Cnr: pochi alberi e consumo di suolo favoriscono le ‘isole di calore urbano’

Lo studio condotto dal Cnr-Ibe e Ispra rivela come il consumo di suolo e la scarsa copertura arborea incide sulla formazione delle isole di calore urbano specialmente d’estate. Uno studio coordinato dal Cnr-Ibe, svolto in collaborazione con Ispra e pubblicato su Science of the Total Environment svela come l’intensità delle isole di calore estive è particolarmente elevata nelle città metropolitane dell’entroterra e cresce con l’aumentare, nel nucleo centrale della città, dell’estensione delle superfici con ridotta copertura arborea e forte impermeabilizzazione.  Oltre la metà della popolazione mondiale vive oggi nelle città, ed è per questo motivo che viene dedicata sempre maggiore attenzione agli studi che indagano la vivibilità degli ambienti urbani. In Italia le persone che vivono in città sono 42 milioni, circa il 70%. L’ecosistema urbano si caratterizza per due elementi fondamentali: le superfici vegetate e quelle impermeabili (consumo di suolo). Il giusto compromesso tra la quantità di questi due elementi influenza la composizione del paesaggio urbano, modificando anche il microclima e favorendo un fenomeno tipicamente urbano noto come “isola di calore urbana”. Con questa definizione si intendono le zone centrali delle città sensibilmente più calde delle aree limitrofe o rurali.

A condurre la ricerca sono stati i ricercatori dell’Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche di Firenze (Cnr-Ibe), in collaborazione con i ricercatori dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). “Lo studio è stato condotto sul periodo diurno estivo, analizzando per la prima volta l’influenza della copertura arborea e del consumo di suolo nel favorire l’isola di calore urbana superficiale nelle 10 città metropolitane dell’Italia peninsulare”, spiega Marco Morabito del Cnr-Ibe e coordinatore del lavoro. La ricerca ha preso in considerazione la città composta dal suo nucleo metropolitano, rappresentato dal comune principale, dai comuni confinanti e da quelli periferici; sono stati esaminati inoltre la quota, la distanza dal mare e la dimensione della città. “Sono stati utilizzati dati satellitari di temperatura superficiale, riferiti al periodo diurno estivo dal 2016 al 2018, mentre utilizzando i dati ad alta risoluzione sviluppati da Ispra è stato possibile comprendere l’influenza del consumo di suolo e della copertura arborea”, aggiunge Michele Munafò dell’Ispra.

 Dall’integrazione di queste informazioni, i ricercatori hanno prodotto così un nuovo strumento informativo chiamato “Urban Surface Landscape layer”, ossia un indicatore di copertura superficiale del paesaggio urbano capace di rappresentare le zone delle città caratterizzate da differenti combinazioni di densità di consumo di suolo e copertura arborea, e in grado di individuare aree critiche urbane, con elevate temperature superficiali, che necessitano di azioni di mitigazione e in particolare di una intensificazione della copertura arborea. “Lo studio dimostra che l’intensità dell’isola di calore urbana superficiale aumenta soprattutto all’aumentare dell’estensione delle aree con bassa densità di copertura arborea nel nucleo metropolitano, oppure intensificando la copertura artificiale dovuta a edifici e infrastrutture”, conclude Morabito. “Le isole di calore più intense sono state osservate nelle città dell’entroterra e di maggiori dimensioni: a Torino, un aumento del 10% nel nucleo centrale di aree con elevato consumo di suolo e bassa copertura arborea è associato a un aumento dell’intensità dell’isola di calore media estiva di 4 °C. In generale quanto più grandi e compatte sono le città, tanto maggiore è l’intensità del fenomeno isola di calore. Quest’ultimo, invece, è risultato spesso meno intenso e poco evidente nelle città costiere a causa soprattutto dell’effetto mitigante del mare”.

Fonte: ecodallecitta.it

È come e cosa decidiamo di mangiare che può salvare o condannare il pianeta

Ogni nostra azione ha effetto sul Pianeta: da come scegliamo di spostarci, a cosa utilizziamo per riscaldare e rinfrescare le nostre case, a cosa mangiamo. E proprio riguardo al cibo molte persone stanno scegliendo regimi alimentari differenti per cercare di ridurre le emissioni di gas serra o il consumo di suolo.carne

Per le persone che stanno facendo scelte sostenibili, per chi non crede sia necessario e per tutti quelli attenti alle problematiche ambientali e alla sostenibilità, la ricerca pubblicata su Science riguardo a come diminuire l’impatto del cibo tra produttori e consumatori sarà una lettura interessante e non priva di sorprese. I ricercatori della Oxford University e Agroscope, l’istituto di ricerca svizzero sull’agricoltura, hanno infatti creato il database esistente più completo sull’impatto ambientale di quasi 40.000 aziende agricole, 1.600 impianti di lavorazione, tipi di imballaggi, rivenditori. Questo ha consentito loro di stimare quali tecniche produttive e quali aree geografiche abbiano maggiore o minore impatto per 40 tra i principali alimenti.

Ci sono grandi differenze all’interno della filiera di uno stesso alimento: i produttori a più alto impatto di carne bovina arrivano a emettere 105 chilogrammi equivalenti di anidride carbonica e a utilizzare 370 metri quadrati di terreno per 100 grammi di proteine, ovvero 12 e 50 volte in più rispetto ai produttori a basso impatto. A loro volta, questi ultimi creano 6 volte più emissioni e usano 36 volte più terra di chi coltiva piselli. Eppure l’acquacoltura, ovvero l’allevamento industriale in acqua dolce o salata di pesci, molluschi e crostacei, può emettere più metano – ancora più impattante rispetto all’anidride carbonica come gas serra – per chili di peso vivo rispetto a un allevamento bovino.
Una pinta di birra potrebbe creare tre volte più emissioni e usare 4 volte più terreno rispetto a un’altra: questa variazione è stata delineata attraverso cinque indicatori dagli scienziati, tra i quali sono presenti l’utilizzo d’acqua, l’acidificazione e l’eutrofizzazione.
«Due prodotti che sembrano identici nei negozi possono avere due impatti completamente diversi sul Pianeta. Al momento non lo sappiamo quando decidiamo cosa mangiare. In più, questa variabilità non è del tutto riconosciuta nelle strategie e nelle politiche che cercano di ridurre l’impatto delle aziende agricole» sostiene Joseph Poore del Dipartimento di Zoologia e della Scuola di Geografia e Ambiente. Quello che invece, forse, è più semplice da immaginare è che il grosso dell’impatto viene creato da un piccolo numero di produttori. Appena il 15% della carne bovina che troviamo sul mercato crea 1.3 miliardi di tonnellate equivalenti di anidride carbonica e utilizza circa 950 milioni di ettari di terreno. Se invece prendiamo in considerazione tutti i prodotti, il 25% delle aziende contribuisce alla produzione del 53% in media sul quantitativo del singolo alimento. Questo disallineamento mostra il potenziale nell’aumento di produzione e nella riduzione dell’impatto sull’ambiente.

«La produzione di cibo genera un immenso carico per l’ambiente, ma questo non è una conseguenza necessaria dei nostri bisogni. Quest’onere potrebbe essere ridotto in maniera significativa modificando il modo in cui produciamo e consumiamo», spiega Poore. I ricercatori hanno mostrato come l’utilizzo di nuove tecnologie per raccogliere dati e quantificare il proprio impatto ambientale potrebbe fornire consigli su come ridurlo e aumentare la produttività.
C’è però un problema: esistono limiti oltre i quali i produttori non possono andare. In particolare, i ricercatori hanno scoperto che i prodotti di origine animale avranno sempre un impatto superiore a quelli vegetali, anche con l’aiuto della tecnologia. Per esempio, un litro di latte vaccino, anche se a basso impatto, usa quasi il doppio del terreno e genera emissioni di gas serra pari a due volte quelle di un litro di latte di soia nella media.
Il cambiamento più grande per l’ambiente, quindi, lo può fare la nostra dieta, ancor più che acquistare carne o latticini sostenibili. In particolare, un regime alimentare a base di vegetali diminuirebbe le emissioni legate al cibo fino al 73%, a seconda del luogo in cui si vive. Una scelta di questo tipo, in maniera abbastanza sorprendente, ridurrebbe a livello globale il quantitativo di terreni impiegati per l’agricoltura di circa 3.1 miliardi di ettari, ovvero il 76%. Questo permetterebbe anche di togliere parte della pressione sulle foreste tropicali e di ripristinare allo stato naturale alcuni territori. Ma esistono anche soluzioni meno drastiche: per esempio, si potrebbe dimezzare il consumo di prodotti animali evitando proprio i produttori a maggiore impatto, raggiungendo così lo stesso 73% nella riduzione di emissioni di gas serra che si avrebbe se eliminassimo del tutto carne e latticini. In più, se diminuissimo del 20% il consumo di alcuni alimenti non necessari come oli, alcol, zucchero e stimolanti evitando, anche in questo caso, le filiere meno virtuose, le emissioni scenderebbero del 43%. Potrebbe non essere necessario, quindi, stravolgere completamente le nostre abitudini in materia di cibo: anche piccoli cambiamenti possono avere effetti importanti sull’ambiente. Occorrerebbe, però, un’adeguata comunicazione ai consumatori sul produttore (non solo sul prodotto), magari attraverso etichette ambientali, oltre che tasse e sussidi. «Dobbiamo trovare le modalità per cambiare un po’ le condizioni fino a rendere il fatto di agire in favore dell’ambiente la cosa migliore per produttori e consumatori», sottolinea Joseph Poore. L’idea sarebbe quella di indirizzare verso il consumo sostenibile e consapevole grazie a incentivi economici e a un’etichettatura chiara, per creare una spirale positiva in cui gli agricoltori stessi hanno bisogno di monitorare il proprio impatto, prendendo decisioni migliori su tecniche e processi e comunicando tutto ciò ai rivenditori, incoraggiandoli a rifornirsi da chi segue questo tipo di approccio.

Giulia Negri

Comunicatrice della scienza, grande appassionata di animali e mangiatrice di libri. Nata sotto il segno dell’atomo, dopo gli studi in fisica ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza “Franco Prattico” della SISSA di Trieste. Ama le videointerviste e cura il blog di recensioni di libri e divulgazione scientifica “La rana che russa” dal 2014. Ha lavorato al CERN, in editoria scolastica e nell’organizzazione di eventi scientifici; gioca con la creatività per raccontare la scienza e renderla un piatto per tutti. Collabora con Micron, la rivista di Arpa Umbria.

Fonte: ilcambiamento.it

Rapporto Ispra: ambiente fanalino di coda in Italia

Biodiversità minacciata, aumento della temperatura media, inquinato il 60% di fiumi e laghi, aumentano consumo di suolo e siti contaminati, raccolta differenziata dei rifiuti ferma al 47%. È l’impietoso ritratto del nostro paese che si ricava dal quattrodicesimo rapporto annuale sull’ambiente dell’Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, appena reso pubblico.9433-10171

L’edizione 2016 ha introdotto anche il raffronto tra l’Italia e un contesto europeo in costante evoluzione per quanto concerne i nuovi indirizzi delle politiche ambientali e delle metodologie di reporting.

Ma vediamo voce per voce qual è la situazione italiana.

Biodiversità

Resta alto il livello di minaccia per vertebrati, piante vascolari, briofite e licheni, in crescita  l’introduzione di specie alloctone. Aumentano le Zone di Protezione Speciale (ZPS) e Siti di Interesse Comunitario (SIC), invariato il numero delle aree protette terrestri e marine e delle zone umide.

Clima

Aumenta la temperatura media, ma diminuiscono le emissioni totali di gas serra. L’aumento della temperatura media registrato negli ultimi trent’anni nel nostro Paese è stato quasi sempre superiore a quello medio globale rilevato sulla terraferma. Il 2015 in Italia è stato l’anno più caldo dal 1961. L’anomalia della temperatura media (+1,58 °C) è stata superiore a quella globale (+1,23 °C) e rappresenta il ventiquattresimo valore annuale positivo consecutivo. Gli scarti rispetto ai valori normali sono stati particolarmente marcati nel mese di luglio e negli ultimi due mesi dell’anno, quando il clima mite ha accompagnato un lungo periodo di tempo stabile e secco su quasi tutto il territorio nazionale. Nuovi record di temperatura sono stati registrati soprattutto nelle regioni settentrionali e nelle stazioni in quota dell’arco alpino

Inquinamento atmosferico

La situazione della qualità dell’aria permane critica. L’Italia con il bacino padano  rappresenta una delle aree di maggior criticità a livello europeo.

Qualità acque interne

Lo stato di qualità dei fiumi (16 regioni e due province autonome, per un totale di 2.440 corpi idrici e 35.144,5 km monitorati) risulta in uno stato ecologico da “elevato” a “buono” per il 40% e inferiore al buono per il 60%. Lo stato di qualità dei laghi (10 regioni e 2 province autonome per un totale di 139 corpi idrici) presenta una classe di qualità tra elevato e buono  per il 35%, inferiore a buono per il restante 65%. Lo stato chimico delle acque sotterranee, su 4.023 stazioni di monitoraggio il 69,2%  ricade in classe “buono”, mentre il restante 30,8% in classe “scarso”.

Mare e coste

Negli ultimi decenni i litorali italiani presentano significative evoluzioni geomorfologiche dovute ai  processi naturali all’intervento dell’uomo. Situazioni di elevata criticità si evidenziano per i distretti del Po, dell’Appennino Settentrionale, per la Campania [Distretto Appennino Meridionale] e la Puglia [Distretto Appennino Meridionale] con più del 50% (esattamente il 50% per il distretto del Po) dei corpi idrici marino costieri in stato chimico “non buono.

Il suolo

Il consumo di suolo in Italia non accenna a diminuire, si è passati dal 2,7% di suolo consumato negli anni ’50, al 7% nel 2014 (stima). In media più di 7 m al secondo. Al 2014 sono stati consumati irreversibilmente circa 21.000 km (stima) i valori percentuali più elevati di suolo consumato si registrano nel Nord, in particolare nel Nord-Ovest (2014). A livello provinciale, la percentuale più alta di suolo consumato, rispetto al territorio amministrativo, si osserva per la provincia di Monza Brianza con quasi il 35%. Tra i comuni il valore più alto di suolo sigillato (85%) è stato rilevato per il comune di Casavatore (NA)

Rifiuti

La produzione nazionale dei rifiuti urbani è in lieve diminuzione. La raccolta differenziata si attesta al 42,3% della produzione totale dei rifiuti urbani, crescita ancora non sufficiente a raggiungere l’obiettivo previsto per il 2012 (65%). Aumento dei tassi di preparazione per il riutilizzo e riciclaggio dei rifiuti urbani, ma ancora non viene raggiunto l’obiettivo fissato dalla normativa.

Agenti fisici

Rimane costante l’attenzione dei cittadini verso la problematica dei campi elettromagnetici. Gran parte della popolazione italiana è esposta a livelli di rumore, diurni e notturni, considerati importanti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La principale fonte di rumore è costituita dal traffico stradale

Radioattività ambientale

Il Radon rappresenta, in assenza di incidenti nucleari rilevanti, la principale fonte di esposizione alla radioattività. Nel Lazio e nella Lombardia si evidenzia un’elevata concentrazione di Radon (Rn-222)

Problematiche idrogeologiche e sismiche

Nel 2014 eventi alluvionali di rilievo hanno provocato morti e ingenti danni economici.

Numerosi gli eventi franosi tanto al Nord quanto al Sud. Eventi sismici di rilievo si sono verificati nelle Alpi Cozie e nello Ionio. L’indice di fagliazione superficiale in aree urbane segnala un progressivo peggioramento della situazione dovuto all’avanzare dell’urbanizzazione anche in aree prossime a faglie capaci.

Pericolosità di origine antropogenica

Aumenta il numero di siti contaminati oggetto di intervento e di quelli bonificati. Sono oltre un migliaio gli stabilimenti a rischio di incidente industriale rilevante. Il numero degli stabilimenti a rischio di incidente rilevante presenti in Italia è 1.104. Circa un quarto è concentrato in Lombardia e che regioni con elevata presenza di industrie a rischio sono anche: Veneto, Piemonte e Emilia-Romagna (tutte al Nord e rispettivamente il 10%, il 9% e l’8% ciascuno).

QUI per leggere il Rapporto integrale

Fonte: ilcambiamento.it

 

 

Visione 2040 – Ambiente: uscire dalla cultura antropocentrica, verso il consumo di suolo zero

Combustibili fossili, consumo di carne, cementificazione. Sebbene la situazione ambientale in Italia e nel mondo non sia delle più rassicuranti, sono molteplici le azioni possibili per uscire dalla cultura antropocentrica oggi dominante e raggiungere una reale tutela del nostro Pianeta. Ne hanno discusso i partecipanti al tavolo Ambiente di #Visione 2040 che si sono confrontati sulle criticità attuali e sulle proposte per un cambiamento concreto.

Quando parliamo di ambiente, di terra, di ecosistemi, stiamo parlando dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo e con cui ci laviamo, innaffiamo i terreni, del cibo che mangiamo. La retorica che vede l’ambientalista come colui che si preoccupa di salvare gli orsi polari, o il pappagallo della foresta amazzonica ha segnato il suo tempo. Non è in corso nessuna battaglia per salvare la natura, piuttosto l’obiettivo è garantire a noi esseri umani la possibilità di continuare a vivere in condizioni buone su questo pianeta.piant

LA SITUAZIONE ATTUALE

Vista da questa prospettiva la situazione ambientale in Italia e nel mondo non è delle più rassicuranti.
Come prima riflessione possiamo affermare che molti degli squilibri e degli scompensi che l’uomo ha causato all’interno degli ecosistemi nascono da una filosofia antropocentrica che vede l’uomo come una figura che sta al di sopra o al di fuori dei cicli naturali. A causa della storia urbanistica italiana le città sono cresciute privilegiando l’automobile ai mezzi pubblici e la crescita del settore delle costruzioni alla tutela dell’ambiente e della qualità spaziale. Oggi ci troviamo di fronte a città in forti difficoltà in termini di qualità dell’aria, di consumi energetici, di gestione dei rifiuti, ma anche e soprattutto di gestione dell’ambiente urbano e delle risorse pubbliche per migliorarlo. Il consumo di combustibili fossili (soprattutto petrolio e gas naturale) è elevatissimo. Molta energia finisce inoltre sprecata per via della mancata efficientazione degli edifici: le perdite di calore attraverso i tetti, le pareti e le aperture sono enormi, rispetto alle possibilità di contenimento reali. Per quanto riguarda l’alimentazione, anche in Italia si rileva un consumo di carne troppo elevato. Un concetto come quello di rifiuto, inesistente in natura, è diventato per l’uomo contemporaneo uno dei più grossi problemi da risolvere. Nel nostro Paese solo il 30% dei rifiuti viene raccolto e avviato al riciclo, infrangendo le prime tre R e allontanandoci dagli obiettivi fissati a livello comunitario. In Italia le discariche costituiscono ancora la via principale per smaltire i rifiuti, modalità che alimenta affari illeciti e impedisce lo sviluppo di un ciclo virtuoso fondato su riciclaggio e prevenzione oltre ad essere una pericolosa fonte di inquinamento. Il consumo di suolo (soil sealing) in Italia ha avuto accelerazioni molto significative, portando il nostro paese a percentuali di occupazione del suolo superiori al tasso medio europeo. Secondo Ispra nel 2015 vengono cementificati 7mq al secondo, 50/60 ettari al giorno. Nel 2015 il 7% della superficie italiana (pari a circa 21 mila chilometri quadrati) è cementificato, asfaltato, impermeabilizzato per la costruzione di edifici e di infrastrutture e non risulta più disponibile per l’agricoltura o per la crescita dell’erba e degli alberi. Negli anni ’50 era il 2,7%, nel 1998 il 5,8%. Si tratta di un percentuale addirittura quasi doppia rispetto alla media europea. L’Italia è il primo produttore di cemento e il primo cementificatore d’Europa. Il fenomeno dell’abusivismo edilizio dal 1948 ad oggi ha ferito il territorio con 4,5 milioni di abusi edilizi (75 mila l’anno, 207 al giorno), favoriti da sciagurati condoni edilizi che hanno fatto incassare allo Stato l’equivalente di 15 miliardi di euro d’oggi per poi doverne spenderne 45 in oneri d’urbanizzazione. Il mar Mediterraneo è un mare ricco di biodiversità, ma al tempo stesso fragile. Una prima problematica è rappresentata dalla pesca eccessiva: circa 1.500 tonnellate l’anno (trend in calo), con una gestione decisamente scadente: circa l’80% delle specie ittiche di interesse commerciale non ha una valutazione adeguata della sua popolazione e dove tale valutazione esiste risulta che il 60% della delle popolazioni è pescata al di là dei limiti di sicurezza. Un altro gravissimo fattore di rischio per il Mediterraneo è rappresentato dall’estrazione e il trasporto del petrolio. In ogni momento circolano sul Mediterraneo circa 2000 navi, 300 delle quali sono petroliere o trasportano idrocarburi. Questo traffico è alla base dell’elevato numero di incidenti che secondo l’UNEP hanno causato lo sversamento di 55.000 tonnellate di idrocarburi nel Mediterraneo negli ultimi 15 anni.
In generale l’inquinamento da attività industriali, agricole e dagli insediamenti abitati è uno dei principali problemi. L’isolamento del mediterraneo amplifica questi fenomeni e alle fonti di inquinamento lungo le coste si aggiungono quelle dell’entroterra che comunque scaricano nei fiumi che si versano nel mediterraneo. Anche il turismo ha avuto un ruolo notevole nel degrado delle zone costiere, per via di uno sviluppo urbano rapido e incontrollato e la stagionalità dei flussi turistici che produce picchi di produzione di rifiuti; inoltre il turismo si concentra in zone di interesse paesaggistico causando una seria minaccia per l’habitat delle specie a rischio (es. foca monaca e tartarughe marine).

COSA POSSO FARE IO?

CITTADINE E CITTADINI – E’ importante privilegiare lo spostamento con i mezzi pubblici o con la bicicletta, rispetto all’auto privata, quando è possibile. Per quanto riguarda l’efficienza energetica, una buona pratica possibile è rendere il più possibile efficienti le proprie abitazioni. Per quanto riguarda il consumo di suolo, votare programmi politici in cui c’è riscontro sullo stop al consumo di suolo. E poi fare pressione ai politici, chiedere riscontro ai sindaci. In generale, cercare di far circolare il più possibile le informazioni: la rete oggi consente la circolarità delle buone pratiche, delle utopie concrete, delle azioni dei comuni virtuosi.

PROFESSIONISTA/IMPRENDITORE – Fare l’imprenditore oggi significa lavorare con grande generosità sociale e reinvestire una parte di quello che si accumula non solo nell’impresa personale (o men che mai in finanza) ma nel territorio. Dunque un imprenditore potrebbe investire nella riqualificazione e nel recupero dei centri storici e non in nuove costruzioni in aree agricole, così come consociarsi con altre imprese e sperimentare modelli di blue economy e economia circolare.

POLITICHE E POLITICI – Per quanto riguarda l’ambito politico, una buona azione iniziale sarebbe la pianificazione di orti e coltivazioni urbani, più in generale istituire “laboratori urbani” dove venga garantita l’informazione e la partecipazione della cittadinanza e che consentano di gestire le strategie di trasformazione. Fondamentale è non far prevalere l’interesse di partito sul bene comune, approvando piani regolatori a crescita zero. Introdurre inoltre campagne di sensibilizzazione nelle aree affette da variazioni del ciclo idrologico (eventi estremi di precipitazione, siccità, variabilità degli afflussi, ecc.) e disseminare informazioni sull’esistenza di buone pratiche in campo agricolo e industriale.

GLI ESEMPI

Sono numerose le Associazioni e le organizzazioni che da anni, in Italia, si occupano di divulgare la cultura del vivere secondo natura, di riunire i comuni virtuosi nell’ambito delle buone pratiche e nella salvaguardia del Paesaggio. L’associazione AnimaTerrae  si prefigge di divulgare la cultura del vivere secondo natura, creando il minor impatto possibile, autoproducendo e riciclando materiali, impegnandosi nel continuo studio e approfondimento di stili di vita alternativi e socialmente accettabili, attuabili anche in piccolo, in campagna come nelle proprie abitazioni in città, per affrontare piccole-grandi questioni, dall’aspetto ludico per grandi e piccoli, al giardinaggio, alla cosmesi, al mangiar sano.

La rete dell’Associazione Comuni Virtuosi  riunisce le amministrazioni locali che in Italia portano avanti politiche virtuose nei campi della gestione dei rifiuti, dell’efficienza energetica della sostenibilità ambientale. Il Forum Nazionale “Salviamo il Paesaggio – Difendiamo i Territori”  è un aggregato di associazioni e cittadini di tutta Italia (sul modello del Forum per l’acqua pubblica), che, mantenendo le peculiarità di ciascun soggetto, intende perseguire un unico obiettivo: salvare il paesaggio e il territorio italiano dalla deregulation e dal cemento selvaggio.

Grazie a…

I partecipanti del Tavolo Ambiente:  Guido Della Casa  – Ecologia Profonda | Domenico Finiguerra – Salviamo il Paesaggio | Serena Maso – Greenpeace | Paolo Pileri – Politecnico di Milano e Progetto VENTO | Chiara Pirovano – WWF.

Leggi il documento completo 

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2016/07/visione-2040-ambiente-uscire-cultura-antropocentrica-consumo-suolo-zero/

Consumo di suolo: l’Italia perde terra per l’agricoltura

La progressiva urbanizzazione del territorio italiano rischia di mettere in ginocchio la produttività agricola del nostro paese, con pesanti conseguenze anche sul rischio idrogeologico. Basterà una legge appena approvata dalla Camera a invertire la rotta?agricoltura

(Credits: Denkrahm/Flickr CC)

L’eccellenza italiana nel settore agroalimentare rischia di diventare presto un lontano ricordo. E il motivo è semplice: la percentuale di suolo fertile a disposizione degli agricoltori continua a diminuire. Secondo la Coldiretti, negli ultimi venticinque anni in Italia si è registrata una perdita del 28% della terra coltivata. Le conseguenze, in termini di quantità e qualità della produzione, sono ormai tangibili. In quindici anni sono scomparsi circa 140mila ettari di piante da frutto, tra cui mele, pere, pesche e albicocche, mentre il primato dell’enogastronomia Made in Italy è a forte rischio, tanto che la percentuale di carne, salumi, latte e formaggi importati dall’estero e immessi sul mercato italiano è ormai vicina al 40%. Secondo l‘ultimo rapporto dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) sul consumo di suolo, ossia la progressiva copertura artificiale del territorio dovuta all’urbanizzazione, la percentuale di territorio italiano urbanizzato è passata dal 2,7% degli anni Cinquanta a circa il 7% nel 2014. In particolare, nel periodo compreso tra il 2008 e il 2013 il consumo di suolo ha inciso in prevalenza (60%) proprio sulle aree agricole coltivate.

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La politica recentemente ha provato a correre ai ripari, attraverso un disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo approvato dalla Camera lo scorso 12 maggio (vedi a seguire). La legge si pone un obiettivo ambizioso: arrivare all’azzeramento della cementificazione entro il 2050. “La legge va nella giusta direzione – sottolinea ancora la Coldiretti nel commentare l’approvazione del provvedimento – ma non basta: l’Italia deve difendere il proprio patrimonio agricolo e la propria disponibilità di terra fertile con un adeguato riconoscimento sociale, culturale ed economico del ruolo dell’attività agricola”. Ma le conseguenze del consumo di suolo agricolo, oltre a intaccare pesantemente la produttività, ricadono inevitabilmente anche sul dissesto idrogeologico. Secondo un altro rapporto dell’Ispra pubblicato lo scorso marzo, più di sette milioni di persone in Italia vivono in territori potenzialmente a rischio per frane e alluvioni. Alessandro Trigila, geologo dell’Ispra e co-autore del rapporto, spiega in che modo il consumo di suolo incide sul rischio idrogeologico: “I fattori che contribuiscono a quantificare il rischio sono tre: la pericolosità, cioè la probabilità che si verifichi una frana o un’alluvione in un certo posto e in un dato intervallo di tempo, gli elementi esposti, cioè la presenza di abitazioni e infrastrutture, e la vulnerabilità, ossia la propensione degli elementi esposti a essere danneggiati in seguito a un fenomeno violento. Un aumento del consumo di suolo comporta automaticamente un aumento degli elementi esposti, e quindi una crescita del rischio. Se poi ciò che si costruisce non è realizzato a regola d’arte, come a volte accade, si ha un aumento anche della vulnerabilità e il rischio cresce ulteriormente”. Altra cosa è quantificare quanto sia aumentato realmente il dissesto idrogeologico a causa del consumo di suolo: “Non avendo a disposizione mappe dettagliate dell’urbanizzato nel passato, non è possibile sbilanciarsi. Solo oggi siamo in grado di produrre mappe con un sufficiente grado di risoluzione, che potranno essere utilizzate come riferimento in futuro”.

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Tra il 2008 e il 2013 si è registrata una lieve flessione della velocità di avanzamento del consumo di suolo, che resta però alta: tra i sei e i sette metri quadrati al secondo. È difficile prevedere se la legge appena approvata sarà davvero sufficiente a cambiare il trend, soprattutto a breve scadenza, ma i numeri in gioco impongono un’inversione di rotta immediata, sia per preservare la produttività agricola del nostro paese che per evitare un’esposizione ancora maggiore dei cittadini al rischio idrogeologico.

La nuova legge sul contenimento del consumo di suolo

Con 256 voti favorevoli, 140 contrari e 4 astenuti, lo scorso 12 maggio la Camera ha approvato in prima lettura il disegno di legge sul contenimento del consumo del suolo. Si tratta di una legge in qualche modo storica: è infatti la prima volta che nel nostro ordinamento viene introdotto il concetto di consumo di suolo. Per l’approvazione definitiva, si attende ora il via libera del Senato. Il provvedimento ha avuto un iter molto lungo: presentato per la prima volta nel novembre 2012 dall’allora ministro delle Politiche Agricole Mario Catania, è rimasto a lungo in naftalina prima di subire l’accelerata decisiva negli ultimi mesi. L’obiettivo del disegno di legge è arrivare all’azzeramento del consumo di suolo entro il 2050, come richiesto dall’Unione Europea. Il punto di partenza per raggiungere questo traguardo è semplice: il consumo di suolo sarà consentito solo quando non esistono alternative al riutilizzo di aree già edificate e dismesse. E si parte da subito: tra le norme transitorie della legge c’è una moratoria di tre anni per tutte le costruzioni che comportino nuovo consumo di suolo, a meno che non siano già inserite in piani urbanistici. I comuni avranno poi un ruolo importante: dovranno predisporre censimenti di edifici e aree dismesse, per verificare se eventuali nuove costruzioni possano essere realizzate attraverso la riqualificazione di queste stesse aree degradate. Per fare questo, riceveranno finanziamenti statali e agevolazioni fiscali, mentre le procedure burocratiche saranno semplificate. Il ddl prevede infine che i fondi comunitari destinati a terreni agricoli non possano essere destinati a usi diversi per cinque anni.

Articolo Realizzato in collaborazione con il Master Sgp

Fonte: galileonet.it

Consumo di suolo, l’Italia perde ancora terreno

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Quasi il 20% della fascia costiera italiana – oltre 500 Km2 – l’equivalente dell’intera costa sarda, è perso ormai irrimediabilmente. È stato impermeabilizzato il 19,4% di suolo compreso tra 0-300 metri di distanza dalla costa e quasi e il 16% compreso tra i 300-1000 metri. Spazzati via anche 34.000 ettari all’interno di aree protette, il 9% delle zone a pericolosità idraulica e il 5% delle rive di fiumi e laghi. Il cemento è davvero andato oltre invadendo persino il 2% delle zone considerate non consumabili (montagne, aree a pendenza elevata, zone umide). A mappare lo stivale della “copertura artificiale”, l’ISPRA che, grazie alla cartografia ad altissima risoluzione, nel suo Rapporto sul Consumo di Suolo 2015 – presentato questa mattina a Milano, nel corso del convegno collaterale all’EXPO2015 “Recuperiamo Terreno” – utilizza nuovi dati, aggiorna i precedenti e completa il quadro nazionale con quelli di regioni, province e comuni, senza trascurare coste, suolo lungo laghi e fiumi e aree a pericolosità idraulica. L’Italia del 2014 perde ancora terreno, anche se più lentamente: le stime portano al 7% la percentuale di suolo direttamente impermeabilizzato (il 158% in più rispetto agli anni ’50) e oltre il 50% il territorio che, anche se non direttamente coinvolto, ne subisce gli impatti devastanti. Rallenta la velocità di consumo, tra il 2008 e il 2013, e viaggia ad una media di 6 – 7 m2 al secondo. Le nuove stime confermano la perdita prevalente di aree agricole coltivate ( 60%), urbane ( 22%) e di terre naturali vegetali e non (19%). Stiamo cementificando anche alcuni tra i terreni più produttivi al mondo, come la Pianura Padana, dove il consumo è salito al 12%.ispra-suolo

Ancora, in un solo anno, oltre 100.000 persone hanno perso la possibilità di alimentarsi con prodotti di qualità italiani. Sono le periferie e le aree a bassa densità le zone in cui il consumo è cresciuto più velocemente. Le città continuano ad espandersi disordinatamente (sprawl urbano) esponendole sempre di più al rischio idrogeologico. Esistono province, come Catanzaro, dove oltre il 90% del tessuto urbano è a bassa densità. Nella classifica delle regioni “più consumate”, si confermano al primo posto Lombardia e Veneto (intorno al 10%), mentre alla Liguria vanno le maglie nere della copertura di territorio entro i 300 metri dalla costa (40%), della percentuale di suolo consumato entro i 150 metri dai corpi idrici e quella delle aree a pericolosità idraulica, ormai impermeabilizzate (il 30%). Tra le zone a rischio idraulico è invece l’Emilia Romagna, con oltre 100.000 ettari, a detenere il primato in termini di superfici. Monza e Brianza, ai vertici delle province più cementificate, raggiunge il 35%, mentre i comuni delle province di Napoli, Caserta, Milano e Torino oltrepassano il 50%, raggiungendo anche il 60%. Il record assoluto, con l’85% di suolo sigillato, va al piccolo comune di Casavatore nel napoletano. Fino al 2013, il valore pro-capite ha segnato un progressivo aumento, passando dai 167 m2 del 1950 per ogni italiano, a quasi 350 m 2 nel 2013. Le stime del 2014 mostrano una lieve diminuzione, principalmente dovuta alla crescita demografica, arrivando a un valore pro-capite di 345 m2 . Le strade rimangono una delle principali causa di degrado del suolo, rappresentando nel 2013 circa il 40% del totale del territorio consumato (strade in aree agricole il 22,9%, urbane 10,6%, il 6,5% in aree ad alta valenza ambientale).L’ISPRA ha anche effettuato una prima stima della variazione dello stock di carbonio, dovuta al consumo di suolo. In 5 anni (2008-2013), sono state emesse 5 milioni di tonnellate di carbonio, un rilascio pari allo 0,22% dell’intero stock immagazzinato nel suolo e nella biomassa vegetale nel 2008. Senza considerare gli effetti della dispersione insediativa, che provoca un ulteriore aumento delle emissioni di carbonio (sotto forma di CO2), dovuto all’inevitabile dipendenza dai mezzi di trasporto, in particolare dalle autovetture.

Tutti i numeri dell’ “Italia artificiale” sono disponibili in formato open data all’indirizzo www.consumosuolo.isprambiente.it

Riferimenti: Via Ispra

Tratto da : galileonet.it

Land Grabbing: l’Africa del nuovo colonialismo

E’ in atto una silenziosa ricolonizzazione dell’Africa su vasta scala. Come? Con il consumo, anzi il furto di suolo. Ed è di questo che si parlerà alla prima Conferenza africana sul land grabbing che terrà in Sud Africa dal 27 al 30 ottobre prossimo.lan_grabbing_africa

A raccontare con una lucidità esemplare quanto è accaduto e sta accadendo in Africa è Bwesigye Bwa Mwesigire, scrittore e avvocato ugandese, co-fondatore del Center for African Cultural Excellence di Kampala. E mette subito il dito su una piaga aperta: «Si dice che una delle ragioni per le quali il sistema dell’apartheid in Sud Africa non è stato smantellato, malgrado gli sforzi di Mandela, sia la questione della terra». Perché? Perché «la decolonizzazione resta incompleta se la terra non ritorna ai proprietari di diritto, quelli che ne furono brutalmente defraudati». Mwesigire afferma senza ombra di dubbio che è in atto una «silenziosa ricolonizzazione su vasta scala», travestita da sviluppo economico e da lotta alla povertà ma la cui finalità è unicamente la soddisfazione degli interessi delle multinazionali che vogliono profitti sui mercati e più cibo da commercializzare, mentre agli africani vengono negati i diritti e i bisogni.
La terra è fonte di vita e di morte 

La terra non è solo un bene materiale. Nel 1997 la Church Land Conference di Johannesburg ha attestato come la terra è e dovrebbe essere al di sopra e al di là dei mercati e della politica, perchè la terra è fonte di vita, come la madre che dà nutrimento ai figli i quali altrimenti morirebbero di fame. Come diceva Andile Mngxitama sul The Chimurenga Chronic nell’aprile 2013, «la terra è sempre con noi, ci dà la vita e, quando moriamo, ci riaccoglie». Nello stesso articolo Andile raccontava la storia di Sipho Makhombothi, fondatore  del Landless People’s Movement, che aveva lasciato istruzioni affinchè alla sua morte lo si seppellisse vicino ai suoi antenati. I membri del movimento lo hanno accontentato sfidando le armi dei bianchi che rivendicavano la proprietà di quelle terre. Due anni dopo il corpo di  Makhombothi venne riesumato per ordine del tribunale. Andile ci ricorda che «le ossa di Makhombothi, senza terra in vita e senza terra nella morte, chiedono ancora giustizia». Gli effetti del furto della terra non sono visibili solo in Sud Africa.Il Kenya, ad esempio, ci rimanda storie di famiglie che possiedono intere contee e che  sostengono politici di ben definite idee. In Namibia gli europei che vi risiedono possiedono territori enormi, terre dalle quali i nativi sono esclusi. Da quando nel nord dell’Uganda sono state deposte le armi, la guerra ha virato verso la terra. I profughi che erano fuggiti avevano lasciato le loro terre e gruppi industriali vi hanno poi scoperto giacimenti di materie prime; sono quindi emersi nuovi conflitti che vedono i gruppi industriali e il governo da una parte e i cittadini dall’altra. Le donne del distretto di Amuru  – dove la macchina del land grabbing utilizza metodi anche intimidatori – protestano senza abiti contro i leader politici in segno di spregio e rabbia. Nel sud dell’Uganda la gente non voleva che la foresta di Mabira venisse trasformata  nell’ennesima piantagione di canna da zucchero. Ci fu una grandissima manifestazione a Kampala, durante la quale si sparò ai dimostranti. I giornali riportarono che il land grabbing era stato fermato ma in realtà interi pezzi di foresta furono disboscati per far posto alle coltivazioni.

L’African Union è complice

Mwesigire sostiene che il linguaggio dello sviluppo economico è la giustificazione che si tenta di dare al land grabbing. E’ un’azione ben pianificata e spesso presentata con finalità positive. «Ironicamente l’African Union è complice in questo nuovo piano – spiega l’avvocato ugandese – E questo piano prevede il “New Alliance for Food Security and Nutrition in Africa” del G8 and l’Alliance for a Green Revolution in Africa (AGRA)». Secondo l’African Centre for Bio-Safety, la nuova ondata di colonialismo è chiarissima. La pianificazione include l’omogeneizzazione delle leggi in Africa a favore degli investimenti stranieri in agricoltura, leggi di proprietà a favore delle multinazionali straniere e l’autorizzazione all’utilizzo di sementi geneticamente modificate.   Tutto ciò danneggia irreparabilmente la stragrande maggioranza dei piccoli agricoltori e la cosiddetta agricoltura di sussistenza. Depauperare di tutto i piccoli agricoltori significa controllare le loro vite e trasformarli in consumatori di prodotti . L’uso di sementi ogm permette alle multinazionali di esigere le royalties dagli agricoltori e distrugge la biodiversità che aveva permesso di garantire un’agricoltura sostenibile nel continente. I piani per la ricolonizzazione stanno già funzionando. Un rapporto pubblicato nell’aprile scorso dall’inglese World Development Movement (WDM), intitolato Carving up a continent: How the UK government is facilitating the corporate takeover of African food systems , affermava che enormi tratti di terreni nei paesi africani con accesso al mare e alta crescita economica sono nel mirino di gruppi come Monsanto e Unilever con l’aiuto dei governi inglese e Americano.  Secondo quel rapporto, gli accordi siglati con alcuni paesi africani chiave (Benin, Burkina Faso, Etiopia, Ghana, Costa d’Avorio, Malawi, Mozambico, Nigeria, Senegal e Tanzania) espongono enormi distese di terra africana al rischio di “furto” da parte delle multinazionali dietro la scusa di combattere la povertà e garantire il cibo. Come riporta l’African Centre for Bio-Safety, grandi progetti come il Pro-Savanna nel nord del Mozambico stanno già cacciando gli agricoltori dalle loro terre imponendo sistemi su larga scala per l’export. Come nel colonialismo del 19imo secolo, anche in questa nuova forma di colonialismo contemporaneo entità africane stanno collaborando, politici e governanti che firmano accordi e permettono alla macchina coercitiva delle miltinazionali di agire.

«Il colpevole mantra dello sviluppo e del mercato che soddisfa tutti i bisogni – dice Mwesigire – non considera il fatto che le popolazioni africane vengono nutrite grazie ai piccoli agricoltori e non dai grandi gruppi che invece pensano solo all’export e ai mercati ricchi. Si pensa all’Africa come alla macchina produttrice di ciò che andrà poi a soddisfare i bisogni dell’Occidente. Le multinazionali e i governi stranieri che le finanziano non hanno alcun interesse nella sicurezza alimentare e nella sovranità alimentare delle popolazioni africane». Nel 2012, l’Human Rights Watch ha riportato che il governo etiope ha costretto decine di migliaia di persone ad abbandonare le loro terre per darle agli “investitori”. La BBC ha spiegato come la terra sia stata acquistata dai cinesi e dall’Arabia Saudita che vogliono coltivarci oltre un milione di tonnellate di riso per esportarlo poi a casa loro. In Liberia, una comunità della contea Grand Bassa sta resistendo all’Equatorial Palm Oil (EPO), una società inglese che vuole ricavare in quelle terre l’olio di palma. Il governo ha concesso alla società 169.000 ettari di terreni senza consultare le oltre 7.000 persone del clan Jogbahn che vive in quelle terre da generazioni. Il presidente liberiano ha fatto promesse a quella gente, ma appunto sono solo promesse.
A fronte di questa situazione, si terrà dal 27 al 30 ottobre 2014 la prima Africa Conference on Land Grab al Parlamento Pan Africano, in Sud Africa.

Si ringrazia Bwesigye Bwa Mwesigire

Fonte: il cambiamento.it

Ispra, Consumo di suolo, non lo frena nemmeno la crisi: in 3 anni divorata un’area grande come 5 città

Nonostante la crisi, è ancora record: non accenna a diminuire la superficie di territorio consumato: ricoperti, negli ultimi 3 anni altri 720 km2, pari alla somma dei comuni di Milano, Firenze, Bologna, Napoli e Palermo. La velocità del consumo è di 8m al secondo | Il nuovo rapporto ISPRA378640

Non accenna a diminuire, anche nel 2012, la superficie di territorio consumato: ricoperti, negli ultimi 3 anni, altri 720 km2, 0,3 punti percentuali in più rispetto al 2009, un’area pari alla somma dei comuni di Milano,
FirenzeBolognaNapoli Palermo. In termini assoluti, si è passati da poco più di 21.000 km2 del 2009 ai quasi 22.000 km2 del 2012, mentre in percentuale è ormai perso irreversibilmente il 7,3% del nostro territorio.
Nonostante la crisi, è ancora record. A dimostrarlo, anche la velocità con cui si perde terreno che, contrariamente alle aspettative, non rallenta e continua procedere al ritmo di 8m al secondo. Ma non è solo colpa dell’edilizia. In
Italia si consuma suolo anche per costruire infrastrutture, che insieme agli edifici ricoprono quasi l’80% del territorio artificiale (strade asfaltate e ferrovie 28% – strade sterrate e infrastrutture di trasporto secondarie 19%), seguite dalla presenza di edifici (30%) e di parcheggi, piazzali e aree di cantiere (14%).
Forti gli impatti sui cambiamenti climatici: la cementificazione galoppante ha comportato dal 2009 al 2012, l’immissione in atmosfera di 21 milioni di tonnellate di CO2 – valore pari all’introduzione nella rete viaria di 4 milioni di utilitarie in più(l’11% dei veicoli circolanti nel 2012) con una percorrenza di 15.000 km/anno – per un costo complessivo stimato intorno ai 130 milioni di euro.  A segnalare l’avanzata del cemento a discapito delle aree naturali e agricole è l’ISPRA che, per la prima volta con un Report, ricostruisce l’andamento – dal 1956 al 2012 – del consumo di suolo in Italia. L’indagine, la più significativa collezione di dati a livello nazionale, analizza i valori relativi alla quota di superficie “consumata”, fornendo un quadro completo del fenomeno. Il Report rappresenta un valido strumento per l’individuazione di strategie utili a contrastare le minacce dovute alle attività antropiche. è solo attraverso la conoscenza dell’intero sistema e dei processi che lo governano che sarà possibile porre le basi per interventi concreti sulle cause del suo deterioramento ed alterazione. Il Rapporto dell’ISPRA non si configura soltanto come raccolta di dati e informazioni validate, rese interoperabili e condivise, ma sarà un tassello fondamentale, con il contributo di tutti gli altri soggetti istituzionalmente preposti, per fornire una visione complessiva dei processi fisici, chimici e biologici che governano il suolo e l’ambiente nella sua totalità, a supporto di chi dovrà decidere e operare scelte in questi settori. A livello regionale, Lombardia e Veneto, con oltre il 10%, mantengono il “primato nazionale” della copertura artificiale, mentre Emilia Romagna, Lazio, Campania, Puglia e Sicilia si collocano tutte tra l’8 e il 10%. I comuni più cementificati d’Italia rimangonoNapoli (62,1%), Milano (61,7%), Torino (54,8%), Pescara (53,4%), Monza (48,6%),Bergamo (46,4) e Brescia (44,5).  La trasformazione del suolo agricolo in cemento non produce impatti solo sui cambiamenti climatici, ma anche sull’acqua e sulla capacità di produzione agricola. In questi 3 anni, tenendo presente che un suolo pienamente funzionante immagazzina acqua fino a 3.750 tonnellate per ettaro – circa 400 mm di precipitazioni – per via della conseguente impermeabilizzazione abbiamo perso una capacità di ritenzione pari a 270 milioni di tonnellate d’acqua che, non potendo infiltrarsi nel terreno, deve essere gestita. In base ad uno studio del Central Europe Programme, secondo il quale 1 ettaro di suolo consumato comporta una spesa di 6.500 euro (solo per la parte
relativa al mantenimento e la pulizia di canali e fognature), il costo della gestione dell’acqua non infiltrata in Italia dal 2009 al 2012, è stato stimato intorno ai 500 milioni di Euro. Ancora, il consumo di suolo produce forti impatti anche sull’agricoltura e quindi sull’alimentazione: solo per fare un esempio, se i 70 ettari di suolo perso ogni giorno fossero coltivati esclusivamente a cereali, nel periodo 2009-2012 avremmo impedito la produzione di 450.000 tonnellate di cereali, con un costo di 90 milioni di Euro ed un ulteriore aumento della dipendenza italiana dalle importazioni.
Disponibile anche una App per segnalare nuove perdite di terreno. I ricercatori hanno messo a punto un’applicazione per individuare nuove zone consumate. Attraverso uno smarthphone, basta inserire coordinate e foto per vederle subito on line sulla mappa dell’ISPRA (www.consumosuolo.isprambiente.it).  “Difendere il suolo dalle aggressioni indiscriminate – spiega il Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti – significa tutelare non solo una risorsa economica strategica, ma anche proteggere il Paese dalla minaccia del dissesto idrogeologico che, proprio a causa dell’uso dissennato del territorio, spesso ha conseguenze gravissime, soprattutto in termini di perdita di vite umane. Per questo il Rapporto dell’ISPRA – continua – assume particolare rilievo; è la dimostrazione che in Italia esiste un sistema pubblico in grado di assicurare elevati standard di qualità nel monitoraggio dell’ambiente e di rendere disponibile una base informativa utile alla valutazione del fenomeno”.

Fonte: ecodallecittà.it

“Fermiamo il consumo di suolo”, l’appello di Legambiente al Parlamento

“Chiediamo al Parlamento di approvare al più presto una legge che fermi il consumo di suolo e punti sulla riqualificazione energetica e antisismica del patrimonio esistente”. Questo l’appello che Legambiente lancia al Presidente del Consiglio Enrico Letta.cementificazione_edilizia

È ora di dire basta al consumo di suolo e di iniziare quella strada del cambiamento che si chiama rigenerazione urbana, un nuovo modo di concepire e tutelare il territorio e gli spazi urbani in chiave sostenibile.

È questo l’appello che Legambiente lancia al Presidente del Consiglio Enrico Letta per chiedere a Parlamento e Governo una corsia preferenziale per discutere e approvare finalmente in questa legislatura una legge che fermi il consumo di suolo e premi, invece, la riqualificazione edilizia, energetica e antisismica del patrimonio edilizio esistente. Scelte nell’interesse dei cittadini in grado di rilanciare il settore delle costruzioni e l’economia del Paese e che l’associazione ambientalista spiega in “Fermare il consumo di suolo, rigenerare le città”. Un documento, inviato alle Commissioni parlamentari e al Governo, dove oltre ad analizzare il Disegno di Legge approvato dal Governo il 15 Giugno 2013 in materia di “Contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato”, Legambiente propone integrazioni e modifiche normative per rafforzare l’efficacia dei controlli e spostare l’attenzione sulla rigenerazione urbana. “Le nostre idee e proposte – spiega Edoardo Zanchini, vice-presidente di Legambiente – vogliono tenere insieme gli obiettivi di tutela e di riqualificazione del territorio ed incrociare alcune questioni come la grave crisi che sta vivendo il settore delle costruzioni. È indispensabile lanciare un segnale chiaro al mondo dell’edilizia attraverso una Legge che sposti l’attenzione sulla rigenerazione urbana”. Nel documento Legambiente pone in particolare l’attenzione sulla necessità di un efficace monitoraggio del consumo di suolo, di limiti e controlli nei confronti dell’occupazione di suoli agricoli, di riuso del patrimonio non utilizzato e degradato, in modo da creare condizioni di vantaggio per una diffusa riqualificazione con obiettivi ambientali, energetici e antisismici e chiudere così il ciclo dell’espansione edilizia. “Il suolo è un bene comune e una risorsa limitata e non rinnovabile – ha commentato Damiano Di Simine, responsabile suolo di Legambiente – Una legge che voglia fermare il consumo di suolo deve agire sulle cause che lo determinano, che sono legate alla formazione della rendita immobiliare. Se vogliamo fermare il consumo di suolo, è obbligatorio favorire la rigenerazione urbana: occorre sviluppare un nuovo equilibrio tra fiscalità e incentivi che renda attraente, efficace e più semplice l’investimento nella città, impedendo che i capitali in fuga dalla città producono anonime urbanizzazioni e piastre commerciali ai danni di campagne, coste e spazi aperti”. L’associazione ambientalista propone in particolare di introdurre un contributo per il consumo di suolo e spostare le risorse sulla rigenerazione urbana, prendendo come punto di riferimento la normativa tedesca. Occorre inoltre fermare la speculazione sulla proprietà e edificabilità dei suoli, stabilendo che i piani urbanistici debbano avere un ruolo di solo indirizzo, spostando ai piani attuativi la definizione dei diritti edificatori. Ma per cambiare le nostre città, spostando l’attenzione degli imprenditori edili verso la rigenerazione urbana, occorre semplificare e incentivare gli interventi nelle periferie per trasformarle in quartieri con parchi e spazi pubblici degni di questo nome, abitazioni a prezzi accessibili.

Fonte:il cambiamento

L’età del cemento, in Lombardia 117mila mq di campi in meno al giorno

Dodici nuove autostrade in fase di realizzazione e progettazione, 117mila mq in meno di suolo libero: un territorio in vendita al miglior offerente 1494349611-586x355

117mila metri quadri al giorno. È questa la cifra da capogiro della superficie di campi coltivati, prati e boschi che vengono impermeabilizzati quotidianamente da asfalto e calcestruzzo, lasciando posto a villette, centri commerciali e capannoni industriali, in nome di interessi politici e speculativi. Il documentario di Mario Petitto è un tassello importante nel dibattito per mettere in luce il fenomeno del consumo del suolo che nella Pianura Padana sta assumendo contorni inquietanti. Sono ben dodici le autostrade in fase di realizzazione e di progettazione. Un numero altissimo specialmente se si pensa a molte e inutili arterie costruite nel corso degli anni, un’aberrazione specialmente se si valutano le statistiche dei flussi di traffico che vengono dati in decrescita nel futuro prossimo. La cementificazione non è soltanto orizzontale ma si sviluppa anche verticalmente, come a Milano dove la speculazione (sospinta dal vento in poppa dell’Expo 2015) ha partorito 100mila vani completamente vuoti che potrebbero garantire un alloggio a tutti coloro che arriveranno nel capoluogo lombardo nei prossimi vent’anni. “Il sonno della ragione genera (eco)mostri” come un albergo innalzato per i Mondiali di Calcio di Italia: 300 stanze mai ultimate e abbattute durante la lavorazione del film. La medicina c’è e ci vorrebbe il coraggio della politica: stop al consumo del suolo. Due anni fa la Provincia di Torino ha lanciato una direttiva, ma le direttive da sole non bastano. In un Paese dove la politica è legata a doppio filo con l’impresa e dove quest’ultima non conosce altro modello che quello che vede nella progressiva cementificazione del territorio l’unica strada per lo sviluppo, ogni .

Fonte: ecoblog