Piantare una food forest per seminare il futuro di una comunità

Katia e Roberto vivono tra le colline reggiane e sognano di realizzare una food forest, uno spazio aperto alla comunità di cui potersi prendere cura tutti insieme. Non si tratta di un semplice progetto di rimboschimento, ma di un percorso verso l’autoproduzione nel rispetto del legame profondo che ci unisce alla natura.

Reggio EmiliaEmilia-Romagna – Come si crea una food forest? Di quali cure e manutenzione ha bisogno? La food forest – ovvero foresta commestibile – è un vero e proprio ecosistema di piante, animali, microrganismi ed esseri umani. A differenza di un orto o un campo coltivato, non richiede cure costanti o di essere seminata ogni anno. È un sistema complesso in grado di autoregolarsi, esattamente come accade per boschi e foreste, e di offrire gli stessi servizi ecosistemici oltre a un’ampia varietà di erbe officinali, piante e frutti commestibili. Alle porte di Reggio Emilia, tra le morbide pendici delle colline reggiane, Katia e Roberto sognano di piantare una grande food forest insieme ad amici, familiari e chiunque desideri dare il proprio aiuto. Dopo una vita trascorsa in città si sono trasferiti a Montalto (Vezzano sul Crostolo) per coltivare il sogno di una vita semplice, che assecondi i ritmi della campagna. Psicologa lei, professore di filosofia e counselor lui, poco più di un anno fa hanno creato l’associazione culturale “Il Passo Oltre lo Specchio”, che si occupa di ambiente, crescita personale e arte, partendo da un approccio olistico.

Su una parte del terreno alle spalle della loro abitazione hanno avviato un progetto di rimboschimento, in collaborazione con “Città di Smeraldo APS” e “Simbiosi Magazine”: «Abbiamo già messo a dimora cinquecento piante autoctone, partendo da ghiande di alberi secolari – mi raccontano – nell’ambito di “Nuove Antiche Foreste”, iniziativa che mira a ricreare aree di bosco per favorire la biodiversità e contrastare il cambiamento climatico».

Punteggiate di case sparse, sentieri e borghi abbandonati, queste colline ospitano alcuni dei più antichi boschi autoctoni di pino silvestre dell’Emilia Romagna. Qui la qualità dell’aria ha sorprendenti proprietà balsamiche, come attestato dagli ultimi rilevamenti del CNR. A lungo rimaste spopolate, le frazioni di queste pendici sono tornate a essere meta ambita per chiunque desideri una vita più semplice e lenta. Ma per ricucire questa comunità frammentata e dare nutrimento a un territorio a lungo sfruttato dalle colture intensive, occorre tempo. Per Katia e Roberto quello della food forest è un progetto ambizioso e una piccola eredità da consegnare alla comunità di oggi e a quella che verrà: «Ci piacerebbe realizzarla nel terreno alle spalle di casa nostra, ma vorremmo che sia di tutti», mi raccontano. «Uno spazio in cui i bambini possano venire a giocare, esplorare e apprendere. In cui ritrovare sé stessi, meditando, passeggiando o semplicemente sedendo sotto un albero a leggere».

Da settembre scorso, grazie a una campagna di crowdfundingKatia e Roberto hanno avviato un corso su come progettare e piantare una food forest grazie all’aiuto di Stefano Soldati, esperto di agricoltura alternativa, fondatore e primo presidente dell’Accademia Italiana di Permacultura. Fra i massimi conoscitore di foreste commestibili in Italia, Soldati lavora da circa quarant’anni come consulente per il recupero di terreni, contribuendo alla conversione al biologico di ettari ed ettari di seminativi.

«Quando si progetta una food forest (a questo è stato dedicato il primo modulo del corso, ndr), non si tratta soltanto di scegliere quali piante mettere a dimora. È importante cogliere la saggezza dell’ecosistema – racconta Roberto –, ogni albero ha i suoi tempi e le sue risorse: ci sono quelli da frutto e poi ve ne sono altri, come la robinia, ottima per la legna, perché cresce in fretta ed è in grado di nutrire il terreno, in quanto azotofissatore». All’inizio una food forest ha bisogno di cure, i giovani alberi vanno protetti perché facile preda di animali e parassiti. Con il tempo, la foresta commestibile sarà autonomamente in grado di tenere lontani i parassiti, grazie a piante apposite, fornire nutrimento per la comunità e per gli altri animali. I partecipanti del corso, guidati da Stefano Soldati e da un po’ di fantasia e intuito, si sono cimentati nella progettazione di una possibile food forest. Questa si presenta come un sistema stratificato: si va dalle piante grandi, ovvero la struttura portante della foresta, alle intermedie, dalle cespugliose fino alle specie tappezzanti e le radici. Tra le varietà si possono contare le lianose o rampicanti e quelle acquatiche. Realizzare una piccola riserva d’acqua in una food forest consente di ricreare un piccolo microclima dove verranno attratti insetti in grado di allontanare quelli dannosi, anfibi e animali selvatici, che potranno abbeverarsi. A fine novembre si è tenuta l’ultima parte del corso e sono state messe a dimora le prime piante. Katia e Roberto vorrebbero organizzare diverse attività all’interno della food forest: incontri di meditazione, mindfulness, attività con i bambini, performance artistiche. Sarà uno spazio aperto, non vi saranno confini o recinti. Tutti potranno venire a raccogliere o semplicemente trascorrervi del tempo. «In Emilia Romagna nessuno è più in grado di riconoscere le erbe spontanee. È un’abitudine che si è persa da generazione», racconta Katia. La food forest infatti nasce anche per riportare in vita tradizioni scomparse con il graduale abbandono di queste colline. Certo, ci vorrà del tempo, ma per dirla con Riccardo Ferrari, chi pianta gli alberi vive due volte, o forse molte di più.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/food-forest-colline-reggiane/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Permacultura, rigenerazione e una food forest: la nuova vita di Chris e Mario in Calabria

Due giovani, uno svizzero e uno spagnolo, hanno unito i loro cammini in un percorso comune che li ha portati a Badolato, in Calabria. Qui hanno lanciato un progetto in permacultura che punta alla rigenerazione del suolo e alla creazione di un modello incentrato sulla condivisione, sulla sostenibilità e sull’autosufficienza.

CatanzaroCalabria – È difficile riassumere in poche righe la ricchezza trasmessa da Chris e Mario, due giovani europei interessati alla permacultura che hanno deciso di cambiare vita e portare avanti il loro progetto di rigenerazione del suolo a Badolato, un paesino di circa 3000 abitanti sulle pendici della costa ionica in Calabria. «Non abbiamo ancora molto da far vedere, il nostro progetto è soltanto all’inizio», mi avevano detto prima che li incontrassi. Eppure non mi ero lasciata fermare da queste parole. Già tante volte mi ero chiesta come mai uno svizzero (Chris) e uno spagnolo (Mario) dovrebbero decidere di venire a vivere qui in Calabria, in un piccolo paese, e intuivo la complessità di questa scelta. Così, ancora una volta, decido di macinare qualche chilometro per andare a trovarli. Il casolare in cui vivono Chris e Mario è nella campagna badolatese, a metà fra la montagna e il mare. È un’oasi di verde, azzurro e tante sfumature di giallo, molto intense in un periodo caldo come l’agosto 2021.

Il loro progetto è frutto di tanti anni di viaggio e cambiamento interiore: Chris ha lavorato per molto tempo nel mondo del cinema e Mario in quello del marketing, prima di decidere che questo tipo di vita non faceva per loro. Inizia una fase di ricerca legata al mondo della permacultura e a un tipo di vita che fosse in connessione con loro stessi, con gli altri e con la natura. Durante questa fase, i loro cammini si sono incrociati nel 2016 in Portogallo in occasione di un corso e i due hanno capito di essere destinati a rimanere connessi nel tempo, anche se si trovano in diverse parti d’Europa.

«Cercavo un posto in cui applicare i principi di permacultura che stavo studiando e costruire un progetto di vita, finché non sono arrivato qui a Badolato nel 2018 perché la mia ex ragazza partecipava a un progetto di home school e ho visto tutta la ricchezza e la biodiversità di questa terra», racconta Chris, che coinvolge anche Mario in questa possibilità. La ricchezza della terra, il calore degli abitanti del paese, la possibilità di una vita più sana e a contatto con la natura e la bellezza del borgo li convincono a compiere il passo definitivo: nel marzo 2020 si trasferiscono così in un casolare che decidono di acquistare con i loro risparmi. E così cominciano i lavori, che mirano in primo luogo a rigenerare il suolo e la terra. È questo il punto focale del loro impegno, nella convinzione che «non esistono terreni poveri, ma piuttosto una mancanza di vita nel suolo». Si dedicano molto allo studio del terreno e istituiscono il primo laboratorio di vita del suolo in Calabria, grazie al quale possono valutare gli ecosistemi presenti nel terreno (così come nei compost e negli stagni) e quindi anche la loro capacità di dare vita.

«Nel corso delle mie ricerche mi chiedevo quale fosse l’elemento che fa davvero la differenza nella vita e alla fine mi sono detto: è il suolo, la terra. Perché quando la terra è in salute, anche l’essere umano che ci vive sta bene», racconta Mario.

In connessione a questo studio, iniziano a lavorare alla creazione di compost, proprio nell’ottica di nutrire la terra e darle la capacità – a lungo andare – di riprendersi le sostanze vitali che anni di agricoltura convenzionale le hanno tolto. Tramite un processo di compostaggio a caldo creano compost solido biologicamente attivo, composto di tre parti (letame, materiale carbonioso e materiale ricco azoto come le foglie verdi) ed estremamente nutriente per il terreno. Inoltre, utilizzano il compost solido per creare compost liquido per due scopi: in un caso lo utilizzano così com’è per irrigare in modo più nutriente il terreno; in altri lo mescolano con delle sostante nutrienti al fine di creare il “té di compost”, cioè un fungicida completamente naturale che può poi essere spruzzato su alberi e piante, formando una patina protettiva. La rigenerazione del suolo è quindi il filo conduttore di ogni lavoro e nel futuro Chris e Mario sognano di costruire un impianto di compostaggio per lavorare meglio e con quantità più grandi. Ma già ci sono i primi frutti di questo impegno, dal momento che nel giro di un anno e mezzo sono riusciti a ripristinare un piccolo orto (la cui terra non era più fertile) e a gestire l’uliveto, producendo olio. L’attenzione per il suolo poi, si ritrova anche in altri progetti già in campo, sempre ispirati alla permacultura: uno di questi, ad esempio, è il bosco alimentare, che si trova in un piccolo avvallamento del terreno e che, mi spiegano, è «una piantagione diversificata di piante commestibili che cerca di imitare gli ecosistemi e i modelli trovati in natura». Annone, arance, pesche, bergamotti sono solo alcuni dei frutti che crescono in questo piccolo giardino dell’Eden che, una volta stabile, sarà resistente in modo naturale e a sua volta nutrimento per la terra che lo ospita.

«Il nostro obiettivo nel lungo termine è costruire una comunità in questo spazio», spiega Chris. «Qui ognuno porta un pezzetto, che però è in sincronia con il tutto». Anche chi viene per un breve periodo: in questo anno e mezzo, infatti, già molte persone sono passate di qui, grazie alla piattaforma workaway o anche semplicemente tramite il passaparola.

E così nel corso del tempo Chris, Mario e gli altri volontari hanno attrezzato l’area in modo da poter accogliere diverse persone: c’è un’area camping, dove ci sono docce fatte con canne di bambù, un’area comune e una compost toilet, come a rimarcare il concetto che non siamo separati dalla terra su cui poggiamo i piedi ma che, anzi, contribuiamo noi stessi a sostenerla, come insegna la permacultura. Sempre grazie ai volontari, sono riusciti a costruire due cisterne che raccolgono l’acqua piovana: questo garantisce un’autosufficienza di circa sei mesi all’anno.

Possiamo quindi affermare che quella che vi abbiamo appena raccontato non è affatto la storia di chi decide di scappare dal mondo perché è brutto e cattivo e quindi isolarsi, ma è anzi quella che celebra chi ha voglia di cercare la bellezza che già c’è e condividerla con altre persone. Per questo Mario e Chris hanno continuato a ripetermi fino all’ultimo che «ci sono ancora tante cose da fare», perché di certo non tutto si è concluso con la loro sistemazione a Badolato. «Sentiamo che stiamo crescendo molto e che c’è un processo che segue tanti impulsi diversi, è parte di un percorso», aggiunge Chris e conlcude: «Siamo ancora in viaggio».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/09/permacultura-calabria/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

In un terreno confiscato alla mafia in Sicilia nasce una food forest

In provincia di Palermo si sta compiendo il primo percorso di progettazione strutturata di una food forest in Sicilia. Nascerà su un fondo confiscato grazie alla sinergia fra due cooperative locali che si occupano di agricoltura sociale e una realtà svizzera. Un progetto di rete che testimonia la forza della cooperazione e del lavoro di gruppo, dando nuova vita a un terreno che ospitava illegalità e malaffare e, al tempo stesso, promuovendo una buona pratica agronomica e alimentare. Ci troviamo a Partinico, in un appezzamento di cinque ettari confiscati alla mafia e affidati alla Cooperativa NoE. Qui, grazie alla collaborazione con la Cooperativa Agricola Valdibella e con molte altre realtà della zona, nascerà una food forest strutturata.

Non solo: sconfinando nel settore del consumo consapevole, il progetto prevede anche la collaborazione di Crowd Container, un’associazione svizzera che già da diversi anni collabora con la cooperativa Valdibella e che mette in rete acquirenti e produttori che praticano un’agricoltura etica e sostenibile.

Ma partiamo dal cuore del progetto: la food forest, ovvero “foresta commestibile”, è un sistema agroforestale ecosostenibile che permetterà la piantumazione di 1500 tra alberi, piante ed erbe aromatiche. L’obiettivo è dare vita a un agrosistema capace di garantire un elevato grado di autosufficienza alimentare, che diversifica le colture e protegge la biodiversità.

Per finanziare la creazione della food forest è stata promossa una campagna di crowfounding sul canale svizzero wemakeit dove in poco tempo sono stati raccolti i 60mila euro necessari all’avvio. Per quanto riguarda le coltivazioni si prevede la piantumazione di piante tropicali (avocado, annona e passiflora), le varietà antiche di fruttiferi e frassini da manna, noci, agrumi, moringa, ortive e piante aromatiche come rosmarino, salvia, origano, timo. Sono anche previste lunghe linee di siepi con la duplice funzione di frangivento e protezione dagli incendi, così come un giardino mediterraneo con specie tipiche quali querce, corbezzoli, rosa canina, mirto, ginestra e biancospino al fine di aumentare la biodiversità, produrre frutti da destinare alla trasformazione e fornire risorse alimentari alle api. I prodotti della food forest siciliana verranno successivamente commercializzati attraverso la vendita diretta sia nel mercato siciliano, attraverso gruppi d’acquisto solidali, sia in Svizzera, grazie all’associazione Crowd Container. La foresta commestibile avrà quindi inevitabilmente una ricaduta economica e occupazionale sul territorio, rafforzata da obiettivi di carattere sociale e inclusivo, poiché a farne parte saranno in particolare quei soggetti fragili a cui le due cooperative si sono sempre rivolti, ragazzi affidati dal tribunale o persone con disabilità fisiche o psichiche.

Carla Monteleone, agronoma della cooperativa, ci racconta infatti che la cooperativa NoE è un progetto etico che lega il cibo all’inserimento lavorativo di persone con diverse fragilità e che, ormai da anni, svolge un’intensa attività culturale e di promozione della legalità collaborando con diverse associazioni presenti nel territorio con le quali condividono principi e valori. Il progetto è molto ambizioso: si tratta di una food forest in Sicilia che prevede un’ampia progettazione alle spalle. L’obiettivo, come dice anche il nome, è quello di riprodurre l’equilibrio dinamico di una “foresta commestibile”, seguendo i principi della agroecologia e integrando altre pratiche come la permacultura. Un pensiero di Ninni Conti, della cooperativa Noe, sintetizza il cuore di molti dei progetti che abbiamo incontrato nell’isola: «Soltanto avendo il coraggio di sbagliare si può cambiare». I lavori per la realizzazione della food forest nel frattempo proseguono senza sosta: in queste settimane è stato piantumato l’agrumeto e si è conclusa la costruzione del biolago. Il sogno sta sorgendo e chissà che non possa essere il primo di tanti nuovi progetti che ridisegneranno il volto della Sicilia Che Cambia.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/05/terreno-mafia-food-forest-sicilia/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

AgrIsola, dove la filosofia abbraccia la natura: la storia di Maddalena

Con una laurea in Filosofia e un master in Filosofia del cibo e del vino, Maddalena aveva già inconsapevolmente intrapreso la strada che l’avrebbe portata ad aprire la sua azienda agricola nell’entroterra genovese. L’abbiamo intervistata per farci raccontare la sua storia. Quando Maddalena si è scontrata con la precarietà del mercato del lavoro che le impediva di programmare la propria vita nel lungo periodo, il suo approccio riflessivo (filosofico?) l’ha spinta alla ricerca di un valido progetto in cui investire, o investirsi, sia personalmente che professionalmente. Così ha deciso di partire da sé stessa, alla ricerca di quel cambiamento che avrebbe voluto vedere nella società, e due anni fa si è trasferita nell’entroterra genovese, nella casa di famiglia a Isola del Cantone. Qui si è rimboccata le maniche, forte della convinzione che i suoi bisogni coincidessero con i bisogni di tanti altri e che un’agricoltura piccola e locale, fatta di buone pratiche, fosse la risposta alla crisi del sistema vigente: «Volevo che la mia vita coincidesse con il mio lavoro, secondo me le due dimensioni devono compenetrarsi». Nasce così AgrIsola, la sua azienda agricola.

LA BIODIVERSITÀ SI FONDE CON L’ETICA

Ha cominciato con galline ovaiole e un orto per la propria autosufficienza, per poi passare alla produzione per la vendita. Si è dedicata alla ricerca di quelle che un tempo erano le coltivazioni tipiche della zona e quindi le più adatte al clima e al luogo. Tra le varietà locali che ha recuperato ci sono i ceci della Merella, di piccole dimensioni ma dal sapore squisito, e la zucca castagnina, dalla consistenza unica. I suoi orti vedono alternarsi file di pomodori, zucchine, legumi e ortaggi a foglia, secondo quelle consociazioni tra piante diverse suggerite dai principi della biodinamica.

«Quest’anno ho seminato una miscela di tre tipi di grano con l’intenzione di produrre farina che è la base della nostra alimentazione, quindi fondamentale nell’ottica di avvicinarsi ad un’idea di autosufficienza alimentare», racconta Maddalena. Gli ortaggi che produce vengono venduti al mercato di Isola del Cantone e di Arquata Scrivia, a volte consegnati a domicilio a Genova con qualche difficoltà logistica in più che viene però ricompensata dalla soddisfazione della clientela cittadina. Per proteggere le colture dagli insetti dannosi, da Agrisola non si usano pesticidi, ma macerati di piante (ortica, equiseto) e l’azione di insetti utili come coccinelle e sirfidi. «Il concetto di biologico oggi è diventato tendenzialmente un business, un marchio per rendere il prodotto più caro, senza dirci granché sulla sua qualità».

Quando si è trasferita, Maddalena ha deciso di fare della sua più grande passione una risorsa: circa metà del terreno è stato destinato alle esigenze di tre cavalli che partecipano al processo di autoproduzione di concime per gli orti. Rifacendosi ai principi della Scuola di Equitazione Etica, ha voluto che vivessero liberi e all’aperto, nel rispetto del loro benessere e delle loro necessità di specie. Vengono organizzate escursioni a cui spesso si aggiungono i clienti dell’azienda agricola con le loro famiglie, momenti in cui i cavalli hanno l’opportunità di interagire tra di loro e con l’ambiente circostante nel modo più naturale possibile.

PICCOLI PAESI SOLIDALI

Le aziende agricole contribuiscono al ripopolamento di zone rurali che nell’ultimo secolo sono state progressivamente abbandonate, svecchiando le comunità e riqualificando immobili in disuso: «Si tratta di un arricchimento tanto per il territorio tanto per chi come me compie questa scelta. Nei piccoli paesi ritrovi quella realtà comunitaria che si è persa nel contesto cittadino». Maddalena ha iniziato a lavorare la terra senza avere a disposizione macchinari, così ha condiviso il suo terreno, lasciandone una parte a disposizione di un altro contadino che, in cambio, le ha arato la terra con il suo trattore. In questo modo ha potuto raggiungere il suo obbiettivo, senza incorrere in spese eccessive. «Lavorando negli orti degli altri ho imparato tanto, ognuno mette in gioco le proprie capacità in un circolo virtuoso di aiuto reciproco».

UNO SGUARDO AL FUTURO

Quando le chiedo che progetti ha per il futuro, Maddalena mi racconta che le piacerebbe creare un frutteto con varietà di alberi che storicamente crescevano in questa zona, ma che oggi sono scomparsi, come i peschi bianchi da vigna, le mele carle e i cornioli, magari seguendo i principi della “food forest” ovvero la creazione di un ambiente sinergico che riproduce quello della foresta, ma composto da piante commestibili. Il suo sogno nel cassetto, aggiunge poi con passione, è quello di un’azienda agricola che sia anche luogo di cultura, di scambio di sapere e buone pratiche, come eventi e convegni, riflessioni e meditazione. «L’agricoltura è un lavoro umile, che ti costringe in un certo senso ad “abbassarti”. Bisognerebbe creare una filosofia della terra, coltivare secondo natura ti insegna il valore dell’attesa».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/02/agrisola-filosofia-natura/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Facciamo dell’Italia un paradiso di foresta, orto, giardino commestibile

Food Forest, Forest farming o Forest garden, cioè foresta commestibile, foresta coltivabile o foresta giardino: indicano la medesima idea, lo stesso approccio. Drastica riduzione del lavoro, raccolto, bellezza, verde. Perché non imboccare questa strada?

I vari metodi e tecniche di agricoltura naturale che sono spuntati come funghi nel corso degli anni, tutti interessanti ed efficaci, rendono i sistemi di agricoltura chimica e fossile qualcosa di ancora più assurdo e anacronistico.

Uno dei metodi più efficaci di agricoltura naturale in particolare, che riunisce molti aspetti positivi e soprattutto riduce drasticamente il lavoro, è quello chiamato in vari modi: Food Forest, Forest farming o Forest garden, cioè foresta commestibile, foresta coltivabile o foresta giardino. Infatti quando si parla di agricoltura naturale, cioè non dell’agricoltura attaccata alla flebo dei combustibili fossili con largo uso di grandi macchine agricole, concimi chimici, pesticidi, erbicidi, che inquinano qualsiasi cosa oltre a quello che si mangia, subito il pensiero va ai servi della gleba, lavori terrificanti, schiene spezzate dal dolore. Si ritiene che il lavoro, quando si parla di agricoltura naturale, sia immenso, improponibile e inaccettabile per qualsiasi persona normale che non sia l’incredibile Hulk. Ma uno dei vari aspetti interessanti della foresta commestibile è proprio la drastica riduzione del lavoro che serve per ottenere cibo e non solo.

Una volta realizzata e portata in “produzione” ciclica, si tratta di lavorare pochi giorni al mese per il mantenimento e la raccolta. In effetti quando si ha una varietà di alimenti che si rinnovano costantemente, non c’è moltissimo da fare, è un sistema che va avanti da sé. La Foresta commestibile è un sistema realizzabile ovunque, anche ai margini o all’interno delle città ove ci sia terra disponibile e non necessariamente ettari anche perché la coltivazione si estende pure in altezza e non solo in superficie, per quello si chiama anche Foresta giardino e combina alberi grandi e piccoli, da frutto e non, cespugli da frutto e non, ortaggi, funghi, ecc, in una sinergia ottimale. Si ottiene in questo modo cibo per tutto l’anno ma anche piante medicinali, piante aromatiche e legno. Quindi si ha in uno stesso luogo il proprio supermercato, la propria erboristeria e farmacia naturale.

In una Foresta commestibile tutte le piante, gli insetti, gli uccelli e gli animali in genere svolgono varie funzioni di supporto gli uni agli altri, si arricchisce il terreno, si creano microclimi favorevoli grazie proprio alla  biodiversità e si aumenta di moltissimo la resilienza.

Al contrario le monoculture sono rigide, fragilissime e costantemente a rischio, nel momento in cui c’è una malattia o un evento estremo, si perde tutto il raccolto, le pluricolture invece reagiscono molto meglio, a maggior ragione in periodi ai quali andiamo incontro con l’emergenza dei cambiamenti climatici. Avere poi piante commestibili perenni consente di non dover costantemente piantare ogni anno con tutto il lavoro e l’impegno economico che ne consegue.  

Bassissimo lavoro, resilienza, biodiversità, salute, salvaguardia ambientale, grande risparmio di soldi, sono i risultati che danno questi sistemi e che sarebbero perfetti per il nostro paese vista la varietà e le potenzialità che abbiamo. Si potrebbe sfamare l’intera Italia riducendo drasticamente i costi, le importazioni di cibo, l’uso dei combustibili fossili e veleni vari con le gravi conseguenze per la salute e l’ambiente che questo comporta. Adottando sistemi come quelli della Foresta commestibile si ritornerebbe in parte ad essere raccoglitori, cioè al periodo ante agricoltura dove appunto la “fatica” era di raccogliere quello che donava la natura semplicemente. Ciò è possibile qui ed ora e ci sono innumerevoli esempi in tutto il mondo. Si può quindi creare il paradiso in terra perché la natura ha già tutto quello di cui abbiamo bisogno, basta lavorare con lei, imparare da lei e non lottare contro di essa. Anche perché nella lotta contro di essa noi siamo e saremo sempre i perdenti.

Ecco alcuni esempi pratici.

C’è il video del fantastico Panagiotis Manikis che, parlando in italiano spiega come avere guadagno e autosufficienza solamente raccogliendo dalla sua Foresta orto.

Poi Martin Crowford:

È  fra i massimi esperti mondiali che ha 500 piante commestibili nella sua Food forest e lavora poche ore al mese per la manutenzione.

E infine una famiglia con il suo spettacolare progetto di Food Forest nato praticamente da una discarica (sottotitoli disponibili in italiano).

Ricordiamo anche l’eccezionale lavoro dei pionieri italiani come Paride Allegri e Onorio Belussi

Fonte: ilcambiamento.it

L’abbondanza miracolosa che cambierà il mondo

I media mainstream continuano a dispensare informazioni superficiali, inutili e funzionali al sistema; intanto c’è chi si dà da fare per realizzare rivoluzioni pacifiche, partendo dal quotidiano e riuscendo a fare grandi cose!

Mentre i grandi (per dimensioni e soldi, ma piccoli di contenuti) media continuano, nella maggior parte dei casi, a bombardarci di notizie superficiali, inutili, stupide che servono solo a fare da cornice alla pubblicità che li mantiene in vita, ci sono costanti conferme di quello che noi, come associazione Paea e giornale Il Cambiamento, proponiamo da sempre. Nella realtà, persone motivate che non credono ai media dispensatori di pubblicità, che non credono alla scienza e tecnologia al servizio del profitto, invece di lamentarsi, si rimboccano le mani e trovano strade diverse da quelle segnate e insegnate da un sistema totalmente allo sfascio. 

Charles e Perrine Hervé-Gruyer erano rispettivamente un marinaio e una avvocata internazionale e ad un certo punto della loro esistenza decidono di comprare un piccolo appezzamento di terra in Normandia in cui iniziano a coltivare fondando la Fattoria del Bec Hellouin. La loro esperienza pregressa con l’agricoltura era zero e all’inizio del loro percorso si imbattono nella Permacultura e da lì in poi iniziano a sperimentare varie metodologie e sistemi di coltivazione biologica. Lo fanno così bene, con così tanta cura e attenzione che iniziano ad interessarsi a loro sia esperti del settore, che accademici ed università.

Con grande lavoro, sforzi e sacrifici e non senza problemi, mettono a punto un sistema di coltivazione così efficiente che riescono a dimostrare nella pratica come senza trattori quindi senza meccanizzazione dell’agricoltura e senza ausilio della chimica, si possono avere rese maggiori rispetto alla agricoltura tradizionale. Uno dei segreti è quello di pensare in micro appezzamenti, unendo le pratiche della Permacultura con la Food Forest ovvero un sistema di coltivazione che rispecchia l’organizzazione boschiva. Il loro esperimento ha grande successo e iniziano a postulare una possibile pianificazione del sostentamento alimentare dell’intera Francia con queste metodologie.  Anche il loro lavoro dimostra che non bisogna credere ai voli pindarici e deliri fantascientifici di chi dice che le macchine ci sostituiranno tutti; infatti accadrà esattamente il contrario, per ovvi motivi legati a costi energetici, complessità tecnologica e scarsità di risorse per costruire macchine sofisticatissime.

Ma leggiamo alcune delle loro parole illuminanti tratte dal libro Abbondanza miracolosa, iniziando dal potenziale dei micro appezzamenti coltivati.

«Il censimento mondiale dell’agricoltura realizzato dalla FAO e altri lavori condotti  dalle Istituzioni internazionali mettono in evidenza il fatto che le piccole fattorie sono più produttive rispetto a quelle grandi. Le fattorie comprese tra 0,5 e 6 ettari sono in media 4 volte più produttive rispetto alle fattorie che hanno più di 15 ettari, e in alcuni casi anche 12 volte più produttive. Negli Stati Uniti nel 2002, le fattorie che avevano meno di 1 ettaro generavano redditi da 10 a 50 volte maggiori per unità di superficie rispetto alle fattorie americane più grandi. Se una superficie coltivata di 1000 metri quadrati, come al Bec Hellouin, permette di produrre tutto l’anno l’equivalente di 60 o 80 cassette di frutta e ortaggi alla settimana, allora anche il più piccolo giardino, la più piccola corte può diventare una possibile azienda agricola. Un prato di 200 metri quadrati con una terra buona e un agricoltore competente può produrre una dozzina di cassette a settimana e un balcone di 10 metri quadrati può produrre quasi una cassetta a settimana».

Sulla rinascita dell’agricoltura e dell’artigianato scrivono:

«La rinascita di una agricoltura manuale si accompagnerà ad una rinascita dell’artigianato. I decenni a venire vedranno la progressiva diminuzione delle grandi aziende agricole e degli impianti industriali, forse anche alla loro scomparsa, cosa che porterà alla soppressione di un gran numero di posti di lavoro. Ma la simultanea diffusione delle micro fattorie e dei laboratori artigiani dovrebbe permettere di assorbire la manodopera vacante. La decrescita energetica farà scomparire del tutto alcuni impieghi (tutti quelli connessi a professioni che richiedono enormi quantità di energia); ma ne creerà molti altri, perché proprio il ricorso alle energie fossili e la diffusione dei motori meccanici ed elettrici hanno reso meno necessarie le braccia dell’uomo».

Poi c’è la nuova economia:

«Una nuova economia basata sulla madre terra costituirebbe invece una base solida per la nostra civiltà. Il giovanissimo movimento Slow Money, lo afferma con forza: ”Crediamo nel suolo!” è il suo motto. Il bisogno primario di un essere vivente è quello di nutrirsi e gli essere umani non sfuggono a questa regola. Le ricchezze finanziarie che provengono dalle borse non sono commestibili: ricollocare l’agricoltura come fondamento di una economia reale, solida e ben radicata sarà la nostra ancora di salvezza nella tempesta che verrà».

I due autori parlano anche di come soddisfare i bisogni alimentari:

«Tre o quattro milioni di micro fattorie dovrebbero essere in grado di soddisfare la totalità dei bisogni alimentari di una popolazione di 70 milioni di persone (escludendo i prodotti esotici).

Nell’elaborazione degli scenari futuri bisogna tenere conto di un dato: il fatto che un numero sempre maggiore di individui produrrà da sé tutto o parte del proprio cibo.

Ben presto risulterà più gratificante ed entusiasmante gestire in maniera creativa una fattoria, allearsi con le forze della natura e vivere liberi all’interno di un territorio coltivato amorosamente, piuttosto che rinchiudersi in casa, nei mezzi pubblici affollati, negli uffici climatizzati. Abbiamo la sensazione che questo mutamento sia già in corso. Esso subirà una accelerazione quando la diminuzione delle energie fossili farà aumentare il prezzo delle derrate alimentari. Quando il cibo diventerà più prezioso e quando usciremo dal dominio della plastica, il sapere dei contadini e degli artigiani sarà considerato con molto più rispetto».

Sradicare la disoccupazione:

«Con la creazione di 3 o 4 milioni di impieghi agricoli, ai quali vanno aggiunti gli impieghi indiretti e vari impieghi artigianali, l’affermazione della micro agricoltura potrebbe contribuire a sradicare la disoccupazione. La diffusione delle micro fattorie  offrirebbe ciascuna una alimentazione biologica di qualità. Questo mutamento sociale permetterebbe di chiudere il famoso “buco della Sanità”, perché una alimentazione, sana e locale per tutti, migliorerebbe il livello di salute dei nostri concittadini. Senza parlare dei benefici di una attività all’aria aperta per tutti coloro che decideranno di tornare alla terra!».

I benefici di un ritorno alla dimensione locale:

«Il ritorno ad una dimensione più locale, che auspichiamo, si accompagnerà, quando si sarà realizzato, a un ritorno dei servizi pubblici: trasporti comuni, servizi postali, sanità, cultura… Gli operatori di questi settori accresceranno a loro volta il dinamismo dei piccoli centri urbani. L’aumento della popolazione nelle cittadine e nei piccoli paesi porterà all’aumento della clientela di contadini e artigiani. Poiché un numero maggiore di beni e servizi diverrà disponibile a livello locale e dal momento che sarà sempre più facile trovare lavoro direttamente sul posto, la circolazione di beni e persone si ridurrà considerevolmente. Questo mutamento permetterà di diminuire le notevoli emissioni di anidride carbonica legate al trasporto delle persone, che rappresenta il 19% del nostro impatto ambientale e che continua ad essere una delle fonti di emissioni più difficili da ridurre».

Prendere in mano il proprio destino:

«In futuro ogni comunità locale prenderà in mano il suo destino. Il principio della solidarietà, che consiste nel conferire il massimo potere decisionale al più basso livello di organizzazione possibile, sprigionerà una immensa energia creativa. Ciascun popolo sarà dunque in grado di affrancarsi dai canoni obbligatori della modernità, dagli stereotipi del benessere e degli stimoli consumistici che essa porta con sé, per essere finalmente artefice del proprio destino. Ma tutti i popoli avranno sviluppato, lo speriamo vivamente, valori comuni, primo fra tutti l’imperante bisogno di proteggere tutte le forme di vita con le quali condividiamo questo pianeta e senza le quali non potremmo vivere. Il mondo post-petrolio sarà allo stesso tempo più radicato nella dimensione locale e più aperto verso una dimensione universale».

C’è poco da aggiungere a tanta lungimiranza, intelligenza e concretezza.

Fonte: ilcambiamento.it

Una food forest di nome Atlantis

Una Food Forest di nome Atlantis e, al suo interno, un santuario di farfalle Monarca. Li ha creati Helder Valente, esperto di permacutura, alle Canarie. E spiega: “Mentre sviluppavo giorno per giorno la mia visione, ho capito che la mia vera missione non era dimostrare come funziona la permacultura ma aiutare l’uomo nella connessione con se stesso e con gli altri”

img_0845Helder Valente è nato in Portogallo e dopo aver sviluppato progetti permaculturali in diversi paesi del mondo e soprattutto in Sudamerica dove viene a contatto con le culture indigene locali, si ferma alle Canarie, un luogo dove coesistono 20 climi differenti e dove arrivano 10 milioni di visitatori l’anno che creano problemi ecologici non indifferenti. Lì decide di creare una Food Forest di nome Atlantis e, al suo interno, un santuario di farfalle Monarca. “Mentre sviluppavo giorno per giorno la mia visione, ho capito che la mia vera missione non era dimostrare come funziona la permacultura ma aiutare l’uomo nella connessione con se stesso e con gli altri”.
“In manu (eius) est potestas et imperium”. Sullo schermo della sala conferenze in cui ci accoglie Helder Valente, campeggia questa frase che, dice, gli ha cambiato letteralmente la vita. La frase, in realtà, è contenuta nel Libro delle Cronache del profeta Malachia e si riferisce alla potenza del Signore ma mi piace molto l’interpretazione che ne dà questo permacultore espertissimo e appassionato che da anni è impegnato in prima persona e in diversi paesi (dal Sudamerica alle Canarie) a diffondere il pensiero e la pratica permaculturale. Nell’interpretazione che il potere sia nelle nostre mani possiamo pensare che l’uomo possa davvero recuperare una relazione diversa con la terra che abita e con i suoi simili per una nuova civiltà di rispetto e di armonia con l’ambiente che lo circonda. Si tratta di un messaggio preciso e per tutti: per chi pensa che l’uomo non sia ormai più in grado di tornare indietro o che non abbia abbastanza forza o potere per cambiare le cose.
Helder ha presentato un vero e proprio racconto fotografico su Atlantis, il progetto nato su una Food Forest antica preesistente che è stata recuperata e sviluppata nell’area più verde delle Isole. Le immagini hanno documentato un lavoro fatto insieme ai suoi studenti e alle persone che ci hanno creduto e che lo hanno aiutato. Il risultato è una terra ricchissima e produttiva dove crescono alberi, frutti e ortaggi di ogni tipo: dai castagni ai banani, dagli avocado alle innumerevoli varietà di fichi e di mele, dalle piante di cacao, ai cavolfiori e agli ibiscus e poi pesche, patate, lime, funghi e noci di Macadamia. Il problema, semmai, è la sovrapproduzione. Così i prodotti in eccedenza vengono trasformati in liquori, fermentati e marmellate.
Sono arrivate le farfalle Monarca e si è creato un vero e proprio santuario naturale spontaneamente scelto da questi animali.
Tornare alla terra e tornare alla natura, agli animali, all’aria pulita, alla campagna lontana dalle città sempre più contrarie e inospitali per gli esseri umani, significa spesso la ricerca del rifugio, dell’allontanamento volontario non solo da un ambiente fisico innaturale ma anche dalle profonde difficoltà relazionali con le quali tutti, chi più chi meno, dobbiamo fare quotidianamente i conti. Riavvicinarsi alla terra – dice Valente – deve significare un ritorno anche alle persone e imparare a creare pazientemente nuove e sane relazioni che, insieme al contatto diretto con la natura sono l’elemento base del benessere di tutti. Il paradiso, in sostanza, dice Valente, deve essere condiviso per sentirci felici e una delle cose più importanti è proprio mettersi insieme, rendere felici le persone accanto a noi e fare comunità. Dobbiamo trovare l’ispirazione nella natura e negli altri.
Per spiegarci meglio il suo lavoro, Helder ci racconta che un giorno la sua vicina di casa che vive vendendo i prodotti del suo orto e le uova, trova le sue galline uccise dai cani lasciati liberi dai cacciatori. Pensando di difendersi, mette il veleno intorno alla sua proprietà. Qualche giorno dopo il cane di Helder muore per aver mangiato una polpetta avvelenata. Il racconto è emozionante perché, ci spiega: “Sebbene addoloratissimo decisi che il problema non era la mia vicina né i cacciatori. Non lo erano neppure i produttori di veleno. La cosa più giusta che potessi fare era continuare a credere nel mio lavoro e portarlo avanti. Dovevo continuare ad aiutare le persone a riconnettersi con la terra”.
Gli obiettivi e le sfide di Atlantis sono stati molti e importantissimi: fare comunità, progettare in permacultura, rendere il santuario delle farfalle Monarca un luogo speciale, usare solo materiali locali e a basso costo, costruire compost toilets, sviluppare attività come il bird watching, condividere le informazioni con i locali e fare tesoro delle loro conoscenze, prevedere spazi per la cura della spiritualità (nelle Cuevas naturali gli studenti e i volontari presenti ad Atlantis vanno a meditare) perché la città richiede un’attività mentale veloce e non è possibile pensare, meditare, trovare il contatto con se stessi. L’insegnamento, inoltre, è che non siamo più capaci di capire un ecosistema complesso ma solo una monocoltura mentre la natura può darci comunque sostentamento e profitto per stare bene, rispettandola.
Tra le sfide future c’è quella di integrare nella comunità locale tutti i livelli sociali e tutte le età oltre agli animali. La sfida più grande, però, è quella di creare una Food Forest nella parte più arida dell’isola per farla rigenerare. Atlantis è stata un laboratorio e adesso – continua Helder – sappiamo che cosa possiamo fare. E’ così che si può cambiare il mondo.
Fonte: ilcambiamento.it

Food Forest Un’alternativa all’orto tradizionale

Lavora con la natura e non contro, ti fa ottenere più di un raccolto, imita l’ecosistema foresta, è energeticamente efficiente, aumenta la biodiversità: perché non convertire il tuo giardino in un forest garden?

Elena Parmiggianiforest orto

I nomi per questa tecnica in Italia sono molti: foresta giardino, foresta commestibile, orto-bosco. La food forest/forest garden è un tipo di coltivazione multifunzionale a bassa manutenzione che prende a modello l’ecosistema foresta (da qui

il nome) e nel quale si coltivano piante da frutto e noci, piante da legno, ortaggi, aromi, fiori, erbe medicinali, fibre tessili, piante mellifere e tanto altro, in armonia con le necessità umane e della natura. Può essere realizzata in giardini e appezzamenti di qualsiasi grandezza, anche molto piccoli. È una tecnica che in sé non è permacultura, ma viene utilizzata molto spesso perché imita l’ecosistema foresta, svolge molteplici funzioni e, se rivisitata e inserita correttamente, facilmente rispetta molti dei princìpi di progettazione in permacultura.

Un po’ di storia

Grazie al lavoro di Robert A. de J. Hart, un pioniere della food forest, oggi si sente spesso parlare di foresta commestibile. Hart ha iniziato il suo lavoro negli anni Sessanta e, fino alla sua morte nel 2000, ha continuato a coltivare

la sua food forest di 500 m2 in Inghilterra, creando l’opportunità per molti di conoscere questa metodologia e di diffonderla ad altri. Dagli studi e dagli esperimenti di Hart sulle food forest tropicali è stato tratto un primo testo1 che ha influenzato, e influenza tutt’ora, un pubblico sensibile all’ambiente e molti permacultori2, e a circa 35 anni dalla sua pubblicazione si sono moltiplicate le esperienze e le conoscenze.

I 7 livelli:

Hart ha schematizzato la food forest in 7 livelli, dopo aver studiato gli ecosistemi foresta in Paesi tropicali. In sostanza Hart ha proposto di copiare la natura e di lavorare a strati, proponendo un modello utilizzabile anche nei climi temperati:

1) alberi di alto fusto (Chioma primaria)

2) alberi di media altezza (Chioma

secondaria)

3) arbusti

4) erbacee

5) rizomatose

6) tappezzanti

7) rampicanti

Il minimo di strati richiesti per una food forest è tre, incluso almeno un tipo di albero, il minimo spazio richiesto è idealmente quello della dimensione della chioma dell’albero a crescita completa e senza potature. I funghi sono un ulteriore strato molto interessante da aggiungere a questa lista.food forest

La food forest in Fattoria dell’Autosufficienza

Il 13 settembre 2013, grazie alla partecipazione di una ventina di studenti, abbiamo realizzato la FF in Fattoria dell’Autosufficienza. Dove c’è ora la food forest prima c’era un orto per noi difficile da gestire e raggiungere, specialmente in inverno. La food forest che abbiamo realizzato si basa sull’architettura a 7 livelli di Hart e include il livello delle micorrize/funghi, che forniscono minerali e acqua alle piante e le difendono da malattie. Molti alberi introdotti sono adatti alla micorizzazione col tartufo (Bagno di Romagna è una zona famosa per i suoi tartufi bianchi e neri). In 1200 m2 di area abbiamo messo a dimora:

  • alberi: ontani (5), pero, melo, prugno, nespolo germanico, fico, mandorlo, ciliegio (2), asimina (3), ginkgo (3), tiglio (4)
  • arbusti: eleagnus x ebbingei (30), ginestra (30), noccioli (5), goji (12)
  • perenni e/o Erbacee: asparagi (240), salvia (50), salvia ananas (35), origano (50), consolida (250), bamboo, dragoncello (5)
  • radici: aglio, cipolle, porri (350)
  • tappezzanti: fragole (70)
  • rampicanti: kiwi (3), viti (10), luppolo (1).

Nella seconda fase metteremo a dimora anche altre piante tra cui varie ombrellifere, melissa, rafano, topinambur, altre

aromatiche, more, ribes e, nella zona più umida ma soleggiata, i lamponi.

Perché trasformare il proprio giardino in una food forest

La food forest, con i suoi numerosi aspetti vantaggiosi (accelera le successioni, lavora con la natura e non contro, ti fa ottenere più di un raccolto, imita l’ecosistema foresta, è energeticamente efficiente, aumenta la biodiversità, ecc) ci offre la possibilità di convertire un orto (annuale, intensivo e ad alta manutenzione) in qualcosa di perenne, stabile, autofertile,

dove possiamo coltivare alberi da frutto tradizionali ma anche sperimentare una serie di abbinamenti con piante inconsuete (asimina, goji). È un’alternativa valida al frutteto familiare, poiché ottimizza una serie di risorse, quali materiale organico, acqua, minerali, e offre una molteplicità di piante e di raccolti nell’arco dell’anno da giugno a novembre.

Note

1 Forest Farming: Towards a Solution to Problems of World Hunger and Conservation, ROBERT A de J HART co-authored with James Sholto Douglas, Rodale Press (1976). Il testo offre indicazioni pratiche su come realizzare un forest garden.

2 AlcuniAlcuni dei permacultori che hanno introdotto e utilizzato il concetto di food forest: Bill Mollison (Permaculture, A Designer’s Manual) David Holmgren (Permaculture, : Principles and Pathways beyond Sustainability) Patrick Whitefield (The Earth Care Manual e How to Make a Forest Garden) Martin Crawford (Creating a Forest Garden: Working with Nature to Grow Edible Crops) Dave Jacke, Eric Toensmeier (Edible Forest Gardens Vol. 1 e Vol. 2) Toby Hemenway (Gaia’s Garden: A Guide to Home- Scale Permaculture)

Geoff Lawton, DVD Establishing a food forest P. A. Yeomans, The Keyline Plan (1954)

Scritto da Elena Parmiggiani

Originaria di Reggio Emilia e da sempre amante della natura, Elena Parmiggiani si occupa di Permacultura, di Agricoltura Sinergica e di Città in Transizione. Collabora con la rivista «ViviConsapevole» e con la Fattoria dell’Autosufficienza sull’Appennino Romagnolo. Ha frequentato il corso di 72 h di Permacultura con Saviana Parodi, Stefano Soldati e Angelo Tornato nel 2009. Si è diplomata presso l’Accademia Italiana di Permacultura nell’aprile 2012. Per approfondire le sue conoscenze di Forest Gardening/Food Forest ha frequentato nell’agosto 2009 e nel maggio 2012 i corsi di Forest Gardening di Martin Crawford, esperto internazionale di foresta commestibile in clima temperato.

Fonte: viviconsapevole.it