Una porzione di un vecchio forte militare è oggetto di uno spettacolare intervento di ristrutturazione a 2000 metri di quota, nel cuore del Cadore. Il Club Alpino locale, sostenuto dalla comunità, ha infatti lanciato questo progetto per valorizzare e promuovere il territorio in modo rispettoso e consapevole.
Belluno, Veneto – Nell’estremità settentrionale del Veneto, tra le Dolomiti patrimonio Unesco, si trova il Cadore, una terra dalla storia millenaria, come prova il ritrovamento dell’uomo di Mondeval, risalente a circa 8000 anni fa, e dotata di una bellezza quasi incontaminata. Una storia legata alla Repubblica di Venezia, ma anche al mercato del legname e all’industria dell’occhialeria. Tempi lontani che oggi lasciano spazio alle difficoltà date dallo spopolamento progressivo e dalla mancata promozione turistica. Tentativi di invertire la rotta provengono dal basso e sono portati avanti da piccoli gruppi, spesso legati al volontariato. Tali iniziative, visti i contesti che le propongono, sono lontane dall’ottica del turismo di massa e cercano di valorizzare il patrimonio locale, sconosciuto ai più, permettendo lo sviluppo di nicchie legate al turismo sostenibile.
In questo ambito si inserisce il Club Alpino Italiano sezione di Vigo di Cadore, una piccolissima realtà nell’ambito del mondo CAI. A differenza delle grandi sezioni sparse in tutta Italia, qui la “promozione della montagna in tutte le sue forme” viene declinata principalmente nel continuo lavoro di cura del territorio. Un gruppo di abitanti del paese da alcuni anni ha infatti deciso di dedicare parte del proprio tempo libero alla manutenzione dell’antica rete sentieristica che permette a tutti gli escursionisti di visitare boschi, montagne e pascoli millenari, dove l’antropizzazione è rimasta a livelli minimali e la natura fa da padrona.
Una delle poche eccezioni in questo territorio mai modificato dall’uomo è il Monte Tudaio. La sua posizione, che domina a 360 gradi le valli sottostanti di centro Cadore, Comelico e Auronzo, fu ritenuta strategica dall’esercito italiano all’inizio del XX secolo per poter controllare eventuali invasioni nemiche da nord. Venne così costruito un forte sulla sommità del monte, circondato da una vera e propria cittadella e raggiungibile a piedi lungo una mulattiera a tornanti lunga più di 8 chilometri. Oltre un secolo dopo, la natura si è riappropriata del monte, ma i ruderi del Forte, fatto brillare dagli austriaci dopo la ritirata di Caporetto, danno vita a un vero museo a cielo aperto a oltre 2000 metri di quota.
La volontà di far conoscere questo sito poco conosciuto, sperando di poterne fermare il progressivo degrado, ha spinto i volontari della sezione CAI a uno sforzo ulteriore: il tentativo di ristrutturare una delle casermette più piccole e meglio conservate della struttura per ricavarne un bivacco alpino, da lasciare sempre aperto e utilizzabile da chiunque volesse visitare il Monte. La scelta è caduta sulla casermetta “ex Corpo di Guardia”, situata all’ingresso del Forte, un blocco rettangolare di circa 30 metri quadri in pietra squadrata, con finestre rivolte a sud verso la valle del Centro Cadore. La struttura non aveva più il tetto ed era ricoperta da terreno e pini mughi. Dopo alcuni anni di progetti e autorizzazioni, compreso il parere positivo della soprintendenza ai beni culturali competente, e di ricerca di fondi per finanziare i lavori, a fine settembre 2021 è stato aperto uno dei cantieri più scenografici mai visti sulle Alpi.
I volontari della sezione hanno ripulito completamente la struttura e rimosso il terreno e la vegetazione che l’avevano ricoperta. I lavori effettuati nel mese di ottobre 2021 hanno consentito, prima dell’arrivo della neve, di ricostruire i cordoli in cemento armato come da struttura originale e posare il nuovo tetto. Nella primavera del 2022, appena la neve si scioglierà, si continuerà con il restauro dei muri, il rifacimento degli intonaci interni e la sistemazione delle adiacenze, con l’obiettivo di avere il bivacco finito ed utilizzabile entro l’autunno.
I finanziamenti principali ai lavori sono stati erogati dall’Unione Montana Centro Cadore e dal fondo pro-rifugi del CAI centrale. Per la parte restante, a carico della Sezione CAI Vigo di Cadore, stanno partecipando alcuni privati con donazioni. È inoltre aperta una raccolta fondi per sostenere il proseguimento dei lavori al seguente indirizzo internet. L’obiettivo dei volontari al lavoro per questo progetto è quello di far conoscere un sito storico e paesaggistico di altissimo livello, nel cuore delle Dolomiti, mantenendone la sua natura selvaggia, lontana dagli odierni alberghi a 5 stelle di alta quota o dal trend dei picchi raggiungibili senza camminare. Un’ottica di turismo sostenibile con il desiderio di condividere un patrimonio inestimabile, ma anche di offrire un’esperienza unica, raggiungendo la montagna a piedi e lasciandosi cullare dal suo suono, lontani dalle comodità moderne.
Brindano i produttori di Prosecco del Veneto dopo
il riconoscimento dell’Unesco a patrimonio dell’umanità per le colline di
Valdobbiadene e Conegliano. Ma brindano e festeggiano molto meno la popolazione
e l’ambiente, che subiscono ogni giorno l’inquinamento dato dall’uso massiccio
dei pesticidi.
L’Unesco ha
assegnato il prestigioso riconoscimento di “patrimonio
dell’umanità” a uno dei luoghi con la maggiore concentrazione di
veleni usati in agricoltura come è la zona, famosa per il Prosecco,
delle colline di Valdobbiadene e Conegliano. Il Veneto è un’altra di
quelle regioni dove si fanno esperimenti sulle cavie umane che vengono riempite
di veleni, poiché sono all’ordine del giorno gli inquinamenti di tutti i tipi e
l’agricoltura convenzionale è uno dei maggiori responsabili. Però, vuoi mettere
essere ricchi e produttivi che soddisfazione dà. Chi se ne frega di cancri,
malattie a non finire; bisogna lavorare come pazzi, produrre, accumulare gli sghei
e non si può e non ci si deve fermare di fronte a nulla.
Brindano i
produttori di vini che con il premio dell’Unesco vedranno aumentare i loro già
stratosferici profitti grazie a uno dei prodotti a più alto consumo di
pesticidi e con un numero di trattamenti tra i più frequenti e invasivi. Un
bombardamento di pesticidi che nelle zone premiate dall’Unesco è più del doppio
rispetto alla media. Non bastano gli sbancamenti e la modifica del
paesaggio, la distruzione di prati e siepi, non basta l’inaridimento dei suoli,
la contaminazione di falde, acque e dei campi limitrofi, l’uccisione di insetti
tra cui le api, l’inquinamento per adulti e bambini che si barricano in casa
durante le frequenti irrorazioni che avvengono ovunque dato che ogni centimetro
quadrato è stato colonizzato dalle vite. Niente ferma la stupidità umana, il
tutto per coltivare una pianta che occupa enormi spazi e ne fa una delle
monoculture più nocive dal punto di vista ambientale. Vista la situazione
a cui stiamo andando incontro, la monocultura si rivela un danno in più per una
agricoltura già ora in grosse difficoltà. Con i cambiamenti climatici, con
l’inaridimento e l’impoverimento dei suoli, si avranno produzioni agricole
sempre minori soprattutto dei sistemi tradizionali. Sarà quindi
inevitabile passare dalla monocultura alla pluricoltura, coltivando in
grandissima parte piante e alberi che sfamano la gente. Chissà cosa ci faranno
con tutti quei vigneti quando le crisi si faranno più gravi e le persone
affamate non avranno abbastanza da mangiare. A quel punto i grandi capitalisti,
che vengono ora glorificati per le loro magnifiche gesta che fanno risplendere
il nome del vini veneti nel mondo, potranno arrotolare i loro soldi e provare a
mangiarli per vedere se ce la fanno a sfamarsi, oppure potranno attingere alle
loro produzioni di vini con i quali ubriacarsi a profusione e proporre anche
alla popolazione di farlo, per distrarsi dalla fame. E come la principessa
Maria Antonietta che disse “Se il popolo non ha pane, che mangi le brioche”, i
nostri capi d’industria potranno dire al popolo: “Se non avete da mangiare,
ubriacatevi che così vi passa tutto”.
Prima che sia
troppo tardi, si riduca drasticamente la produzione vinicola, si converta tutto
al biologico e al posto della vite si coltivino innumerevoli varietà agricole e
frutteti in una combinazione di foresta commestibile così da ridare vita ad
animali e persone, oltre che
assorbire CO2. Non è più il tempo di ubriacarsi, è il tempo di prendere in mano
la situazione e rendere il Veneto non l’odierna fabbrica di veleni ma una
terra fiorente e che preservi la vera ricchezza, quella della natura, non
quella degli sghei.
Di inquinamento da PFAS in Veneto si è iniziato a
parlare nel 2013, quando è scoppiata quell’emergenza che ha ora oltrepassato I
confini della “zona rossa” ed è stata dichiarata nazionale. Eppure sappiamo
oggi che il più grave inquinamento delle acque della storia italiana ha avuto
origine anni prima a causa di una pericolosa gestione del territorio che ha
determinato negli anni contaminazioni e reazioni a catena. Tra queste la
mobilitazione di mamme, cittadini e associazioni che lottano nel tentativo di
limitare le conseguenze ambientali e sanitario di questo “veleno invisibile”.
Eppure, oggi più che mai, la via d’uscita da questo disastro appare lontana. I PFAS sono composti chimici industriali
utilizzati per rendere i prodotti impermeabili all’acqua e ai grassi. Sono
usati nella produzione di molti oggetti di uso quotidiano come padelle di
teflon, carta da forno sbiancata, packaging per fast food, abbigliamento reso
impermeabile o isolante e lubrificanti. Da almeno 60 anni queste sostanze si
diffondono e avvelenano le falde acquifere, acque superficiali e acquedotti del
Veneto occidentale ma ormai sono diffusi nel fiume Po e quindi anche nel mare
Adriatico. L’Ispra ha stimato per il solo danno ambientale 136,8 milioni di
euro. Per il secondo anno il Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo stato
di emergenza da contaminazione delle falde idriche di Verona, Vicenza e
Padova. Man mano che la regione Veneto aggiorna i dati, aumentano i comuni
contaminati oltre a quelli già presenti nella zona “rossa” attorno a Trissino
dove ha sede l’incriminata azienda Miteni Spa. A sempre più persone vengono
riscontrati valori elevati nel sangue di PFAS e si allargano gli screening anche alla
popolazione pediatrica. Queste sostanze rappresentano un grave pericolo sia per la salute
umana che per l’ambiente, sono catalogate nelle liste internazionali di
sostanze estremamente preoccupanti (SVHC) perché tossiche, persistenti e
bio-accumulabili cioè il nostro corpo le integra e le accumula; esse sono
particolarmente subdole perché inodori, incolori e insapori.
La gestione del
caso Miteni
La Miteni Spa,
un’azienda chimica specializzata in produzione di intermedi fluorurati per
agrochimica, farmaceutica e chimica fine, dal 1977 ha scaricato sostanze
altamente tossiche nei corsi d’acqua ma l’inquinamento da tali sostanze è stato
constatato solo nel 2013. Questo evento ha portato alla luce un intero sistema
di pericolosa gestione del territorio. Il 20 marzo di quest’anno i
carabinieri del NOA (Nucleo Operativo Ecologico) in 270 pagine certificano, con
13 rinvii a giudizio tra i dirigenti aziendali, che la Provincia di Vicenza ha
nascosto l’inquinamento per 13 anni: “C’è stata la volontà di non far
emergere la situazione, colpevole anche l’Agenzia Ambientale regionale,
l’organo di controllo, Arpav”.
L’attività
industriale
Le attività
industriali che usano questi prodotti sono quelle per la lavorazione delle
pelli, del tessile, le cartiere e le produzioni con inchiostri e tinture. Le industrie
rilasciano questi composti come fanghi, scarichi e contaminanti del suolo. Ma
sono soprattutto le concerie le industrie incriminate. L’ltalia rappresenta il
66% della produzione conciaria europea, il Veneto il 52% della produzione italiana
del settore. Ne consegue che la sola industria della pelle del Veneto consuma
ogni anno, secondo i dati dell’agenzia europea ECHA che disciplina l’uso delle sostanze chimiche,
circa 160 tonnellate di sostanze che rilasciano PFOA e che non sono mai state
oggetto di analisi negli scarichi industriali perché precursori dei PFAS. A
questi vanno ad aggiungersi 30 tonnellate di PFOA e sali di PFOA puri o
utilizzati in miscele vendute in Europa. In Italia la chiusura delle indagini
preliminari della procura di Vicenza sull’azienda Miteni ha sollevato gravi
responsabilità di Istituzioni Pubbliche ed enti di controllo per il più
grave inquinamento delle acque della storia italiana con interessamento,
per ora, di 350 mila persone e più di 90.000 abitanti da sottoporre a controllo
clinico. Già dal 2010 la Provincia di Vicenza era a conoscenza dell’incremento
della contaminazione da PFAS dovuta alla Miteni e così l’Arpav Veneto, l’organo
di controllo.
La diffusione dei
PFAS si sarebbe potuta arginare 10 anni fa.
Eppure la regione
Veneto si è inserita nel fallimento della Miteni per essere risarcita di 4,8
milioni di euro. Inoltre il Ministero delle politiche economiche ha messo a
disposizione fondi al Commissario Delegato, Nicola Dell’Acqua, per una quota
complessiva di 56,8 milioni con il compito di iniziare, e portare avanti, gli
interventi urgenti. Ulteriori 80 milioni saranno stanziati dal Ministero dopo
un un Accordo di programma da sottoscrivere con la Regione Veneto. Quindi l’onere
della bonifica è a carico dello Stato ma gestita dalla Regione.
Contaminazioni a
catena
L’acqua è la base
di ogni forma di vita e si distribuisce in ogni parte dell’ecosistema. Oltre
che nei rubinetti dell’acqua potabile i PFAS sono entrati nella catena
alimentare, nell’agricoltura, negli allevamenti e nella pesca. Infatti l’acqua
è responsabile solo per il 20% della contaminazione, il restante 80% è dovuto
agli inquinanti presenti nella catena alimentare e nell’aria (EFSA, 2017). Nessuna
iniziativa, fino ad ora, è stata adottata nei confronti dell’origine alimentare
della contaminazione. Infatti le Istituzioni hanno diffuso segnali rassicuranti
basandosi su parametri dose/giornaliera vecchi di 10 anni quando ancora gli studi
sull’impatto della contaminazione erano appena cominciati. Mentre in
America già molte persone sono state risarcite per avvelenamento da PFAS, in
Italia si attendono le prove causa-effetto non bastando il “probabile
collegamento” che già emerge dagli studi epidemiologici. Dagli studi del Prof.
Carlo Foresta dell’Università di Padova, endocrinologo e andrologo si prospetta
una crescita esponenziale di infertilità nelle future generazioni,
soprattutto maschile. Infatti i PFAS, interferenti endocrini, per la loro
natura chimica si sostituiscono all’ormone testosterone nei tessuti dove questo
dovrebbe agire. Questo determina grave insufficienza del sistema riproduttivo
ma anche problematiche ormonali a lungo termine.
I valori guida di
riferimento
Leggiamo dal documento/inchiesta pubblicato dal Comitato di Redazione PFAS.land che la
pubblicazione dei nuovi valori guida per la salute umana indicati
dall’EFSA(organo di controllo europeo) è per ora stata sospesa per la pressione
delle lobbies chimiche sulle Istituzioni Europee. Ma sono state pubblicate
dalla rivista del Sindacato veterinari di medicina pubblica del Veneto: per
PFOS e PFOA sono rispettivamente di 13 ng/kg e 6 ng/kg peso corporeo per
settimana. Emergerebbe una enorme discrepanza con i dati di riferimento
della regione attualmente in atto per le valutazioni: in totale un litro
d’acqua, definita potabile, può contenere fino a 390 ng di PFAS. Ad esempio un
bambino di 10kg supererebbe la soglia giornaliera solo bevendo un litro di
acqua. Su tali parametri sono basati anche i pochi monitoraggi dell’istituto
Superiore di Sanità sugli alimenti vegetali e animali. Questo è uno dei punti
chiave che necessita di misure urgenti poiché nessuno è in grado di stimare
l’entità delle contaminazioni e il nesso dose/rischio per la salute sia degli
abitanti della zona sia di quelli delle altre regioni dove i prodotti vengono
distribuiti. Per ora la regione Veneto ha emesso un’ordinanza che vieta fino al
30 giugno il consumo del pesce pescato proveniente dalle aree dove sono
state riscontrate positività analitiche per i PFAS. Ma non c’è nessun
controllo, non emerge la capacità di gestire la situazione neanche di saperla
valutare.
Campi del Veneto
visti dall’aereo
Le economie di zona
Storicamente la
ricchezza della Regione deriva proprio dall’opera di regimentazione delle acque
attraverso le bonifiche delle paludi che permisero ad una delle zone più povere
d’Italia il grandioso sviluppo economico prima agricolo e poi industriale.
Dagli anni ’60 lo sviluppo industriale di questo territorio ha avuto una forte
connotazione chimica. Gli impianti di Marghera della Monsanto e della Sicedison
hanno posto le basi per diventare uno dei più importanti poli per la produzione
di materie plastiche in Europa. Poi si insediò la Rimar, che in seguito
diventa appunto Miteni, costruita sulla seconda falda acquifera più grande
d’Europa, grande come il Lago di Garda. La zona di Arzignano rappresenta il più
grande polo europeo della concia che scarica nella zona migliaia di
tonnellate di rifiuti tossici arrivando ormai alla nona discarica e con
nessun intervento da parte delle autorità di controllo. Reflui conciari e
reflui della Miteni viaggiano vicini, vengono diluiti con acqua pulita,
paradossalmente definita “vivificazione”, ma non filtrati dai PFAS. Infatti gli
impianti di depurazione continuano a non limitare il problema poiché non sono
in grado di filtrarli ed eliminarli. I PFAS continuano a scorrere
abbondantemente lungo la pianura e ad accumularsi, sono fatti proprio per non
degradarsi. Questa stessa zona è toccata anche da una grande opera in
costruzione: la superstrada Pedemontana. Corre proprio lungo la fascia
di ricarica della falda acquifera di buona parte della pianura padana, è
costruita “in trincea” cioè diversi metri al di sotto del livello campagna.
Così in alcuni tratti si vedono i muri, appena costruiti, percolare liquami
tossici. Inoltre subisce continuamente crolli e rattoppi incontrando anche
discariche industriali abusive e zone instabili. Non sembra che la politica di
sviluppo della regione segua una progettazione organica tra le varie
problematiche né che ci sia un’adeguata analisi idrogeologica. Sicuramente si
continua a seguire un modello di sviluppo che non protegge territorio e salute.
Non si riscontra neanche il vantaggio economico poiché la Pedemontana negli
anni ha quadruplicato i costi che nessuna banca ha voluto finanziare e quindi
la Regione ha chiesto l’intervento dell’Anas cioè dello Stato. Per ora il costo
ammonta a 12 miliardi.
L’altra faccia del
Veneto
Già dal 2014
diverse associazioni attive sul territorio si sono riunite nel
coordinamento Acqua libera da PFAS che ha cercato di sensibilizzare cittadini,
enti pubblici e di controllo e ha chiesto per anni di indagare quale fosse il
reale impatto sull’ambiente e sulla salute. Ora che iniziano maggiori controlli
sulle acque e nel sangue degli abitanti i dati sono allarmanti e ancora molto
sottostimati.
Il movimento No
PFAS è stato il motore che ha rotto un sistema di omertà e dolo ma anche di
inadeguatezza e immobilismo tra Istituzioni e forti interessi economici. I
partecipanti hanno subito 5 avvisi di garanzia per aver spinto alle indagini e
dubitato delle rassicurazioni. Chiedono “Zero PFAS” per uscire dalle
contrattazione dei cosiddetti “limiti accettabili” che sono la mediazione
possibile per poter continuare a produrre. Nessuna opera di bonifica, che
comunque non è neanche all’orizzonte, può funzionare se prima non si bloccano
le sorgenti dell’inquinamento. Chiedono analisi e dati, di poter effettuare
esami del sangue per controllare il proprio stato di contaminazione. Non
possono effettuarli né gratuitamente né pagando il ticket e nemmeno
privatamente poiché non sono analisi comuni. I cittadini sono pertanto privati
di una forma di controllo della propria salute che rimane nelle mani di chi fa
i monitoraggi ufficiali. Nella mancanza totale di informazioni si è costituita
la Redazione di PFASLand che rappresenta l’Organo di informazione dei
gruppi-comitati-associazioni NO PFAS della Regione del Veneto che raccoglie le
più importanti realtà maturate in questi anni: Mamme No PFAS, Angry Animals dei
Centri Sociali, Greenpeace, Legambiente, ISDE, Medicina Democratica, CiLLSA,
associazione di Arzignano, Coordinamento Acqua Bene Comune di Vicenza e Verona,
Rete Gas Vicentina, gruppi territoriali NO PFAS indipendenti, in continua
nascita.
Grazie al Comitato
scientifico della Redazione PFASLand il 12 aprile è nata la prima mappa digitale navigabile sulla contaminazione da PFAS, dove ogni cittadino
potrà verificare quanto inquinati siano il pozzo, la risorgiva, il fiume, le
acque in prossimità della propria casa, del proprio orto, le stesse acque con
cui si irrigano i campi e si allevano gli animali, per arrivare poi in forma di
alimenti non solo sul proprio piatto, ma anche su quello degli altri. Uno
strumento popolare, un bene comune ma complesso, basato sui dati aggregati
ArpaV, usando software liberi come QGIS. Dal documento pubblicato dal Comitato
di Redazione PFAS.land precedentemente citato leggiamo: “Per la bonifica di
un territorio così grande, dei bacini fluviali, delle colture, per l’aiuto ai
produttori danneggiati dall’inquinamento e il risanamento totale delle loro
aziende, per la mano d’opera occorrente e gli strumenti, il personale medico e
le strutture sanitarie, c’è bisogno di grandissime risorse economiche di cui la
Regione non dispone. Sarà necessario un piano di solidarietà nazionale,
coordinato dai ministeri competenti, per garantire un budget inimmaginabile ma
necessario.
Confligge con tale bisogno la logica perversa con la quale
tutte le forze politiche del Veneto si sono accodate alla richiesta di Zaia che
esclude ogni tipo di solidarietà nazionale nei confronti di chi produce meno o
amministra male. Però non puoi chiedere aiuto agli altri se neghi il senso
della solidarietà nazionale che è alla base di un paese democratico i cui
governanti sappiano guardare un tantino più in là del proprio naso… Ricordo da
bambino i camion pieni di vestiti e coperte che partivano, salutati dalla
folla, da una Sicilia poverissima in aiuto degli alluvionati del Polesine”.
Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/06/pfas-storia-contaminazione-catena/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni
La manifestazione -finora conosciuta con il nome di “Keep Clean and Run” (KCR)- per il 2018 diventa Keep Clean and Ride, in quanto quest’anno si svolgerà in bicicletta. A compiere l’impresa sarà sempre il “rifiutologo” e divulgatore ambientale Roberto Cavallo, accompagnato dal triatleta Roberto Menicucci
Dopo tre anni di eco-trail contro l’abbandono dei rifiuti(littering), l’evento centrale italiano della campagna “Let’s Clean Up Europe!” resta fedele al connubio ambiente-sport, ma si evolve. La manifestazione -finora conosciuta con il nome di “Keep Clean and Run” (KCR)- per il 2018 diventa infatti Keep Clean and Ride, in quanto quest’anno si svolgerà in bicicletta. A compiere l’impresa sarà sempre il “rifiutologo” e divulgatore ambientaleRoberto Cavallo, accompagnato lungo il percorso dal triatleta Roberto Menicucci.
Invariato il messaggio che la manifestazione vuole lanciare: il littering, che uccide i nostri mari, va contrastato nei suoi luoghi d’origine, ovvero nell’entroterra. E tutti possono fare due semplici gesti per combatterlo: evitare di abbandonare i propri rifiuti e chinarsi per raccogliere quanto sta già inquinando l’ambiente.
Dopo aver anticipato l’ormai diffuso fenomeno che abbina corsa e rimozione del littering -recentemente ribattezzato plogging– oggi KCR punta ad allargare la platea degli sportivi che abbinano l’attività fisica a quella di rimozione degli abbandoni in natura.
La corsa
Keep Clean and Ride prenderà il via giovedì 12 aprile 2018 da Bari, per concludersi una settimana dopo a Chioggia (VE). Gli eco-atleti, in otto tappe, risaliranno pertanto lo Stivale attraversando sette Regioni del versante adriatico: Puglia, Abruzzo, Marche, Umbria, Toscana, Emilia Romagna e Veneto.
Il percorso prevede un totale di 969 chilometri da percorrere in bici (e, in piccola parte, di corsa, come “omaggio” alle precedenti edizioni), per un dislivello positivo totale di oltre 18 mila metri.
La corsa, promossa da AICA – Associazione Internazionale per la Comunicazione Ambientale in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, è stata presentata lo scorso 16 marzo a Roma, alla presenza di una rappresentanza del Ministero guidata dalla Sottosegretario di Stato on. Barbara Degani, dei Comuni sede di tappa e degli sponsor. La testimonial Lucia Cuffaro, volto noto della trasmissione Rai “Uno Mattina In Famiglia”, ha fatto da “madrina” dell’evento e per il quarto anno consecutivo ha garantito la sua partecipazione.
Le tappe e gli eventi
Keep Clean and Ride partirà da Bari giovedì 12 aprile e si concluderà giovedì 19 aprile a Chioggia, in un’ideale chiusura del percorso mare-entroterra-mare, seguendo le “rotte” tracciate dai rifiuti. Per otto giorni, Cavallo e Menicucci raccoglieranno i rifiuti abbandonati che troveranno lungo il percorso, fotografando e mappando quelli che non sarà possibile portare con sé. Queste, nell’ordine, le città sede di tappa: Bari, Manfredonia (FG), Vasto (CH), Penne (PE), Teramo, Osimo (AN), Assisi (PG), Città di Castello (PG), Meldola (FC), Parco del Delta del Po (FE), Padova e Chioggia (VE).
Previste, inoltre, numerose tappe intermedie, dove la popolazione –a partire da scuole, famiglie e associazioni del territorio– sarà invitata a partecipare a eventi di pulizia del territorio e/o incontri, durante i quali verranno presentate le finalità dell’iniziativa e la campagna europea, concentrandosi poi sui dati legati all’azione di contrasto all’abbandono dei rifiuti.
Il messaggio
L’iniziativa vuole sensibilizzare la popolazione e i media sul fenomeno del littering, ponendo l’attenzione sull’origine di tali rifiuti. La scelta di incentrare l’evento sportivo negli eco-sistemi montano e marino, infatti, nasce dalla consapevolezza che oltre il 70% dell’inquinamento dei mari ha origine nell’entroterra.
Oltre alla pulizia del territorio in senso stretto, saranno anche messe in risalto le esperienze e le filiere virtuose di gestione e trattamento dei rifiuti.
«Al di là dell’impresa sportiva, Keep Clean and Ride ha un grande potenziale di sensibilizzazione della popolazione, come conferma anche il successo delle prime tre edizioni -dichiara Barbara Degani, Sottosegretario all’Ambiente- Per questo, come Ministero, abbiamo deciso di aderire anche quest’anno, perché siamo convinti che solo sporcandosi le mani e spendendosi in prima persona sia possibile capire realmente la portata e la gravità del fenomeno dell’abbandono. Quante più persone e territori vengono coinvolti, tanto più il nostro atteggiamento da cittadini viene responsabilizzato, aiutandoci così a raggiungere il nostro obiettivo di prevenzione».
Il sostegno
All’iniziativa 2018 hanno già aderito a vario titolo diverse personalità del mondo dello sport (tra cui la medaglia d’argento nell’handbike alle Paralimpiadi di Londra 2012, Francesca Fenocchio; il campione del mondo di ciclismo su strada del 2008 Alessandro Ballan, ecc.) dello spettacolo (Lucia Cuffaro, Mario Tozzi, Giuseppe Cederna, l’Orchestra Casadei; ecc.) della società civile (lo scrittore Leonardo Palmisano; don Josh Kureethadamdell’Università Pontificia, collaboratore di Papa Francesco alla stesura dell’enciclica Laudato Si, ecc.) e dell’ambiente (come il Goldman Environmental Prize Anna Giordano, l’economista Andrea Segré e il meteorologo Luca Mercalli).
Keep Clean and Ride ha i patrocini nazionali del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, dal Senato della Repubblica e dalla FIAB – Federazione Italiana Amici della Bicicletta.
È resa possibile grazie al sostegno del main sponsor Greentire e di Go Rent, Eso – Eso Sport Bike, Mercatino, Fise Assoambiente, Assobioplastiche (in collaborazione con Polycart e Umbraplast), Eurosintex, Comieco, Ricrea, Corepla, Coreve, Gruppo Veritas ed E.R.I.C.A. Soc. Coop. oltre ai partner tecnici Cicli Mattio, Montura, Alba Fisio e Bike Therapy e con il supporto del Comitato promotore nazionale della SERR (Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti) composto da Comitato UNESCO, ANCI, Utilitalia, Legambiente e Città Metropolitane di Roma Capitale e di Torino. Tv ufficiale dell’evento è Ricicla Tv.
Maggior informazioni e dettagli sono disponibili su menorifiuti.org, il blog della Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti in Italia a cura di eHabitat.it. Seguite e partecipate all’eco-evento. L’hashtag è #KCR18.
L’acqua potabile di molti comuni del Veneto risulta inquinata da PFAS, composti chimici altamente pericolosi per l’uomo e per l’ambiente. Greenpeace ha lanciato una petizione per chiedere di individuare e bloccare tutte le fonti di inquinamento da PFAS e di abbassare i livelli consentiti per queste sostanze. Da diversi anni l’acqua potabile di molti comuni veneti è inquinata da PFAS, composti PerFluoroAlchilici, un gruppo di sostanze chimiche di sintesi estremamente pericolose per l’uomo e per l’ambiente e presenti in molti prodotti di uso comune (pentole antiaderenti, indumenti e tessuti impermeabili-idrorepellenti, anti-macchia e ignifughi, pelletteria, carte alimentari oleate e carta forno, contenitori in plastica per alimenti e bevande, pesticidi, insetticidi e detersivi, solo per citarne alcuni). Da qualche settimana Greenpeace Italia ha lanciato una petizione per chiedere alla Regione Veneto di individuare e bloccare tutte le fonti di inquinamento da PFAS e di abbassare i livelli consentiti per queste sostanze nell’acqua potabile allineandoli con quelli in vigore in altri paesi europei “perché salute e ambiente vengono prima del profitto”.
Foto Greenpeace Italia
A marzo 2017 Greenpeace Italia ha rilevato la presenza di PFAS negli scarichi di diverse industrie locali, ma il problema è noto sin dal 2013 in seguito alla pubblicazione di uno studio del CNR-Consiglio Nazionale delle Ricerche che ha appurato la contaminazione da PFAS nei corsi d’acqua (in particolare nel torrente Agno) e nelle falde acquifere di una vasta area compresa tra le province di Vicenza, Verona e Padova (in tutto una sessantina di comuni) e abitata da oltre 350.000 persone. Tuttavia la Regione Veneto – denuncia Greenpeace Italia – invece di bloccare le fonti di inquinamento e la distribuzione di acqua potabile alla popolazione, ha deciso di alzare i limiti dei livelli di PFAS nelle acque destinate al consumo umano. I livelli di PFAS consentiti in Veneto sono stati innalzati più volte negli ultimi anni e, oggi, sono tra i più alti al mondo (530 ng/l in Veneto contro 100 ng/l della Germania e 70 ng/l degli USA). Tra il 2013 e il 2016 anche ARPAV-Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto ha rilevato la contaminazione da PFAS ed ha individuato una delle principali fonti di inquinamento nel depuratore di Trissino (provincia di Vicenza), nel quale confluiscono gli scarichi di un’azienda chimica locale. Ma, come evidenzia Greenpeace Italia nel suo report di marzo 2017 intitolato “PFAS in Veneto: inquinamento sotto controllo?”, la contaminazione è correlata anche alla presenza ultradecennale in provincia di Vicenza dei distretti tessile di Valdagno e conciario di Arzignano, entrambi vicini al torrente Agno. Nel 2015 in Veneto, così come in altre aree del mondo interessate dall’utilizzo di PFAS (Greenpeace cita ad esempio di Stati Uniti, Cina e Olanda) queste molecole artificiali non sono state riscontrate solo nell’acqua, ma anche nel sangue degli abitanti e in alcuni alimenti come uova, pesci, fegato bovino e verdura.
Nel maggio del 2015 la Regione Veneto e l’Istituto Superiore di Sanità hanno lanciato un programma di monitoraggio biologico su oltre 600 persone residenti in 14 comuni veneti al fine di valutarne il grado di esposizione tramite l’analisi di campioni di sangue. I risultati preliminari hanno mostrato che, in alcune delle popolazioni venete più esposte, le concentrazioni di PFOA (Acido PerFluoroOttanoico, uno dei molti tipi di PFAS) sono fino a 20 volte più alte rispetto alle popolazioni italiane non esposte a questa contaminazione. I PFAS sono considerati “inquinanti persistenti globali” e l’esposizione ad altre concentrazioni è stata correlata dalla comunità scientifica internazionale a gravi effetti sulla salute umana e sull’ambiente. Sono interferenti endocrini, sostanze che vanno ad interferire nei processi primari di sviluppo dell’organismo umano, cioè vanno a “disturbare” la normale comunicazione tra cellule e ormoni, in particolare con gli ormoni che regolano la riproduzione. Inoltre, sono correlati all’insorgenza di tumori ai testicoli e ai reni, possono causare colesterolo alto, ipertensione, alterazione dei livelli del glucosio, patologie della tiroide e, una volta entrati nel corpo umano attraverso la catena alimentare o l’acqua, hanno ciclo di emivita pari a 25 anni (cioè permangono nel sangue umano per 25 anni prima di essere eliminati dai reni). “Da un punto di vista medico, le popolazioni esposte ai PFAS, in particolare quelle che vivono nelle vicinanze degli impianti produttivi, possono considerarsi a rischio”, ha dichiarato il dottor Vincenzo Cordiano, ematologo e presidente di ISDE Vicenza (Associazione Medici per l’Ambiente-ISDE Italia). I PFAS, ha spiegato il dott. Cordiano, sono molecole artificiali che resistono fino a 400°C e per i quali non esiste ancora alcuna metodica di degradazione, né naturale né chimica. Perciò tendono ad accumularsi nell’ambiente, nell’acqua e nell’aria (attraverso gli insetticidi che si disperdono nel pulviscolo atmosferico) e da qui, attraverso la catena alimentare e la respirazione, nel sangue e nei tessuti di animali e uomini. Inoltre, interferendo con la funzione degli ormoni sessuali sono importanti anche per la conservazione delle specie animali e della biodiversità.
Foto Greenpeace Italia
“La contaminazione minaccia seriamente le popolazioni esposte”, ha sottolineato Giuseppe Ungherese, campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. Secondo quanto dichiarato da Greenpeace Italia e confermato da Acque Veronesi – la società che gestisce l’erogazione dell’acqua potabile nella città di Verona – a marzo 2017 è stato superato il livello consentito di PFOS nell’acqua potabile di un pozzo dell’acquedotto che serve la città veneta. “Il PFOS (Perfluoro Ottan Sulfonato) è una delle sostanze più pericolose del gruppo dei PFAS, tanto da essere l’unico composto regolamentato a livello internazionale. Il PFOS è un noto interferente endocrino che può accumularsi nel fegato, nei reni e nel cervello umano” ha dichiarato Giuseppe Ungherese, Responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. “Questo superamento conferma quanto la situazione in Veneto sia gravissima e che le misure adottate finora dalle autorità regionali non sono adeguate per fermare l’inquinamento da PFAS. Eventi di questo tipo ci dicono che si è ben lungi dall’avere il controllo delle fonti e dell’entità della contaminazione e, per questo, ribadiamo alla Regione la necessità di un monitoraggio degli scarichi il più ampio possibile. Solo così saranno tutelati in modo adeguato l’ambiente e la salute dei cittadini”. Per tutti questi motivi Greenpeace Italia ha deciso di lanciare la petizione online in cui chiede alla Regione Veneto di fermare gli scarichi di PFAS nelle aree contaminate, adeguare i limiti di sicurezza per la presenza di PFAS nell’acqua potabile ai valori restrittivi adottati da altri Paesi Europei, censire gli scarichi e individuare tutti i responsabili dell’inquinamento da PFAS: “la salute e la sicurezza dei cittadini viene prima del profitto delle industrie”.
Tu ricicli, io ti pago” realizzato da EverGreen Recycle, Savno, Consorzio Servizi di Igiene Territorio TV1 e Ascotrade.
Conferendo i rifiuti nei riciclatori incentivanti installati nei comuni di Conegliano, Vittorio Veneto e Oderzo, per la prima volta a livello nazionale sarà possibile risparmiare concretamente sulla tassa rifiuti semplicemente facendo bene la raccolta differenziata. Savno riconoscerà 1 centesimo per ogni bottiglia inserita negli eco-compattatori e ogni mese al cittadino che più riciclerà nei 3 comuni partecipanti al progetto sarà pagata la TARI annuale a partire da Gennaio 2017.
Chi più ricicla paga meno tasse: questo lo scopo del progetto “Equaazione – Tu ricicli, io ti pago”, unico nel suo genere a livello nazionale, che ha preso il via nel Veneto nei comuni di Conegliano, Vittorio Veneto e Oderzo. Realizzato in collaborazione con Savno srl, Consorzio Servizi di Igiene Territorio TV1 e Ascotrade srl, Equaazione punta a premiare i cittadini virtuosi che conferiscono i loro rifiuti (bottiglie di plastica PET) nei riciclatori incentivanti, dispositivi automatizzati per la raccolta e la compattazione di bottiglie di plastica. Questi macchinari consentono di rilasciare ai cittadini, in cambio di ogni bottiglia PET conferita, un bonus in euro, da utilizzare in negozi o attività convenzionate, o soldi veri, reali e spendibili tramite 2Pay, l’app su smartphone che permette di semplificare il processo di pagamento abbattendo i costi delle transazioni.
Tassa rifiuti pagata e sconti sulla bolletta della luce
Ma la principale novità dell’iniziativa Equaazione sta nel fatto che, per la prima volta in Italia, i cittadini più virtuosi potranno risparmiare concretamente sulle tasse: Savno srl riconoscerà un centesimo per ogni bottiglia inserita e da gennaio 2017 ogni mese il cittadino che più riciclerà nei 3 comuni partecipanti al progetto potrà considerare pagata la sua TARI annuale. Ascotrade, sempre da gennaio 2017, scalerà invece ai propri clienti i centesimi accumulati con il riciclo direttamente dalla bolletta della luce. Il primo eco-compattatore del progetto Equaazione, ideato da EverGreen Recycle, è stato inaugurato a Conegliano, in Via Cristoforo Colombo 84, sabato 19 novembre alla presenza del Sindaco Zambon, dell’Assessore Toppan, del Presidente del Consorzio Servizi di Igiene Territorio TV1 Giampaolo Vallardi, del presidente di Ascotrade Spa Stefano Busolin, del Presidente di Savno srl Giacomo De Luca e del Presidente Ascom Conegliano Luca Da Ros. Dal Presidente della Regione Veneto Luca Zaia sono giunti i saluti e gli auguri per la lodevole iniziativa, nata da tecnologia e innovazione di aziende venete, apprezzata da un folto pubblico di presenti. Cosa sono i Riciclatori Incentivanti
Un sistema incentivante che ha come scopo principale quello di invogliare i cittadini a compiere la corretta raccolta differenziata e che allo stesso tempo consente di salvaguardare l’ambiente, migliorare l’arredo urbano, stimolare l’economia locale grazie agli accordi tra amministrazioni ed esercizi commerciali. Il progetto permette inoltre di realizzare una raccolta differenziata di qualità: gli eco-compattatori prodotti da Eurven srl, azienda del territorio, sono infatti predisposti per differenziare la tipologia di rifiuto materiale raccolto, riducendo fino al 90% il volume iniziale. Il macchinario è programmabile da qualsiasi dispositivo connesso ad internet, come ad esempio uno smartphone, e, attraverso una app dedicata, il gestore può monitorare tutta una serie di elementi: i dati di raccolta, la CO2 risparmiata, quanti pezzi sono stati conferiti, capire quando il macchinario è pieno, quanti coupon emessi e raccogliere i dati dei cittadini attraverso anche la lettura della loro tessera sanitaria o codice fiscale. Da remoto, inoltre, può programmare gli sconti da assegnare al singolo conferimento a seconda della scelta dell’attività merceologica.
Chi è Eurven
Eurven è leader nei sistemi a monte di raccolta differenziata, compattazione e riciclo rifiuti. Tra i suoi clienti Coca Cola, Ikea, San Benedetto, Despar, Conad, Coop, Pam, Panorama, Autogrill, Unes, Gardaland, Mirabilandia, Leroy Merlin e molti altri.
Sostanze cancerogene nelle acque del Veneto. Per anni. È questo quanto sta emergendo negli ultimi giorni dopo che la Regione Veneto ha deciso un cambio di passo sull’emergenza sanitaria e ambientale per le sostanze perfluoroalchiliche. Dalle riunioni tecniche, ora si è deciso di uscire allo scoperto, Regione ed esperti dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’Oms hanno reso nota la situazione:
“Più di 60mila persone residenti nelle zone a maggior impatto sono contaminate. Altre 250 mila sono interessate dal problema”.
spiega l’assessore regionale alla Sanità, Lucio Coletto.
Coletto ha presentato i risultati del biomonitoraggio che la Regione Veneto ha effettuato con l’Iss sulla popolazione esposta ai Pfas, “possibili cancerogeni” per lo Iarc. Il risultato è scioccante: nel sangue dei veneti scorrono quantità rilevanti diPfas, composti chimici prodotti per decenni dalla fabbrica Miteni di Trissino, nel vicentino. Si tratta di composti utilizzati per impermeabilizzare pentole e tessuti. I Pfas hanno raggiunto nel falde acquifere delle province di Vicenza, Verona e Padova, la zona maggiormente colpita è quella compresa fra i comuni di Montecchio Maggiore, Lonigo, Brendola, Creazzo, Altavilla, Sovizzo, Sarego, in provincia di Vicenza. Un impatto minore interessa la zona dei comuni di Mozzecane, Dueville, Carmignano, Fontaniva, Loreggia, Resana e Treviso. Nell’agosto 2013 erano stati messi in sicurezza gli acquedotti con i carboni attivi, ma fino a quella data la popolazione è stata intossicata. La Regione Veneto, sotto il coordinamento dell’Iss ha fatto sapere di voler avviare uno studio epidemiologico che durerà 10 anni che comincerà con le 60mila persone maggiormente esposte alle sostanze tossiche. I Pfas si legano alle proteine del plasma e del fegato e vengono eliminate dai reni molto lentamente: fra le conseguenze per la salute vi sono colesterolo alto, ipertensione, alterazione dei livelli del glucosio, effetti sui reni, patologie della tiroide e, nei soggetti maggiormente esposti, tumore del testicolo e del rene.
Nasce la rete dei Comuni e dei cittadini “Si può fare!” per la promozione di buone pratiche, la valorizzazione dei beni comuni e una decrescita mirata al miglioramento della qualità della vita.
La carta d’intenti di “Si può fare!” è stata siglata qualche giorno fa a Padova. Si tratta di una rete tra amministrazioni comunali, associazioni, gruppi, cittadine e cittadini per la promozione di buone pratiche di sostenibilità ambientale e di solidarietà sociale nel territorio veneto. La rete nasce da un’idea semplice, ma impegnativa. «Alla base della società è all’opera una galassia di gruppi, collettivi, associazioni della cittadinanza attiva che quotidianamente intraprendono esperienze di collaborazione, solidarietà, mutualità per far fronte alle innumerevoli esigenze personali, familiari e delle comunità locali – spiegano i promotori – Gruppi di acquisto, banche del tempo, prestazioni volontarie, recupero e manutenzione del patrimonio demaniale, condivisione di beni, servizi e saperi, scambi economici non monetari. E molto altro ancora. D’altra parte le amministrazioni pubbliche locali più accorte hanno l’identico interesse di promuovere una società improntata sulla sostenibilità ecologica e sull’equità sociale. Anche il mondo della ricerca, della scuola e dell’università trova la propria ragion d’essere nell’elaborare percorsi di insegnamento, di sperimentazione e di innovazione capaci di muovere le persone verso un benessere profondo, responsabile, più umano e in armonia con la Terra, nostra “casa comune”. In concreto, Si può fare! si propone di far conoscere le “buone pratiche” che la cittadinanza è riuscita ad attivare, valorizzandole e aiutandole a diffondersi. Allo stesso tempo vuole essere un supporto a quelle amministrazioni comunali che desiderano trovare sistemi di governance il più partecipati possibile. Si può fare! si propone come una rete informale, leggerissima e apertissima, ispirata ai principi della sostenibilità ambientale, sociale ed economica attraverso percorsi di condivisione delle pratiche della decrescita mirate al miglioramento della qualità della vita. Concretamente la rete ha dato avvio ad alcuni gruppi di lavoro: per svolgere una ricognizione (censimento) attraverso contatti e interviste dirette delle buone pratiche esistenti nella regione; per la elaborazione di un “Kit” (manuale) rivolto alle amministratori locali per aiutarle a districarsi nella giungla della “legislazione vigente” che spesso impedisce di avviare esperienze virtuose di buona amministrazione; per la realizzazione di un seminario sulle forme della democrazia locale partecipata; per l’individuazione di un evento che possa coinvolgere in modo unitario tutte le realtà operanti in Veneto».
Fino ad ora hanno dichiarato il loro interesse al progetto sindaci o amministratori locali dei seguenti comuni: Bassano del Grappa (VI), Campolongo Maggiore(VE), Mogliano Veneto (TV), Cinto Caomaggiore (VE), Feltre (BL), Marano Vicentino (VI), Mira (VE), Ponte San Nicolò (PD), Roncade (TV) e la Municipalità di Marghera (VE).
Le associazioni che hanno dimostrato il loro interesse sono: Aeres – Venezia, Arcipelago SCEC Veneto, ASPO – Associazione per il picco del petrolio, Associazione per la Decrescita – Nodo Triveneto, Centro di iniziativa politico culturale “Romano Carotti”, Contratto di Fiume Meolo-Vallio-Musestre, Cooperativa Retenergie – Nodo Veneto, Democrazia locale, Ecoistituto del Veneto “Alex Langer”, Eddyburg – Altro Veneto, Istituto Nazionale di Bioarchitettura – Venezia, Italia che Cambia, Legambiente – Veneto, Libera – Veneto, MAG – Verona, Mestre in Transizione, Movimento dei consumatori, Movimento per la Decrescita felice di Venezia e Padova, Rete di Economia Solidale
Alcuni comuni hanno autorizzato a sparare ai roditori.
Una vera e propria invasione di nutrie in Veneto, animali spesso assimilati ai ratti ma che invece sono molto più vicini ai castori. Il problema, comunque, non deriva da questo, visto che è il loro essere roditori e animali d’acqua che sta creando non poche preoccupazioni. Si tratta infatti di animali che costruiscono reti di gallerie e tane sotterranee, indebolendo così gli argini dei fiumi e aumentando il rischio di esondazioni. Il fatto che in questo periodo ci siano così tanti avvistamenti di nutrie, animali che possono arrivare a pesare anche 13 chili, sta preoccupando la Forestale, le istituzioni, i consorzi di bonifica e anche la Coldiretti, che temono i danni che questi animali possono creare. Per questa ragione alcuni comuni hanno autorizzato cacciatori e agricoltori a sparare alle nutrie, approfittando del fatto che questi animali sono stati esclusi dalle liste riservate agli animali selvatici e inclusi in quelle che comprendono topi e ratti. In questo modo, la gestione dell’emergenza è stata trasferita dalla regione e dalla provincia ai singoli comuni. Il problema, però, non è ancora risolto: l’unico modo legale per uccidere questi animali senza incorrere nel reato di maltrattamento è quello di catturarli con delle gabbie e poi sopprimerli con il gas, che richiede però impianti specializzati e costosi. Il presidente del Consorzio di bonifica Alta Pianura Veneta, Silvio Parise spiega la situazione così: “Sopprimere questi animali è l’unica alternativa sensata se vogliamo salvare il nostro territorio e non rendere vano il lavoro di manutenzione che i consorzi di bonifica tentano di portare avanti. Ci rendiamo conto che si tratta di una misura estrema, ma deriva dal fatto che in passato nessuno ha pensato a limitare la diffusione di questo animale che, oltre a provocare danni agli argini, nel medio-lungo termine darà luogo ad un aumento spaventoso della spesa di ricostruzione degli argini, diventati fragili a seguito delle gallerie scavate nel sottosuolo dai roditori”. Gli animalisti di Vicenza, invece, la vedono in maniera diametralmente opposta: “Continua l’odiosa e criminale campagna volta allo sterminio delle nutrie, fomentata dalle associazioni di cacciatori che bramano di poter uccidere tutto l’anno, senza regole. Abbiamo dimostrato molte volte come le alluvioni degli anni scorsi non siano state causate da rottura degli argini, ma da esondazione dovuta al mancato fluire delle acque piovane, per l’incuria nella manutenzione dei canali, il tombamento dei fossati, la speculazione edilizia e la cementificazione del territorio. Tutte cose la cui responsabilità è in primis proprio degli amministratori degli enti locali, tipo il sindaco in questione”.
Dal Veneto alla Sicilia, sono 188 e ci costano oltre 40 milioni ogni sei mesi. Che l’Italia sia costellata di discariche abusive non è certo una novità. Così com’è una novità che ci costino un sacco di soldi, visto che ogni sei mesi il nostro paese si vedrà recapitata una multa da circa 43 milioni di euro in seguito alla condanna della Corte Europea, che risale allo scorso dicembre. Quello che ancora non si sapeva era dove fossero con precisione queste discariche abusive, mancava una vera e propria mappa che permettesse di capire quali sono gli enti territoriali che, per primi, dovrebbero intervenire ed evitare che il territorio venga deturpato e inquinato in questo modo. Ora una mappa è saltata fuori: a ottenerla è stata la deputata del Movimento 5 Stelle Claudia Mannino richiedendola al dipartimento Ambiente della Commissione europea. Un elenco che era stato soprannominato “desaparecido”, perché per lungo tempo introvabile. E allora, dove sono le discariche abusive in Italia? Prima di tutto, va detto che sono 188 e che puntellano tutta Italia, con le soli eccezioni della Valle d’Aosta e del Trentino Alto Adige. Le regioni che ospitano il maggior numero di discariche abusive si concentrano nel centro-sud: Campania (48), Calabria (43), Abruzzo (28), Lazio (21), Puglia (12) e Sicilia (12). Ce ne sono però anche nove in Veneto (di cui cinque a Venezia) e ce ne sono anche in alcuni borghi che hanno una grande importanza dal punto di vista turistico e paesaggistico, tra cui Matera e l’Isola del Giglio. Una prima conseguenza di questa mappatura è che ora sarà possibile chiedere il conto del loro operato a tutti gli amministratori coinvolti. Anche perché se si vuole evitare che l’Italia incorra in altre sanzioni pecuniare, il tutto dovrebbe essere messo in sicurezza o bonificato entro il 2 giugno 2015. Scrive Il Fatto Quotidiano:
Con la sentenza del 2 dicembre 2014, infatti, la Corte di Giustizia aveva accertato l’omessa esecuzione da parte della Repubblica italiana (e per essa, dei Governi succedutisi nell’arco di oltre 7 anni) della decisione della stessa Corte del 26 aprile 2007, che aveva dichiarato l’inadempienza dell’Italia, a partire dal 9 febbraio 2004, agli obblighi di attuazione di alcune disposizioni delle direttive comunitarie in materia di gestione dei rifiuti e delle discariche. La Corte Ue aveva usato la mano pesante con l’Italia, rifilandole una multa di 40 milioni di euro
La prima regione che dovrà rispondere del suo operato è la Sicilia. La deputata Mannino ha già chiesto all’assessore all’Ambiente di quella regione, Maurizio Croce, di far sapere se gli interventi necessari saranno completati per tempo. La seconda regione che sarà messa sotto osservazione sarà probabilmente la Calabria, per la semplice ragione che le due regioni portano oltre il 90% dei rifiuti in discariche abusive, a fronte di una media nazionale del 37%. Il ministro dell’Ambiente Galletti, a dicembre, segnalava però come la situazione fosse migliorata: “La sentenza sanziona una situazione che risale a sette anni fa. In questo tempo l’Italia si è sostanzialmente messa in regola. Siamo passati da 4.866 discariche abusive contestate, a 218 nell’aprile 2013. Cifra che si è ulteriormente ridotta a 45″. Una cifra, quest’ultima, evidentemente troppo ottimistica.