Atelier Riforma: la rete che trasforma abiti usati riscoprendo l’arte sartoriale

A Torino Elena Ferrero e Sara Secondo hanno fondato “Atelier Riforma” con l’obiettivo di creare una rete di sarte, designers, sartorie sociali, brand sostenibili che insieme collaborino per la trasformazione di abiti usati e la diffusione di una cultura circolare, attraverso la riscoperta e la valorizzazione dell’arte sartoriale.

«Ricordo che fin da piccola ero abituata a indossare vestiti di seconda mano che ereditavo da mia cugina di qualche anno più grande. E per fortuna c’era la nonna che, con la sua arte e la sua macchina da cucire, era capace di trasformare e abbellire qualsiasi abito, come fosse nuovo». La storia di oggi parla di vecchi abiti in un armadio e nuovi sogni nel cassetto.  Parla di due ragazze torinesi, Elena Ferrero e Sara Secondo, che sono state capaci di dare a quei vestiti e a quei sogni una nuova forma. Qualche anno fa hanno dato vita al progetto “Atelier Riforma” che nasce con lo scopo di creare una rete sul territorio fatta di persone che, con diverse abilità e competenze, collaborino per dare nuova vita agli abiti usati e per diffondere una rinnovata cultura che ispiri le persone verso comportamenti sostenibili. E il progetto non può che nascere da una storia personale che, proprio come quella che ci ha raccontato Elena, rievoca tempi passati e abilità artigianali. Il nome del progetto parte proprio dal concetto di “riformare”: «il termine “riforma” – ci viene spiegato –, si riferisce non solo al dare nuova forma agli abiti, ma anche al realizzare una vera e propria riforma del nostro modo di produrre e consumare, passando dall’ottica lineare di “produco, uso, butto” a quella circolare di “produco, uso, riformo».

https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2020/01/Atelier-Riforma-1-1024x681.jpg

L’obiettivo principale è raccogliere abiti usati dando loro una nuova vita tramite la selezione e la lavorazione sartoriale, rimettendoli successivamente sul mercato dopo essere stati trasformati dalle abili mani dei collaboratori che fanno parte della rete di Atelier Riforma creatasi in questi anni.

«I professionisti che hanno deciso di entrare nella nostra rete sono molto vari: ci sono modelliste, designer, un brand eco-sostenibile di ricamo a mano e una magliaia, ovvero colei che recupera i vecchi maglioni, disfacendoli e creandone di nuovi dallo lo stesso filato».

Come ci viene spiegato, la vita dei vestiti è brevissima: si stima che più della metà di tutta la fast fashion prodotta venga buttata entro un anno. E solo il 13% del totale dei tessuti viene in qualche modo riciclato (perlopiù dirottando i materiali in altre industrie con applicazioni di minor valore, ad esempio per farne materiale isolante, stracci o imbottiture per materassi) mentre meno dell’1% viene convertito in nuovi vestiti. Il presupposto su cui si basa Atelier Riforma parte dal concetto di “upcycling” (che può essere tradotto col termine di “riciclo creativo”) e rappresenta un processo che supera il comune concetto di “recycling” (riciclo) attraverso una conversione migliorativa che, grazie all’atto creativo, aumenta il valore del materiale di ogni capo. In questo modo, attraverso un continuo trasformare, riconcepire, riutilizzare, innovare, tutto ciò che rimane invenduto dopo un anno viene donato alle persone che ne hanno bisogno. «Chi desidera trovare una destinazione etica e sostenibile ai vestiti che non usa più e che ingombrano il suo armadio non deve fare altro che dircelo e veniamo a prenderli direttamente a casa sua: in cambio riceverà un piccolo buono da spendere per acquistare altri abiti riformati» ci spiega Elena. Sul territorio Atelier Riforma collabora con alcune sartorie sociali come la Cooperativa Nemo e Il vaso di Sarepta, nelle quali lavorano persone in condizione di fragilità economico-sociale e che qui trovano nuove opportunità lavorative verso una maggior autonomia. Sara ed Elena hanno inoltre avviato una collaborazione che prevede un percorso formativo con due istituti di moda, ovvero l’Accademia Italiana di Moda e Couture e l’Istituto di Moda Burgo Torino ai quali forniscono i capi usati affinché gli studenti e le studentesse abbiano l’opportunità di imparare cosa significa fare moda sostenibile attraverso l’allungamento della vita dei vestiti.

https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2020/01/Atelier-Riforma2-1024x675.jpg

Come ci raccontano, un grande problema che affligge gli abiti usati è la trasparenza. Infatti, se decidiamo di donare i nostri vestiti riponendoli negli appositi cassonetti o regalandoli ad associazioni non abbiamo, in molti casi, la certezza di dove questi andranno a finire. «Questa poca trasparenza scoraggia i cittadini a intraprendere buone azioni ed è quindi fondamentale aumentare la consapevolezza del percorso e della destinazione dei propri capi, in modo che questo processo venga a tutti gli effetti incentivato, stimolando la diffusione di comportamenti virtuosi».

E l’aspetto innovativo di Atelier Riforma risiede proprio nella possibilità di conoscere il percorso di ogni capo donato poiché viene tracciato attraverso un sistema di codici che permette di sapere esattamente dove è andato a finire il capo donato. «Attraverso il nostro sistema di tracciabilità facciamo “toccare con mano” l’impatto positivo di ogni donazione e questo rappresenta un elemento distintivo che al momento non è presente in nessun’altra realtà di questo tipo».

https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2020/01/Atelier-Riforma5-1024x681.jpg

Come ci viene spiegato, ad oggi il settore della moda è la seconda industria più inquinante al mondo, seconda soltanto a quella petrolifera. Questo perché l’attuale sistema di produzione e utilizzo degli abiti opera in modo completamente lineare: si impiegano ingenti quantità di risorse per produrre i vestiti, i quali vengono utilizzati per un brevissimo periodo di tempo, trascorso il quale finiscono in discarica o negli inceneritori. Attualmente, l’industria tessile si basa soprattutto su risorse non rinnovabili – 98 milioni di tonnellate in totale all’anno – fra cui petrolio per produrre le fibre sintetiche, fertilizzanti per coltivare il cotone e sostanze chimiche per produrre, colorare e rifinire i tessuti.

Atelier Riforma si è costituita proprio in questi giorni startup innovativa. E così Elena e Sara stanno creando un sistema virtuoso fatto di persone e abilità diverse, di professioni e competenze variegate, ma accomunate da un grande sogno: «contrastare l’attuale cultura dell’“usa e getta” per azzerare lo spreco nell’industria del tessile attraverso una moda ecologicamente ed eticamente sostenibile, che sia accessibile alla maggior parte della popolazione e non un privilegio di pochi».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/01/atelier-riforma-rete-trasforma-abiti-usati-riscoprendo-arte-sartoriale/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Indossiamo… tracce nascoste di veleni

Nel settembre scorso Greenpeace, nell’ambito della campagna Detox, aveva chiesto ai marchi dell’abbigliamento outdoor se utilizzassero PFC nei loro prodotti. Gran parte aveva risposta sì ma senza fornire dettagli. Ora sono pronti i risultati dei test di laboratorio…ed ecco quanti veleni ci portiamo addosso ogni giorno!

pfc_abiti

Nei mesi scorsi Greenpeace ha acquistato una quarantina di prodotti dell’abbigliamento outdoor e li ha inviati a un laboratorio indipendente per le analisi. I risultati confermano la presenza di PFC nel 90 per cento dei prodotti analizzati, solo quattro articoli ne sono risultati privi. «In 18 prodotti sono state registrate concentrazioni elevate di PFC a catena lunga, ovvero i più pericolosi, nonostante la maggior parte dei marchi dichiari pubblicamente di aver eliminato questi composti dai loro prodotti» spiega Mirjam Kopp, responsabile del Detox Outdoor Global projec. «Il PFOA (Acido Perfluoroottanoico) ad esempio – un PFC a catena lunga responsabile di numerose patologie e malattie gravi come il cancro – è stato individuato in alcuni prodotti di marchi molto popolari come The North Face e Mammut. I risultati confermano lo scarso rispetto di questi marchi per la natura e per la nostra salute: non si fanno scrupolo di usare sostanze chimiche pericolose nelle loro filiere produttive. Insieme a tutti gli amanti della natura e degli sport all’aria aperta li sfidiamo a mostrarci veramente cosa vuol dire essere aziende leader nel rispetto dell’ambiente: per questo motivo chiediamo loro di smettere subito di usare sostanze chimiche così pericolose sottoscrivendo un impegno Detox. Ciò che preoccupa è che queste sostanze si degradano molto lentamente una volta immesse in natura entrando così nella catena alimentare e causando una contaminazione  pressoché irreversibile. Abbiamo trovato i PFC in alcune delle aree più remote del pianeta, in animali come delfini e orsi polari e persino nel sangue umano». I prodotti risultati contenenti Pfc sono quelli di marchi come The North Face, Patagonia, Mammut, Columbia e Haglofs.

Leggete qui il rapporto di Greenpeace

Cosa sono i PFC

I composti perfluorurati (PFC), sono molecole in cui tutti i legami carbonio-idrogeno sono sostituiti da legami carbonio-fluoro. Questi composti sono stati largamente impiegati negli ultimi cinquant’anni in virtù delle loro peculiari caratteristiche chimico fisiche. I PFC si presentano come lunghe catene carboniose (almeno 6 atomi di carbonio tranne i composti più recenti), che terminano con un gruppo polare. Questa struttura chimica conferisce una particolare resistenza termica nonché inerzia chimica, ed una eccezionale idrofobicità e lipofobicità. Caratteristiche queste ultime che hanno reso estremamente differenziato l’impiego dei PFC sia in ambito industriale che in quello domestico (polimeri plastici, carta, fibre tessili e pellame, schiume antincendio, cosmetici, casalinghi, etc.). In totale, si contano 23 classi chimiche di PFC. Queste molecole causano contaminazione ambientale. I PFC risultano resistenti nei confronti delle degradazioni possibili in natura (fotolitica, idrolitica, biotica aerobica o anaerobica) e sono in grado di bioaccumularsi negli organismi viventi, concentrandosi nella catena alimentare. Si sono dimostrati in grado di causare un’ampia gamma di effetti avversi, sia in studi di laboratorio, in vitro e in vivo, che in studi epidemiologici. L’esposizione potrebbe anche incrementare la permeabilità cellulare nei confronti di altri composti tossici, come ad esempio le diossine, potenziandone l’azione. Inoltre, l’interruzione della comunicazione cellulare, di per sé fondamentale per la crescita della cellula, può tradursi nella promozione di crescita cellulare anormale, e dunque nello sviluppo di tumori, specie in caso di esposizione cronica.

Fonte: ilcambiamento.it

Per H&M la moda può essere economica e etica

H&M, il secondo più grande retailer di moda del mondo ritiene che non vi sia alcun conflitto tra il vendere vestiti e migliorare ambiente e condizioni di lavoro dei suoi fornitori

Lo abbiamo sostenuto più volte su Ecoblog: la moda a basso prezzo non può essere democratica, poiché pagare 5 euro un vestito o un pantalone vuol dire alimentare la catena dello sfruttamento umano e dell’inquinamento ambientale in paesi asiatici come Cina, Cambogia e Bangladesh. Helena Helmersson direttore della sostenibilità per H&M ha dichiarato a Reuters:

Vogliamo rendere la moda più sostenibile e democratica poiché non crediamo che la sostenibilità debba essere un lusso.

L’azienda svedese è uno dei più grandi acquirenti di capi di abbigliamento dal Bangladesh, dove il crollo della fabbrica Rana Plaza nell’aprile 2013 ha ucciso più di 1.100 persone, attirando l’attenzione globale sulle pessime condizioni di lavoro in Asia.H&M And Lady Gaga Open Epic H&M Store In Times Square

Ma H&M si dichiara orgogliosa di avere fornitori in Bangladesh e l’80% della produzione arriva proprio dall’Asia. Spiega Helena Helmersson che le fabbriche del Rana Plaza non erano fornitori di H&M:

Non è una coincidenza che non fosse tra i nostri fornitori. Siamo orgogliosi del nostro ‘Made in Bangladesh’ e la nostra presenza ha un impatto positivo.

Ma l’impegno di H&M non è stato promosso da un sondaggio tedesco condotto da Serviceplan per il mercato della Germania, il più grande per H&M: i consumatori più giovani si sono dimostrati particolarmente critici in merito all’uso della manodopera a basso costo portando il colosso svedese a scendere i basso nella classifica delle aziende sostenibili. Ora l’espansione di H&M si avrà nei paesi dell’Africa Sub-Sahariana tra Etiopia e Kenya. Il sondaggio tedesco, che è una classifica soggettiva da parte dei clienti è alle spalle e Interbrand ha promosso la società dal 46esimo al 42esimo posto tra i primi 50 marchi globali “verdi” nel 2013 e nei prossimi mesi H&M lancerà una collezione in denim realizzata con tessuto riciclato e la nuova Conscious per la P/E 2014 in bambù, poliestere riciclato e cotone biologico. Infatti H&M si è impegnata a utilizzare solo cotone da fonti sostenibili entro il 2020 e di eliminare gradualmente l’uso di sostanze chimiche tossiche per non inquinare le fonti di acqua.

Fonte: ecoblog

Piccoli mostri nell’armadio: la chimica nei vestiti dei bimbi

Si intitola “Piccoli mostri nell’armadio” il rapporto che Greenpeace ha diffuso sull’utilizzo di sostanze chimiche per fabbricare abiti e scarpe per i bambini. Vi proponiamo una sintetica guida che vi spiega cosa sono e come agiscono queste sostanze.mostri

L’ultimo rapporto di Greenpeace Asia rivela la presenza di sostanze tossiche pericolose nei vestiti per bambini di 12 marchi globali della moda. Da quelli sportivi come Adidas a quelli di lusso come Burberry. Si intitola “piccoli mostri nell’armadio” e ha dato l’avvio ad una campagna che chiede ai marchi che ancora utilizzano sostanze pericolose di eliminarle per salvaguardare la salute dei più piccoli. Prosegue dunque la campagna “Detox” di Greenpeace che in questo ultimo anno ha unito milioni di persone in tutto il mondo nella certezza che i vestiti che indossiamo non debbano contenere sostanze tossiche o pericolose e che non debbano inquinare l’ambiente. La campagna ha indotto già grandi marchi come Zara, H&M e Valentino ad impegnarsi a ripulire i loro prodotti e la loro filiera, lavorando con i fornitori per essere sicuri che nessuna sostanza pericolosa venga usata per fabbricare i vestiti che indossiamo.

Clicca qui per leggere la guida alle sostanze tossiche nei vestiti.

Fonte. Il cambiamento