Forni a microonde: dove sta la verità?

È una discussione che non pare avere fine quella sui forni a microonde; ma cosa ancora più preoccupante, una questione sulla quale la scienza ha cercato ben poche risposte, se non quelle adatte a rassicurare i consumatori. Eppure ci sono parecchi elementi che dovrebbero indurre a capirne di più.forno_microonde_rischi

Chi ricorda lo scienziato svizzero Hans Hulrich Hertel? Questo ricercatore, recentemente scomparso, ha combattuto negli anni ’90 del secolo scorso una strenua battaglia giudiziaria per poter pubblicare i risultati dei suoi studi (1) sul forno a microonde. È stato costretto a ricorrere persino alla Corte europea per i diritti umani, ma alla fine l’ha spuntata. E quanto emerso era tutt’altro che rassicurante. Purtroppo quello studio è stato condotto su un numero molto piccolo di individui e avrebbe dovuto essere ripetuto, visti gli esiti allarmanti, con urgenza su numeri molto più ampi per avere ulteriori risposte. Invece la “scienza” si è fermata lì, studi simili non sono mai più stati condotti. Forse la questione è troppo spinosa, tocca troppi interessi, ha troppe implicazioni scomode…meglio lasciar perdere. Non prima però di avere cercato di screditare il lavoro di Hertel e lui stesso. È andata così e, se ci si pensa, è legittimo chiedersi cosa un simile atteggiamento abbia a che fare con la vera scienza. Sulla questione è uscito di recente un libro che offre una panoramica del problema, “Forno a microonde? No grazie”(Macro Edizioni). Se anche il titolo lascia intuire la direzione intrapresa dall’autore Saverio Pipitone, è vero però che tutto è ampiamente documentato e permette di raccogliere le idee su una questione che sicuramente merita di essere approfondita. Ma cosa aveva scoperto Hertel? Per due mesi aveva studiato otto volontari che seguivano una determinata dieta, analizzando il sangue prima e dopo il consumo di otto tipi di alimenti, alcuni dei quali cotti o scongelati nel microonde e altri crudi o cotti in modi convenzionali. Il risultato fu che l’energia delle microonde assorbita dal cibo si trasferiva nel sangue dei soggetti studiati, «fenomeno governato dalle leggi della fisica e confermato in letteratura» si leggeva nel suo rapporto. Gli effetti misurabili comprendevano «anche modifiche nel sangue compatibili con lo stadio iniziale di un processo patologico simile a quello che si osserva all’inizio di una condizione cancerosa». La rivista trimestrale svizzera Journal Franz Weber dedicò grande attenzione a questo tema nel numero 19 del 1992, proponendo e sostenendo la ricerca di Hertel e del suo collega Blanc. A scrivere un lungo articolo che richiamava gli esiti dello studio, fu Renè d’Ombresson dello staff editoriale della rivista. «Il cibo trattato con le microonde ha causato modifiche significative nel sangue dei volontari (riduzione evidente dei livelli di emoglobina, aumento dell’ematocrito, dei leucociti e del colesterolo soprattutto HDL e LDL)» scriveva D’Ombresson. E ancora: «Le radiazioni assorbite dal cibo cotto con le microonde possono trasferirsi nell’organismo di chi consuma quel cibo? Per rispondere a questa domanda cruciale, i ricercatori hanno utilizzato un nuovo metodo di bioluminescenza batterica che permette di individuare il livello di stimolazione o inibizione dei batteri nel sangue. I risultati hanno mostrato con chiarezza che il cibo irradiato irradia a sua volta e questo effetto prolungato sul sangue deve essere preso in seria considerazione poiché ci si viene a trovare di fronte ad una irradiazione diretta». D’Ombresson aveva poi aggiunto: « Oltre agli effetti termici delle microonde, ci sono anche effetti non termici, malgrado la scienza ufficiale vi presti scarsa attenzione. Sotto questa doppia influenza, le molecole vengono frantumate, la loro struttura si deforma e le loro naturali funzioni risultano alterate». In conclusione si leggeva: «Se perdura lo stress indotto dalle microonde, i meccanismi riparatori saltano e le cellule, in cerca di energia, passano alla respirazione anaerobica (senza ossigeno). Al posto di H2O e CO2 (respirazione aerobica), si hanno elementi tossici, H2O2 e CO, come si osserva nelle cellule cancerose. Come si può vedere, le scoperte del professor Blanc e del dottor Hertel sono sufficientemente allarmanti per indurre la rapida messa al bando dei forni a microonde, lo stop alla produzione e alla vendita e la rottamazione di tutti quelli in attività. Ne va della salute pubblica». Il numero della rivista riportava poi lo studio integrale di Blanc e Hertel, dove si spiegava come «attraverso l’irradiazione del cibo la struttura delle molecole viene sgretolata e deformata e si formano nuove sostanze con effetti duraturi sulle quali la scienza sa ben poco», inoltre «sulla base di un ben noto processo elettromagnetico, quel cibo diventerà fonte e vettore della radiazione». Veniva quindi illustrato l’abbassamento della concentrazione di emoglobina e l’aumento dell’ematocrito con consumo di vegetali cotti con questa tecnica, segnali rispettivamente, sosteneva Hertel, di una tendenza all’anemia e di un avvelenamento acuto. Hertel aveva poi registrato un aumento dei leucociti e del colesterolo, soprattutto HDL e LDL, e una diminuzione dei linfociti. Il quadro complessivo lo aveva indotto a concludere che si trattava di modifiche compatibili con disturbi patogeni e con una iniziale evoluzione cancerosa, problemi simili agli effetti delle deformazioni osservate in cellule viventi sottoposte a irradiazione con microonde. Inoltre la luminescenza dei batteri entrati in contatto con il siero dei volontari che avevano mangiato cibo irradiato era molto più alta di quella riscontrata nel sangue dei volontari che avevano mangiato cibo cotto con altre tecniche, a dimostrazione di un possibile trasferimento di energia radiante. Con la pubblicazione di quello studio Hertel si guadagnò gli strali di enti, istituzioni e produttori di elettrodomestici. Ne seguì una battaglia fatta di udienze e sentenze di vario grado, fino alla Corte Europea. Lo studio di Hertel era all’epoca pressochè unico nel suo genere e tale è rimasto. Sebbene condotto su un campione molto piccolo di soggetti e non indicizzato dalla banda dati medica Med-Line, ha fornito elementi interessanti. Eppure il mondo accademico non ha raccolto l’input, non sono state eseguite ricerche su larga scala per verificare cosa accade all’organismo dopo l’ingestione di cibo trattato con microonde. Si è scelto di lasciarsi alle spalle il dubbio, di ignorare quegli elementi di preoccupazione. Ma sapete quanti forni a microonde si producono ogni anno? Ben 25 milioni. Sarebbe proprio il caso di andare a fondo. Ad approfondire la tematica è proprio il libro di Pipitone, fresco di stampa. «Descrivo la nascita, l’evoluzione e la diffusione del microonde nelle cucine del mondo e riporto studi o pareri di esperti sulla sua pericolosità, compresa la vicenda di Hertel»  spiega l’autore. Il cibo in questi apparecchi viene cotto tramite microonde che si diffondono all’interno, rimbalzano sulle pareti propagandosi in tutte le direzioni e vengono quindi assorbite dagli alimenti. Le molecole di acqua nei cibi vibrano quando assorbono l’energia delle microonde e la frizione tra di esse genera il calore che cuoce l’alimento. Ma i grassi e l’acqua si riscaldano in tempi diversi rispetto ai carboidrati e alle proteine e questo crea disomogeneità con aree più fredde dove i batteri possono sopravvivere. Siccome la cottura non risulta sempre uniforme, molti produttori hanno inserito una piastra mobile che fa ruotare il cibo in modo che venga colpito da più parti. «Nel dopoguerra, i produttori dei primi forni a microonde dovettero precisare che si trattava di un  Radarange, da radar+range, per cuocere i cibi mediante radar che fino a quel momento era conosciuto solo per faccende militari – prosegue Pipitone – Nel 1949 la Raytheon Com­pany, titolare del brevetto della cottura a microonde e adesso azienda di difesa missilistica, noleggiò uno dei primi forni per 5 dollari al giorno all’Hotel Roosevelt. Erano gli anni in cui il mondo veniva diviso in due blocchi ideologici: da un lato i comunisti dell’Unione Sovietica con la smania della ricerca scientifica che incluse anche i radar militari per studiare eventuali sintomi cancerogeni sull’uomo; dall’altro lato i capitalisti degli Stati Uniti con la furia di un’economia di mercato che portò i radar in cucina per sostenere nuovi stili di vita sempre più rapidi con la parallela diffusione di cibi industrialmente modificati. Con la fine delle ideologie, è rimasto solo il fastconsumo che ha riunito il mondo in un grasso globo massificato modellandolo nell’aspetto di un “junk food and obesity” con un accelerazione tecnica,  sociale ed umana che si ripercuote sull’alimentazione provocando una destruttura­zione nella regolarità dei pasti, consumati in continuazione e spesso senza trarre alcun piacere. Peraltro esistono già sistemi di cottura tecnologicamente evoluti con contenitori o pentole in grado di scaldare i cibi con onde elettromagnetiche di tipo wireless, delineando così un futuro sempre più legato a un’energia che immergerà ed affogherà l’essere umano in uno spettrale campo magnetico invisibile, inodore, intoccabile e altamente nocivo».

Al documento viene dato il titolo: Vergleichende Untersuchungen über die Beeinflussung des Menschen durch konventionell und im Mikrowellenofen aufbereitete Nahrung(“Studio comparativo degli effetti sugli esseri umani del cibo preparato nei modi convenzionali o con il forno a microonde”)

 

Fonte: ilcambiamento.it

Forno a Microonde? No Grazie - Libro
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Pomodoro italiano: il lato oscuro della produzione e di una inchiesta vera a metà

RFI con Al Jazeera e Internazionale, finanziati dalla Fondazione Bill & Melinda Gates, hanno pubblicato un reportage sul lato oscuro del pomodoro italiano. Peccato che l’inchiesta non abbi approfondito quel che accade anche in Francia

Il pomodoro italiano, il nostro oro rosso, viene ispezionato da tre grandi testate: RFI, Al JazeeraInternazionale, dove è stata pubblicata l’inchiesta in italiano non troppo documentata ma ricca di testimonianze, firmata da Mathilde Auvillain e Stefano Liberti e realizzata mediante il programma The Innovation in Development Reporting Grant Programme dello European Journalism Center (EJC), finanziato dalla Bill & Melinda Gates Foundation. L’inchiesta punta il dito sugli accordi sottoscritti nel 2000 con il Ghana per la riduzione dei dazi delle importazioni dal nostro Paese. Tra le merci che giungono nel Paese africano il pomodoro che con il concentrato che arriva dalla Cina a basso prezzo ha letteralmente raso al suolo la produzione locale. Dal Ghana noi importiamo tra gli altri prodotti l’ ananas messo nella lista della Coldiretti dei 10 prodotti esteri più contaminati. Quando leggo certi attacchi mirati con bersagli ben identificati (in questo caso pomodoro italiano) la prima domanda che mi viene è: cui prodest? Scavando nei meandri della rete scopro che nel 2007 FIAN – FOODFIRST INFORMATION & ACTION NETWORK una ONG attiva da 28 anni, pubblica il rapporto Righ to Food of tomato and poultry farmes che consiste in una indagine condotta sul campo con interviste agli allevatori ghanesi in collaborazione con l’associazione degli allevatori e coltivatori. Già allora l’economia ghanese era al collasso a causa delle importazioni di pasta di pomodoro da Italia, Cina, Usa, Spagna, Turchia, Grecia, Portogallo e Cile e di polli da Europa Usa e Africa. Nel mentre si giunge all’inchiesta italo-francese i polli si perdono per strada: perché gli autori non menzionano anche questa situazione incresciosa? Dall’Europa non inviamo un prodotto pregiato come il pomodoro ma gli scarti del pollo, come zampe, collo, ali che non piacciono al consumatore europeo. Poiché smaltirli costa,conviene venderli al mercato ghanese a prezzo bassissimo, aiutati da sovvenzioni e dazi inesistenti e guadagnarci così un po’su. Peraltro c’è chi si è chiesto come mai l’industria della trasformazione del pomodoro non abbia attecchito in Ghana, sebbene si producesse pomodoro locale, e la risposta non è stata scontata, come si legge nel rapporto del 2010:

Eppure attualmente rese la maggior parte degli agricoltori sono ben al di sotto di dieci tonnellate per ettaro (Robinson e Kolavalli 2010, 19). Per ottenere maggiori rendimenti si richiede una migliore irrigazione, miglioramento della zootecnia e un maggiore uso di ibridi o di semi certificati al contrario di semi auto-estratti. Sistemi di miglioramento della gestione sarebbero necessario per la maggior parte degli agricoltori in modo da strutturare la produzione di pomodoro come impresa.

Domanda aperta: chi detiene il maggior numero di brevetti sui semi di pomodoro altamente efficienti? chi avrebbe interesse a spaccare le esportazioni europee di pomodoro nonché della Cina a favore di una distribuzioni di semenze? No che sia sbagliato, intendiamoci, ma perché farlo denigrando l’Italia e il Meridione? quando le sovvenzioni in agricoltura sono europee e quando l’agroalimentare italiano e il Made in Italyè il più contraffatto e violato al mondo? E ancora: la maggior parte dei pomodori che si consumano in Francia dall’inizio di quest’anno arrivano da Marocco, accordo per cui l’Italia si è espressa negativamente il che fa immaginare una forma di pressione mediatica in atto? Lo squilibrio è più evidente quando nell’inchiesta finanziata dalla Fondazione Gates mira direttamente alla piaga del caporalato in Puglia e Campania, le terre italiane dove non si coltiva più pomodoro in Italia, il record lo detiene, dicevamo la Sicilia. La testimonianza la fornisce Prince Bony lavoratore agricolo ghanese intervistato dagli autori:

Quello che Prince ignora è che il frutto del suo lavoro al nero, nei campi di pomodori del sud Italia, rischia di spingere a loro volta gli agricoltori dell’Upper East Region, nel nord del Ghana, ad abbandonare le loro terre. Quelle stesse terre che un tempo erano anche le sue.

Appena un mese fa Libera ha diffuso il Secondo Rapporto Agromafie e Caporalato, redatto dall’Osservatorio Placido Rizzotto che racconta storie di lavoratori schiavi dal Piemonte alla Sicilia:

Sulle condizioni dei lavoratori impiegati nel settore agroalimentare, i dati sono scoraggianti: secondo Flai Cgil 400.000 lavoratori trovano lavoro tramite i caporali, di questi 100.000 subiscono situazioni di grave assoggettamento con condizioni abitative e ambientali “paraschiavistiche”. Il dato positivo è che, con l’introduzione nel codice penale del reato di caporalato, 355 caporali sono stati arrestati o denunciati, 281 solo nel 2013. Le condizioni di lavoro in molti degli epicentri del caporalato sono di grave sfruttamento, addirittura il 60% di lavoratori non ha accesso ai servizi igienici e all’acqua corrente, il 70% è affetto da malattie di cui non soffriva prima dell’inizio del ciclo di lavoro. Il caporalato costa allo Stato italiano ben 60 milioni di euro l’anno. Il salario giornaliero dei lavoratori è inferiore di circa il 50% rispetto ai contratti nazionali, per non parlare delle “tasse” che i lavoratori sono costretti a corrispondere ai caporali per trasporto, acqua e cibo, oltre a medicinali e altri beni di prima necessità.

E’ vero è una piaga, ma non possiamo fare di tutta l’erba un fascio, ci sono aziende e cooperative che lavorano nella legalità: perché mirare dritto al legame Ghana-immigrazione-pomodoro italiano sostenuto però dall’Europa? Facciamo un po’ di chiarezza, perché il pomodoro industriale in Italia è un comparto ampio che vale oltre 3 miliardi di euro e che nel Polo distrettuale del centro Sud vede il 65% della trasformazione. Il pomodoro in Italia si coltiva da Nord a Sud, anche nella Pianura Padana, sopratutto tra Parma e Piacenza; il primo produttore di pomodori in Italia è la Sicilia che nel 2012 ha quasi raggiunto le 5 milioni di quintali; segue la Campania con 668 mila quintali. Veniamo alla produzione del pomodoro nel distretto del Nord dove si produce pomodoro da industria, ovvero proprio quello destinato alla trasformazione: siamo nelle regioni dell’ Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte e Provincia autonoma di Bolzano. Altrove , come in Sicilia o Campania si produce anche pomodoro da mensa, destinato cioè al consumo a tavola.

E gli autori specificano:

L’Italia, terza agricoltura europea dopo la Francia e la Germania, si contende con la Spagna il primato nella produzione di ortaggi. Negli ultimi dieci anni, sulla base dei dati FAOSTAT, l’Italia ha prodotto in media 6 milioni di tonnellate di pomodori ogni anno. Secondo la FAO, l’ammontare medio degli aiuti europei al settore del pomodoro era nel 2001 di 45 euro alla tonnellata. Inoltre, secondo Oxfam, l’Unione europea sovvenziona la produzione totale di pomodoro in Europa per circa 34,5 euro a tonnellata; una sovvenzione che coprirebbe il 65% del prezzo di mercato del prodotto finale. Ma chi si rende conto a Bruxelles del paradosso di sovvenzionare un prodotto destinato all’esportazione, che fa dumping sulle produzioni locali in Africa?

Il 40% dei francesi consuma pomodoro fresco anche in inverno e proprio una parigina, Emile Loreaux che di professione fa la fotografa ha prodotto un inchiesta, senza finanziamento alcuno e correndo molti rischi, dal titolo je suis une tomate, dove ha letteralmente seguito il viaggio che affronta un pomodoro, in questo caso dalla Spagna ai mercati del Nord Europa. La scoperta è stata sconcertante: marocchini e lavoratori dell’est Europa sfruttati come schiavi nelle serre spagnole per portare pomodori da tavola fuori stagione ai francesi. Anche in Francia si coltivano pomodori sopratutto nel più mite Sud e sotto serra dove ci sono varietà come il ciliegino e o l’insalataro. in Inverno in Francia arrivano sul mercato pomodori dal Marocco e dalla Spagna. E i francesi esportano poco. Noi italiani esportiamo pomodoro da mensa meno del previsto, ci dice FreshPlaza: Germania (33%), Austria (17%), Regno Unito (10%), Svizzera (8%) e Francia (6%).L’Ismea ci dice che le piazze più importanti fuori dall’Europa per i trasformati industriali sono il Giappone e l’Australia. E il Ghana dov’è?

Scrive ancora Freshplaza sul pomodoro industriale trasformato:

Nel 2012 i volumi di pomodoro trasformato hanno segnato quota 47 milioni di quintali (23 mln q.li al Sud Italia + 24 mln q.li al Nord Italia). L’Italia comincia ad esportare più trasformati di pomodoro di quanto ne importi: crescita a doppia cifra (+20%) per l’export verso Africa e Asia, mentre calano le importazioni di concentrato dalla Cina. Le esportazioni di pomodoro pelato hanno segnato un -7% in volume, ma un +7% in valore. Per quanto riguarda le passate, segnano un aumento del 7% il termini di volume esportato, mentre rimane stabile il segmento del concentrato di pomodoro.

Lo scorso gennaio viene lanciato un appello da padre Alex Zanotelli e Vittorio Agnoletto per fermare gli Epa accordi di partneriato economico con 7 paesi africani Botswana, Namibia, Camerun, Ghana, Costa d’Avorio, Kenya e Swaziland. Si badi bene, europei, c’è anche la Francia e non solo l’Italia poiché:

La conseguenza sarà drammatica per i paesi Acp: l’agricoltura europea (sorretta da 50 miliardi di euro all’anno) potrà svendere i propri prodotti sui mercati dei paesi impoveriti. I contadini africani, infatti, (l’Africa è un continente al 70 per cento agricolo) non potranno competere con i prezzi degli agricoltori europei che potranno svendere i loro prodotti sussidiati. E l’Africa sarà ancora più strangolata e affamata in un momento in cui l’Africa pagherà pesantemente i cambiamenti climatici.

Siamo ai medesimi dati pubblicati nella prima inchiesta nel 2007. Già nel 2013 Mathilde Auvillain su TerraEco aveva provato a sdoganare la storia degli immigrati ghanesi affamati dalle esportazioni di pomodoro italiano e sfruttati dal caporalato pugliese : caparbietà di cronista o tesi a sostegno di obiettivi diversi? La Puglia è impegnata a smantellare il lavoro nero con una serie di iniziative tra cui equapulia, una etichetta che certifica la produzione legale dell’intera filiera agroalimentare. A oggi sappiamo che in Ghana si lavora per il rilancio dell’agricoltura con nuovi programmi tra cui l’uso, per ora sperimentale e a cura dell’Università del Ghana, del Enviro Dome Greenhouse System per produzioni orticole tutto l’anno in atmosfera controllata. La produzione annuale di pomodori da mensa, ossia quelli che si consumano a tavola, nel 2013, secondo i dati riferiti dal Ministro per l’agricoltura del Ghana Mr. Clement Kofi Humado:

di oltre 300.000 tonnellate di pomodori e il 90 per cento è stato consumato localmente. Tuttavia, il Paese è dipeso in gran parte dalle importazioni regionali per le verdure durante la bassa stagione, con importazioni comprese tra 70.000 e 80.000 tonnellate di pomodori freschi provenienti dai paesi limitrofi. Per raggiungere l’autosufficienza nella produzione di pomodori, il ministero sta collaborando con l’Università del Ghana per la ricerca adattativa in pomodori alto valore e di altre colture orticole sotto i sistemi protetti.

Più pesante la bilancia delle importazioni di pollame, per cui il ministro Humado ha detto:

Per quanto riguarda il pollame il totale delle importazioni di carne è passato da 97.719 tonnellate nel 2012 a 183.949 tonnellate nel 2013, pari all’80% delle importazioni e negli ultimi cinque anni è costato al paese una media di 200 milioni di dollari all’anno. Al fine di affrontare la situazione, il governo si è impegnato a far rispettare le norme per frenare le importazioni eccessive eccessive di pollame malsano e altri prodotti a base di carne promuovendo programmi per l’allevamento locale di polli.

Ma di tutto ciò non c’è traccia nel reportage finanziato dalla Fondazione Gates.

NOTA:
Journalism Grant è un programma sostenuto dalla Fondazione Bill & Melinda Gates:

Progetti di comunicazione innovativi saranno premiati con notevoli finanziamenti, con l’obiettivo di sostenere i giornalisti, redattori e le parti interessate allo sviluppo per effettuare una ricerca approfondita, emozionante, e anche sperimentale con riferimento a stato dell’arte, metodologie e tecniche di narrazione giornalistica.

In un momento in cui molti organi di informazione devono affrontare vincoli finanziari, il programma di concessione mira a consentire un miglioramento dei media e di andare oltre le solite strategie di comunicazione per impostare una nuova e distintiva agenda per la copertura.

Ma chi controlla poi cosa i giornalisti andranno a pubblicare?

Fonte: ecoblog.it