Da impiegata a contadina: la nuova vita in natura di Elisa, tra alberi e maixei

Un rimorchio per cavalli riadattato a piccolo bar racchiude una storia di cambio vita e di riscoperta di felicità. Oggi vi parliamo di Elisa, che dopo aver lavorato per anni in un ufficio ha deciso di lasciarsi tutto alle spalle e coronare il suo sogno: ora la troverete nella sua oasi di pace, l’azienda agricola Maixei, un punto ristoro lungo il percorso dell’acquedotto storico di Genova.

Genova – Dopo aver gestito per secoli l’approvvigionamento idrico dell’intera città, l’acquedotto storico della val Bisagno oggi è una comoda passeggiata semi-urbana. Chi la percorre non può dimenticare il suono dei passi sulle lastre di pietra che rimbomba sul vuoto delle antiche condotte. Per parecchi chilometri il percorso asseconda a mezza quota il profilo delle colline, restando in buona parte al di sopra dei caseggiati costruiti nelle vicinanze e regalando insospettabili scorci rurali. Si cammina affiancando muretti a secco, i cosiddetti maixei, e fasce di ulivi; e poi si incontrano capre, pecore, galline e tartarughe che fanno emozionare i più piccoli lungo il percorso. Un luogo di storia e natura ancora poco conosciuto da chi non abita in zona che negli ultimi anni sta vivendo un progressivo aumento di interesse. Passeggiando in una domenica di sole, alla ricerca di un luogo dove mia figlia potesse collaudare il suo primo aquilone, ho scoperto l’azienda agricola Maixei. Sono stata attirata dal raglio dell’asino Roby, colui che dà il benvenuto a chiunque si avvicina all’ingresso, e ho passato il pomeriggio in compagnia degli animali dell’azienda agricola. Ecco perché ho voluto parlarvene oggi.

Le mascotte di Maixei

LA STORIA

L’idea di Maixei è nata nel 2020. «Era un momento buio della mia vita – racconta Elisa Pezzoli, la titolare – ed ero giù di morale perché avevo perso da poco entrambi i miei genitori. Conscia del fatto che nei periodi no la natura sa come venire in aiuto, mi sono decisa».

Lei e suo marito trovano in vendita un grande appezzamento di terreno vicino casa, inizialmente pensato come orto familiare, e lo acquistano: «Abbiamo impiegato diversi mesi a pulirlo, era ridotto a una discarica. Abbiamo trovato quintali di spazzatura, bottiglie di vetro e cinque carcasse di motorini. Più ci lavoravamo però più ci legavamo a quella terra. E in pochissimo tempo ci siamo letteralmente innamorati del posto».

Dopo qualche mese la coppia si rende conto che quell’appezzamento di terreno era troppo per la propria famiglia e lì arriva l’illuminazione. Elisa, dopo aver lavorato per diciotto anni nello studio di un commercialista, decide di cambiare vita e installa in una porzione di quel campo un chiosco di prodotti genuini. Che diventa subito un punto di ritrovo in natura.

L’AZIENDA AGRICOLA MAIXEI

«Abbiamo aperto la nostra azienda agricola – affiliata a Coldiretti – che abbiamo chiamato Maixei, il cui nome si ispira ai tanti muretti a secco che abbiamo recuperato qui. Abbiamo creato una società semplice, intestata a me e mio marito, che invece continua a lavorare come avvocato».

Così a fine maggio 2021 un rimorchio per il trasporto cavalli diventa il punto di ristoro dell’Acquedotto storico. «L’abbiamo trasformato in un piccolo bar, con un frigo e un lavandino su misura». E da qui escono taglieri di salumi del territorio, birre biologiche di Sassello, succhi di frutta prodotti da un’azienda agricola savonese, frizzantini al sambuco che arrivano da Vallombrosa, vicino a S. Olcese, così come marmellatine e tante prelibatezze tutte liguri. E ora Elisa vive nel suo sogno: «Ogni mattina alle 6 sono nell’orto, ma non mi pesa perché il contatto con la terra mi piace e mi diverte. E poi ci sono i miei figli di pomeriggio che mi aiutano tanto».

Elisa Pezzoli e suo figlio il giorno dell’inaugurazione di Maixei

L’azienda agricola produce olio, frutta e ortaggi biologici e nell’annessa fattoria ci sono conigli, galline, un asino e delle caprette, che fanno tutti parte del grande branco Maixei e moriranno di vecchiaia. «A parte quando è brutto tempo, sono in tanti che si fermano a fare merenda o aperitivo da noi. Nonostante questi anni duri, le persone che vengono qui sostengono la grande rivalutazione delle cose buone e genuine del territorio che stiamo vivendo in questo momento. E il profondo bisogno di natura che la gente sente».

Ogni mattina alle 6 sono nell’orto, ma non mi pesa perché il contatto con la terra mi piace e mi diverte. E poi ci sono i miei figli di pomeriggio che mi aiutano tanto

I PROGETTI FUTURI

Oltre ad aver restaurato tanti maixei – i muretti a secco del ‘600 crollati perché il terreno era abbandonato da tempo –, Elisa e suo marito hanno anche trovato un vecchio fienile a cui sognano di dare nuova vita: «Potrebbe diventare un laboratorio o una struttura chiusa dove poter lavorare in caso di maltempo. Non è grandissima, ma è su due piani… chissà!». Per ora hanno richiesto un finanziamento alla regione per poter restaurare i muretti rimasti. L’area verde che circonda il chiosco ogni weekend si riempie di bambini, perché Maixei diventa anche sede di laboratori educativi. Sì, perché mentre i genitori si rilassano, i più piccoli si avvicinano agli antichi mestieri di campagna: «Dalla raccolta delle uova nel pollaio alla preparazione dei biscotti, passando per le olive da portare al frantoio. Collabora con noi un’insegnante, maestra Serena, che accompagna i bambini – alcuni dei quali non hanno mai visto dal vivo una gallina – in questa realtà rurale e, per molti, sconosciuta». E si divertono tantissimo. Elisa mi confessa che sono tante le idee che le frullano in testa: non possiamo che augurarle buona fortuna nel portare avanti questo suo piccolo scrigno di autentica genovesità!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/04/maixei-elisa-contadina/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Perché camminare? Ecco l’esperienza di Elisa: da archeologa a guida escursionistica

Perché fa bene camminare? Quali sono i benefici di questa attività per adulti, bambini e adolescenti? Ne parliamo con Elisa Leger, guida escursionistica con un passato da archeologa storica. Oggi collabora con Compagnia dei Cammini, per cui conduce diversi viaggi in Italia e all’estero, sempre a piedi.

Savona – Elisa Leger è la protagonista della storia che vi racconto quest’oggi. Una storia fatta di cambiamenti, viaggi, ma anche molta normalità. La sua professionalità nasce come archeologa, ma dopo aver lavorato diversi anni all’estero rientra in Italia e diventa guida escursionistica. Oggi collabora con Compagnia dei Cammini, per cui conduce diversi viaggi a piedi. Ci ha raccontato la sua storia, ma soprattutto fatto conoscere da vicino chi partecipa a questi viaggi e perché. E il suo racconto inizia così: «Dopo essermi laureata in archeologia preistorica, ho lavorato in giro per l’Europa per diversi anni».

«Ero un’archeologa di grandi scavi, come metanodotti e autostrade, oppure di ricerca in grotta», prosegue. «Mi è servito moltissimo per imparare nozioni sulla natura e saperi antichi, ad esempio, come orientarsi negli spostamenti, le mappe preistoriche, ma anche le abilità manuali, riconoscere e usare le erbe. Quindi partendo dalla storia di noi tutti ho appreso tantissime cose che ora porto con me nella mia vita e in ciò che faccio».

Dopo anni Elisa ha capito che stava crescendo dentro di lei una forte necessità di trovare una base, un luogo dove creare un progetto personale più stazionario: un cane, un orto, quelle cose semplici che viaggiando tanto le mancavano. Decide quindi insieme al suo compagno di ristabilirsi in Italia e di aprire un’azienda agricola sopra a Varazze (SV), dove recupera terreni abbandonati e li converte a produzione di ortaggi, ma anche apicoltura, uliveti.

Qui il primo grande cambiamento: da archeologa ricercatrice e viaggiatrice assume le vesti di contadina e artigiana. Infatti Elisa inizia a lavorare insieme al compagno anche il legno, utilizzando il materiale delle potature, con cui crea ad esempio le prese per pareti di arrampicata.

LA GIOIA DI CAMMINARE

«Non ho sempre camminato, ma ho scoperto man mano che era un qualcosa che mi faceva star bene. La scintilla è scattata alla fine delle superiori, durante un corso di speleologia. Scoprii allora l’amore per il selvatico, per la natura, le escursioni e per questi luoghi così ancora misteriosi e in gran parte inesplorati». Da lì Elisa inizia ad andare spesso in montagna a camminare quando le è possibile, sia per brevi uscite che per periodi più lunghi in tenda.

«Ho amato tantissimo poter viaggiare a piedi, con lo zaino in spalla e la tenda pronta per essere sistemata dove volevo quando volevo. Mi faceva sentire molto libera. Avevo vissuto molte difficoltà famigliari e a posteriori ho capito che quei momenti solo miei erano stati curativi, mi avevano permesso di trovare le risorse dentro di me per affrontare ciò che mi stava accadendo intorno». E così anni dopo, con questa consapevolezza acquisita decide di intraprendere il percorso per diventare guida escursionista ambientale.

L’IMPATTO TERAPEUTICO

Elisa mi racconta che ha compreso con il passare del tempo, partendo proprio dalla sua esperienza, che il camminare ha un forte valore terapeutico, soprattutto se fatto per più giorni: «È un’attività che può essere fatta da chiunque, perché esistono percorsi con difficoltà differenti. Credo fortemente che il camminare permetta di allontanarsi dalla nostra identità, dai ruoli che ogni giorno siamo tenuti a ricoprire in casa, dal lavoro, dalla società

Elisa vive il cammino come uno strumento per uscire da sé stessa, per poter entrare in contatto con il suo “io” più profondo. Mi spiega infatti che quando si cammina, non esistono passato e futuro. Si vive un presente pieno, talmente denso e reale dare accesso a uno stato di consapevolezza maggiore. E se è vero che al proprio rientro a casa si ritorna a indossare i ruoli che si erano lasciati nel preparare le valigie, lo si farà comunque con una lucidità maggiore, con una distanza acquisita che è difficile da ignorare.

LA DIFFICOLTÀ A DISCONNETTERSI

Quando chiedo a Elisa chi partecipa alle escursioni da lei guidate, la risposta non tarda ad arrivare: «I partecipanti sono molto diversi tra loro e lo fanno per motivi molto differenti. In alcuni casi hanno già avuto esperienze simili, ne hanno trovato benefici e continuano a farlo. Per altri è una ricerca che li muove: ci sono infatti spesso persone che percepiscono un malessere, un disagio, e stanno trovando la loro via per uscirne e stare meglio».

Qualunque sia il motivo che li porta sulla strada, «io chiedo sempre a inizio cammino di tenere staccato il telefono, per poter vivere a pieno l’esperienza: tanti accettano con serenità, ma altrettanti fanno davvero tanta fatica a disconnettersi dal mondo virtuale e social. Vorrebbero, ma in alcuni casi ne sono proprio dipendenti. E nella maggior parte dei casi sono persone sopra i trent’anni e non adolescenti, come spesso siamo portati a credere. Ma quando riescono a farlo, si permettono davvero di vivere fino in fondo quell’esperienza».

DIVERSE ETÀ, VISSUTI SIMILI

Elisa opera come guida escursionistica ambientale per la Compagnia dei Cammini e, su richiesta, organizza gite ed escursioni, didattiche e non. Lavora a contatto dunque per periodi più o meno lunghi con persone delle più differenti età: alle escursioni giornaliere partecipano spesso anche bambini piccoli, mentre nelle escursioni di più giorni sono principalmente persone adulte a iscriversi.

Ma vi è un’esperienza che l’ha lasciata piacevolmente più colpita di altre: «Qualche mese fa mi sono trovata a condurre un’esperienza in libertà di più giorni con ragazzi e ragazze tra i 12 e i 15 anni. Prima di partire ero preoccupata: avevo un’idea pessima di quella fascia di età, forse legata ai miei ricordi dell’adolescenza. Durante quei giorni trascorsi insieme a camminare e dormire in tenda, ho potuto avere il privilegio di vedere da vicino i complessi contrasti che hanno dentro».

«Emergeva da un lato la parte che si sente ancora bambina, che ha voglia di giocare e ha necessità di figure di riferimento, e dall’altro lato vedevo futuri uomini e donne che stavano cercando la loro via per diventarlo», racconta Elisa. Inoltre rispetto ai camminatori dipendenti da telefoni, i ragazzi e le ragazze di questa età non avevano problemi a spegnerlo, andando ad abbattere un altro luogo comune diffuso.

Tra le altre convinzioni, spostandosi di un decennio indietro di età, c’è quella che per i bambini sotto l’età scolare sarebbe meglio non fargli vivere esperienze in natura troppo lunghe per evitarne i possibili pericoli e paure. Elisa ci tiene a sfatare anche questo falso mito, condividendo proprio la sua esperienza: «Ho un bambino di cinque anni e quando posso lo porto con me in viaggi a piedi con la tenda».

Lui si diverte tantissimo ed è molto attento a seguire le indicazioni di sua mamma: «Ogni volta che torna a casa, noto come per giorni sia molto più sereno e faccia molti meno capricci. Inoltre sta imparando sempre più a gestire la fatica ed è molto bello stargli accanto in ogni sua piccola conquista».

Elisa è convinta che camminare sia rigenerante e salutare per tutti: fa parte di noi e percorrendo sentieri fisici si ha la possibilità di trovare anche vie smarrite interne. Parola di un’archeologa camminatrice.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/camminare-guida-escursionistica/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

La contadina Paola Granata, nel cuore della Sila per mantenere e innovare

La storia di una donna che da anni cerca di fare rete, impresa e innovazione in un territorio storicamente ostico, anche se dalle grandi potenzialità. È quella di Paola Granata, la cui azienda si trova sull’altopiano della Sila cosentina e coltiva in modo etico e rispettoso della terra, seguendo due direzioni: l’innovazione e la multifunzionalità.

CosenzaCalabria – Quella di Paola Granata è una storia legata alla terra, alla Calabria e alle donne. Paola Granata è proprietaria, assieme al fratello e la nipote, dell’azienda agricola di famiglia, che si trova a Spezzano Sila – sui monti della Sila cosentina a 1200 metri – ed è impegnata in prima linea come donna che lavora nel mondo dell’agricoltura e che si impegna assieme ad altre donne. Gestisce l’azienda dal 2003, anche se ha sempre avuto una vita legata alla campagna: «Quando eravamo piccoli venivamo qui alcuni mesi l’anno. Era un posto difficile, isolato, ma lo ricordo in modo positivo: eravamo liberi, andavamo in giro, giocavamo con la natura, guardavamo le stelle».

Adesso l’azienda è la vita quotidiana di Paola e di suo fratello, anche se non è rimasta la stessa di tanti anni fa: «Qui cerchiamo di fare innovazione e multifunzionalità», spiega Paola raccontando come solitamente quei terreni siano sempre stati dedicati alla patata, coltura tipica della Sila. Ma ora «abbiamo voluto diversificar, convinti che le colture di tradizione, quali ad esempio i grani e cereali comuni, non siano più sostenibili ed economicamente vantaggiosi».

Si è deciso allora di impiantare una vigna d’alta quota a bacca bianca: «A distanza di molti anni, lavorando con costanza e convinzione, stiamo raggiungendo ottimi risultati. Ci occupiamo anche della coltivazione di grani antichi e cereali minori, puntando sulla loro trasformazione; produciamo farine di vario tipo poco raffinate avendo cura di macinarle in un mulino a pietra. Abbiamo creato un nostro marchio e ci occupiamo anche di distribuirla in negozi specializzati e attraverso la vendita online».

Cambiamenti talmente inusuali in questo territorio che all’inizio Paola Granata e suo fratello erano guardati con diffidenza e con sospetto da chi ha sempre lavorato in modo standard la terra di quelle zone, mentre ora c’è interesse da parte di chi vuole provare a sperimentare: «Io penso che stimolare l’innovazione in un territorio fa sempre bene: so che grazie al nostro esempio molti si stanno avvicinando anche a queste colture».

In azienda si lavorano i cereali, piantando soprattutto quelli meno coltivati come la segale, il verna e altri, utilizzando semi antichi, alternandoli con colture rispettose dell’ambiente e puntando sempre più al mantenimento della biodiversità. Paola ha infatti aderito al regime del biologico e punta alla certificazione dei propri prodotti. In questo modo, riesce a rendere l’azienda multifunzionale e allo stesso tempo a portare innovazione su un territorio più ampio, contaminando grazie all’esempio. L’innovazione va intesa anche in senso più ampio dello stretto ambito agricolo: «Abbiamo impiantato diversi ettari di alberi da legno pregiato per diversificare e arricchire le essenze già presenti nel nostro piccolo bosco, con ciliegi e frassino, alternati a querciole e cerro».

Tutto questo lavoro è collegato al suo impegno all’interno di Confagricoltura e in particolare di Confagricoltura Donna Calabria, di cui per tanti anni ha fatto parte, lavorando con un team di donne e facendo rete fra le aziende. Oggi Paola Granata è presidente di Confagricoltura Cosenza e ricorda che la sua esperienza con le donne «è stata appassionante e piena di fervore: ho trovato un modo di relazionarmi diverso rispetto alla stessa Confagricoltura, nella quale le donne sono ancora poco presenti».

A tutto questo si aggiungono le difficoltà dell’essere donne, con a carico la gestione della vita domestica e familiare: «Le donne solitamente hanno meno tempo degli uomini, avendo anche la famiglia di cui occuparsi: questo influisce sulle loro possibilità di dedicarsi all’azienda. Se contiamo che poi qui le difficoltà sono numerose, il tempo diminuisce drasticamente».

Non è tutto rose e fiori in Calabria. Paola lo ammette – «bisogna essere un po’ folli per essere agricoltori e con una visione positiva», dice – e non nega le difficoltà: la burocrazia che rallenta e ostacola la vita degli agricoltori, le infrastrutture che mancano e che rendono più lente la distribuzione e le vendite, le normative che dovrebbero sostenere questo tipo di lavoro, la perenne lotta per il ribasso dei prezzi delle produzioni . Per questo emerge ancora più forte la necessità di fare rete: «È fondamentale fare rete sui territori mettendo insieme le aziende: un piccolo passo già abbiamo iniziato a farlo, ma bisogna continuare», spiega dicendo che è uno dei suoi obiettivi come presidente della Confagricoltura provinciale. Per quanto riguarda l’azienda in sé, sicuramente c’è l’intenzione di «farla crescere, continuando nella ricerca e realizzazione di produzioni di pregio, magari allargando lo sguardo verso l’accoglienza, il territorio, la riconsiderazione della montagna

La direzione dei prossimi passi è molto chiara. Così come quella più ampia dell’Italia che cambia: «Per me Italia che cambia significa farsi carico in modo responsabile ed etico delle problematiche agricole, semplicemente perché l’agricoltura è dare da mangiare al mondo».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/11/paola-granata-contadina/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

“Sognavo di fare la contadina e miei amici mi prendevano in giro!”

La modernità ha sempre relegato in fondo alla scala sociale i contadini e chi appartiene al mondo rurale. Eppure da piccola il sogno di Manuela era proprio quello di vivere in campagna e coltivare la terra. In questa intervista ci racconta la sua storia e ci fa capire perché è così importante sostenere i piccoli agricoltori.

Quando entro nel grande capannone dove ogni giovedì si tiene il mercato di Campi Aperti, riconosco subito il banchetto di Manuela: alcuni tavoli uniti insieme su cui sono esposte pagnotte, torte salate, teglie di lasagne, panini imbottiti e tante altre prelibatezze che rispecchiano perfettamente l’aspetto e il modo di fare della persona che sta dietro al banco: rude e genuino, come tutto ciò che arriva dalla campagna più vera.manuela1

Immagine tratta dal documentario “La Pecora Nera (The Black Sheep)”

Delegata per qualche minuto la gestione delle vendite, ci sediamo su un divanetto e cominciamo a chiacchierare a ruota libera. «Il mio sogno è sempre stato quello di fare la contadina. Gli amici mi prendevano in giro perché ai miei tempi chi lavorava nei campi era in fondo alla scala sociale, ma io ero cresciuta in campagna, insieme a mia zia, e il clima di unione e solidarietà che si respirava nella sua famiglia mi aveva conquistata».

La carriera di Manuela inizia circa trent’anni fa nella Farnia, una delle prime aziende in cui si affrontava un tema come la biodinamica, «che oggi – sottolinea lei – è diventata quasi una moda. Volevo fare la cuoca, non avevo esperienza ma sentivo che cucinando potevo liberare la mia creatività, esprimermi senza essere schiava di strutture mentali».

L’avventura in Farnia dura diversi anni, durante i quali Manuela si avvicina ad altre discipline come l’antroposofia. Ma anche questo ambiente le va stretto e talvolta le da l’impressione di essere troppo chiuso. Nel 2000 finalmente si concretizza il suo sogno e, insieme al marito, acquista un terreno nella montagna reggiana e comincia la sua vita da contadina: «Siamo partiti con un piccolo appezzamento perché non volevo avere un impatto forte sul luogo che ci ospitava, ma costruire mattone dopo mattone la mia attività».manuela4

Attualmente, il suo terreno è di circa 9 ettari e ospita cinque fabbricati, che piano piano i due coniugi stanno ristrutturando. «La gradualità ci aiuta a capire cosa è meglio per noi e per questo luogo». La casa dove vivono è stata restaurata con l’aiuto dell’architetto Federico Venturi, giunto in modo del tutto inaspettato: «Un giorno Federico stava passeggiando nella nostra zona in cerca di notizie sulla sua famiglia – originaria di qui –, ha visto la casa e ci ha chiesto se poteva darci una mano nei lavori. Ha iniziato a vivere con noi e a partecipare alle nostre attività: voleva capire esattamente quali fossero le nostre esigenze per progettare una casa su misura, realizzata con passione e con le risorse del posto. Il risultato è stupendo e in perfetta armonia con il nostro stile di vita e con l’ambiente che ci accoglie».

Nel corso dell’anno, Manuela ospita tante persone che vivono e lavorano con lei per sperimentare la vita rurale. «Moltissimi arrivano qui in cerca di una soluzione alla crisi di valori e personale che stanno attraversando. Io sono contenta perché da un lato li aiuto a trovare una strada, che può essere quella che porta alla campagna, dall’altro, li coinvolgo in uno scambio di saperi ed esperienze che arricchisce sia me che loro». Ma con molta schiettezza, aggiunge che la fa piacere anche perché «in campagna c’è sempre bisogno di braccia: noi siamo in due e da soli non ce la faremmo!»manuela3-1030x555

Immagine tratta dal documentario “La Pecora Nera (The Black Sheep)”

 

Gli ospiti di Manuela spesso si stupiscono per il silenzio assoluto che regna nei boschi dove lei abita: «Alcuni dopo pochi giorni scappano a gambe levate, altri invece non ce la fanno a tornare in città, dove il rumore accompagna ogni istante della vita». Ma ciò che accomuna ciascun frequentatore della sua fattoria è l’amore per la Terra e la ricerca di un’alternativa a una vita alienante, trascorsa a lavorare ogni giorno facendo qualcosa che non gli piace. L’atmosfera che Manuela riesce a dipingere è meravigliosa, autentica e genuina. Ma il progetto può funzionare anche economicamente? Glielo chiedo e mi risponde così: «Noi piccoli contadini siamo sempre in bilico. Certo, potrei aumentare la produzione, acquistare animali e altri pezzi di terra e guadagnare di più. Ma così rischierei di alterare tutte quelle dinamiche non solo biologiche ma anche sociali e relazionali che rendono la mia attività davvero sostenibile. Attualmente seguo tutta la filiera dei miei prodotti, dalla semina alla raccolta, dalla lavorazione alla vendita. Se mi ingrandissi non so se ci riuscirei ancora».manuela2-1030x563

Immagine tratta dal documentario “La Pecora Nera (The Black Sheep)”

 

La verità è che bisogna cambiare il modello economico e tutelare di più i piccoli produttori. «Se si vuole supportare i contadini si deve fare consumo critico e comprare direttamente da loro. I supermercati e le linee biologiche della grande distribuzione sono una condanna per noi, oltre a essere completamente privi del legame con la Terra».

Ma Manuela è consapevole di una cosa: i sogni devono avere i piedi per terra. Per questo ha acquistato una porzione di terreno su cui scorre un torrente e vorrebbe installare delle turbine idroelettriche per produrre elettricità e supportare economicamente l’attività agricola. «Questo ci consentirebbe di non avere affanni e di dedicarci con più serenità alla cura della Terra. In fondo, ci consideriamo solo custodi di questi luoghi e il nostro compito è difenderli e tutelarne la bellezza».

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2016/11/sognavo-di-fare-la-contadina/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=general

Presentata alla Camera la Campagna popolare per l’agricoltura contadina

La campagna popolare per l’agricoltura contadina è stata presentata ai Gruppi Parlamentari a partire dalle Linee guida per una legge quadro sulle agricolture contadine. L’obiettivo è quello di avviare un lavoro congiunto che porti all’approvazione di una legge di riferimento ed a norme collegate in materia.12

Giovedì scorso, presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati, è stata presentata – dalle 11,30 alle 13,30 – la Campagna popolare per l’agricoltura contadina. Il fine era presentare ai Gruppi Parlamentari le Linee guida per una legge quadro sulle agricolture contadine, per far sì che si avviasse un lavoro congiunto che portasse all’approvazione di una legge di riferimento ed a norme collegate in materia. “Il percorso di questa Campagna popolare per l’agricoltura contadina”, spiegano gli organizzatori ripercorrendo i vari passaggi, “nasce nel 2009 in forma di petizione con l’intento di lavorare per il riconoscimento istituzionale delle agricolture contadine. Sono state così iniziate azioni di sensibilizzazione verso i referenti istituzionali e sociali. Nel marzo 2010 era stato avviato un primo confronto con il Ministero per le Politiche Agricole, interrotto in seguito ai successivi cambiamenti e non ancora ripreso. Nel novembre 2010 questo nostro primo lavoro è stato presentato in Commissione agricoltura della Camera, dove sono state raccolte indicazioni in merito. Dal 2011 è stato sviluppato un lavoro su quei temi la cui applicazione normativa finale è di competenza regionale”. Centrale la sovranità alimentare dei popoli, il diritto alla produzione, il controllo e la gestione del proprio cibo da parte dei contadini e dei cittadini. Il tutto “ripreso in chiave contemporanea per identificare pratiche agronomiche e strutture economiche ancora oggi presenti e preziosa risorsa per il futuro. Riteniamo che i modelli contadini siano strutturalmente più adeguati per fermare il continuo spopolamento agricolo delle aree interne, riportandovi lavoro ed occupazione, riutilizzando le risorse territoriali e riducendo di conseguenza i costi ambientali (assetto idrogeologico, manutenzione dei suoli, tutela della biodiversità) e ricostruendo paesaggi sociali rurali. Nelle aree ad agricoltura intensiva, possono essere invece alternativa concreta di riconversione e di ricostruzione di agrobiodiversità”. La politica agricola italiana attuale, viene vista dai promotori unicamente con la funzione di “sostenere un modello agroindustriale di agricoltura specializzata e sempre più capitalizzata nell’ambito della competitività del mercato globale. Questo porta ad intervenire in termini di comparti produttivi con un corpus normativo dimensionato a questi fini. Orientando in modo sostanzialmente unidirezionale la distribuzione delle risorse della Pac”. Il programma della mattinata è stato suddiviso in due parti: Introduzione e presentazione dei contenuti delle Linee Guida a cura di esponenti della Campagna popolare; Interventi a sostegno. Numerosa la platea degli invitati: Nicolino di Giano, Gruppo lavoro Nuova agricoltura – Rete Economia Solidale Italia; Andrea Ferrante, Comitato di coordinamento Via Campesina Europa; Vandana Shiva, Navdanya International. Molti interventi ci sono stati anche da parte dei parlamentari coinvolti sull’argomento. Tra questi: Leana Pignedoli, Vice Presidente Commissione Agricoltura Senato; Adriano Zaccagnini, Vice Presidente Commissione Agricoltura Camera; Susanna Cenni, Commissione Agricoltura Camera; Paolo Parentela, Commissione Agricoltura Camera; Mino Taricco, Commissione Agricoltura Camera.

Fonte: il cambiamento

Ritornare all’agricoltura contadina, intervista a Massimo Angelini

L’industria alimentare ha ormai soppiantato la piccola agricoltura di sussistenza, schiacciata dal peso di un sistema economico e legislativo non più a misura d’uomo. Massimo Angelini, autore del libro “Minima Ruralia”, analizza il problema e propone le soluzioni.agricoltura9__3

“Se vuoi cercare le verdure, la frutta e i grani di una volta […], lascia da parte internet, dimentica il telefono, non ti curare di cosa se ne dice o se ne legge. Se li vuoi cercare, bisogna che ti muovi a piedi, paese per paese, cascina per cascina; e non ti scoraggiare quando ti dicono che sono scomparsi: qualche volta sono solo ‘invisibili’ allo sguardo e alla memoria. Ci vuole pazienza, gusto per l’ascolto e rispetto perché chi è anziano, se ancora li conserva, accetti di mostrarteli o di mostrarne la semenza”. È questo il consiglio con cui Massimo Angelini – autore, docente, studioso e “coltivatore d’idee nell’orto”, come si definisce lui stesso – accoglie i lettori nelle prime pagine di “Minima Ruralia”(Pentagora Edizioni, aprile 2013), una guida alla riscoperta delle tradizioni contadine italiane e, in particolare, della Liguria, terra natia dell’autore. Scopo del viaggio, recuperare quell’antico legame fra uomo e natura, quella dimensione oggi cancellata dall’industria del cibo, che frappone macchine e sostanze chimiche fra il contadino e il suo campo, ponendosi in una logica di mero sfruttamento delle risorse offerte dalla terra.

Da sempre l’agricoltura è un punto d’incontro fra natura e cultura, fra i cicli biologici spontanei e l’intervento migliorativo umano. È possibile individuare il ‘punto di rottura’ che ha portato dall’attività contadina tradizionale all’agroindustria?

Non so se si possa individuare un preciso punto di rottura, ma osservo che questa rottura è avvenuta e ora pare insanabile. Quello che oggi appare evidente è che l’agricoltura contadina e quella industriale non sono aspetti differenti di una medesima attività, distinguibili su parametri quantitativi – minore o maggiore estensione, produzione, marcato e capitale – ma attività del tutto differenti e, per ciò che riguarda gli effetti sociali ed ecologici, opposte. L’agricoltura contadina mira a conservare la fertilità della terra, la quantità di acqua disponibile, la diversità di colture e, all’interno di ciascuna coltura, di varietà, laddove, invece, l’agricoltura industriale agisce come un’attività estrattiva, mineraria: erode la fertilità, consuma le risorse di acqua, riduce la diversità in termini di colture e varietà. E potremmo ribaltare questa contrapposizione su molti altri piani: sociale e culturale, prima di tutto. Forse un fattore di rottura, non l’unico, può essere riconosciuto nel diverso modo di porsi dell’uomo di fronte alla natura e alla storia: prima organico, simbolico; oggi frammentario e astratto, con l’uomo separato dal cielo come dalla terra e autocentrato sul proprio sé in un vortice di scissione e isolamento. In questo caso, se questa ipotesi meritasse un approfondimento, dovremmo ricercare la rottura nelle radici della modernità, tra XII e XIII secolo.minima_ruralia

Può citare alcuni interventi pratici riguardanti la sfera normativa – regolamenti da abolire, leggi di tutela da attuare ecc. – che andrebbero effettuati in maniera urgente per salvaguardare il mondo rurale e coloro che vi appartengono?

Il primo passo è riconoscere che esiste un’agricoltura contadina, non riducibile a quella imprenditoriale e, ancora di più, industriale. Non dimentichiamo che la parola “contadino” esiste per il lessico corrente, non per quello giuridico dove non compare in alcun provvedimento. Il secondo passo è lasciare che chi lavora per il prevalente obiettivo dell’autosussistenza e della vendita diretta e senza intermediari dell’eccedenza possa farlo senza vessazioni burocratiche e amministrative. Oggi spesso i contadini sono costretti a produrre più carta che alimenti, pagano controlli del tutto astratti per rischi del tutto ipotetici. Raccontava il dott. Ferigo, responsabile di una ASL del Friuli, che non si conosce un solo caso di avvelenamento da marmellate domestiche avariateù; per questa e altre cento ragioni aveva scritto un libro-denuncia intitolato “Il certificato come sevizia”.

Oltre alla qualifica di IAP, esiste anche quella di coltivatore diretto, più vicina all’idea di contadino ma pur sempre gravata da un’eccessiva burocrazia. Ritiene che possa essere una buona base per semplificare la legge o va ripensato tutto il quadro normativo?

Bisogna integrare il quadro normativo col riconoscimento di regole e spazi di libertà per chi esercita un’agricoltura familiare, di piccola scala economica, fondata più sul lavoro che sul denaro, dove si coltiva la terra e non i contributi, fondata sul lavoro personale di sé e della propria famiglia dove non si è dipendenti e non si hanno dipendenti, sulla prevalente autosussistenza e sulla trasformazione e vendita diretta senza intermediari. Per chi fa questo, per chi non svolge un’attività industriale, servono norme, tutele e sgravi specifici. Non servono soldi, serve che chi ha voglia di lavorare e coltivare la propria vita senza speculare sul denaro, sul lavoro degli altri e sul cibo possa farlo in pace._agricoltura9__

Pensa che possa esistere un equilibrio fra la mercificazione (e quindi banalizzazione) del ‘locale’ e la giusta diffusione di questo concetto a livello culturale e pratico?

Nel mercato di prossimità, dove può esistere un controllo diretto e la rete delle informazioni confidenziali (il “pettegolezzo”!) funziona, “locale” vuole dire qualcosa. È nel mercato generale, nelle economie di scala e nella grande distribuzione che perde significato ed è solo uno slogan pubblicitario, frusto e ingannevole.

Allo stesso modo, è possibile concepire un quadro normativo che non strangoli i contadini con cavilli burocratici ma che anche riesca a tutelarli dalla concorrenza dell’industria alimentare di bassa fascia?

Sì, è possibile. Ma quale governo ha l’autorità morale per uscire dalla sudditanza di norme sull’agricoltura scritte a Bruxelles, in buona sostanza, dai quattro paesi (Francia, Germania, Paesi Bassi e Danimarca) che dettano le politiche agricole e dove l’agricoltura è pressoché solo di livello e qualità industriale?

Leggendo le sue considerazioni mi è parso di cogliere la necessità, da parte della nostra società, di sgravarsi di un’imponente mole di convenzioni, norme e consuetudini – non solo scritte ma anche astratte, di ordine sociale – e ‘decrescere’ anche nel modo in cui ci approcciamo alla vita quotidiana, recuperando genuinità e semplicità. È d’accordo?

Torno all’ultima parte della prima risposta e osservo che la conversione del nostro sistema economico e sociale può solo essere la conseguenza di una profonda conversione interiore, nella quale ci si riaccorda con la terra, con il cielo, con le generazioni che ci hanno preceduto e quelle che sono per venire. Fuori da questa conversione profonda e dolorosa come una rinascita, fuori dalla riconciliazione con noi stessi, tre passi più in là del silenzio, c’è solo spazio per agire comportamenti di moda, per il nuovo perbenismo di chi ha capito qual è ‘la cosa giusta’ e se ne fa un vanto da ostentare, un nuovo tic compulsivo di chi, per estrazione sociale o culturale, non può fare a meno di sentirsi protagonista nel teatro del mondo. Genuinità e semplicità non sono abiti buoni da indossare per una nuova austerità.

Il suo libro è giustamente incentrato sulla realtà rurale della Liguria. Conosce lavori simili che parlano di altre zone d’Italia? Ritiene possibile e utile, qualora non ce ne siano, provare a realizzarli?

Tolti pochi capitoli dove è il richiamo al caso di una varietà locale recuperata in Liguria e alcuni dove si fa menzione del lunario agricolo ligure, il Bugiardino, per il resto credo che la maggior parte delle considerazioni non siano circoscrivibili a un’area particolare. Lo stesso caso della varietà locale che ho citato è presentato nel libro come un esempio riproducibile, declinato con i dovuti adeguamenti locali, su altre regioni. Oggi si conoscono ottime pubblicazioni dove si riflette sul mondo contadino e sull’agricoltura locale, sempre utili benché spesso orientate a un approccio puramente sociologico o socio-economico.

In diversi passaggi si percepisce da parte sua un netto rifiuto delle derive quasi ideologiche di localismo e biologico. A cosa è dovuta questa posizione? Ritiene che sia comunque importante il ricorso a metodi naturali?

Negli ultimi quindici anni l’attenzione verso l’agricoltura e, in particolare, verso il mondo contadino qualche volta è degenerata in una visione astratta da arte di chi, orfano delle ideologie fiorite e sfiorite negli anni precedenti, sulla terra ha visto un nuovo ‘fronte’ di antagonismo o uno spazio di libertà refrattario alle istituzioni o un luogo privilegiato dove riconnettere i legami con la vita recisi nel tempo della virtualità. Sono espressioni di un’ideologia sostanzialmente urbana portata avanti da chi non conosce la terra e spesso non ha l’umiltà e la pazienza di avvicinarcisi sottovoce, per imparare. In questi trent’anni ho conosciuto un numero rilevante di persone che volevano ‘tornare’ sulla terra portando i nuovi credi di un’agricoltura di volta in volta naturale, sinergica, olistica, permanente senza neppure avere ancora sperimentato un orto. Non c’è niente di male, sono espressioni di fragilità e buona volontà, sono esperimenti con la vita e con se stessi. Ma questi atteggiamenti diventano sgradevoli forme di superbia quando chi non conosce l’agricoltura se non sui libri e attraverso le proprie buone intenzioni pretende di catechizzare – come tante volte ho visto – chi l’esercita per viverci, spiegandogli che per essere un ‘vero’ contadino deve anche essere biologico, consapevole, solidale, magari vegetariano…

Fonte: il cambiamento