi, per le nostre attività, per i nostri bambini e i nostri cari, se non avessimo fermato l’avanzata di quei meleti. Sui nostri tavoli c’erano solo prodotti a km0 di produttori dell’Alta Val Venosta, perché volevamo mostrare quanta ricchezza c’era da proteggere, quanta biodiversità, quanti tesori. Volevamo ricordare anche a noi stesse che abitavamo un paradiso di cui essere orgogliose. Seguirono altre colazioni e ogni settimana erano sempre più frequentate. C’era un’atmosfera di partecipazione, c’erano orgoglio e coraggio. Abbiamo organizzato molte altre iniziative creative. Un giorno a una di noi venne l’idea di riempire delle tute bianche protettive con della paglia per farci delle figure a grandezza umana, con maschere antigas e la scritta “SÍ! a un Comune libero da pesticidi”. Le abbiamo messe in tutto il Comune in un giorno di mercato, all’entrata delle istituzioni, sui gradini delle piazze. Un altro giorno quel “SÍ!” lo abbiamo dipinto su grandi girasoli di legno colorato che abbiamo sparso per le strade, per i vicoli, davanti alle porte delle case. Era un “SÍ!” meraviglioso e pieno di forza. Era un SÍ! che non era più un segreto, ma era sulla bocca di tutti, davanti agli occhi di tutti e in tutti i cuori. A fine agosto 2014, 2477 cittadine e cittadini decisero con il 76% di voti favorevoli di bandire i pesticidi dal territorio comunale di Malles introducendone il divieto all’interno dello Statuto.

A cosa ha portato quella votazione?

Ci sono state e ci sono ancora alcune difficoltà, il referendum non è ancora stato attuato. Ma abbiamo continuato a far sentire la nostra presenza. Quello che prima era un tabù ora era un tema caldo non solo qui, anche nel resto d’Italia, in Germania, in tutto il mondo. Avevamo toccato un nervo scoperto perché allo stesso tempo il dibattito sui pesticidi e le monocolture era già divampato in molti luoghi. Grazie a questa esperienza, grazie al cammino che abbiamo fatto insieme, molte persone hanno cambiato il loro modo di pensare.

La gente non ne parlava apertamente, anche se si sapeva che la stragrande maggioranza degli abitanti di Malles temeva l’arrivo delle monocolture di mele e delle nubi di pesticidi che esse portavano con loro

Ora i prodotti biologici sono molto più richiesti di prima, molti agricoltori sono passati al biologico e molte persone comprano direttamente da loro. Il referendum ha portato a molte altre lotte, anche in tribunale. Alcuni agricoltori hanno chiesto l’intervento dell’Associazione degli Agricoltori e hanno fatto causa ai promotori del referendum. Poi hanno fatto causa ad altre associazioni e istituzioni che sostengono Malles. I processi sono ancora in corso. Ma anche noi siamo andate avanti. Abbiamo fondato la cooperativa sociale Vinterra. Con questa cooperativa affittiamo la terra che vogliamo proteggere. La usiamo bene. Abbiamo già 4,5 ettari tra Malles e Glorenza che coltiviamo con metodo biologico, impegnando persone con difficoltà, donando speranza, producendo cibo buono e sano, rigenerando la terra, creando valore.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/03/hollawint-malles-pesticidi/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Green4Women: le donne che hanno perso il lavoro creano ricette per la comunità

La pandemia e l’isolamento, come testimoniano i dati, hanno aumentato le situazioni di solitudine, violenza domestica e perdita di lavoro per molte donne. Per questo motivo l’associazione Cambalache di Alessandria ha dato vita al progetto Green4Women, che accompagna le donne selezionate in un percorso di inserimento lavorativo attraverso un progetto di agricoltura sociale e di realizzazione di prodotti alimentari che valorizzano il territorio.

Alessandria – In che modo si può rispondere alla necessità di inclusione sociale e lavorativa delle donne e allo stesso tempo agire contro la violenza di genere? Ve lo raccontiamo oggi con Green4Women: progetto ideato ad Alessandria dall’associazione Cambalache in collaborazione con il Centro Antiviolenza Me.dea e con il sostegno del Fondo di Beneficenza di Intesa Sanpaolo. Un progetto che si sta occupando di attivare percorsi di empowerment, formazione e autonomia a partire dall’agricoltura sociale.

Un aiuto alle donne in difficoltà lavorativa

La pandemia da Covid19 ha pesato a livello sociale soprattutto sulle donne, da una parte aggravando e ampliando le situazioni di violenza domestica, dall’altra incidendo negativamente sul tasso di occupazione. Nel complesso le opportunità di impiego sono diminuite e, come dimostrano gli ultimi dati Istat, nel 2020 su 444mila lavoratori in meno, 312mila sono donne. Per questo motivo, fin dal suo avvio, Green4Women ha puntato a rispondere alle necessità derivate dalla perdita di posti di lavoro e di opportunità: così, in una fase iniziale, il progetto ha coinvolto un gruppo di 12 donne individuate e selezionate in collaborazione con Me.dea e si è occupato di insegnare loro le tecniche di agricoltura sinergica e di coltivazione delle erbe aromatiche. Le attività si sono svolte presso il Polo Agricolo Sociale gestito da Cambalache presso il Parco comunale del Forte Acqui di Alessandria. Un “luogo del cuore”, dove l’associazione da anni lavora con progetti di formazione e inclusione lavorativa, cercando di offrire nuove opportunità a sempre più persone in situazione di vulnerabilità. Successivamente sono stati attivati dei tirocini formativi presso Cambalache e destinati a tre donne. Durante il progetto non sono mancate attività negli orti sociali e nel laboratorio alimentare dell’associazione e le partecipanti hanno potuto approfondire le tecniche di essiccatura, trasformazione e confezionamento degli alimenti. Il percorso ha previsto anche momenti di orientamento al mondo del lavoro, per la ricerca di nuove opportunità di impiego nel settore agricolo e alimentare.

Green4Women: dal ricettario al nuovo marchio di prodotti vegetali

Il percorso, in vista del Natale, ha dato vita ai prodotti Green4Women: un marchio di alimenti vegetali essiccati e uno speciale ricettario elaborato in collaborazione con Enaip PiemonteI prodotti ottenuti sono coltivati negli orti sociali di Cambalache e lavorati dalle donne protagoniste del progetto, per arrivare direttamente in cucina e in tavola: dai preparati per risotti con verdure essiccate alle polveri di zucca e peperoncino da utilizzare in cucina, dall’origano alla tisana e alle verdure disidratate. Ma lavorare per l’autonomia e l’inclusione vuol dire anche instaurare sinergie positive sul territorio. In questo modo è nata l’idea del ricettario, realizzato in collaborazione con Enaip Piemonte – sede di Alessandria e grazie alla creatività dello chef Mattia Piras e degli studenti della Classe Terza del corso Operatore della ristorazione. Dopo aver approfondito a loro volta la tecnica dell’essiccatura, i futuri chef hanno ideato una serie di ricette con alcuni dei prodotti a marchio Green4Women e altri prodotti degli orti ed essiccati nel laboratorio alimentare di Cambalache. Il ricettario, disponibile anche online, contiene otto proposte che hanno la forza di mettere in connessione un importante progetto sociale rivolto all’inclusione lavorativa delle donne con i percorsi di crescita di un gruppo di giovani che stanno costruendo il proprio futuro lavorativo.

Cambalache, da diversi anni, ha dimostrato essere un modello alternativo per l’inclusione e l’integrazione. Percorsi destinati a giovani migranti, donne sole o vittima di violenza, richiedenti asilo e persone escluse sono soltanto alcuni esempi virtuosi di una realtà che, giorno dopo giorno, lavora con impegno per promuovere la crescita del territorio e una società non discriminatoria ma inclusiva, accogliente e multiculturale.

I prodotti Green4Women sono acquistabili nel negozio di Cambalache in piazzetta Monserrato 7/8 ad Alessandria, oppure direttamente online sul sito dell’associazione.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/green4women-donne-lavoro/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

“Facciamo girare l’olio”: economia circolare a sostegno delle donne vittime di violenza

Può un progetto tutelare l’ambiente e allo stesso tempo sostenere tante donne in difficoltà? “Facciamo girare l’olio” consente non solo di recuperare gli oli esausti, dannosi e inquinanti se smaltiti in modo non corretto, ma anche di dare un aiuto concreto alle donne vittime di violenza domestica.

Genova – Frisceu, panissa, focaccine, foglie di salvia, fiori di zucchina, latte dolce e latte brusco, ma anche le semplici patatine a fiammifero. Merende golose, contorni e secondi piatti tipici genovesi. Ma cosa succede nei ristoranti di Genova dopo aver fritto tutte queste sfiziosità?

Per legge tutte le attività di ristorazione sono tenute a smaltire correttamente l’olio esausto, compilando una modulistica dove si dichiara esplicitamente come e dove viene smaltito. D’altronde gli oli esausti, non essendo biodegradabili, sono inquinanti per l’ambiente: se bruciati, liberano sostanze nocive per le nostre vie respiratorie e se versati negli scarichi domestici – abitudine purtroppo ancora presente in molte case italiane – comportano una riduzione della quantità di ossigeno a disposizione della flora e della fauna marina e un solo litro di olio vegetale contamina circa 1 milione di litri d’acqua. A Genova, però, il recupero dell’olio può tramutarsi in una preziosa opportunità di riscatto per molte donne in difficoltà.

 “FACCIAMO GIRARE L’OLIO

“Facciamo girare l’olio” è il nuovo progetto dell’associazione Non Solo Parole che, attraverso l’olio esausto e grazie alla collaborazione con l’azienda toscana Ecorec, restituisce indipendenza e dignità alle vittime di violenza domestica.

«Avevamo già iniziato questo progetto lo scorso anno, in forma pilota», racconta Miriam Kisilevsky, presidente dell’associazione. «Quella del 2020 è stata una sorta di “edizione zero”, che però ci ha permesso di capire la portata e gli effetti positivi di questa iniziativa sul territorio».

Ora Non solo Parole sta coinvolgendo ristoranti, panifici, gastronomie, rosticcerie e chiunque abbia olio esausto da smaltire per invitarli a far parte di questo circuito di solidarietà.

“Facciamo girare l’olio” – Il video che presenta il progetto

COME FUNZIONA?

Per donare l’olio vegetale al termine del suo utilizzo è necessario contattare l’associazione, attraverso cui si attiverà il contratto con l’azienda specializzata Ecorec. Poco dopo verranno consegnati, su appuntamento, uno o più bidoni vuoti da riempire. Ogni ristoratore che diventa un produttore di olio esausto, riceve quindi un contributo di 25 centesimi al chilo, ai quali si aggiungono 6 centesimi che vengono destinati all’associazione. Il 100% della somma raccolta contribuisce al sostegno di donne vittime di violenza domestica, che hanno modo così di allontanarsi da casa in tempi più brevi.

CHI SI SOSTIENE ADERENDO AL PROGETTO

«In questo periodo stiamo sostenendo un numero sempre crescente di donne sole o mamme con bambini anche piccoli che hanno subito violenza, sia fisica che psicologica. In questi anni abbiamo notato che la loro principale difficoltà è la mancanza di indipendenza economica: spesso sono disoccupate oppure lo stipendio che queste donne ricevono ogni mese non è sufficiente a coprire le spese di un affitto e le varie utenze».

Ci sono anche situazioni in cui queste donne lavorano ma non hanno un contratto stabile oppure casi in cui c’è un conto in banca in comune con l’ex compagno, con un capitale bloccato a cui non è possibile accedere, quantomeno momentaneamente.

INDIPENDENZA E PROTEZIONE

«Le donne che si rivolgono a noi hanno bisogno principalmente di due cose: indipendenza e protezione. Quello che possiamo fare è restituire loro un’indipendenza economica, pagando bollette e contratti d’affitto, tutte spese impensabili per chi quei soldi non sa dove prenderli».

Il magazzino

L’associazione Non solo Parole dispone anche di un magazzino solidale dove sono presenti vestiti di tutte le taglie, per adulti e bambini, attrezzature per neonati, tovaglie e tanti accessori per la casa: «Vogliamo che tutte coloro che ci chiedono aiuto possano sentirsi libere di poter prendere decisioni in autonomia, per riuscire a ripartire con una nuova vita senza ricatti, come armadi sottochiave o altre forme di tormento per le donne che si lasciano alle spalle queste relazioni».

Miriam poi indirizza ognuna di loro a un centro antiviolenza, che ha un canale preferenziale con le forze dell’ordine.

L’ASSOCIAZIONE

Oltre a queste donne, Non Solo Parole sostiene circa trecento famiglie genovesi in situazioni di criticità socio-economiche e promuove gli acquisti nei negozi sotto casa e nelle botteghe di quartiere, per contribuire a conservare quel tessuto sociale che mantiene vive le periferie.

«Adesso invitiamo tutti i ristoratori, panettieri e pizzaioli ad adottare un bidone, che non solo aiuta le donne in fuga, ma anche l’ambiente, salvaguardando la qualità delle acque».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/09/facciamo-girare-lolio/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Le donne guidano la transizione ecologica in agricoltura

Con creatività e passione, le donne hanno costruito e guidano aziende agricole multifunzionali in grado di rispondere al bisogno della società di cibo genuino, prodotto con pratiche rispettose dell’ambiente, di servizi alla persona, di inclusione sociale e di attenzione alla tutela delle tradizioni e delle biodiversità locali. Queste aziende, più di altre, hanno saputo contrastare gli effetti negativi della crisi sviluppando azioni di resilienza. È quanto ha sottolineato il WWF in occasione dell’International Day of Rural Women. In Italia circa 1 impresa agricola su 3 è a conduzione femminile e il 32% (dato in crescita) vede la presenza di donne imprenditrici nel settore agricolo, titolari di 361.420 aziende su un totale di 1.145.680 (1). L’agricoltura “in rosa” conta 234.000 donne su un totale di 872.000 addetti, il 26,8%, ma nelle aziende cosiddette multifunzionali, quelle cioè che praticano agriturismo, mercati contadini, fattorie didattiche, fattorie sociali, trasformazione e vendita diretta di prodotti di fattoria, la percentuale di presenza femminile è più alta. Le donne tendono a rendere quindi l’agricoltura più ‘umanistica’ e sostenibile, una maggiore incidenza che si spiega con la naturale propensione femminile all’innovazione e alla multifunzionalità, la maggiore capacità di adattamento, il legame più forte con il territorio, la cultura, la tradizione e i saperi locali. Questa tendenza è anche legata al fatto che le donne non percepiscono l’azienda solo come fonte di reddito, ma anche come stile di vita.

La transizione ecologica del sistema agricolo quindi è donna, un dato importante che il WWF sottolinea in occasione dell’International Day of Rural Women – Giornata Internazionale delle Donne Rurali, una data istituita dall’Onu e che per l’Italia assume quindi un valore importante. L’agricoltura, infatti, è il principale ‘imputato’ per la perdita di biodiversità in Europa e in Italia il modello della multifunzionalità per il WWF è un riferimento per lo sviluppo socio-economico nei paesi che vivono gravi crisi, la via maestra per una transizione agroecologica dell’agricoltura.

© Morgan Heim – WWF US

Non solo fattorie: la realtà italiana

L’azienda agricola multifunzionale è per il WWF una via preferenziale per promuovere e realizzare pratiche di lavoro basate sulla tutela e la valorizzazione del capitale naturale (natura – biodiversità), definendo e realizzando nuovi servizi (turistici, didattici e sociali), focalizzati su azioni nel settore della tutela e della fruizione dell’ ambiente e valorizzando il ruolo delle aziende agricole multifunzionali nel mercato del turismo di qualità e dei servizi pubblici. L’Italia, con oltre 4,9 miliardi di euro, detiene il primato per valore della produzione delle attività di servizi forniti dall’agricoltura multifunzionale, seguita dalla Francia (4,5 miliardi) e dalla Germania (2,7 miliardi). In termini di incidenza delle attività di servizi sull’intero valore della produzione agricola per singoli paesi, l’agricoltura italiana si conferma essere la più multifunzionale d’Europa. Sono 22.661 il numero di aziende agrituristiche autorizzate ad operare in Italia nel 2016 (+1,9% rispetto al 2015), di cui circa il 39% sono a conduzione femminile. Sono 2.291 il totale delle fattorie didattiche iscritte negli elenchi regionali istituiti dalle Regioni nel 2016, ma il numero stimato di fattorie didattiche in Italia è di 2.500 – 2.900 (se si considerano anche le aziende non riconosciute dalle Regioni). Sono invece 1.000 le aziende agricole in Italia coinvolte in progetti di agricoltura sociale, fra imprese agricole, cooperative sociali ed aggregazioni. Le fattorie didattiche e sociali sono essenzialmente aziende a conduzione femminile (2).

Le donne hanno saputo costruire, con creatività e passione, aziende in gran parte a conduzione familiare, in grado di rispondere al bisogno della società di cibo genuino, prodotto con pratiche rispettose dell’ambiente, di servizi alla persona, di inclusione sociale e di attenzione alla tutela delle tradizioni e delle biodiversità locali. Queste aziende, più di altre, hanno saputo contrastare gli effetti negativi della crisi sviluppando azioni di resilienza.

© WWF: Elma Okic

Le aziende al femminile hanno maggiori rendimenti economici

Dalla Banca dati RICA (2016) risulta che l’incidenza percentuale delle attività connesse in agricoltura sulla Produzione Lorda Vendibile (PLV) è passata a livello nazionale da 2.51% del 2008 al 7.04% del 2016. In particolare, per le aziende condotte da uomini aumenta dal 2.44% del 2008 a 6.80% del 2016, mentre per quelle condotte da donne dal 2.81% del 2008 all’8.19% del 2016. Le aziende a conduzione femminile sono efficienti anche nell’utilizzo dei fondi della Politica Agricola Comune dell’Unione Europea (PAC). Dal 2007 al 2013 sono state pagate 120.613 aziende condotte (27%) da imprenditrici e hanno ricevuto importi pari a circa 5.381 miliardi di euro (17%) – (Dati Rete Rurale Nazionale 2017)

Le maggiori difficoltà per le imprese agricole al femminile in Italia

Le imprenditrici che vogliono aprire una loro attività hanno spesso difficoltà a reperire terreni in zone ad alta redditività e questo le costringe a ripiegare verso zone di montagna o comunque svantaggiate. Inoltre, un ulteriore aspetto di difficoltà per le aziende condotte da donne, tendenzialmente di piccole dimensioni, è rappresentato dal minore accesso al credito. Infatti, in seguito alla crisi economica il sistema bancario ha fortemente inasprito i criteri di erogazione dei prestiti aumentando le richieste di garanzie provocando un peggioramento delle condizioni di accesso al credito da parte delle imprese, soprattutto per quelle più piccole (Macrì e Scornaienghi, 2014).

© James Morgan – WWF US

Parità di genere nel mondo: per l’agricoltura siamo ancora indietro

Le donne sono un potente vettore di cambiamento nelle aree rurali del mondo, hanno un ruolo chiave nella gestione della famiglia e contribuiscono in modo preponderante all’attività agricola e non solo. Purtroppo le ineguaglianze tra i sessi impediscono loro di esprimere pienamente il proprio potenziale. Le donne rurali rappresentano oltre un quarto della popolazione mondiale. Esse sono protagoniste attive dello sviluppo economico, sociale e ambientale sostenibile dell’intero pianeta.

Nei paesi in via di sviluppo rappresentano circa il 43 per cento della forza lavoro e producono la maggior parte del cibo disponibile, ricoprendo così un ruolo primario per la sicurezza alimentare (il 70% del cibo consumato da oltre 7 miliardi di persone viene oggi prodotto da piccole aziende agricole di tipo familiare dove le donne svolgono un ruolo fondamentale). Malgrado ciò, la maggior parte di esse vive nell’insicurezza e subisce gravi discriminazioni e violenza, che sono aggravate dagli effetti prodotti dalla povertà, dalla crisi economica, alimentare e dal cambiamento climatico. Se infatti le donne potessero accedere a determinate agevolazioni (l’accesso al credito, alla formazione, etc.) al pari degli uomini, automaticamente si ridurrebbe del 17% il numero delle persone affamate, dati (riferiti all’anno 2013) che non possono essere trascurati, se si pensa oltretutto che in due dei cinque continenti (Africa e Asia) le donne lavorano 52 ore in più al mese rispetto agli uomini.

  1. Elaborazioni ISMEA su dati Eurostat – Farm structure survey – FSS 2016
  2. Fonte Rete Rurale Nazionale, 2017

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/10/donne-guidano-transizione-ecologica-agricoltura/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

La Tabacca: due donne si autocostruiscono il futuro tra permacultura e socialità

Vi proponiamo la storia di Giorgia e Francesca, due giovani donne che hanno riabitato una vecchia casa nell’entroterra ligure, ristrutturando l’abitazione e ridando vita al terreno agricolo, passo dopo passo e seguendo i principi della permacultura. La Tabacca è oggi un progetto ambientale e sociale e la dimostrazione di come si possa passare dalla teoria alla pratica rimboccandosi le maniche e avendo chiaro l’obiettivo da raggiungere. Il giorno in cui finalmente intervisto Giorgia Bocca e Francesca Bottero (dopo anni in cui ci ripromettiamo di incontrarci) è davvero fuori dal comune. Arrivo, infatti, con il mio camper a Voltri, nei pressi di Genova, e lì incontro una troupe della Rai, “capitanata” dalla giornalista Elisabetta Mirarchi. Sono venuti ad intervistarmi sul nostro lavoro con Italia che Cambia e contestualmente a seguirmi mentre intervisto Giorgia e Francesca. Lasciamo il mio camper e la macchina della RAI in un vicino parcheggio e saliamo su una piccola auto 4X4 con la quale è venuto a prenderci un volontario che collabora a La Tabacca. La strada per raggiungere la sede del nostro incontro, infatti, è impervia e impossibile da percorrere con mezzi ordinari. In effetti ci inerpichiamo su una stradina tipicamente ligure che ci porta a passare in pochi minuti dal mare a terre interne, premontane, selvatiche. Ed eccoci giunti a casa di Giorgia e Francesca. Dopo aver gustato tutti insieme un pranzo meraviglioso e aver visitato gli orti e la casa che si sono auto-ristrutturate in molti anni e secondo i criteri della bioedilizia, intervistiamo le due ragazze.

I primi passi

Francesca e Giorgia si sono conosciute molti anni fa e hanno lavorato entrambe per l’Associazione Terra! Onlus. Qui hanno incontrarono uno psichiatra di Torino che, inaspettatamente, decise di donar loro la sua casa e il suo terreno a patto che ci realizzassero un progetto sociale. Racconta Francesca: “È stato un percorso travagliato, perché lui non era mai venuto qua, e aveva a sua volta ereditato questo luogo da alcuni zii, ma in breve tempo siamo riuscite a risolvere i problemi di successione. Il primo gennaio 2011 siamo venute qui in perlustrazione per la prima volta. Abbiamo incontrato subito gli alberi che custodiscono questo luogo, che ti accompagnano lungo il sentiero. È spuntata questa casa in mezzo alla natura spoglia, completamente rustica; una casa che aveva l’imprinting della casa contadina di un tempo; sotto c’erano stalle e mangiatoie, cucina con vecchi manufatti, un vecchio forno di mattoni e una vecchia cucina fatta con un rufo. Questo era lo scenario: una casa immersa in un bosco, con un solo pezzo di terra coltivato. Non c’era una strada di accesso e tutta la casa era da ricostruire… ma il sogno era talmente grande che ci siamo messe subito in cammino per poterlo realizzare”. 

Il primo passo fu ricostruire il tetto. Per farlo, tagliarono 12 castagni del loro bosco e con essi costruirono le travi del nuovo tetto. “L’inizio è stato abbastanza turbolento – continua Giorgia – qui non ci conoscevano, eravamo come piantine infestanti che si stavano insediando in un luogo non loro. Abbiamo cercato sin da subito di creare rapporti con le famiglie del borgo, ma all’inizio è stato un po’ difficoltoso: siamo due donne, che volevano vivere di agricoltura in un bosco e che per di più si portavano dietro tutti questi giovani vestiti colorati che sapevano di spezie e curcuma… sembravamo una banda del ’68 e questo ha creato resistenza. Ma piano piano, le persone si sono abituate a vederci, a parlare con noi, i bambini hanno iniziato a curiosare, e oggi in molti ci vogliono bene. La signora Tina, ad esempio, ci prepara le focacce”.

La progettazione in permacultura

La ristrutturazione della casa e la coltivazione della terra sono state realizzate seguendo i principi della permacultura e le logiche della bioedilizia. La progettazione è stata realizzata su tutto: l’uso e riutilizo dei materiali, la luce e il design interno, i mobili antichi, il recupero delle acque di sorgente e la successiva fitodepurazione. Prima hanno sperimentato “nel piccolo” e poi replicato “nel grande”. Per questo ci sono voluti otto anni per ristrutturare l’abitazione e avviare l’azienda agricola. Questa è composta da sette ettari di bosco. Francesca si sta occupando personalmente del miglioramento boschivo così come in passato molti dei lavori di ristrutturazione sono stati eseguiti fisicamente con l’aiuto delle due donne. Qui, infatti, mancava fino a pochi mesi fa una strada di accesso. Giorgia e Francesca, quindi, hanno trasportato con la carriola i materiali dalla strada alla casa, attraversando il bosco, giorno dopo giorno e spesso con l’aiuto di amici e volontari. Lo stesso è avvenuto con bosco e parte agricola: Francesca ha lasciato la sua attività in Terra Onlus per avviare l’azienda agricola e realizzare potature e giardini. Racconta Francesca: “Nelle zone limitrofe a casa abbiamo già avviato un piccolo frutteto recuperando delle vecchie varietà di prugne che erano tipiche di questo luogo. Inoltre stiamo valorizzando piante autoctone, come la Mela Carla, tipica delle zone liguri, e abbiamo inserito altre varietà generose, per la futura autosufficienza delle galline. Coltiviamo anche alcuni grani antichi e facciamo orticultura”.

Le attività ambientali e sociali

Non è tutto. Accanto alle attività agricole, la Tabacca ospita percorsi di educazione ambientale ed è la sede di riferimento de La Scuola diffusa della Terra Emilio Sereni. Non meno importante, il filone sociale: “Crediamo – continua Giorgia – che nello scambio con le persone ci sia sempre un aumento di possibilità e una maggiore capacità di risolvere i problemi. Inizialmente abbiamo coinvolto la nostra prima rete sociale, costituita dalle persone amiche e da quelle collegate all’Associazione, per poi passare ad innescare processi di partecipazione con il territorio, con le famiglie vicine, facendo comunicazione, creando relazione, facendoci conoscere, coinvolgendo le persone e mettendo a disposizione quello che noi avevamo in competenze e risorse in termini di scambio. Questo ha soddisfatto i bisogni anche di altri. In questo momento storico, infatti, sempre più persone sentono il bisogno di luoghi di accettazione, senza giudizio. Partecipiamo e organizziamo eventi culturali, occasioni di divulgazione, campeggi. L’apporto dell’associazione Terra Onlus è fondamentale in questo processo e cambia completamente il nostro approccio, perché ci permette di fare formazione con obiettivi precisi da raggiungere”.  

Molte delle scelte portate avanti dalle due donne hanno anche un risvolto politico: l’idea, infatti, è quella di andare a influenzare il legislatore locale per rendere più semplici le soluzioni architettoniche e di servizio che loro stanno mettendo in pratica nella loro abitazione in modo che possano poi essere adottate anche da altri.

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Le radici

“Ho memoria delle mie fotografie da bambina – confida Francesca – venivo sempre ritratta mentre scavavo una buca per terra o in mezzo alle vigne o in un campo, e rivedendo quelle foto ho visto il mio desiderio di vivere in campagna, in modo semplice, a contatto con la natura, e forse questo è stato il regalo più bello di questi sette ettari di bosco”.  

“Il nome La Tabacca – continua Giorgia – deriva dal contrabbando del tabacco che – come ci hanno narrato gli anziani del posto – si svolgeva in queste terre. Già allora, una donna teneva le fila della famiglia e curava le piante. Il luogo viveva quindi una gestione molto matriarcale: i bambini venivano qui a giocare e c’era una forte integrazione. Noi ci sentiamo un prolungamento di questa famiglia”. 

Il futuro

“Io sono pronta per La Tabacca 2.0 – esclama Giorgia – a ottobre verremo finalmente a vivere qui e saremo pronte per valorizzare l’esterno soprattutto dal punto di vista dell’economia basata sul turismo culturale. Sogno una multifunzionalità dell’agricoltura legata all’accoglienza e al turismo. Stiamo già collaborando con una azienda agricola vicina, che è sempre di una donna, con cui faremo trasformazione del prodotto e quindi piano piano vorremo espandere il nostro modello nella valle. Vogliamo creare un modello replicabile che sia utile per tutti”. 

Intervista e riprese: Daniel Tarozzi

Montaggio: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/07/la-tabacca-due-donne-autocostruiscono-futuro-permacultura-socialita-io-faccio-cosi-255/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

È nata la Rete Nazionale delle Donne in Cammino

A Fa’ la cosa giusta, in occasione della Festa della Donna, è stata lanciata la Rete Nazionale delle Donne in Cammino, un progetto che punta alla valorizzazione delle donne nel settore dei cammini, degli itinerari culturali, della mobilità dolce e del turismo lento.

“Una rete che nasce per promuovere il genio femminile nel mondo dei cammini. Le donne anche in questo campo sono fonte di ispirazione e role model, esempi di resilienza, passione, intraprendenza e determinazione. Sono pioniere nell’approccio verso l’economia verde, il turismo emozionale e nell’unire in modo polifonico nuove armonie anche nella semplice ideazione di un nuovo sentiero e di una camminata”. Con queste parole Ilaria Canali ha descritto la motivazione che sta dietro la nascita della Rete Nazionale delle Donne in Cammino di cui è promotrice e che è stata presentata in occasione della Festa della Donna, l’8 marzo, nella cornice della fiera Fa’ la cosa Giusta, a Milano.

La Rete Nazionale Donne in Cammino è un progetto che punta alla valorizzazione delle donne attraverso la piena espressione della voce, talento, impegno, creatività e sensibilità femminili nel settore dei cammini, degli itinerari culturali, della mobilità dolce e del turismo lento. Per questo la Rete Donne in Cammino si propone di diventare una comunità e un forum per lo scambio, la condivisione e la promozione di buone pratiche, un sostegno concreto per aiutare chi intende mettersi in cammino e infine una alleanza per sostenere la piena partecipazione e rappresentanza delle donne nei contesti decisionali che direttamente o indirettamente si occupano dei cammini: enti, associazioni, federazioni, parchi, case editrici, stampa. La Rete Nazionale Donne in Cammino intende quindi diventare un punto di riferimento e un interlocutore autorevole per il mondo dei camminatori e per tutte le realtà che operano in questo ambito per offrire proposte, indicazioni, formazione e mentorship per una maggiore partecipazione delle donne. È un impegno in linea con l’obiettivo 5 della Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, nella convinzione che il settore dei cammini sia strategico per un cambio degli stili di vita a beneficio di una maggiore sostenibilità. L’incontro di Milano, organizzato da Ilaria Canali e Cristina Menghini, ha offerto un confronto ricco di spunti grazie alle testimonianze di numerose camminatrici e attiviste del mondo delle politiche ambientali che a diverso titolo, da diversi punti di vista e grazie a vari percorsi professionali si occupano di cammini, mobilità dolce, ambiente ed ecologia. Sono intervenute Daniela Bianchi, Francesca Pucci, Sara Zanni, Samantha Cesaretti, Rebecca Spitzmiller, Ilaria Canali, Cristina Menghini, Gaia Ferrara, Sarah Marder. Ha moderato l’incontro Alberto Pugnetti di Radio Francigena. La Rete Donne in Cammino sarà un “vivaio di positività” e di coraggio, ha detto Sara Zanni, ricercatrice in archeologia e Guida ambientale escursionistica, specializzata nello studio della viabilità antica. Le ha fatto eco Cristina Menghini, Guida ambientale escursionistica, specializzata in itinerari culturali italiani e promoter di cammini con più di 30 mila km di strada sotto i piedi. “Il cammino è un modo per ritrovare la fiducia negli esseri umani. Il cammino fa scoprire che esiste un mondo dove c’è molta solidarietà”, ha detto Cristina, sottolineando come questo approccio possa funzionare anche da prevenzione e antidoto contro la violenza. Daniela Bianchi, Portavoce di Comunità Solidali, già Consigliera Regionale del Lazio e proponente la Legge Regionale istitutiva della Rete dei Cammini del Lazio, nel suo intervento ha sottolineato che il paesaggio è una infrastruttura che esiste se viene fruita da chi lo vive, dai camminatori. In questo quadro la Rete delle Donne in Cammino può rappresentare una trama che connette i territori, le infrastrutture di accoglienza e i servizi che consentono agli itinerari culturali di essere percorsi.

Una rete che tesse insieme accoglienza e solidarietà dunque, come nel caso del progetto presentato da Francesca Pucci, “In Cammino per Camerino”, realizzato per aiutare le zone colpite dal sisma del 2016, tre giorni di cammino nell’alto maceratese per promuovere il territorio e aiutare la microeconomia locale. La comunità delle donne in cammino può aiutare concretamente le camminatrici nei loro percorsi con un sostegno a distanza, come è accaduto a Samantha Cesaretti che si occupa di accoglienza pellegrina sulla via Francigena e che ha raccontato come sia stato fondamentale, nella sua esperienza di cammino, non sentirsi mai sola, ma sempre connessa e sostenuta grazie al contatto con altre camminatrici. I cammini sono un modo di imparare sul campo cosa vuol dire pace, tutela del creato, delle aree interne, silenzio, riflessione e luoghi dell’anima, ha sottolineato Gaia Ferrara che si occupa di progetti di formazione di progettisti della mobilità lenta e che si augura che la Rete possa anche essere un modo per camminare insieme, uomini e donne, in una nuova cultura di genere. L’incontro di Milano è stato arricchito dagli interventi di Rebecca Spitzmiller, fondatrice Retake premiata dal Presidente della Repubblica con l’onorificenza “Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana” e di Sarah Marder, organizzatrice di Climate Strike Milano e fra i primi attivisti di Fridays For Future Italy. Due esempi di attivismo ambientale che indicano la via da seguire e che grazie alla creazione di una rete sono riuscite a concretizzare dei progetti di grande impatto sociale.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/03/la-rete-nazionale-delle-donne-in-cammino/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Filomena Pucci: la passione delle donne è un’impresa (av)vincente – Meme #11

Seguendo la propria passione e “mettendo le gambe” ai propri sogni le donne possono trovare la realizzazione, rivoluzionare con successo il settore dell’imprenditoria e contribuire a cambiare in meglio il mondo in cui viviamo. Lo dimostrano le “Appassionate” imprenditrici femminili protagoniste del racconto di Filomena Pucci che con il suo progetto e la propria esperienza personale testimonia che “Quello che ti piace fare è ciò che sai fare meglio”.

Incontro Filomena in una calda mattina di fine luglio a Roma, dove torna di tanto in tanto dopo essersi trasferita in Francia per amore (“finalmente quello giusto!”, ammette). Le brillano gli occhi, è piena di energia ed impaziente di mostrarmi il suo nuovo libro intitolato Quello che ti piace fare è ciò che sai fare meglio, un manuale per esaltare i propri talenti ed un viaggio a caccia delle passioni che ci animano e attraverso le quali possiamo imparare ad eccellere. “Questa frase è il titolo del mio secondo libro ma è, prima ancora, il post-it da cui tutto è cominciato”.filomena-pucci

Seduta su una panchina con le gambe incrociate, Filomena inizia così a raccontarmi di come, partendo dalla ricerca della sua vera passione, ha trasformato la sua vita e creato “Appassionate”, un libro ed un progetto nato con l’intento di diffondere storie esemplari di donne che si sono inventate un lavoro e hanno creato imprese di successo. Qualche esempio? L’imprenditrice sarda Daniela Ducato che partendo dal recupero degli scarti ha creato un’azienda entrata nella top ten delle eccellenze tecnologiche mondiali. O ancora Luciana Delle Donne, ex manager nel settore bancario, che ha deciso di cambiare completamente vita e ha creato in Puglia la cooperativa sociale Made in Carcere che offre lavoro in tutta Italia a donne detenute per reati minori. Ogni donna può esaltare i propri talenti, far fiorire (e fruttare) la propria passione e fare ogni giorno ciò che la rende veramente felice. È questo il messaggio che Filomena Pucci vuole trasmettere attraverso il suo esempio, i suoi libri, un sito editoriale ed una serie di workshop e conferenze che oggi porta in Italia e all’estero.

“La mia è stata una trasformazione faticosa, solitaria e ossessiva”, ricorda Filomena. “Per prima cosa mi sono chiesta: ma come hanno fatto le altre a trasformare la loro passione in un’impresa? Come fanno le altre, quelle che riescono ad essere felici con il proprio lavoro? Da lì è nata l’idea di andarle a cercare per chiederglielo e per farmi ispirare. Inoltre, non mi riconoscevo nell’immagine che i giornali ci restituiscono ogni giorno della nostra società: i cervelli in fuga, la precarietà, l’abbassamento delle ambizioni. Non mi ritrovavo in questa generalizzazione della vita e la rifiutavo. Mi sono quindi detta: ci deve essere anche tanta altra gente che non è raccontata. Conoscevo Italia che Cambia ed ero già consapevole di una serie di nuove possibilità. Ho così deciso di andare a incontrare le donne che a mio avviso meritavano di essere raccontate. Volevo delle ispirazioni potenti per smuovermi da quello stato di difficoltà in cui mi trovavo. Desideravo degli incoraggiamenti forti per cambiare la mia vita e allo stesso tempo ricercavo delle storie importanti da raccontare. Perché io racconto storie, scrivo storie e amo le storie. È questo che mi piace e che so fare. Ed è ciò che ho deciso di mettere al centro del mio progetto di lavoro e di vita”. È così che Filomena ha incontrato dieci imprenditrici italiane eccellenti, ma non “figlie di”, divenute le protagoniste del libro “Appassionate” e le ispiratrici di tutto il più ampio progetto messo in piedi inizialmente grazie ad una campagna di crowdfunding (perché “è fondamentale mettere le gambe ai sogni”, ripete).filomena-pucci-1

“Le ‘Appassionate’ sono le donne che partendo da un’intuizione, idea o passione personale sono riuscite non solo ad intercettare un bisogno collettivo ma anche a farlo diventare un mestiere, un prodotto, un servizio, un’impresa”.

Come fare però quando non si sa qual è la propria passione? Da dove partire per trovarla o ritrovarla? “È nella specificità di chi siamo e chi siamo stati che si disegna l’unicità della nostra impresa. Dobbiamo quindi partire dal riconoscimento delle nostre caratteristiche perché la cosa che ci piace fare c’è già, da sempre, dentro noi stessi. È quella cosa che spesso gli amici ci suggeriscono di fare perché ci riesce bene. Iniziamo così dunque: chiediamo ai nostri amici di elencarci le nostre caratteristiche. Facciamo poi noi stessi delle liste di ciò che ci piace o vogliamo fare e poi affiniamole, scolpiamole: è un modo per immaginare la vita che vogliamo. Immaginare è fondamentale, ma è importante farlo in una maniera non completamente illusoria. È importante avere una visione”.

“Dopo aver intercettato ciò che ci piace è importante avere pazienza e cura”, continua Filomena facendo riferimento alle lezioni che compongono il libro Quello che ti piace fare è ciò che sai fare meglio. “Piantare un bulbo è un esercizio utile per imparare a prendersi cura della nostra idea e osservarla attivamente. Poi è importante tirare fuori il coraggio e accettare la fatica, perché il percorso per far fiorire la nostra passione è spesso faticoso. Ma è così che si può dar vita ad un’impresa, economica e di vita”.

Fare ciò che ci piace richiede fatica sì, ma non solo è possibile, è anche la migliore scelta da compiere per essere pienamente se stessi e vivere bene”.

 

Intervista: Alessandra Profilio
Riprese: Elisa Elia
Montaggio: Elisa Elia e Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/09/filomena-pucci-passione-donne-impresa-avvincente-meme-11/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Erica Vecchione, convinta che… non è detto che sia giusto solo perché tutti fanno così

Erica Vecchione è una di quelle solide voci “controcorrente” che ci fa riflettere. Ex casalinga, blogger, ha trovato la sua strada; e non tra i “signorsì” di un ufficio o tra i forzati del cartellino. La sua strada se l’è proprio costruita con le sue mani. E qui, su Il Cambiamento, si racconta.9825-10611

Si è fatta (e si fa) molte domande; alcune risposte le ha trovate, per altre è ancora alla ricerca. Ma di sicuro non sono risposte standardizzate e banali, come tante di quelle che siamo abituati a sentire. Erica Vecchione, ex casalinga, blogger (vitadacasalinga.com), con tre figli e un marito, ha deciso che la scrittura era la sua strada e oggi vive in Liguria. Organizza soggiorni-studio in Italia per ragazzi americani e “si è trovata”. Come? Dove? Ce lo racconta lei stessa. Partendo da un punto fondamentale e irrinunciabile: è una di quelle persone che si ostinano a voler pensare con la propria testa.iqixbu6

Erica, lei invita al boicottaggio e a smettere di comprare giornali o prodotti lesivi della dignità delle donne. Cosa intende nel concreto, quali prodotti e giornali sono lesivi della dignità delle donne?

Se dovessimo andare a fondo, nel concreto, di cosa è lesivo della dignità delle donne, in primis, non dovremmo comprare nessun capo di abbigliamento. Le pubblicità che coinvolgono le grandi firme, ma anche le catene tipo Zara, utilizzano, nella migliore delle ipotesi, immagini di donne che rappresentano un corpo inarrivabile, emaciato, un pessimo esempio per le adolescenti. Nella peggiore delle ipotesi, invece, lanciano messaggi lesivi; ad esempio, in una vecchia pubblicità di D&G era fotografata una donna a terra, bloccata da un uomo che si ergeva sopra di lei, mentre intorno ai due un gruppo di uomini in piedi osservava la scena. Se poi ci addentriamo nel mondo dell’intimo e guardiamo le pose delle modelle… Insomma, per farla breve, fashion ma anche pubblicità e televisione in generale usano tutti un ideale di donna standardizzata e sessualizzata.

Lei considera le multinazionali come “Impero del male” e critica duramente anche quelle alimentari, con tutto il seguito di prodotti confezionati. Afferma senza mezzi termini: “Abbiamo il potere di annientarli semplicemente smettendo di comprare i loro prodotti. Se non vogliamo farlo per l’ambiente, facciamolo almeno per la salute dei nostri figli”. Non le sembra una posizione utopistica e irrealizzabile considerato l’enorme potere economico, pubblicitario e persuasivo che ha l’Impero del male? Perché una posizione tanto critica? C’è chi, come ad esempio gli imprenditori e i sindacati, le contesterebbero che l’Impero del male fornisce lavoro a tante persone.

Tutti i grandi cambiamenti sociali del passato sono stati giudicati avventati o irrealizzabili da una certa intellighenzia industriale o politica, che si voleva garantire un conveniente status quo. Ogni gesto consapevole, nato da una mente critica, può essere un suggerimento a qualcun altro. Si può tendere verso un’ispirazione morale collettiva, volta al benessere della collettività. Il punto di partenza non è eliminare le multinazionali, ma forzarle a ridare dignità ai lavoratori, all’ambiente, agli animali e produrre prodotti di qualità, siano essi alimentari o capi di abbigliamento.

In un suo post intitolato “Il popolo dei lamentoni”, parla della sfortuna, di cui molti si lamentano, come una percezione soggettiva piuttosto che una fatto reale. Vuole forse dire che gli italiani si lamentano un po’ troppo. E se sì, perché accade secondo lei?

Sicuramente la percezione che, dopo un fatto spiacevole o sfortunato, tutto debba andare male è un approccio che ritrovo in molte persone. È una sorta di vittimismo nel quale crogiolarsi per ottenere l’altrui compassione o i favori delle istituzioni. In America ho visto persone indossare magliette con la scritta “cancer survivor” ad indicare che erano riuscite a debellare la malattia, o almeno a tamponare l’emergenza. C’è un senso di rivalsa che non vedo tanto negli italiani. Vero è che gli italiani hanno una creatività che consente loro di restare a galla, cosa che gli americani si sognano.

Lei è molto scettica riguardo al cosiddetto posto fisso e critica fortemente gli italiani che non fanno granché e aspettano che lavoro od opportunità cadano dal cielo. Qual è la sua esperienza lavorativa e perché ha questa opinione?

A sedici anni ho cominciato a fare lavoretti estivi. Dai diciannove in poi ho sempre lavorato cambiando spesso settore. A ventitré anni avevo un contratto a tempo indeterminato (anni dopo, l’azienda è fallita provando quanto giusta fosse la mia intuizione di andare per conto mio), ma decisi di licenziarmi e partii per Dublino. Rientrata in Italia presi la specializzazione per insegnare italiano come seconda lingua, oggi ho una piccola agenzia viaggi e faccio la guida turistica. Sarà il mio lavoro per sempre? Non credo! Ci sono persone che hanno bisogno delle certezze che un posto sicuro offre, mentre altre, come me, devono continuamente mettersi alla prova e sentire lo stimolo del cambiamento. Chi ha un’indole più propositiva e dinamica riesce, nelle situazioni di difficoltà (come la perdita del lavoro, l’ingresso in mobilità, ecc.), a reagire più prontamente di chi ha sempre creduto che i privilegi lavorativi fossero un suo diritto imprescindibile.

Lei si scaglia duramente contro chi cerca successo in televisione in programmi di livello infimo e grande audience; cita Maria De Filippi, X Factor, ecc. Scrive testualmente: “Giovani baldracche diventano milionarie, rampanti tettone scalano carriere politiche, tonti pesci trota vestono panni da consigliere regionale, paparazzi pregiudicati determinano l’audience, insomma: ciarlatani, furbetti, affabulatori, ignoranti, puttane accorrete numerosi che in Italia si premia la merda!”. Non pensa di essere accusata di snobismo o elitarismo dato che quelle trasmissioni e quei personaggi sono i preferiti dai più? In fondo, dalla De Filippi c’è andato anche Roberto Saviano, scrittore di caratura internazionale.

Saviano è andato dalla De Filippi come Roberto Saviano, non da sconosciuto; è andato con il suo percorso intellettuale e professionale e con un messaggio da diffondere. Se essere snob vuol dire sdegnare il niente televisivo dei reality e talent show, allora sì, sono snob. Ma sarebbe più giusto dire che non amo il concetto – nato e proliferato nel ventennio Berlusconiano (e che ha evidentemente attecchito in un tessuto sociale fertile) – di arrivare al successo senza studio, senza competenza e soprattutto senza un duro lavoro alle spalle. E comunque, la notorietà di questi personaggi una volta usciti dal programma, è stata duratura più o meno quanto i quindici minuti di Andy Warhol.

Non ha la televisione; perché questa scelta “estrema” ed elitaria ? I suoi figli non si sentono emarginati da compagni di scuola o amici che ce l’hanno?

Più che elitaria, la ritengo di autopreservazione mentale. Senza televisione ho più tempo per me e ho il controllo sui contenuti che i miei figli guardano. Pubblicità, notiziari e film sono spesso pieni di riferimenti inappropriati per bambini piccoli. I miei figli sanno già di essere diversi, non fosse altro perché hanno un padre straniero e vivono in un paese piccolo nel quale nessuno di noi è nato. I ragazzi giovani poi non guardano più la televisione, semmai sono i cellulari che bisognerà saper gestire. In ogni caso, guardiamo tutti i programmi che ci interessano sul computer.

Lei sembra essere una delle poche persone che danno ancora importanza alla coerenza, rinunciando magari a privilegi e visibilità. Ha rifiutato di andare in tv e ha scritto: «In un mondo dove la gente fa a pugni –usando anche qui un eufemismo – per andare in televisione, probabilmente la mia decisione è un po’ controcorrente, ma la coerenza è importante. È importante fare ciò che si dice, e non usare la parola solo per fare spettacolo. In tanti mi hanno detto “Ma vai, questo è un treno che poi non passa più” e altre frasi perentorie sul genere. I latini dicevano che l’uomo è fabbro del proprio destino; è vero che i treni passano ma non tutti i treni vanno alla tua destinazione, bisogna saper salire sopra il treno giusto e non sul primo che arriva. Perciò, grazie. Ma il treno per Roma non ferma in questa stazione».  

Sì, non mi sono mai pentita della mia scelta di non andare in televisione. La credibilità non è subalterna all’incoerenza. Io devo essere fedele ai miei principi, foss’anche per me stessa. In questo sento che non posso tradirmi. La televisione è un mezzo menzognero che ti pone in un livello privilegiato rispetto al pubblico, ma che può metterti in una posizione estremamente manipolabile. Quando mi invitarono in televisione volevano di me una certa immagine, avevano bisogno di un personaggio che fosse adattabile al taglio di quella puntata. E io non posso e non voglio ridurre il mio pensiero a una macchietta televisiva.

Attraverso la televisione avrebbe avuto più visibilità, magari arrivare ad avere lei stessa una sua trasmissione, pubblicare libri… Inoltre, molti dicono che la televisione è solo un mezzo e come tutti i mezzi può essere usato bene o male; lei lo avrebbe usato bene, per veicolare le sue importanti riflessioni e farle ascoltare a un pubblico vastissimo. Perché ha rinunciato a tutto questo?

Quello che lei afferma sarebbe comunque tutto da verificare. Per me la cosa fondamentale è raggiungere la gente attraverso le mie idee e le mie parole. Ritengo ugualmente importante il viver bene, io sono una bulimica della vita e sento di non voler sprecare energia e tempo in battaglie inutili. Per i libri da pubblicare… ci sto lavorando.

Ancora in merito alla televisione un’altra sua interessante riflessione: “Vien quasi da dire che la gente non sia più capace di stare sola coi propri pensieri ergo, vada indottrinata e intrattenuta 24 ore su 24. O forse la gente, pur lamentandosi di continuo del poco tempo a disposizione, in realtà teme di restare sola col proprio tempo, scoprendo di non sapere che farsene; magari in una casa troppo silenziosa o ritrovandosi a quattrocchi con un compagno col quale non si condivide più nulla”. La situazione è davvero così triste?

Più che triste, anche se solo pochi anni dopo rispetto a questo scritto, direi che è cambiata. Sostituirei il termine ‘televisione’ con ‘smartphones’. Sì, secondo me è davvero così desolante. Si guardi intorno: cosa fa la gente quando passeggia per strada, cena al ristorante o siede in attesa dal medico?

Secondo lei ormai tutti rincorrono l’apparire. Perché questa corsa alla visibilità a tutti i costi, al successo narcisistico effimero? È possibile invertire la rotta o per sopravvivere socialmente e lavorativamente bisogna per forza fare video o interagire sui social?

Viviamo nell’epoca dell’immagine, del codice visivo. Se un amico torna dalle vacanze non racconta cosa ha visto, ma ti mostra le foto. Se va al ristorante non ti spiega il sapore del piatto che ha assaggiato, ma ti mostra l’immagine sul telefono. Invertire la rotta, senza forzature, mi sembra impossibile ad oggi. L’unica soluzione è il pensiero critico e capire cos’è veramente che ci fa dire di essere felici.

Lei afferma che la televisione (o “il virtuale” in genere) fa dimenticare la vita vera che c’è intorno a noi e che offre spunti infinitamente più interessanti.  Parla di mancanza di comunicazione in una realtà di iperconnessi ed è molto critica sull’uso dei cellulari. Sulla tecnologia scrive: “Dicono che la tecnologia ha reso la vita più facile, ma siamo sicuri che l’iper semplificazione – del linguaggio, delle conversazioni, delle relazioni – ci abbia reso più felici? Fateci caso. La gente per strada cammina, è protesa in avanti, fissa il cellulare. Nulla li distoglie dal piccolo schermo saldo tra le mani. La vita scorre intorno ma non se ne curano. Qualcosa più importante imbriglia l’attenzione. Che cosa, non si sa. Domani non se ne ricorderanno nemmeno più». Infine in merito a Facebook lei sostiene che non si batte per creare un mondo migliore ma per creare una azienda più ricca. L’hanno mai accusata di “eresia”?

Più che eretica mi si può eventualmente tacciare di essere antiquata. Io non ho uno smartphone ma un vecchio Nokia (del quale tutti i miei clienti ridono, tra l’incredulo e lo schifato). Rispondo sempre che sono talmente indietro da essere avanti. Il mio essere vintage nasce dal fatto che a me piace ancora guardare la gente negli occhi, leggerne le emozioni e scoprirne il pensiero inespresso. Amo le persone e l’essere umano in tutte le sue sfaccettature, anche quelle più odiose, perché così tutto è infinitamente più interessante di una vita o una relazione vissuta attraverso uno schermo. Nessuno è perfetto e questo forse, sociologicamente parlando, potrebbe essere il mio limite. Me ne farò una ragione. Per quanto riguarda Facebook, direi che le ultime vicende di Cambridge Analitica e l’utilizzo dei dati personali hanno già detto tutto sulla traiettoria di Zuckerberg.

La sua posizione sui cellulari determina un isolamento da parte sua e dei suoi figli? Amici e parenti la credono pazza? C’è chi l’accusa di voler tornare al Medioevo? Cosa risponde a chi dice che attraverso i social possiamo veicolare informazioni in maniera fantastica, mobilitare milioni di persone con un click e creare socialità e legami prima impensabili? E soprattutto che avere il mondo a portata di mano con un cellulare è una delle più grandi invenzioni della storia dell’umanità?

I miei figli sono ancora piccoli, la più grande ha dieci anni e sa – perché in casa parliamo di tutto – che il cellulare le verrà comprato quando sarà ritenuta idonea e forte abbastanza da gestirne la socialità e tutti gli annessi e connessi. Mio marito, come me, ha un telefono vecchissimo sul quale tutti, amici e famigliari, non mancano di sfotterci. Ma così come avviene con lo sfottò calcistico, ci si fa una risata e si aspetta il turno di qualcun altro. In casa abbiamo due computer, siamo abbonati ad Internazionale e al Fatto Quotidiano, non credo di essere carente di informazione. Casa mia sanno tutti dove si trova e prima o poi, da vicino o da lontano, vecchi e nuovi amici finiscono per farci un salto, sia per un bicchiere di vino che per una notte arrangiata spartanamente. Preferisco condividere una chiacchierata piuttosto che una foto su Instagram o un commento di pochi caratteri su Facebook.  Anch’io ho il mondo a portata di mano, solo che lo consulto quando decido io.

Spesso i genitori temono che i propri figli si sentano diversi se si discostano dalle scelte della massa, dalle pratiche convenzionali di consumo e azione. Lei dà una risposta eccezionale a questo terrore “Quasi tutti vogliono che il proprio figlio non si senta diverso dagli altri. E se anche lo fosse? I diversi diventano poi musicisti, scrittori, artisti; il resto – quelli che aspirano ad essere uguali agli altri – finisce in ufficio”. Così lei mette in discussione l’intera impalcatura di un sistema che si basa proprio sugli uguali che fanno andare avanti la baracca. Che tipo di società verrebbe fuori se tutti volessero essere autonomi e pensanti?

Cercare l’omologazione sociale e culturale mi ricorda il folle sogno di Hitler, la creazione di una razza identica e suprematista. La differenza è ciò che nutre e stimola pone il dubbio sulle nostre certezze più incrollabili. Se fossimo tutti autonomi e pensanti saremmo una specie più evoluta di quello che siamo ora, ma i poteri occulti faranno sempre di tutto affinché questo non avvenga.

Mette in dubbio che digitalizzazione voglia dire istruzione, educazione e informazione? L’alternativa?

Non lo dico io, ma psicoterapeuti, pedagoghi, addetti ai lavori e studenti. Leggere e studiare su un tablet o su uno smartphone è macchinoso e il livello di concentrazione dura meno. Non dico di no tout court alle nuove tecnologie in classe, ma non sono neanche per la sostituzione del vecchio libro di testo e la carta in generale. Attingere da entrambe le fonti è utile anche se mi fa ridere quando sento alcuni insegnanti o genitori decantare le lodi dello smartphone in classe quando in realtà sono i ragazzi i primi a dire che alla fine lo usano per altre attività, per nulla legate allo studio. La scuola è importante, così come lo è garantire un salario adeguato e costanti corsi di aggiornamento agli insegnanti, ma lo è anche la famiglia e il contesto culturale in cui si cresce. Poi, ovviamente, il valore aggiunto di ognuno farà la differenza. La curiosità personale, la ricerca di una prospettiva più ampia, la voglia di esplorare e relativizzare, aggiungeranno a quello specifico studente un titolo in più che non si può insegnare a scuola.

Lei scrive: “Dovremmo imparare da quella natura che cerca la luce indomita e tenace; cadere e rialzarci, rialzarci e cadere, fino ad appropriarci di quel che ci spetta, trovando l’energia perduta dietro ad ansie e timori altrui”. Qual è la sua relazione con la natura e quale importanza ha nella sua vita?

Vivo in un piccolo centro in Liguria, la natura mi circonda ovunque. Gli olivi e la vigna, gli agrumi e i solchi dei campi, le civette e i gabbiani. Quando sono stanca della valle, corro giù verso il mare. La natura mi ha insegnato che quando la mente corre troppo veloce, è il momento di accucciarsi e guardarsi i piedi. Questa natura non ha scelto me, sono io che l’ho cercata, lasciando tutto alle spalle, rinunciando ancora una volta a quella bambagia in cui avrei potuto crogiolarmi.

Fonte: ilcambiamento.it

 

 

 

Dress for success: donne che aiutano le donne a trovare lavoro

Aiutare le donne a realizzarsi nella vita e nel lavoro. Questo l’obiettivo dell’associazione internazionale Dress for Success che da anni e in molti Paesi del mondo promuove l’indipendenza economica e l’uguaglianza di genere offrendo una rete di supporto, programmi di crescita personale e professionale nonché l’abbigliamento gratuito da indossare durante la prima settimana lavorativa. È una delle sue tante figlie – centocinquanta – sparse per il mondo ed è la prima a nascere in Italia, più precisamente a Roma. Dress for success, che prende il suo nome dall’omonima ONG americana, ha sede negli uffici del MoVI Lazio (Movimento Volontariato Italiano) e ha poco più di sei mesi di vita.

“Sono venuta a conoscenza di Dress for Success grazie ad un’amica che si è trasferita a New York e che ha iniziato a fare volontariato presso l’associazione americana”, racconta Francesca Jones, fondatrice della filiale romana. “Quando ho scoperto che non c’era una realtà simile in Italia, ho deciso di scrivere alla casa madre e di aprire una filiale qui a Roma”.

Un’associazione di donne che aiutano altre donne (in difficoltà) e che ha deciso di ‘vestire’ il loro successo in ambito lavorativo. Come? Supportandole in tutte le fasi della carriera, dalla ricerca del lavoro fino al supporto anche quando il lavoro lo hanno trovato. Passando, però, attraverso un impegno singolare, che mette l’abito per il colloquio al centro di questo sistema: “Abbiamo solo i primi dieci secondi per fare una bella impressione”, ci racconta ancora Francesca “e sì, l’abito fa il monaco”. È per questo che Dress for success regala, alle donne che segue, abito e accessori per presentarsi al colloquio di lavoro, approfondendo questo momento anche per esaltare le capacità della candidata: come presentarsi al meglio? Quale la gestualità migliore, cosa proporre, come presentarsi al futuro datore di lavoro?

Le fasi in cui ogni donna viene seguita sono tre: dal suiting (scelta di abito, accessori, scarpe), al career center (che è il momento della ricerca del lavoro) al professional women group (che è l’ultima fase che segue la donna anche durante il periodo lavorativo). Ma non sono slegate fra loro e ogni passo ha un unico senso: costruire la fiducia delle donne in se stesse. Una fiducia che hanno perso o che forse non hanno mai avuto, così come il lavoro.dress-for-success-roma

La prima assemblea di Dress for success Rome

Le donne che si rivolgono a Dress for success, infatti, possono essere precarie di cinquant’anni che faticano a stare al passo coi tempi della tecnologia e che non riescono a trovare un impiego per via dell’età, ma anche giovani donne, straniere e italiane, che non riescono a trovare lavoro e che cercano una via diversa dal semplice assistenzialismo. “Miriamo a costruire la fiducia in se stesse per intero, grazie ad una rete di supporto. In America utilizzano il concetto di sisterhood e noi questo intendiamo fare: essere una famiglia”.

“Quello che veramente sentiamo è che in questo periodo storico le donne si sentono sole”, spiega Rosalba Saltarelli, vicepresidente di Dress for success Rome. “Non è solo la mancanza di lavoro, la crisi o la perdita di lavoro, ma proprio la solitudine che emerge dalle parole di queste donne che cercano il nostro supporto”. Quello che emerge da Clodiana, giovane donna che ha già iniziato un percorso con l’associazione, è proprio questo: “Quando sei solo è tutto più difficile, non credi più in te stessa, ma qui non mi sento sola. Ora mi sento pronta a tutto”. E dopo una pausa aggiunge: “E appena troverò un lavoro, farò la volontaria, perché sostenere ed essere sostenuti è bellissimo”.dress-for-success

L’associazione è nata a Manhattan nel 1996 dall’idea di una studentessa universitaria, Nancy Lubin che, guardandosi intorno, si è resa conto di un bisogno cruciale: il raggiungimento dell’indipendenza economica da parte delle donne. Così con l’eredità del bisnonno ha aperto il suo primo magazzino di abiti usati ma in ottimo stato (donati da privati e aziende) e li ha messi a disposizione delle donne con meno possibilità economiche e alla ricerca di un nuovo impiego. Mettendosi in contatto con altre associazioni ed enti, Nancy ha quindi dato vita ad un sistema di supporto per fare formazione alle donne interessate, incrementare la fiducia in loro stesse e trovare nuovi sbocchi.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/04/io-faccio-cosi-207-dress-for-success-rome-donne-che-aiutano-donne-lavoro/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Made in Carcere: una rivoluzione solidale nel mondo della moda

 

Luciana delle Donne, ex manager nel settore bancario, ha deciso di cambiare completamente vita e ha creato in Puglia la cooperativa sociale Made in Carcere che offre lavoro in tutta Italia a donne detenute per reati minori. Una seconda vita per le persone e… i tessuti: Made in Carcere realizza infatti i propri gadget, accessori e borse utilizzando materiali di scarto che altrimenti andrebbero perduti.   “Il bello si può costruire in ogni luogo”. Sono queste le parole di Luciana Delle Donne quando spiega la motivazione che l’ha spinta a cambiare vita e a fondare Made in Carcere, un progetto che nelle prigioni di Lecce e Trani insegna alle donne detenute il mestiere tessile, riciclando tessuti provenienti dalle eccedenze delle aziende che sostengono questa iniziativa. Borse, cravatte e braccialetti, ce n’è per tutti i gusti e non resta che scegliere.

L’avventura di Luciana con “Made in Carcere” inizia nel 2008, dopo 20 anni passati a lavorare nel mondo della finanza nel campo dell’innovazione tecnologica. Ad un certo punto si era manifestata in lei l’esigenza sempre più forte di cambiare e dare un taglio netto. Luciana racconta che da quell’esperienza non riceveva più stimoli, i soldi e la possibilità di avere successo erano un film già visto: aveva bisogno di una “sfida impossibile” e l’ha trovata nell’innovazione sociale, nel tentativo di dare una seconda possibilità alle donne ai margini della società.11

“Le persone che hanno commesso un reato non sono il reato – sottolinea Luciana – ed è fondamentale restituire dignità a chi vive in questi luoghi”. E dati alla mano conviene: secondo le statistiche l’80% delle persone che lavorano in carcere non tornano a delinquere perché dietro le sbarre trovano una via per il riscatto e non solo rabbia e repressione. Una seconda vita per le persone dunque, ma anche per i tessuti: con “Made in Carcere” lo scarto diventa una ricchezza e si trasforma in oggetti bellissimi, grazie al lavoro delle donne e delle aziende che le sostengono. Citando Ann Leonard, Luciana ricorda infatti che “consumiamo e generiamo rifiuti come se avessimo tre pianeti a disposizione, invece ne abbiamo uno solo”.8

Quando le chiedono se si è mai pentita della sua scelta Luciana ammette che si guarda ogni giorno allo specchio constatando quanto sia faticoso, ma il suo progetto sta crescendo e non tornerebbe mai indietro. Anzi pensa al futuro e a come ampliare il raggio di azione: presto, una produzione di biscotti senza zucchero nelle carceri minorili.

 

Intervista: Daniel Tarozzi e Paolo Cignini
Realizzazione video: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2017/02/io-faccio-cosi-156-made-in-carcere-rivoluzione-mondo-moda/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni