Gli empori solidali in aiuto alle famiglie in difficoltà

Sono all’incirca 180 gli empori solidali in Italia, distribuiti in 19 regioni, diffusi in quasi tutte le regioni. Una forma di contrasto della povertà che ha vissuto una crescita impressionante negli ultimi tre anni e che continua a essere in forte espansione, con una ventina di nuove aperture già previste nei prossimi mesi.

Il punto sui numeri e sulla situazione italiana è stato fatto nei giorni scorsi alla presentazione del primo Rapporto nazionale sul tema curato da Caritas e CSVnet.

Quella degli empori solidali è una storia di volontariato.

Nati alla fine degli anni ’90, dopo il 2008 hanno iniziato a darsi una forma più organizzata; oggi, alla tradizionale distribuzione delle borse-spesa per aiutare le persone in stato di povertà si affiancano ulteriori servizi di accompagnamento. Gli empori sono servizi simili a un negozio o a un supermercato dove individui o famiglie in situazione di difficoltà economica, accertata in base a determinati parametri, possono recarsi per scegliere prodotti (cibo, vestiti, articoli per la casa, eccetera), acquisendoli gratuitamente attraverso una tessera a punti.

Gli empori sono una forma avanzata di aiuto per le famiglie che vivono situazioni temporanee di povertà; spesso costituiscono un’evoluzione delle tradizionali e ancora molto diffuse (e indispensabili) distribuzioni di “borse-spesa”.

Mendicanti e senza tetto ormai sono solo una minima parte della fascia dei poveri assoluti, che negli ultimi 10 anni in Italia sono aumentati del 182%. Poveri oggi spesso sono lavoratori, pensionati, famiglie numerose, madri single. Per loro il “pacco viveri” regalato dalla parrocchia o il pasto alla mensa dei bisognosi rischiava di essere un’ulteriore miliazione. Ecco allora l’idea, nata a fine anni ’90 ma esplosa nell’ultimo decennio, di creare luoghi simili negozi di alimentari dove chi ha bisogno può fare la spesa riempiendo il carrello con i prodotti più conformi alle proprie abitudini.

Il 57% degli empori (102) ha aperto tra il 2016 e il 2018, quota che sale al 72% se si considera anche l’anno precedente. Il primo è nato nel 1997 a Genova. Nella quasi totalità dei casi gli empori sono gestiti da organizzazioni non profit, spesso in rete fra loro: per il 52% sono associazioni (in maggioranza di volontariato), per il 10% cooperative sociali, per il 35% enti ecclesiastici diocesani o parrocchie, per il 3% enti pubblici. Le Caritas diocesane hanno un ruolo in 137 empori (in 65 casi come promotrici dirette); i Csv lo hanno in 79 empori, offrendo prevalentemente supporti al funzionamento. Gli empori sono aperti per 1.860 ore alla settimana per un totale di oltre 100 mila ore all’anno. La maggioranza apre 2 o 3 giorni alla settimana in giorni infrasettimanali, mentre 37 sono aperti anche il sabato.

L’utenza è anagraficamente molto giovane: il 27,4% (di cui un quinto neonati) ha meno di 15 anni, appena il 6,4% supera i 65. L’86% degli empori offre anche altri servizi come accoglienza e ascolto, orientamento al volontariato e alla ricerca di lavoro, terapia familiare, educativa alimentare o alla gestione del proprio bilancio, consulenza legale ecc. Il costo mensile per la gestione degli empori oscilla tra 0 e 28 mila euro, tuttavia più del 70% si attesta nella fascia tra 1.000 e 4.500 euro. A pesare maggiormente sono le voci di costo relative all’acquisto diretto dei beni (circa 40%) e personale (per il 22%). Gli empori gestiscono: alimenti freschi e ortofrutta (in 124 servizi), alimenti cotti (in 30) e surgelati. Ma anche prodotti per l’igiene e la cura della persona e della casa (in 146 empori), indumenti (in 50), fino ai prodotti farmaceutici, ai piccoli arredi e agli alimenti per gli animali. Quella degli empori è una storia di volontari, che sono presenti in tutte le strutture. Sono stati 5.200 (32 in media) quelli dichiarati nell’attività di questi anni e 3.700 (21) quelli attivi al momento della rilevazione. Presenti anche i volontari stranieri, mediamente 4 per servizio. Sono 178 gli operatori retribuiti dichiarati da 83 empori: 54 di questi ha solo personale part-time; le persone a tempo pieno sono 49 distribuite nei restanti 29 empori, mentre sono 44 i giovani in servizio civile.

Fonte: ilcambiamento.it

La Compagnia della Polenta: cibo buono e vegano per i senzatetto

Tutti i giovedì a Milano un gruppo di volontari si incontra per cucinare e poi portare cibo sano, buono e vegano alle persone senza dimora. “La Compagnia della Polenta”: è così che è stato scherzosamente chiamato questo progetto nato nel 2015, poiché il primo pasto servito fu polenta con sugo di legumi e venne particolarmente apprezzato. Cibo buono e vegano per tutti! Così recita il motto della Compagnia della Polenta un gruppo di amici di Milano che dal 2015 distribuisce pasti alle tante, troppe persone che vivono per strada e non possono permettersi un piatto caldo. Abbiamo incontrato il portavoce, Roberto Bertani che ci ha spiegato come tutto è nato.

Com’è nata l’idea?

Eravamo un gruppo di amici che svolgevano volontariato presso Vitadacani onlus, l’associazione che gestisce il parco canile di Arese e in quel periodo, dicembre 2015, stavamo raccogliendo le coperte per i cani. Una sera ci trovammo a parlare di una notizia che ci aveva intristito moltissimo: un senza tetto che era morto assiderato a Milano, nell’indifferenza più totale. Da un pensiero condiviso è scattata in noi la necessità di fare qualcosa anche per gli esseri umani in difficoltà (visto che degli esseri animali ci stavamo già occupando) e così ci è venuta l’idea: preparare dei pasti e delle bevande calde e portarle personalmente alle persone che vivono ai margini della società. All’interno del parco canile disponiamo di una cucina e così è nato il primo piatto che abbiamo poi distribuito a queste persone: polenta con sugo di legumi. Era di giovedì e da allora è diventato per noi un appuntamento fisso: ogni giovedì sera prepariamo e portiamo piatti caldi a queste persone e nel 2017 è nata l’associazione. Ad oggi distribuiamo 7200 pasti all’anno. 

E il nome?

La polenta è stato il primo piatto che abbiamo cucinato e riscuote sempre un gran successo. Di comune accordo è diventato il nostro nome e il nostro modo per farci riconoscere.

Perché vegano?

Quando abbiamo iniziato eravamo tutti vegani, oggi il numero di volontari è cresciuto e tra loro ci sono anche persone onnivore. Siamo tassativi solo sui piatti: tutto dev’essere rigorosamente senza proteine animali. Siamo convinti che si possano preparare dei piatti buonissimi, salutari e gustosi senza provocare la sofferenza di nessun altro essere vivente e i nostri piatti vengono sempre molto apprezzati.  Un piatto di minestra calda, di polenta (la cuciniamo spessissimo) o di legumi, vengono apprezzati molto di più di un semplice panino e nel prepararla c’è tutto il nostro amore per la vita, di qualunque forma sia. Cuciniamo sempre un piatto unico e spesso aggiungiamo un frutto o un dolce, preparato sempre dai nostri volontari. 

Quante persone fanno parte di questo progetto e come siete organizzati?

In questi anni si sono aggiunte molte persone felici di darci una mano, c’è molto da fare e ogni aiuto è gradito: si organizza la spesa, si cucina, si va sul posto a distribuire le vivande ma ci occupiamo anche della raccolta e distribuzione di coperte, vestiti, intimo, prodotti per l’igiene personale. Ad oggi siamo circa 30/40 volontari.

Come vi sostenete?

La maggior parte dei fondi deriva da noi, ma con il passare del tempo le persone hanno conosciuto il nostro progetto e abbiamo iniziato a ricevere un po’ di aiuti, a volte in denaro a volte in provviste. Si può donare tutto, purché in buone condizioni, ad esempio abbiamo dentisti che ci donano spazzolini da denti e dentifricio, ogni gesto può significare molto per queste persone. Inoltre spesso organizziamo degli eventi, abbiamo partecipato al Miveg e organizziamo degli aperitivi dove presentiamo il nostro progetto e raccogliamo fondi. 

Come collaborate con le altre associazioni?

Ogni associazione ha un giorno fisso. Noi siamo presenti tutti i giovedì sera fino alle 22.30 ed è bello quando queste persone ci salutano dicendo: “Ci vediamo giovedì allora?” oppure “ecco i vegani!” ma in modo amichevole, per farci capire che ci riconoscono, nessuno lo fa in modo critico anzi. 

Ecco appunto, come riuscite a spiegare la vostra scelta a persone che spesso una scelta non la hanno?

Ad alcuni sembrerà strano ma la verità è che nessuno ha mai criticato la nostra scelta. Ovviamente abbiamo un approccio rispettoso verso tutti, le critiche non portano a nulla, soprattutto in questo contesto e non è lo scopo di quello che facciamo, pensiamo sia molto più utile e costruttivo far provare i nostri buonissimi piatti e soprattutto è importante il dialogo. Di fronte a noi ci sono persone che non hanno fissa dimora, è vero, ma non per questo non hanno la capacità di riflettere ed ascoltare anche quando si parla di tematiche di questo genere, anzi la parte più bella è proprio poter parlare con loro. 

Cosa intendi?

Moltissime di queste persone soffrono a causa della loro situazione, perché hanno perso tutto e sono invisibili, questo pesa più della fame. Presso le parrocchie o altre associazioni si può trovare un pasto ma è molto più difficile che qualcuno si fermi a parlare con loro e che sia davvero interessato alla loro storia personale, noi ci teniamo molto invece a sapere chi abbiamo davanti e a chiamarli per nome.

Chi sono le persone che aiutate?

Di sicuro penserai a persone straniere o a immigrati invece devo dirti che ci sono moltissime persone della nostra stessa nazionalità e nessuno conosce la loro disperazione: anziani con una pensione talmente misera da non riuscire ad arrivare alla fine del mese, divorziati con talmente tante spese che per loro non resta più nulla, persone che hanno perso il lavoro e la loro vita da un giorno all’altro. È triste ma è più reale di quanto si possa immaginare. 

Organizzate qualcosa per le giornate di festa?

Se capitano di giovedì certamente, altrimenti ci saranno altre associazioni presenti. Sembra strano ma il periodo natalizio è quello in cui queste persone hanno meno bisogno di noi: tutti sono più buoni e quindi donano loro un panettone o altro. Appena passato il periodo di festa però ognuno torna alla sua vita e alla sua normalità, fino al prossimo Natale. Noi vorremmo sensibilizzare le persone a fare qualcosa anche durante tutti gli altri giorni dell’anno. Salutiamo Roberto promettendogli che andremo a trovarli presto per dare loro una mano e per sentire più da vicino queste realtà di cui spesso ci dimentichiamo. Sulla loro pagina facebook trovate tutti i contatti e le modalità per aiutare loro a portare avanti questo bellissimo progetto.  Di sicuro questo incontro ci ha dato parecchio su cui pensare e riflettere. Durante le feste sembriamo più sensibili a tematiche di questo genere e facciamo quasi tutti buoni propositi per l’anno nuovo. Sarebbe bello impegnarci a guardarci un po’ di più intorno e a riflettere sul fatto che ogni giorno possiamo tendere una mano a chi è meno fortunato di noi e che basta davvero poco, a volte basta davvero soltanto esserci. Inoltre, è una piccola lezione per chi pensa che i vegani siano sensibili solo verso gli animali e che non abbiano a cuore gli esseri umani: Roberto ed i suoi amici fanno del bene agli animali, alle persone in difficoltà e a loro stessi. Un chiaro esempio di come ci sia più gioia nel dare che nel ricevere.

 Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/12/compagnia-della-polenta-cibo-buono-vegano-senzatetto/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Linda e Giovanni: “Ecco la nostra famiglia a rifiuti zero!”

Moglie, marito e tre figli: vivono a zero rifiuti. Non hanno auto, televisione e non comprano vestiti. “Abbiamo scelto di vivere in modo ecologico e di dedicare più tempo alle relazioni, all’autoproduzione, alla cura del sociale e al volontariato piuttosto che alla carriera. Alcuni ci criticano, ma noi siamo felici così”.

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Linda Maggiori ha 34 anni. Vive con suo marito, Giovanni Angeli, di 36 anni, e tre figli, di 8, 5 e 3 anni in un trilocale in affitto a Faenza. Lei, volontaria in varie associazioni, ha fondato un gruppo di auto aiuto sull’allattamento, segue la pannolinoteca comunale per il prestito dei pannolini lavabili, gestisce laboratori di educazione ambientale nelle scuole ed è autrice di due libri ecologici per ragazzi “Anita e Nico dal delta del Po alle Foreste Casentinesi” e “Salviamo il mare”. Il marito è educatore in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Insieme formano una famiglia che si definisce a “rifiuti zero”.

Perchè? Presto detto.

Perché fino a poco tempo fa, Giovanni ha lavorato come operaio in una cooperativa sociale impegnata nelle discariche e nella raccolta dei rifiuti: “Poi l’appalto della cooperativa è passato a una grande multinazionale – racconta Linda – e, anche se la nuova azienda lo avrebbe riassunto, mio marito non voleva accettare di lavorare per una multinazionale poco etica. Così si è trovato disoccupato. Per fortuna nella stessa cooperativa sociale c’era bisogno di un educatore. E lui, laureato in psicologia, non se lo è fatto ripetere due volte!”. Ma l’esperienza nella raccolta dei rifiuti ha lasciato il segno: “Quando mio marito lavorava nelle discariche ogni giorno tornava a casa raccontandomi di scenari deprimenti – spiega Linda – abbiamo cominciato così a impegnarci nei comitati locali contro gli inceneritori e le discariche e a lottare per una raccolta porta a porta. All’epoca stavamo meno attenti al nostro impatto ambientale, eravamo meno organizzati e andavamo sempre al supermercato per fare spesa. Potrei dire che spendevamo molti più soldi e più tempo. Ricordo che ogni volta era un incubo buttare via l’immondizia, con quel bidone che si riempiva così velocemente. Noi differenziavamo, ma gli imballaggi erano ugualmente tantissimi. Plastica, carta e anche indifferenziata. Quando andavo a fare la spesa al supermercato mi deprimevo, con quella lista lunghissima di cose da comprare…”.
Poi un giorno, circa un anno fa, ecco la lampadina accendersi: “Se davvero vogliamo vivere in modo ecologico dobbiamo essere più coerenti anche nel campo rifiuti – si è detta Linda – è giunto il momento di mettersi alla prova!”. Con un monitoraggio attento dei rifiuti e una tabella in cui segnare chilogrammi e materiale di scarto Linda ha iniziato un attento monitoraggio dei rifiuti. “Mio marito all’inizio era piuttosto scettico anche perché io sono disorganizzata, casinista e impulsiva, insomma un mix catastrofico e per nulla promettente!” sorride Linda. “Infatti all’inizio è stata davvero dura – ammette – ma poi anche mio marito si è ricreduto! E ora dopo un anno, abbiamo ridotto drasticamente tutti i nostri rifiuti e abbiamo imparato a organizzarci, a recuperare, riusare, a  fare tante cose in casa, abbiamo risparmiato tanti soldi e il bidone della spazzatura non si riempie quasi mai, è una vera liberazione! Ormai buttiamo i rifiuti solo una volta ogni 2 mesi. Quindi davvero un impegno minimo”. Dopo un anno a casa di Linda l’ammontare dell’indifferenziata arriva a 0,6 kg annui a testa, contro una media cittadina di 160 kg. Numeri non da poco, “ma alla portata di tutti”, afferma lei. E per chi pensa sia impossibile, tutto è documentato sul loro blog:www.famiglie-rifiutizero.blogspot.it
“Quando tornare all’essenzialità non è una rinuncia ma una scelta consapevole e motivata si riacquista il proprio, una grande energia vitale e si istaurano rapporti più ricchi e vissuti – continua Linda – Tanta gente è presa dal circolo vizioso sempre più lavoro, sempre più bisogni, sempre meno tempo, sempre più consumo. Noi riusciamo a vivere con uno stipendio da educatore, ma non dobbiamo mantenerci l’auto, facciamo a meno di tanti prodotti (ce li autoproduciamo), non andiamo in palestra (andiamo sempre in bici o a piedi), i nostri figli non fanno mille attività e non facciamo costose vacanze. La gente pensa “che vitaccia” e invece il tempo passato coi nostri figli, giocando al parco o andando con loro in bici, è impagabile”.

Sì, perché Linda e Giovanni non solo vivono a rifiuti zero, ma anche a emissioni zero! “La rinuncia all’auto è stata una scelta dapprima forzata, poi sempre più motivata e consapevole – racconta Linda – cinque anni fa un’auto ha invaso la nostra carreggiata e ci è venuto addosso distruggendoci la macchina. Guidavo io, i bambini erano dietro, ben legati. Per fortuna ci siamo salvati tutti, ma da allora non ho più voluto guidare. Tutti cercavano di convincermi, ma io dicevo: ma se non mi serve perché devo usarla? Vivo in centro, vado ovunque in bici, piedi, treno, bus e se proprio serve, in rari casi, chiedo passaggi. Tra l’altro tutti dovremmo imparare a vivere con meno auto. In Italia ce ne sono più di una ogni 2 persone! – afferma – Anche mio marito non amava troppo l’auto. Abbiamo provato ad aspettare a ricomprarcela. Col passare del tempo abbiamo sempre più approfondito le ragioni per non avere l’auto, abbiamo conosciuto altre famiglie che non l’avevano, creato una rete. Da allora non l’abbiamo più ricomprata”.

Ma come si svolgono le giornate di una famiglia a impatto zero?

“Io e mio marito di solito ci alziamo all’alba per leggere, scrivere o meditare. I bambini si alzano alle sette, facciamo colazione con i biscotti, con il kefir, cereali, pane e crema spalmabile, o marmellata, tutti fatti in casa. Poi portiamo i bimbi a scuola in bici. Se serve facciamo compere al mercato portandoci sempre dietro sporte e contenitori da casa. Il più delle volte acquistiamo tramite gruppo d’acquisto solidale o nei piccoli negozi in città, che vendono sfuso o equosolidale. Mio marito va al lavoro in bici (lavora a 10 km in collina). Prima di pranzo andiamo a prendere i bambini a scuola. Se è bello facciamo un picnic al parco e restiamo là a giocare fino al pomeriggio. Poi si fanno i compiti, si prepara la cena e finito di mangiare si legge o si gioca insieme. Non abbiamo la televisione!”. nutella

Niente televisione e niente vestiti! “Non li compriamo quasi mai… ce ne sono così tanti da passarsi tra familiari, amici e conoscenti! – afferma Linda – A volte mia mamma ci regala scarpe ecologiche comprate nelle fabbriche marchigiane”. Insomma in cinque con un solo stipendio si vive bene comunque… “Certo! Ci bastano 300 euro al mese per gli alimenti, 450 euro per l’affitto, e altre 100/200 euro per tutto il resto. Se penso che in media una famiglia italiana spende più di 2000 euro al mese…”.

A chi dice che non avrebbe mai il tempo cosa rispondete? “Che anche noi con 3 figli, un lavoro, tanto volontariato e impegno sociale non abbiamo certo tempo da perdere! Spesso è solo una questione di organizzazione e abitudine. Ognuno fa quel che può, magari iniziando con piccoli passi. Sicuramente bisogna anche darsi delle priorità. Noi abbiamo scelto di dedicare più tempo all’autoproduzione, alla cura sociale e al volontariato piuttosto che alla carriera. Alcuni ci criticano, ma noi siamo felici così”.

E vedendoli è difficile pensare il contrario: sereni, sorridenti, tranquilli… come se non gli mancasse nulla! “Questo stile di vita ci ha permesso di guadagnare molto… nelle relazioni con i nostri figli, con la natura, con gli altri, con i bambini in difficoltà. Nanni Salio, del centro Studi Sereno Regis diceva: ‘Troppe automobili, troppo cemento, troppe case, troppi rifiuti, troppo cibo, troppi prodotti usa e getta non creano un mondo migliore, ma ci impediscono di avere relazioni più armoniose e distese tra noi e con gli altri esseri viventi’. Invece di arricchirci ci impoveriscono. Ecco allora la scelta della semplicità volontaria. E anche se come tutte le famiglie abbiamo i nostri momenti di stanchezza, conflitto e crisi di base abbiamo quella consapevolezza dell’immenso miracolo che ci è capitato e che ci circonda, che dobbiamo tutelare. Una volta mio figlio mi ha detto ‘che bello non avere l’auto, così possiamo sempre sentire il vento in faccia!’ Per ora questo mi basta”.

Link:

https://www.facebook.com/groups/famiglierifiutizero/

www.famiglie-rifiutizero.blogspot.itrifiutizero1

Fonte: ilcambiamento.it

#viaggiareispirati: Turismo e solidarietà

Ecco una nuova puntata della rubrica curata da Destinazione Umana, tour operator specializzato nel turismo di relazione. Oggi parleremo di turismo e solidarietà, visitando due strutture che accompagnano l’attività più classica di ricezione e ospitalità con un importante impegno nel campo del volontariato.

Eccoci a un nuovo appuntamento con la rubrica #viaggiareispirati, per farvi conoscere gli aspetti più curiosi e particolari del mondo del turismo responsabile e relazionale attraverso gli esempi portati dalla rete di Destinazione Umana. La prima puntata è stata dedicata alla disabilità. Oggi invece parleremo di turismo e solidarietà, presentandovi due strutture che uniscono all’attività ricettiva un profondo impegno che da un lato le mette in contatto con popoli e culture differenti, dall’altro li vede prodigarsi per aiutare chi ne ha bisogno.asko1

Le prime destinazioni umane che hanno fatto della solidarietà la loro ragione di vita sono Pierpaolo e Antonio, un medico e un infermiere salentini, fondatori e gestori del bed&breakfast Asko. Il nome con cui hanno battezzato la loro attività ricettiva è quello di un quartiere di Addis Abeba, la capitale dell’Etiopia. Qui, da anni, portano avanti alcuni progetti sanitari, in particolare uno che sin dal 2004 li vede collaborare con un orfanotrofio che accoglie i bambini sieropositivi. Il b&b Asko, situato a Merine, nei pressi di Lecce, ha il duplice obiettivo di costituire una fonte di sostentamento economico per i progetti di volontariato e di dare libero sfogo alla passione di Antonio e Pierpaolo per l’accoglienza e l’ospitalità. La struttura è un ponte fra Salento e Africa, arricchita di mobili, accessori e piante provenienti dall’Etiopia e intrisa di odori e sapori africani. Nel cuore di Bologna invece, si trova l’Albergo del Pallone. Sin dal 2009, questa struttura accoglie viaggiatori ma anche immigrati, disoccupati e altre categorie  di persone che versano in una momentanea situazione di fragilità. I turisti e i bisognosi d’aiuto si trovano a condividere l’ospitalità e le attività proposte dall’albergo, con il risultato che vengono favorite l’integrazione e l’accoglienza. In questo modo, si crea anche una bella commistione fra turismo e solidarietà, viaggio e inclusione sociale. pallone1-1030x685

La struttura è gestita dalla Cooperativa Sociale La Piccola Carovana, che ha vinto un bando comunale di assegnazione. Questa onlus porta avanti percorsi di inserimento lavorativo, di assistenza socio-sanitaria e di servizi educativi per minori ed è fortemente radicata su tutto il territorio provinciale, dove intrattiene rapporti di collaborazione con le amministrazioni sui fronti sociale, educativo e occupazionale.

L’ambiente dell’albergo è dinamico e amichevole: si può cenare all’Osteria del Pallone, chiacchierare e giocare insieme nelle sale comuni o partecipare alle attività culturali, come concerti, cineforum, conferenze e serate a tema. Il tutto respirando un clima di reciproca e positiva contaminazione: culture, storie e situazioni differenti che si incontrano. Chi sta viaggiando per svagarsi, chi per conoscersi, chi per inseguire la speranza di una vita migliore.

Fonte:  http://www.italiachecambia.org/2016/02/viaggiareispirati-turismo-e-solidarieta/

Il primo ristorante solidale a 1 Euro

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A Settembre nascerà a Milano il primo ristorante solidale a 1 euro il “Ruben“. Di che cosa si tratta? E’ una sorta di ristorante solidale creato dall’ex presidente dell’Inter Ernesto Pellegrini, il quale realizza uno dei sogni della sua vita, un modo per ringraziare dell’estrema fortuna ricevuta. Ernesto Pellegrini si è costruito, partendo dal basso e facendo fortuna nel mondo della ristorazione, l’idea del nome “Ruben” deriva dalla memoria di un contadino morto di stenti 50 anni fa a cui lo stesso Pellegrini era affezionato. Il ristorante avrà 500 posti coperti e si dividerà in due turni dal lunedì al sabato, dove i più bisognosi potranno mangiare un pasto completo con 1 euro di spesa. I clienti potranno usufruirne per un massimo di due mesi e saranno invitati da parrocchie, associazioni di volontariato o centri di ascolto.  I potenziali clienti potranno essere persone con consistenti debiti, persone che hanno perso il lavoro, papà separati, ex carcerati, profughi e anche parenti dei malati in trasferta.

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“Ruben” aprirà in via Gonin 52, un’idea veramente altruista, creata da un uomo che vuole dare la possibilità a delle persone di riscattarsi nella vita, un aiuto concreto a tutti quelle persone che non hanno avuto la stessa sua fortuna nella vita. Pellegrini aggiunge:” è un modo per ringraziare il buon Dio del tanto che ho avuto dalla vita. E ho voluto farlo partendo da quello che so fare meglio: ristorare le persone. Ruben ha lavorato per tre generazioni nella mia famiglia… Ruben non sono riuscito ad aiutarlo. Oggi però vorrei aiutare qualcuno dei tanti Ruben che vivono il loro momento di difficoltà e di disagio. Io ho sempre conservato nel mio cuore il ricordo di quell’uomo buono e lavoratore”.  Un’iniziativa innovativa che sarà possibile, dunque, grazie al vero volontariato italiano, alle associazioni cattoliche e non che vogliono aiutare il prossimo, alla volontà di un imprenditore che dimostra il vero significato dell’aiutare il prossimo.

Fonte: ambientebio.it/

I campi di volontariato per formarsi…all’ambiente

A Pasqua si apre la stagione dei campi di volontariato di Legambiente. Posada, Favignana, Paestum e Finale Ligure sono le località scelte quest’anno dall’associazione per quattro proposte diverse «all’insegna della filosofia che caratterizza i nostri progetti di volontariato – dice l’associazione – la partecipazione attiva ai processi di trasformazione dei territori, insieme alle comunità, per valorizzarne le qualità, le tipicità e le risorse naturali».campi_legambiente

Quest’anno, a Posada (Nu) si lavorerà per ripristinare le opere realizzate per la tutela del delicato ecosistema dunale in parte distrutte dall’alluvione dello scorso novembre (dal 17 al 22 aprile). A Favignana (Tp) i partecipanti saranno impegnati a sviluppare il “Giardino dell’Accoglienza” inaugurato di recente e dedicato ai migranti (dal 17 al 22 aprile). Nei due campi previsti a Paestum (Sa), i volontari concorreranno alla gestione dell’oasi dunale, partecipando al progetto di azionariato ambientale /Paestumanit (dal 17 al 22 aprile e dal 24 aprile al 2 maggio). A Finale Ligure (Sv), invece, il campo sarà all’insegna del turismo responsabile: i volontari prepareranno una parte del tracciato cicloturistico per un’importante manifestazione sportiva (dal 10 al 17 maggio). I partecipanti, coordinati da un responsabile, sono
impegnati per 30 ore a settimana nelle attivit del progetto mentre per il resto della giornata possono esplorare il territorio e dedicarsi ad attività ricreative. Sono aperte anche le iscrizioni ai campi all’estero primaverili. Sono previste esperienze di due settimane in Francia, Germania, Islanda, Giappone, Corea del Sud, India e Tailandia, da giugno ad agosto, a contatto con volontari provenienti da associazioni di tutto il mondo. E’ richiesta una minima conoscenza della lingua inglese. Il programma completo è consultabile sul sito www.legambiente.it/volontariato/campi

Per informazioni e prenotazioni si pu contattare Legambiente ai numeri: 06/86268323-4-5-6-7, attivi dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 18.

Fonte: il cambiamento

La storia di Elisa, da stilista a missionaria in Tanzania

Colpita dal “mal d’Africa” e dalla voglia di cambiare vita, ha abbandonato il suo lavoro per un grande brand di abbigliamento e si è trasferita in Tanzania per fare la volontaria in un orfanotrofio. Elisa Grazioli ci racconta la sua esperienza.elisa_grazioli_tanzania

“Se si ha assaggiato almeno un po’ di Africa non si può fare a meno di volerci ritornare e respirare la sua vita. È una malattia senza guarigione, difficile da spiegare a chi non l’ha mai sperimentata. La terra è rossa, l’erba è verde, la luce è abbagliante, il cielo di giorno è di un azzurro intenso, essendo più vicino alla terra di quanto non sia ad altre latitudini, e la sera regala uno spettacolo luminoso di stelle che, senza l’inquinamento atmosferico delle nostre città, illuminano la notte. La Via Lattea appare subito con tutta la sua luce anche all’osservatore meno attento. Forse sono proprio questi colori messi insieme che mi hanno riportato qui in Tanzania e che mi accompagnano ogni giorno in questa esperienza di volontariato”. Elisa descrive così, di getto e con lo sguardo rivolto in alto tipico di chi sta sognando a occhi aperti, la sua esperienza africana. Fino a un anno fa aveva un contratto a tempo indeterminato con un importante marchio di abbigliamento, per cui faceva la stilista. Una vita tranquilla, la stabilità economica, il futuro garantito… ma le mancava qualcosa. Ciò di cui aveva bisogno lo ha trovato, in modo quasi casuale, in Tanzania.

Quando hai pensato di partire per l’Africa, c’è stato un aspetto in particolare – un racconto, un momento di intima riflessione, un’immagine… – che ti ha aiutato a fare questa scelta?

Sono arrivata qui non per un motivo specifico, ma perché in casa mia si è sempre parlato di questo continente “lontano” e la voglia è cresciuta piano piano attraverso i racconti dei miei genitori, che sono stati i primi a venire qui e a descrivere queste persone speciali e questi posti così diversi, che hanno suscitato in me grande curiosità. Nel 2011 sono partita per la prima volta per la Tanzania grazie all’associazione Albero di Cirene di Bologna; lì ho conosciuto un gruppo di ragazze con la mia stessa voglia di scoperta e con loro ho condiviso questa bellissima avventura di volontariato che rimarrà sempre nel mio cuore. Abbiamo raggiunto un piccolo villaggio chiamato Nyakipambo, dove abbiamo tinteggiato e decorato un asilo che l’associazione Gruppo Missionario Alto Garda e Ledro aveva appena finito di costruire. Lì abbiamo dipinto l’asilo, ma ci siamo anche inserite nella vita del villaggio e dei suoi abitanti e ci siamo confrontati con loro. Sono tornata nell’estate del 2012 e in quel viaggio la mia curiosità è cresciuta ancora di più e ho capito che le tre settimane di ferie estive non erano sufficienti per entrare davvero in sintonia con questi luoghi. In quell’occasione ho avuto la possibilità di conoscere l’orfanotrofio di Tosamaganga: lì, circondata da tantissimi bambini che mi chiamavano per nome chiedendo un’attenzione o una carezza, sono stata avvolta dal desiderio di trascorrere più tempo con loro.bambini__2

Quali sono state le reazioni delle persone che ti erano vicine quando hai deciso di partire?

Una volta tornata in Italia, ho condiviso questo mio desiderio con la mia famiglia e con le persone vicine a me: la loro reazione è stata positiva, ma come tutti coloro che ci vogliono bene, mi hanno messo in guardia, riferendosi per esempio al periodo negativo che l’Italia sta attraversando e al fatto che oggigiorno lasciare un lavoro sicuro non è una scelta facile né conveniente. Certo, erano dubbi che anch’io mi ero posta, ma se una cosa la si vuole veramente secondo me la si deve rincorrere e non si deve avere paura di intraprendere una nuova avventura. Poi, se sarà destino, ritornerò sulla strada di prima; siamo sempre in tempo a tornare indietro. Viceversa, questa nuova esperienza mi potrebbe aprire orizzonti nuovi che, senza viverla, non potrei mai scoprire. Ma il bello delle nuove avventure è proprio la sensazione di incertezza e di sfida che le caratterizza.

Quali sono le differenze culturali e spirituali fra la nostra società – in cui abbonda la ricchezza economica ma scarseggiano benessere e felicità – e quella tanzaniana e africana?

Qui ogni cosa è intensa, dal profumo dell’olio di girasole all’abbraccio di un bambino, al sole che picchia sulla testa ricordandoti che in Africa la vita non è facile. Specialmente per noi “wageni”, ovvero stranieri, l’esistenza quotidiana è molto impegnativa, a partire dal caldo, dal sole che ti segue tutto il giorno e rende tutto più lento. L’acqua è diversa, così come il cibo, e il nostro corpo è catapultato in un ambiente sconosciuto e ha bisogno di tempo per abituarsi al cambiamento. Così come esso metabolizza questi mutamenti un po’ alla volta, anche nel nostro voler aiutare il prossimo dobbiamo avanzare con prudenza. Una frase di Giuseppe Alamanno, un missionario che ha operato in Africa, esprime perfettamente il concetto: “Non dobbiamo semplicemente fare del bene: dobbiamo farlo con diligenza e nel miglior modo possibile. La pazienza va seminata dappertutto”. “Pazienza” è una parola che mi è tornata spesso in mente in questo periodo, perché oltre alla diversità del clima e dell’ambiente, bisogna fare i conti anche con la diversità culturale. Tante cose ci accomunano e tante altre ci dividono. I tanzaniani sono un popolo gentile e accogliente e lo si vede subito dai saluti; per loro il saluto è importantissimo, non sono mai avari con il tempo da dedicare ai convenevoli, si informano sulla salute delle persone che incontrano e della loro famiglia, anche se non le conoscono. La famiglia per loro occupa un ruolo centrale nella vita ed essi attribuiscono una grande importanza ai matrimoni e agli altri riti sociali. Anche nella nostra società la famiglia è importante, ma oggigiorno è diventato normale crearla sempre più tardi, perché ci preoccupiamo prima del lavoro, di trovare una sistemazione economica buona che possa dare stabilità alla futura vita familiare. Difatti, quando ci si confronta su questo argomento, viene sempre fuori quella buffa domanda: “Come mai a trent’anni una donna italiana non ha ancora figli?”. Qui, a quell’età, sono già al secondo! Qui non danno peso ai soldi e alla stabilità economica; hanno quella piccola dose di “irresponsabilità” che a noi ci manca e che a loro forse permette di vivere la vita nel presente più che nel futuro… Ma non voglio esprimere giudizi di merito, perché non credo esistano un modo giusto e uno sbagliato.bambini_tanzania3

C’è qualche aspetto in particolare che ti ha colpita?

Il loro legame con la Terra, sulla quale camminano a piedi nudi. Ma anche il rapporto col cibo, che spesso mangiano senza posate e che per loro significa semplicemente nutrimento e non è legato al “culto” della gastronomia come da noi. In occidente è diverso: da fonte di sostentamento, il cibo si è evoluto; la varietà da noi è apprezzata, mentre per loro spesso non c’è questa possibilità, ma anche quando ce l’hanno non osano molto, poiché sono conservatori e abitudinari. Dico “conservatori” perché spesso qui si trovano “bianchi” che vengono a operare come volontari, che portano il loro aiuto, la loro conoscenza e parlano con loro. Confrontandoci, anche se si opera in settori diversi, emerge sempre un comune denominatore: la diffidenza nei confronti dei nostri consigli. Non dicono mai di no perché sono un popolo molto gentile, ma ce lo fanno capire… Ho riflettuto spesso su questa cosa e ho concluso che forse è dovuta alla colonizzazione: il loro è sempre stato un popolo soggiogato, che ha sempre ricevuto ordini, e ora vogliono dimostrare di essere in grado di farcela anche da soli. E lo possono fare, perché non è grazie ai bianchi che vanno avanti, anzi, ma questo atteggiamento al tempo stesso li frena. Comunque siamo noi gli ospiti della loro terra e cerchiamo di dare una mano nel modo in cui a loro è più comodo.

Ci puoi parlare del progetto che stai seguendo?

Vi sto scrivendo dalla Tanzania-Iringa-Tosamaganga, dall’orfanotrofio delle Suore Teresine, Kituo Cha Watoto Yatima. Questa casa è la mia casa e le persone che ci lavorano e i bambini adesso sono la mia famiglia. Questa famiglia è composta da 66 bambini che variano dal mese ai sei anni di età, 6 suore, una ventina di dade e altri 3 volontari tedeschi. Ognuno ha il suo ruolo e ci si aiuta a vicenda per rendere tutto divertente ma nello stesso tempo efficace e formativo. I bambini sono divisi in quattro gruppi: lattanti, piccoli, medi e grandi. Il gruppo che seguo è quello dei piccoli, che vanno dai nove mesi ai tre anni e questi 16 bimbetti ci riempiono la giornata!

E qual è la tua giornata tipo?

È una domanda che mi sento porre spesso! Ora provo a descriverla… I giorni qui in Africa iniziano presto la mattina e con i bimbi è normale. Verso le 7.30, dopo aver fatto colazione, mi reco nella stanza dei “miei” bimbi, che quando mi scorgono da lontano iniziano a chiamare “Elisa, Elisa, Dada Elisa!”. Queste vocine che urlano il mio nome sono una cosa bellissima e i loro occhi che mi cercano per un’attenzione, una coccola o semplicemente uno sguardo mi scaldano il cuore e mi riempiono la giornata! Si inizia riempiendo i biberon e i bicchierini di latte, si cambiano, si puliscono e poi tutti in cortile a giocare! C’è chi è alle prese con le prime parole – mamma, dada e anche Elisa è diventata una di esse –; non potete immaginare la gioia nel sentire una vocina pronunciare il mio nome, in quel momento il mio cuore batte a mille! Altri sono alla scoperta del mondo visto a quattro zampe e quindi iniziano a gattonare dappertutto alla ricerca dei loro amici. Poi ci sono quelli che piano piano cercano di prendere il via alzandosi e provando a camminare da soli. Ogni giorno si fanno dei progressi, dal rimanere in piedi, al camminare con l’aiuto una mano… e un po’ alla volta vedi che lasciano la presa e cercano di avanzare da soli! Ogni giornata ha il suo evento: Joseph ha fatto i primi passi, Enjoy ha detto la sua prima parola, Lecho ha imparato a battere le mani… queste sono soddisfazioni che riempiono il cuore di gioia. Poi ci sono i più grandicelli del gruppo che corrono e ti saltano addosso alla ricerca di un abbraccio o ti chiamano per farsi guardare mentre scendono dallo scivolo o semplicemente per invitarti a giocare insieme a loro con dei tappi di bottiglia. Giochi semplici ma capaci di infondere grande felicità. A metà mattinata arriva l’ora del semolino: si recuperano i 16 bambini sparsi per il cortile e li si mette a sedere uno accanto all’altro su un kitenge – un tessuto africano – con il proprio bavaglino e in gruppo si inizia a imboccarli. Alla fine del pasto, i bimbi vanno a nanna e io mi reco in stanza a studiare il kiswahili; piano piano, con l’aiuto di uno dei volontari tedeschi, sto imparando questa lingua, importantissima sia con i bambini che con le dade con cui lavoro tutti i giorni. Dopo l’ora del pisolino e il mio pranzo, ritorno dai miei folletti birbanti, do loro del latte e li riporto a giocare in cortile. Verso le quattro, un altro po’ di semolino, cambio pannolino e tutti a nanna fino alle otto, dopo di che si prende il latte e ci si riaddormenta nuovamente per raggiungere Morfeo nel cuore della notte.

C’è un bambino di cui ci vuoi parlare in particolare?

In questo gruppo c’è anche Neema, una bimba che ha bisogno di assistenza e non è autosufficiente a causa di un problema cerebrale che compromette la funzionalità degli arti, che devono essere sollecitati e movimentati. L’altro problema da cui è affetta è la contrazione della massa muscolare nella zona di bacino e gambe e per questo ha bisogno di essere rilassata con esercizi ripetuti giornalmente. Con lei, due volte alla settimana, andiamo in città, a Iringa, per delle sedute di fisioterapia in un centro specifico per bambini e quotidianamente svolgiamo gli esercizi che ci danno da fare a casa. Quest’anno Neema ha compiuto tre anni. Il nostro primo incontro risale all’estate 2012: era sdraiata a pancia all’aria su una coperta e osservava sorridendo i suoi amici passarle vicino… abbiamo incrociato i nostri sguardi, mi ha sorriso chiedendomi con gli occhi di andare a giocare con lei e così ho fatto. Da quel momento in poi abbiamo pensato che sarebbe stato bello che Neema potesse avere la possibilità di provare a camminare e a giocare con gli altri bambini, quindi abbiamo deciso di adottarla a distanza e aiutarla nel suo percorso. Una volta tornata in Italia, insieme al mio amico Matteo, ho parlato ai nostri conoscenti di Neema e della nostra idea di aiutarla e grazie anche alla collaborazione delle suore siamo riusciti a trovare un centro specialistico per bambini con problemi come i suoi. Ora io e lei siamo inseparabili! Per raccontare la mia esperienza ho aperto il blog unatwigaintanzania.blogspot.it, dove cerco di trasmettere le emozioni che sto vivendo. Non è come vivere questa esperienza in prima persona, ma spero tanto di arrivare ai vostri cuori e farli battere almeno una volta come sta facendo il mio in questo momento. Non so cosa mi aspetta quando tornerò in Italia, ma sarò sicuramente felice di quello che avrò fatto in Africa e una parte di me rimarrà per sempre in questa Terra.

Fonte: il cambiamento

 

Lascia lavoro ben retribuito per fare volontariato

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Nonostante la crisi, Brent Morris (nella foto, a sinistra) ha deciso di lasciare il suo lavoro come consulente aziendale, un impiego retribuito con un salario a 6 cifre, per un lavoro non retribuito: fare volontariato a tempo pieno per aiutare i meno fortunati. Considerato il momento di crisi, Brent Morris, sposato e padre di tre figli, ha preso una decisione molto coraggiosa e decisamente controcorrente. Brent, che ha 47 anni e vive a Charlotte (North Carlina) con la moglie Caren e i tre figli, già da tempo aveva cominciato a fare volontariato, ma solo nel tempo libero, presso il Learning Help Centers – un ente locale di beneficenza che realizza programmi educativi e formativi per i figli di immigrati e rifugiati.

Questa esperienza lo ha così colpito che ha cominciato a pensare seriamente di lasciare l’impiego fisso, per aiutare questi bambini a tempo pieno.“Il mio pensiero va ai bambini”, ha dichiarato Brent, “che siano nato qui o meno, perché sono innocenti e non devono pagare per lo status giuridico dei genitori. Meritano un futuro migliore, esattamente come quello che noi americani sogniamo per i nostri figli”. Brent, che oggi è cittadino statunitense, è stato lui stesso un immigrato e sa benissimo cosa vuol dire avere un futuro incerto e lottare ogni giorno per poter sopravvivere. Insieme alla moglie Caren, ha lasciato il Sudafrica ed è arrivato negli USA nel 1991, dopo sole due settimane di matrimonio. La loro intenzione era di lavorare nel settore amministrativo o contabile, ma – essendo immigrati – hanno incontrato enormi difficoltà, finché Brent è riuscito a diventare un consulente aziendale con un ottimo stipendio. Poi è arrivata la svolta: il volontariato presso il Learning Help Centers di Charlotte gli ha ricordato quanto è stata dura inserirsi in un paese straniero e, per almeno sei mesi, ha covato il desiderio di lavorare per il LHC a tempo pieno. Ne ha parlato con la moglie Caren, la quale gli ha chiesto di non fare passi avventati finché non fossero “finanziariamente pronti”. Caren ha spiegato che che questo tipo di sensibilità è una caratteristica della famiglia del marito. “La sua è una famiglia di sacerdoti e pastori. Lui non ha preso i voti, ma è comunque parte delle sua educazione”. Quando Brent è riuscito a saldare tutti i debiti, compreso il mutuo sulla casa, ne hanno parlato coi tre figli, che hanno 14, 11 e 6 anni. “All’inizio hanno avuto reazioni contrastanti”, ha detto Caren, “ma poi hanno sostenuto l’idea al 100%”. Brent ha seguito le stesse orme di Jeff Park, il fondatore della LHC, che oggi ha 67 anni e che molti fa aveva lasciato il suo lavoro di ingegnere chimico per aiutare gli altri. Park, che paradossalmente è stato proprio uno di quelli che ha ammonito Brent che lasciare un impiego fisso sarebbe stato molto azzardato, ha commentato: “Lo apprezzo molto per il suo coraggio. Per noi è una benedizione”. Oggi, infatti, Brent e Caren lavorano al centro a tempo pieno e gratuitamente, facendo qualsiasi cosa sia necessaria: dall’insegnamento alle pulizie, dallo sviluppo del sito web all’assistenza al bagnino durante il campo estivo. “Sì, molti mi hanno detto: sei pazzo”, ha detto Brent, “ma altri mi hanno incoraggiato. Ma ho sentito che dovevo farlo. E non ho alcuna intenzione di ritornare al mondo aziendale”.

Fonte: buonenotizie.it

El Hogar de Luci, in Spagna un santuario per animali

Salvare gli altri animali, accoglierli e curarli in modo degno, dar loro ospitalità come se facessero parte di un nucleo familiare. Con queste finalità è nato circa sette anni fa in Spagna El Hogar de Luci. Per saperne di più abbiamo intervistato Elena Tova, attivista che insieme ad altri ha dato vita a questo santuario per animali.el_hogar1

Ricordate quella famosa storiella di tale Sir George Orwell, La fattoria degli animali, dove gli animali della fattoria facevano la rivoluzione per liberarsi dal dominio dell’uomo in nome della liberazione di tutti gli animali e quindi dell’uguaglianza, ma dove poi, raggiunto l’obiettivo, qualcuno diventava “più uguale” degli altri? Ebbene, nel posto di cui vi parlerò in questo articolo, gli abitanti sono veramente “tutti uguali”, a prescindere dalla specie di appartenenza, e nessuno è “più uguale” degli altri. Il nome di questo luogo è El Hogar de Luci, ed è un santuario per animali che si trova in Spagna. A fare la guardia all’ingresso del posto vi stanno ben 6 cani: Julietta, Ringo, Numa, Greta, Comino, Chero e Luna i quali, come da copione, ti danno il benvenuto abbaiando. Insieme a loro Elena Tova, la ragazza che insieme ad altri attivisti per i diritti animali ha creato circa 7 anni fa questo posto destinato agli altri animali. Elena Tova mi fa fare un giro per mostrarmi il tutto, e così spicca subito Clara, una vacca che vive nel Santuario, maestosa e docile nel contempo, che adora le carezze sulla nuca. Vicino a Clara 7 maiali: Amadeo, Zaida, Potter, Freedom, Guendolin, Campanilia e Rapunsel. Ciascun animale, scoprirò, ha un nome, una sua storia, un proprio vissuto, il proprio carattere quindi e perfino fobie e fisime. Elena mi porta così a visitare l’edificio principale dove vive e già lungo il percorso dall’ingresso fino al casolare faccio diversi incontri inconsueti per un individuo che, come me, è abituato a vivere nelle città umane, dove gli animali non-umani si trovano o rappresentati negli schermi mediatici in forma di cartoni animati dove simpatici gatti (o coyote) cercano di acchiappare altrettanti simpatici topi (o struzzi), o dentro delle gabbie, o ben legati al guinzaglio.felix_el_hogar

Incontro lungo il cammino circa 15 pecore le quali, curiose e con fare dolce, mi si avvicinano come per darmi il benvenuto: se un alieno scendesse sulla Terra, credo che direbbe che la pecora sia la migliore amica dell’uomo, per via della sua infinita dolcezza. Quindi mi imbatto in un gruppo di oche che gli attivisti del luogo hanno soprannominato scherzosamente “la mafia” perché costoro si muovono sempre in gruppo e attaccano chiunque incontrino lungo il loro cammino: in questa piccola oasi gli animali sono liberi di camminare ed interagire, ovviamente ciascuno con le sue caratteristiche di specie ed individuali. Entriamo nell’edificio principale e, dopo avermi presentato i gatti che vivono dentro la casa, Elena mi porta da Felix, un ariete che era destinato al macello, ma fu attaccato da dei cani che lo avevano reso (all’apparenza) paralitico, cosicché la sua carne non era più commerciabile, e in qualche modo è finito qui, al El Hogar. Tutte le mattine i volontari portano Felix fuori per fargli godere il sole e fare della fisioterapia (il veterinario dice che un giorno tornerà a correre!), per poi riportarlo nel casolare la sera, prima che il sole si spenga all’orizzonte, per farlo riposare dentro la stanza adibita ad ambulatorio veterinario. Il viso di Felix è sempre sereno, felice, nonostante quello che ha subito, e nonostante le fatiche che affronta ogni giorno tra esercizi di riabilitazione, cure varie, etc. Il 13 di aprile 2013, a Madrid, i volontari del santuario hanno organizzato una festa in onore di Felix, per raccogliere dei fondi destinati all’acquisto di medicinali per il povero ariete, diventato nel frattempo uno dei simboli del posto.pecore_felix_el_hogar

Nella stanza principale, tra i computer e i vari attrezzi usati dagli attivisti di El Hogar, vi sono alcuni gatti, e un gallo, Libre, che veniva usato dall’università di veterinaria di Madrid per la sperimentazione animale, disabile anche lui. Ogni giorno anche Libre ha bisogno di molte cure e attenzioni. I volontari hanno costruito un aggeggio che permette a Libre di passare le sue giornate comodamente seduto senza che la zampa ferita sfiori il pavimento della stanza. Usciamo fuori dal casolare e in una zona a parte convivono alcune papere con delle galline, piccioni e alcuni ratti, e vi è un gallo zoppo. Anzi, ve ne sono due di galli al santuario, e come nelle migliori delle barzellette sono uno zoppo e l’altro cieco. Sono in ordine di disabilità Giorgio e Alfonsito, due galli usati per i combattimenti e riscattati dal santuario. Alfonsito (quello cieco), ha perduto la vista a causa delle iniezioni di zucchero che subiva per renderlo più aggressivo durante gli scontri con gli altri galli, nei ring umani. Scopro così che il povero Alfonsito ha bisogno ogni giorno di una persona che lo aiuti a mettere il becco nel posto giusto onde nutrirsi, e che ogni notte lo rimetta nel suo alloggio perché, essendo cieco, raramente (e soltanto per caso) è in grado di ritrovare la via per la sua casetta poiché, nonostante la piccola abitazione (a misura di gallo) sia posta in uno spazio di pochi metri quadri, il mondo appare molto più grande visto con gli occhi di un gallo, specialmente se questo è cieco! Pongo così la prima domanda ad Elena Tova, mentre un po’ come Alice nel paese delle meraviglie, cerco con la vista di trovare il “bianconiglio” che mi inviti a seguirlo… Come e quando è nata l’idea di creare un posto come questo, un Santuario per animali? In effetti non è una cosa comune in Europa. L’idea è la conseguenza di molti anni passati a salvare animali, dato che fin da bambina mi dedicavo a questo, e quindi dalla necessità di un posto dove gli animali potevano essere riabilitati e curati fino alla loro adozione. Ma l’idea era di aiutarli in modo degno, non come accade in molti posti dove gli altri animali vengono tenuti (si pensi ai canili) in minuscole gabbie, quei luoghi freddi e formali. L’idea era di dar loro ospitalità come se fossero in una famiglia, un luogo dove vengano trattati come membri di un nucleo familiare.el_hogar

Accadde che un giorno il nostro cammino si incrociò con quello di un maiale, e gli demmo un nome: Benito. Volevano ucciderlo, ma noi invece decidemmo di salvarlo. Ci rendemmo conto del fatto che in tutta la Spagna non c’era un posto dove qualcuno potesse ospitare e prendersi cura di Benito in maniera dignitosa. Secondo noi questo era sbagliato, perché dal nostro punto di vista, in quanto attivisti per i diritti dei più deboli, bisogna sempre prendersi cura degli altri, e ciò a prescindere dalla specie di appartenenza. Decidemmo così di creare una struttura che desse accoglienza a tutti quegli animali che non avevano un posto dove andare. Così abbiamo raccolto quegli animali che per gli altri umani non sono visti come individui degni di affetto e del diritto di vivere. Col tempo ci siamo resi conto che gli animali più bisognosi sono proprio quelli che vengono identificati dalle persone come ‘cibo’ o come ‘oggetto di consumo’, nelle più svariate forme. Qualcuno ci disse che negli USA c’erano dei luoghi dove sono curati e vivono animali considerati socialmente come cibo o comunque come oggetti, e che questi luoghi sono chiamati ‘santuari’ proprio per indicare che dentro le mura di questi luoghi gli animali che ci vivono sono protetti e nessuno può far loro del male. Mi piacque subito l’idea, e decisi che quello era ciò che volevo: un piccolo paradiso terrestre dove la pace regnava, un luogo giusto e sicuro per tutti. Fu così che creammo il primo santuario multi-specie in Spagna: <i<=”” i=””>.</i  Come funziona l’organizzazione del santuario? Il santuario è portato avanti da un gruppo di persone provenienti da diverse città e nazioni e che ritengono sia necessario modificare le abitudini della società in termini di consumi, divertimenti, vestiario, etc. Crediamo che il veganismo sia l’unico mezzo affinché questo cambiamento possa diventare realtà, nonché per essere coerenti con le nostre ideologie di liberazione animale. Pensiamo che questo cambiamento di prospettiva – il vedere gli altri animali come soggetti e non come oggetti da sfruttare – sia possibile, ma che bisogna lavorare sodo per far sì che la gente sappia che ci sono altri modi di vivere alternativi a quello che viene imposto dalla cultura dominante. Pertanto, insieme al santuario che è un simbolo di questo cambiamento, stiamo creando in parallelo altri progetti orientati a mostrare alle persone quelle realtà che il capitalismo e le multinazionali cercano con cura di nascondere ogni giorno penetrando e organizzando tutti gli aspetti della nostra vita. Per quanto concerne l’organizzazione di El Hogar (il nome del Santuario adesso non è più El Hogar de Luci ma è, dopo 6 anni di conoscenze e di sviluppo in tutti i suoi aspetti, El Hogar), esso viene gestito da persone tutte accomunate da questa necessità di cambiamento, impegnate dunque nell’organizzazione di progetti per creare un mondo migliore anche per gli altri animali.el_hogar_5

Sia i volontari che soggiornano nel Santuario, quanto quelli che aiutano indirettamente dall’esterno, ci appoggiano attraverso campagne di informazione mirate a sensibilizzare la gente su temi come “adozione” degli animali e non “acquisto di esseri viventi”, “cure fisiche e psicologiche”, “azioni responsabili”, “alimentazione”, etc. Tutti i volontari aiutano come possono lavorando in sincronia per la diffusione delle nostre idee, per la progettazione, la comunicazione e l’organizzazione di eventi, banchetti di informazione, etc. Allo stato attuale ci sono circa 10 dipartimenti che permettono di lavorare ad un ritmo elevato per la progettazione e creazione di eventi, il negozio, il web, etc. Cos’è l’antispecismo secondo voi, e che mi dici dei diritti degli animali in Spagna? Lo specismo è la discriminazione attuata arbitrariamente da parte di alcuni individui nei confronti di altri individui di altre specie, e di solito è espresso dall’uomo che si pone in una posizione di supremazia nei confronti degli altri animali. Gli interessi di questi non sono presi in considerazione, ma bensì rivendichiamo la proprietà dei loro corpi come se fossero oggetti nonché il diritto di disporre della loro vita e di utilizzarla soltanto a nostro vantaggio. Lo specismo ha evidenti analogie con altre forme di segregazione come il razzismo o il sessismo, tutto allo scopo di screditare alcuni individui sulla base di alcune caratteristiche irrilevanti dal punto di vista della considerazione morale. Oltre le nostre differenze, siano queste il sesso, la razza o la specie, tutti gli animali condividono la capacità di sentire piacere o dolore, nonché la volontà di vivere e meritano pertanto uguale rispetto e il riconoscimento del sacrosanto diritto di vivere. Il movimento per i diritti animali è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi dieci anni e sono sempre più le persone che sono attive e lottano per un cambiamento di coscienza, per il progresso etico, per un mondo migliore e più giusto per tutti senza distinzione di specie. Queste persone sono testimoni e portavoce della evoluzione inarrestabile di una scuola di pensiero che sostiene pari diritti e il rispetto per tutti gli esseri senzienti, e quindi l’abolizione di tutte le forme di sfruttamento esercitate su di loro. Lo stato spagnolo non è estraneo a questa tendenza e il movimento per i diritti degli animali si fa strada costantemente nella nostra società. L’attivismo è articolato da diverse organizzazioni, e l’impatto sulla popolazione è in aumento. Le azioni di diffusione e sensibilizzazione cominciano a fare eco nei mezzi di comunicazione e la diffusione attraverso le reti sociali aumenta la loro efficacia. Tutto ciò è significativo e ci dà molta speranza. Si potrebbe anche menzionare la recente proliferazione di santuari per animali in tutto lo Stato.

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Come vi finanziate in un mondo dove gli animali sono concepiti solo come ‘prodotti’? Con duro lavoro. Ogni mese dobbiamo organizzare nuovi eventi di raccolta fondi come cene, concerti, rappresentazioni teatrali, corsi ecc. Cerchiamo di innovare tanto in modo da non annoiare le persone e di lavorare con amore e fantasia per rendere ogni evento memorabile. Vendiamo anche oggetti e gadget del santuario agli eventi o tramite il sito web. Quindi, oltre ai messaggi che diffondiamo sull’antispecismo usiamo la nostra identità, quella di El Hogar, come strumento per raccogliere i fondi necessari per mantenere il santuario degli animali e per l’acquisto di farmaci, cibo e altri beni di prima necessità per gli animali che vi abitano. In Spagna non c’è molta empatia per gli altri animali, quindi in genere le persone comuni non considerano la possibilità di donare soldi per salvare la vita di un pollo o di un maiale. Non è facile ricevere donazioni, per cui senza queste attività parallele e soltanto con l’aiuto dei partner e degli sponsor non potevamo costruire quello che esiste oggi. Non riceviamo nemmeno contributi o sussidi dal governo, quindi il nostro lavoro è l’unica fonte di finanziamento. Abbiamo qualche donazione fissa, ma di solito ci permette appena di coprire i debiti o le operazioni di emergenza veterinaria. Dicevi che c’erano altri santuari in Spagna? Attualmente penso che ci siano circa 7 santuari, ma non tutti sono antispecisti o vegani. Quali sono i vostri obiettivi, dove volete arrivare? Veganizzare il mondo! Fino ad allora non avremo riposo, dato che gli altri animali saranno sempre sfruttati, cosa che non ci permette di dormire sonni tranquilli, né a me né tantomeno ai miei colleghi che insieme a me sono impegnati per porre fine a questa barbarie. Viviamo in un luogo giusto e sicuro per tutti, lo abbiamo fatto per gli animali che vivono all’interno del santuario, ma non smetteremo di lottare in modo pacifico finché nessun animale sia mai più sfruttato. Faremo tutto il possibile per creare un mondo dove gli esseri umani e gli altri animali possano vivere insieme nel rispetto reciproco, e crediamo che creare i santuari per animali sia un modo molto efficace per mostrare agli esseri umani che convivere con altre specie sia possibile e avvicinarli dunque alla diversità. È possibile che si creeranno più santuari scelti altrove strategicamente. Ma oltre a fare altri progetti di questo tipo, creiamo sempre nuovi materiali antispecisti, documentari, mostre, insomma tutto quello che possiamo fare per accelerare questo processo di cambiamento della società.

Fonte: il cambiamento