Alessandria, veleni nelle falde e nel sangue. Denuncia di Medicina democratica

La Sezione di Medicina democratica di Alessandria ha condotto una campagna nazionale per la messa al bando del PFOA (perfluorurato) scaricato nel Bormida fino alla foce del Po, denunciando anche ai massimi livelli sanitari la presenza del veleno nel sangue dei lavoratori, a loro volta addirittura donatori di sangue. «Sul nostro blog – dice Medicina Democratica – sono archiviati almeno 50 interventi sulle questioni. Il libro “Ambiente Delitto Perfetto” ne parla diffusamente».solvay

Medicina Democratica ha denunciato, oltre al perfluorurato, «la presenza nel sangue dei lavoratori Solvay di Spinetta Marengo (Alessandria) di ADV e C6O4, a vario titolo sostanze tossiche/cancerogene/mutagene/teratogene e ha rivendicato l’intervento dell’ASL e del sindaco a tutela dei lavoratori nonchè dei cittadini tutti». Inoltre ha chiesto a Paolo Marforio direttore generale dell’ASL di Alessandria, ad Antonino Saitta assessore alla Sanità della Regione Piemonte e al ministro Beatrice Lorenzin di «impedire su tutto il territorio nazionale trasfusioni di sangue contenenti tali veleni». Il documento è stato inviato alla Procura, a tutti i sindaci della provincia, a tutti gli ospedali, Arpa e Avis. «A tutt’oggi nel territorio alessandrino non hanno riscontro in ambito Asl e Arpa analisi e interventi ispettivi che invece si stanno svolgendo in Veneto – spiega Medicina Democratica – Qui si parla di sottoporre ad analisi 250 mila persone tra le 400 mila a rischio di PFAS (perfluorurato) fra Vicenza, Verona e Padova. L’Istituto Superiore della Sanità ha già dichiarato che sono contaminati più di 60 mila residenti. E’ allarme generale». «Di contro, l’inerzia e il silenzio di Asl e Arpa alessandrini ai nostri esposti rappresentano uno scandalo che colpisce la salute della cittadinanza non sappiamo in quale entità».

«L’ASL ha la responsabilità di provvedere direttamente alle analisi del sangue dei lavoratori, di verificare quelle fornite ai lavoratori da Solvay, la quale non può essere controllata e controllore di se stessa, nonché di procedere ai referti della popolazione a rischio, in merito particolare alla presenza di queste sostanze pericolose, fornendo delle stesse completi parametri tossicologici e sanitari di concerto con ARPA. Sottolineiamo che per Medicina democratica i valori limite devono essere zero». «Chiediamo nuovamente che i risultati delle rilevazioni siano portati a conoscenza individuale degli interessati e della collettività tutta: tale riteniamo sia l’obbligo del sindaco di Alessandria, peraltro già insolvente del Referto epidemiologico e dell’Indagine epidemiologica della Fraschetta».

«Il risultato della nostra campagna nazionale è stata l’eliminazione del PFOA dalle lavorazioni della Solvay di Spinetta Marengo e la sua sostituzione con il C6O4: sale ammonico inodore, scarsamente biodegradabile, corrosivo, tossico per ingestione inalazione e contatto, principale organo bersaglio il fegato, le polveri fini derivate possono infiammare ed esplodere, in caso di incendio o surriscaldamento genera per decomposizione termica come sottoprodotti tossici o cancerogeni fluoruro di idrogeno anidro, fluorofosgene, difluoruro di carbonile, ammoniaca, anidride carbonica, fluorocarburi ecc. Per quanto riguarda l‘esposizione prolungata o ripetuta sono tragicamente carenti ovvero nascoste informazioni scientifiche tossicologiche, soprattutto come cancerogeno, mutageno e teratogeno. Criticità nel trattamento rifiuti per la neutralizzazione e il recupero di acido fluoridrico».

«Abbiamo chiesto all’ARPA campionamenti: silenzio. Sindaco e assessore all’ambiente: silenzio». «Stesso discorso per l’ADV della Solvay: incolore, inodore, insapore, letale se ingerito o inalato, letale per contatto, indegradabile in acqua, bioaccumulabile, è tossico e corrosivo in degradazione termica nei suoi sottoprodotti (fluoruro d’idrogeno anidro, fluorofosgene, cloruro d’idrogeno ecc.) già in fase acuta. Per la fase cronica le informazioni scientifiche tossicologiche sono drammaticamente carenti ovvero nascoste, soprattutto per la cancerogenicità, come in generale lo sono per tutto ciò che riguarda salute, sicurezza e ambiente, compreso lo smaltimento dei rifiuti pregni di acido fluoridrico».

QUI la lettera aperta

Fonte: ilcambiamento.it

Indossiamo… tracce nascoste di veleni

Nel settembre scorso Greenpeace, nell’ambito della campagna Detox, aveva chiesto ai marchi dell’abbigliamento outdoor se utilizzassero PFC nei loro prodotti. Gran parte aveva risposta sì ma senza fornire dettagli. Ora sono pronti i risultati dei test di laboratorio…ed ecco quanti veleni ci portiamo addosso ogni giorno!

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Nei mesi scorsi Greenpeace ha acquistato una quarantina di prodotti dell’abbigliamento outdoor e li ha inviati a un laboratorio indipendente per le analisi. I risultati confermano la presenza di PFC nel 90 per cento dei prodotti analizzati, solo quattro articoli ne sono risultati privi. «In 18 prodotti sono state registrate concentrazioni elevate di PFC a catena lunga, ovvero i più pericolosi, nonostante la maggior parte dei marchi dichiari pubblicamente di aver eliminato questi composti dai loro prodotti» spiega Mirjam Kopp, responsabile del Detox Outdoor Global projec. «Il PFOA (Acido Perfluoroottanoico) ad esempio – un PFC a catena lunga responsabile di numerose patologie e malattie gravi come il cancro – è stato individuato in alcuni prodotti di marchi molto popolari come The North Face e Mammut. I risultati confermano lo scarso rispetto di questi marchi per la natura e per la nostra salute: non si fanno scrupolo di usare sostanze chimiche pericolose nelle loro filiere produttive. Insieme a tutti gli amanti della natura e degli sport all’aria aperta li sfidiamo a mostrarci veramente cosa vuol dire essere aziende leader nel rispetto dell’ambiente: per questo motivo chiediamo loro di smettere subito di usare sostanze chimiche così pericolose sottoscrivendo un impegno Detox. Ciò che preoccupa è che queste sostanze si degradano molto lentamente una volta immesse in natura entrando così nella catena alimentare e causando una contaminazione  pressoché irreversibile. Abbiamo trovato i PFC in alcune delle aree più remote del pianeta, in animali come delfini e orsi polari e persino nel sangue umano». I prodotti risultati contenenti Pfc sono quelli di marchi come The North Face, Patagonia, Mammut, Columbia e Haglofs.

Leggete qui il rapporto di Greenpeace

Cosa sono i PFC

I composti perfluorurati (PFC), sono molecole in cui tutti i legami carbonio-idrogeno sono sostituiti da legami carbonio-fluoro. Questi composti sono stati largamente impiegati negli ultimi cinquant’anni in virtù delle loro peculiari caratteristiche chimico fisiche. I PFC si presentano come lunghe catene carboniose (almeno 6 atomi di carbonio tranne i composti più recenti), che terminano con un gruppo polare. Questa struttura chimica conferisce una particolare resistenza termica nonché inerzia chimica, ed una eccezionale idrofobicità e lipofobicità. Caratteristiche queste ultime che hanno reso estremamente differenziato l’impiego dei PFC sia in ambito industriale che in quello domestico (polimeri plastici, carta, fibre tessili e pellame, schiume antincendio, cosmetici, casalinghi, etc.). In totale, si contano 23 classi chimiche di PFC. Queste molecole causano contaminazione ambientale. I PFC risultano resistenti nei confronti delle degradazioni possibili in natura (fotolitica, idrolitica, biotica aerobica o anaerobica) e sono in grado di bioaccumularsi negli organismi viventi, concentrandosi nella catena alimentare. Si sono dimostrati in grado di causare un’ampia gamma di effetti avversi, sia in studi di laboratorio, in vitro e in vivo, che in studi epidemiologici. L’esposizione potrebbe anche incrementare la permeabilità cellulare nei confronti di altri composti tossici, come ad esempio le diossine, potenziandone l’azione. Inoltre, l’interruzione della comunicazione cellulare, di per sé fondamentale per la crescita della cellula, può tradursi nella promozione di crescita cellulare anormale, e dunque nello sviluppo di tumori, specie in caso di esposizione cronica.

Fonte: ilcambiamento.it

Veleni nel piatto: la classifica dei cibi più contaminati

Oltre il 61% degli alimenti analizzati è risultato contenere una percentuale di prodotti tossici oltre la soglia di legge: è quanto emerge dal rapporto di Coldiretti che ha analizzato i cibi più contaminati. E quelli peggiori vengono dall’estero.alimenti_contaminati

Con il 61,5 per cento dei campioni risultati irregolari per la presenza di residui chimici è il peperoncino proveniente dal Vietnam il prodotto alimentare meno sicuro in vendita in Italia che, nel corso del 2013, ne ha importato ben 273.800 chili per utilizzarlo nella preparazione di sughi tipici come l’arrabbiata, la diavola o la puttanesca piccante e per insaporire l’olio o per condire piatti senza alcuna informazione per i consumatori. E’ quanto emerge dal Dossier “La crisi nel piatto degli italiani nel 2014”,  presentato dalla Coldiretti anche con una esposizione della “Classifica dei cibi piu’ contaminati”, elaborata sulla base delle analisi condotte dall’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) nel Rapporto 2014 sui Residui dei Fitosanitari in Europa. Un pericolo legato al fatto che, sotto la pressione della crisi, è sostenuto – sottolinea la Coldiretti – il commercio di surrogati, sottoprodotti e aromi artificiali, oltre che di alimenti a basso costo ma a rischio elevato come dimostra il fatto che le importazioni agroalimentari in Italia hanno raggiunto la cifra record di 39 miliardi di euro nel 2013 con un aumento del 20 per cento rispetto all’inizio della crisi nel 2007. Se nella maggioranza del peperoncino dal Vietnam esaminato è stato trovata la presenza in eccesso di difenoconazolo, ma anche di hexaconazolo e carbendazim che sono vietati in Italia sul peperoncino, a preoccupare – continua la Coldiretti – è anche l’arrivo sul territorio nazionale nel 2013 di 1,6 milioni di chili di lenticchie dalla Turchia che, secondo l’Efsa, sono  irregolari in un caso su quattro (24,3 per cento) per residui chimici in eccesso e delle arance dall’Uruguay che  presentano il 19 per cento dei campioni al di sopra dei limiti di legge per la presenza di pesticidi  come imazalil  ma anche di fenthion, e ortofenilfenolo vietati in Italia. Nella classifica dei prodotti piu’ contaminati elaborata alla Coldiretti ci sono anche le melagrane dalla Turchia (40,5 per cento di irregolarità), i fichi dal Brasile (30,4 per cento di irregolarità) , l’ananas dal Ghana (15,6 per cento di irregolarità), le foglie di the dalla Cina (15,1 per cento di irregolarità) le cui importazioni nei primi due mesi del 2014 sono aumentate addirittura del 1.100 per cento, il riso dall’India (12,9 per cento di irregolarità) che con un quantitativo record di 38,5 milioni di chili nel 2013 è il prodotto a rischio più importato in Italia, i fagioli dal Kenia (10,8 per cento di irregolarità) ed i cachi da Israele (10,7 per cento di irregolarità). Si tratta di valori preoccupanti per un Paese come l’ltalia che può contare su una produzione Made in Italy con livelli di sicurezza da record con un numero di prodotti agroalimentari con residui chimici oltre il limite di appena lo 0,2 per cento che sono risultati peraltro inferiori di nove volte a quelli della media europea (1,6 per cento di irregolarità) e addirittura di 32 volte a quelli extracomunitari (7,9 per cento di irregolarità), sulla base delle elaborazioni Coldiretti sulle analisi condotte dall’Efsa e del piano coordinato europeo dei controlli sui residui fitosanitari. Un pericolo che colpisce ingiustamente soprattutto quanti dispongono di una ridotta capacità di spesa a causa della crisi e sono costretti a rivolgersi ad alimenti a basso costo dietro i quali spesso si nascondono infatti ricette modificate, l’uso di ingredienti di diversa qualità o metodi di produzione alternativi. Dall’inizio della crisi – ricorda la Coldiretti – sono piu’ che triplicate in Italia le frodi a tavola con un incremento record del 248 per cento del valore di cibi e bevande sequestrati perché adulterate, contraffate o falsificate sulla base della preziosa attività svolta dai carabinieri dei Nas dal 2007 al 2013. “In questo contesto è importante la decisione annunciata dal Ministro della Salute, On. Beatrice Lorenzin, di accogliere la nostra richiesta di togliere il segreto e di rendere finalmente  pubblici i flussi commerciali delle materie prime provenienti dall’estero per far conoscere anche ai consumatori i nomi delle aziende che usano ingredienti stranieri per poi magari parlare di Made in Italy nelle pubblicità”, ha sottolineato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo nel precisare che “in un momento difficile per l’economia dobbiamo portare sul mercato  il valore aggiunto della trasparenza e lo stop al segreto sui flussi commerciali con l’indicazione delle aziende che importano materie prime dall’estero è un primo passo che va completato con l’obbligo di indicare in etichetta l’origine degli alimenti”.

 

LA CLASSIFICA DEI CIBI PIU’ CONTAMINATI

PRODOTTO                    PAESE DI PROVENIENZA                         IRREGOLARITA’ IN %

1) Peperoncino                            Vietnam                                                       61,5

2) Melagrana                               Turchia                                                        40,5

3) Frutto della passione               Colombia                                                     25,0

4) Lenticchie                                Turchia                                                        24,3

5) Arance                                     Uruguay                                                      19,0

6) Ananas                                    Ghana                                                         15,6

7) Foglie di Tè                             Cina                                                             15,1

8) Riso                                         India                                                            12,9

9) Fagioli                                      Kenya                                                         10,8

10)  Cachi                                    Israele                                                         10,7

Fonte: Elaborazione Coldiretti su dati Efsa

Tratto: il cambiamento.it

Italia dei veleni: bambini a rischio, ma la ricerca non viene finanziata

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In questi ultimi mesi, purtroppo, ci siamo abituati a scoprire, giorno dopo giorno, un’Italia avvelenata, dove convivono le Terre dei Fuochi, le discariche abusive, i terreni contaminati, le persone che muoiono di tumore. A dare un quadro ancora più netto della pericolosità insita di questi luoghi, un tempo decantati per la loro bellezza, arriva in questi giorni il terzo dossier “Sentieri” dell’Istituto superiore di Sanità, sugli effetti sulla salute delle popolazioni esposte ai Sin, i Siti di interesse nazionale per le bonifiche. Lo studio ha il compito di approfondire il livello di compromissione della salute dei 5 milioni di italiani che vivono in territori tendenzialmente pericolosi, in prossimità di discariche, di industrie e di terreni inquinati. I risultati, come ci si poteva aspettare, non sono rincuoranti. La cosa che stupisce ancora di più, però, è che l’importanza di sviluppare questo filone di ricerche per comprendere meglio l’incidenza che questi veleni hanno sui nostri bambini viene, tutt’oggi, sottovalutata. Spesso non ci facciamo caso, ma i bambini corrono, giocano e respirano quell’aria malsana ricca di inquinanti. Il loro metabolismo è più veloce del nostro, per questo sono più esposti a rischi di malattia.

Quelli che vivono vicino alle aree contaminate hanno un rischio di morte più alto del 4%, già nel primo anno di vita. Oltre a questo, però, non ci è dato sapere, visto che il primo progetto di studio epidemiologico dedicato ai bambini che vivono in queste aree compromesse continua a giacere nei cassetti dell’Istituto superiore di Sanità. Parte di questi dubbi e l’assoluta necessità di indagare gli effetti di tutti questi veleni sulla salute dei bambini lo sono chiari nel nuovo rapporto “Sentieri”, di cui abbiamo parlato prima. Il settimo capitolo, in particolare, affronta questo tema, poco esplorato e soprattutto delicatissimo, dei rischi per la salute infantile. Per poter condurre la terza parte dello studio, i ricercatori dell’ISS hanno lavorato su tre banche dati diverse, incrociando le rilevazioni sulla mortalità aggiornate al 2010, l’incidenza oncologica per gli anni 1996-2005 e dati di ospedalizzazione relativi al periodo 2005-2010. Dalle analisi emergono con forza: la gravità dell’esposizione all’amianto, che genera mesotelioma e tumore maligno della pleura; una maggiore incidenza di tumore del fegato, legato a un “diffuso rischio chimico nei SIN”; le patologie del sistema urinario, per le quali si ipotizza un nesso causale legato ai solventi alogenati dell’industria calzaturiera. Non ultime le malattie respiratorie e i tumori al polmone. Le conclusioni di questi dati dovrebbero fungere da campanello d’allarme per la politica sanitaria e ambientale, spingendo chi di dovere ad acquisire maggiori conoscenze dei contaminanti presenti nei territori e delle conseguenze a essi legate. Ma non solo. Si sa che sono 5 milioni gli italiani che vivono in uno dei 44 siti di interesse nazionale per le bonifiche (Sin); di questi, un quinto sono bambini e giovani al di sotto dei 20 anni d età, la fascia più fragile ed esposta. Tuttavia su di loro grava un buco informativo che si spera possa essere colmato nel più breve tempo possibile. La sottostima di questo problema, fa notare il Fatto Quotidiano, era già nota agli esperti italiani.

Un anno fa, durante un workshop organizzato dal Dipartimento ambiente e prevenzione primaria (Ampp)dell’Iss, erano state descritte le evidenze epidemiologiche disponibili sui fattori di rischio ambientale per l’insorgenza dei tumori infantili riferiti a 23 siti, su 44, di interesse nazionale per le bonifiche e coperti dalla Rete dei registri tumori (Airtum).

Secondo i dati, in quei particolari siti, “sono stati registrati circa 700 casi di tumori maligni tra i ragazzi di età compresa tra 0 e 19 anni (più di 1.000 casi includendo anche i giovani adulti, 0-24 anni). Con picchi nelle realtà più compromesse della mappa dei veleni: a Massa Carrara, area interessata dal siderurgico e petrolchimico, le esposizioni agli inquinanti hanno portato a un eccesso di mortalità del 25% nei bambini sotto l’anno di vita e del 48% in quelli da 0 a 14 anni. A Taranto gli stessi valori sono superiori del 21% e del 24%, a Mantova – tra industrie metallurgiche e cartarie, petrolchimico e discariche e area portuale – addirittura del 64 e 23%”.

Il progetto per colmare questo buco informativo, nonostante la sua complessità, ha costi molto ragionevoli: costerebbe circa 350mila euro. Nulla, in confronto ai 250 milioni che nel bilancio del Ministero della sanità vanno sotto la voce “tutela della salute pubblica”. Poco rispetto allo studio approvato sulla sigaretta elettronica (415mila euro) o sul Piano di monitoraggio e di intervento per l’ottimizzazione della valutazione e gestione dello stress lavoro correlato proposto da Inal (480mila euro). Eppure, ad oggi, lo studio proposto dagli epidemiologi su tutti i bambini dell’Italia dei veleni non ha ancora trovato posto. I proponenti si limitano a dire: “Finora, in effetti, non abbiamo avuto fortuna. Abbiamo avuto un momento di gloria nel 2006-2007 con la ricerca finalizzata, poi nel 2009 col Ccm e adesso fatichiamo un po’ ma non demordiamo, stiamo continuando a fare richieste”. Anche perché, fare prevenzione per i bambini, significa fare prevenzione per tutti e quei dati che allo stato attuale non ci sono, potrebbero essere importantissimi. Anche considerato il fatto che ogni giorno, in un punto diverso d’Italia, si scoprono nuovi veleni, nuovi siti contaminati. L’ultimo, quello che riguarda Cassino, nella zona agricola di Nocione, dove un’area di 10mila metri quadrati, intrisa di veleni, dove pascolavano le pecore è stata recintata. Rifiuti ospedalieri e discariche abusive hanno contaminato terra e acqua. Un disastro annunciato, e denunciato ad esempio da Legambiente nel 1998, perpetrato per oltre due decenni e che, ad oggi, richiede almeno 213 mila euro di spesa preventivata per gli interventi.

(Foto: AZRainman)

Fonte: ambientebio.it

Navi dei veleni, Greenpeace pubblica gli elenchi degli atti secretati

Continua la battaglia dell’associazione ambientalista contro il segreto di Stato apposto sui dossier Ilaria Alpi e navi dei veleni

Il 20 marzo cadrà il ventesimo anniversario della morte della giornalista italiana Ilaria Alpi e del suo cameraman Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio mentre erano sulle tracce di veleni, sangue, armi e petrolio, che dall’Italia viaggiavano verso il Corno d’Africa con il beneplacito dei nostri servizi segreti e la scorta d’eccellenza dei caschi blu Onu. Un omicidio drammatico che resta avvolto, dopo 20 anni, in una nube di mistero mantenuta tale dall’insopportabile segreto di Stato, quello strumento giuridico di derivazione diretta da quella “ragion di Stato” che consegna l’Italia ai principi dell’antidemocrazia internazionale. Da mesi Ecoblog vi riporta puntualmente le richieste di Greenpeace, e non solo, al governo, affinchè vengano desecretati (sulla scia dei verbali di Schiavone sulla Terra dei fuochi) tutti gli atti sotto segreto di Stato contenenti le verità nascoste sulle navi dei veleni, uno degli scheletri nell’armadio d’Italia più difficile da tirar fuori. La relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta, redatta e pubblicata un anno fa, non può essere ritenuta soddisfacente perchè, di fatto, non rivela nulla: pomo della discordia l’omicidio misterioso del capitano di corvetta Natale De Grazia che, mentre indagava sulle navi affondate dalla ‘ndrangheta nel Tirreno, morì per un caffè avvelenato bevuto in Autogrill. Anche questo, un caso mai risolto per il quale gli ambientalisti chiedono la riapertura dei processi e la desecretazione dei documenti riservati. Greenpeace, per esercitare maggior pressione sulle istituzioni (in questo caso è la Presidenza della Camera dei Deputati, rappresentata da Laura Boldrini, ad aver assunto un impegno chiaro)ha pubblicato oggi l’elenco dei documenti sotto segreto di Stato relativi alle navi dei veleni ed al caso Ilaria Alpi: l’estratto deriva dagli archivi parlamentari ed è datato al settembre 2012.

“Uno dei documenti secretati è di provenienza Greenpeace e riguarda il tema del caso delle ricerche a mare relative alla nave affondata al largo di Cetraro (2009) che, secondo il pentito Fonti, sarebbe stata la Cunski, una delle navi sospettate di traffici di rifiuti, mentre, secondo le ricerche condotte per conto del Ministero dell’Ambiente, sarebbe la nave “Catania” affondata nella prima guerra mondiale. Su questa ipotesi sia Greenpeace che altre associazioni hanno espresso i loro dubbi.”

scrive Greenpeace.

Quello delle navi dei veleni è un tema tanto attuale (basta ricordarsi della vicenda delle armi chimiche provenienti dalla Siria verso Gioia Tauro) quanto misterioso. Oltre un centinaio di documenti contenuti nell’elenco diffuso da Greenpeace riguardano esplicitamente il ruolo del faccendiere Giorgio Comerio e dell’ODM (Oceanic Disposal Mangment), una settantina più generalmente i traffici di rifiuti tossici e radioattivi, oltre un centinaio le cosiddette “navi a perdere” e una sessantina riguardano la Somalia.

Ufficialmente la tutela delle fonti grazie alle quali lo Stato persegue questi reati è alla base delle motivazioni per cui viene apposto il segreto di stato: in barba al principio einaudiano “conoscere per deliberare”.

Intervista a Luciana Alpi su La StampaFoto-Ilaria-Alpi

Vi riportiamo di seguito il testo dell’intervista, pubblicata il 16 marzo, del giornalista Nicolò Zancan del quotidiano LaStampa a Luciana Alpi, la madre della giornalista Rai Ilaria Alpi uccisa a Mogadiscio nel 1994: la donna racconta 20 anni di dolore e silenzi, di segreti di Stato e di una verità che continua a mancare, forse uccisa anch’essa a Mogadiscio assieme alla figlia ed al cameraman Miran Hrovatin.

«Cinque magistrati, vent’anni di indagini, un solo colpevole, sicuramente innocente».

Signora Alpi, cosa la indigna di più? 

«Questa mancanza di verità. Il modo di lavorare della Procura di Roma, che non saprei come definire. Non hanno fatto niente, a parte depistaggi a tutto spiano. Si arrabbieranno, lo so. Ma la mancanza di rispetto per due persone morte in modo così bestiale fa arrabbiare me».

Ricorda ancora la voce di Ilaria? 

«Ha telefonato due ore prima dell’agguato. “Sono molto stanca – ha detto – adesso faccio la doccia, mangio qualcosa, poi devo preparare il servizio per il telegiornale alle 19”. Io e mio marito eravamo sollevati, perché dopo essere stata a Bosaso, finalmente era tornata a Mogadiscio, dove conosceva tutti. Due ore più tardi abbiamo ricevuto un’altra telefonata. Era la Rai…».

Quante volte ha riguardato l’ultima intervista di sua figlia al sultano di Bosaso? 

«Centinaia. In Italia sono arrivati 35 minuti di girato, 13 minuti di domande. Ma è stato lo stesso sultano Bogor a dichiarare che quell’intervista, in realtà, era durata più di due ore. Tagliati i nastri, scomparsi anche i taccuini degli appunti…».

In quel lavoro occultato c’è la chiave per capire? 

«Io credo di sì. Lo ha detto il sultano stesso: Ilaria cercava conferme. Sapeva del traffico di armi e rifiuti. Voleva andare a vedere la nave della Shifco, donata dalla cooperazione italiana. Di questo si stava occupando quel giorno».

Per la commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Carlo Taormina, è stata un tentato rapimento. 

«Ilaria e Miran sono stati uccisi con un solo colpo sparato da distanza ravvicinata. Strano sequestro, quello che prevede l’esecuzione dell’ostaggio…».

Sempre Taormina ha dichiarato che non c’era nessuno scoop da fare in Somalia. Perché è risaputo che la Somalia era un grande mercato d’armi a cui l’Italia partecipava attivamente. Cosa ha pensato di fronte a questa affermazione? 
«Sono rimasta sbigottita. Persone delle nostre istituzioni che si permettono di dire cose del genere, nella totale indifferenza…».

Taormina è arrivato a dichiarare che sua figlia era lì in vacanza. 

«Una cosa talmente volgare, che non gliela perdono. Poteva dire: mi dispiace, non abbiamo trovato niente, l’inchiesta era difficile. Avrei capito…».

Nel 1995, la procura di Reggio Calabria indaga su un traffico internazionale di rifiuti tossici. Fa una perquisizione a Milano a casa dell’ingegnere Giorgio Comerio. Dentro una cartellina gialla con sopra scritto «Somalia», trova il certificato di morte di sua figlia. E poi? 

«Nulla. Quel certificato non si è più trovato. Sparito. E adesso dicono che non era vero niente».

Era vero? 

«Il mio avvocato ed io siamo stati chiamati dal pm Francesco Neri, il titolare dell’inchiesta. Ha voluto incontrarci alla Galleria Umberto Sordi. Le sue parole non erano fraintendibili».

Per l’assassino di Ilaria e Miran c’è un solo condannato, Hashi Omar Hassan. È stato lui?

«Al contrario, è innocente. Non ci sono dubbi. È tornato in Italia dopo l’assoluzione in primo grado, dimostrando la sua buona fede. Non c’entra niente in questa storia. E adesso, la situazione è da Grand Guignol…».

Perché?
«L’unico condannato per l’omicidio di mia figlia, mi ha telefonato pochi giorni fa da Padova, al primo permesso fuori dal carcere. “Ciao mamma, come stai? Volevo ringraziarti. Il magistrato mi ha fatto uscire perché tu racconti in giro che sono innocente”».

È vero?

«Certo. Vorrei la verità sulla morte di Ilaria e Miran anche per Hashi, definito nella sentenza di primo grado esattamente per quello che è: un capro espiatorio».

Ci sono ancora 8 mila documenti secretati sul caso Alpi-Hrovatin.

«Aspettiamo le decisioni della Camera e del Copasir. Ma il problema è capire, alla fine, cosa effettivamente ci lasceranno leggere. Troppi pezzi di questa storia sono scomparsi».

Non si fida delle istituzioni? 

«Ci hanno mollati alla grande…».

Perché non si vuole la verità? 

«Collusioni. Probabilmente sono implicati personaggi importanti, forse aspettano che muoiano. Ma temo che morirò prima io, il che mi secca parecchio…».

Dopo vent’anni ci spera ancora? 

«Il 6 marzo abbiamo incontrato il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Mi ha detto che andranno avanti. È stato molto gentile, devo dargliene atto. Non tutti lo sono stati…».

Cosa vuole dire ai ragazzi e alle ragazze che sognano di diventare giornalisti? 

«Non voglio mettere Ilaria su un piedistallo. Era una giovane donna, che aveva sempre studiato molto. Era diligente, faceva le cose in modo serio. Prima di un servizio si documentava a fondo».

Cosa le manca di più? 

«Il suo sorriso, era molto spiritosa».

Ilaria Alpi non ha avuto giustizia, però non è stata dimenticata. 

«Al contrario, le hanno dedicato canzoni, strade, articoli, film, libri. Molti giornalisti ancora lottano per lei. Presto le verrà intitolato il parco di Follonica. E un ragazzo di 28 anni chiamerà “Ilaria” un nuovo tipo di rosa, che verrà piantato all’orto botanico di Roma. Mi commuove molto».

Alla fine delle celebrazioni, quando si spegneranno le luci, cosa farà? 

«È morto mio marito. È morta anche Jamila, la gattina che Ilaria aveva raccolto in mezzo alla strada. Ormai mi trattano come una vecchia mamma rompiscatole in preda all’Alzheimer, ma non mi arrendo. Continuerò a combattere per la verità. Cos’altro potrei fare?».

Fonte: ecoblog.it

Il progresso dei veleni. Diserbanti anche lungo le strade.

La pratica di diserbare i bordi della strade si sta diffondendo in molte zone d’Italia nonostante l’effettiva illegalità della stessa. Ma qualcosa possiamo fare per impedirlo. Ecco una testimonianza di azione collettiva in tal senso conclusasi con successostrade_diserbanti2

Poiché quest’anno in Italia centrale fino alla fine di gennaio l’inverno non c’è stato, la guerra chimica alla natura dell’agricoltore convenzionale, che di solito inizia in primavera, è cominciata già all’inizio dell’anno.
L’agricoltore convenzionale è quello che segue le regole e convenzioni a lui raccomandate, insegnate, propagandate dall’industria petrolchimica.

Il primo atto di guerra chimica dell’agricoltore convenzionale consiste nello spargere erbicidi, detti anche diserbanti, nei suoi campi. “Erbicida” vuol dire “che uccide l’erba”. Perché l’erba pare essere diventata, per la parte più “progredita” dell’umanità, uno degli acerrimi nemici, da combattere con qualsiasi arma. Ma non illudetevi che si limiti a uccidere solo quella: gli USA utilizzano i diserbanti come arma di guerra dai tempi del Vietnam. Hanno ucciso coi diserbanti migliaia di persone, in modo diretto o indiretto (cancri, leucemie, malformazioni eccetera). Contro l’agricoltore convenzionale possiamo fare poco, se rispetta le norme e le leggi che regolano l’uso dei fitoveleni. Ma qualcosa tuttavia sì: divulgare informazione sui danni da pesticidi, fare nei nostri comuni, se sono agricoli, convegni, conferenze, incontri rivolti ad agricoltori e popolazione. Ci sono ricerche scientifiche indipendenti anche in Italia, che dimostrano la nocività dei pesticidi, e ricercatori disponibili a tali incontri. Per trovarli potete provare a contattare per esempio Medicina Democratica, un’associazione di base per la difesa della salute che vanta vari medici e relatori tra i suoi aderenti (www.medicinademocratica.org). Possiamo poi denunciare quegli agricoltori che non rispettano le norme di uso dei diserbanti e, ultimo ma non meno importante, comperare e mangiare solo cibi biologici. Ma c’è qualcuno che, come apprendiamo dai giornali sempre più spesso, le norme d’uso degli erbicidi le viola senza pensarci, fregandosene allegramente e palesemente di tali norme e della salute dei cittadini e dell’ambiente; le viola alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti: l’ANAS e alcune amministrazioni provinciali. Anche loro fanno la guerra alle erbe sui lati delle strade e, siccome la guerra meccanica richiede più tempo e lavoro (cioè più salari pagati a operai), e siccome vige in Italia il sistema dei subappalti concessi a chi chiede meno soldi (e le ditte che chiedono meno sono quelle che sfruttano di più e lavorano peggio), ecco che la guerra diventa chimica. Di solito iniziano a marzo, ma quest’anno si danno da fare già in gennaio Dove sono le ASL? A controllare le galline ruspanti e i formaggi del pastore.  Le norme per l’uso degli erbicidi prevedono alcune elementari, minime precauzioni, che sono in totale e insanabile contrasto con lo spargerli lungo le pubbliche strade. Allora forse contro questa pratica spandi veleni attuata da ANAS e pubbliche amministrazioni possiamo fare qualcosa di più. Approfittiamo delle leggi in vigore (prima che la grande industria le faccia cambiare a proprio vantaggio come è ormai d’uso) e chiediamo semplicemente che vengano rispettate. Ci vuole un gruppo di persone che tengano all’ambiente e alla propria salute (può bastare un Gruppo di Acquisto Solidale); una lettera fatta magari con l’aiuto di un avvocato amico (uno di quelli che non pensa solo ad accumulare palanche), disposto nel caso a mettere in piedi un esposto o un’azione legale collettiva. Azione che si può condensare in una raccolta di firme in calce alla lettera, che ci permetterà di informare e sensibilizzare parenti, amici, vicini di casa, avventori del bar sotto casa, colleghi di lavoro, compagni di studi. La lettera va inviata alle amministrazioni comunali, provinciali, regionali e, naturalmente, alla sede regionale e nazionale dell’ANAS. Con la lettera far presente che persino le ditte produttrici degli erbicidi raccomandano: “Durante i trattamenti è necessario evitare che anche piccole quantità di prodotto raggiungano corsi d’acqua e fossi per scongiurare gravi contaminazioni e danni all’ambiente acquatico”!
Oppure: “Non trattare nei periodi di fioritura, per non distruggere gli impollinatori”. Affermazioni come queste le fa nientemeno che una nota azienda produttrice di erbicidi come la Syngenta, mica io. Inoltre le stesse ditte, oltre alle ASL ecc., raccomandano e impongono che il tempo di rientro, cioè l’intervallo di tempo che deve trascorrere dalla fine del trattamento al momento in cui si può entrare nel terreno trattato, sia di almeno 48 ore per qualsiasi pesticida. Almeno (!) 48 ore. È evidente che irrorando coi diserbanti i bordi delle strade pubbliche, le quali non vengono per questo chiuse per quarantott’ore, si contravviene alla minima elementare precauzione di salvaguardia della salute umana. Lungo le strade pubbliche, statali o provinciali o comunali (perché c’è anche qualche comune italiano che ha avuto la bella idea), i bambini aspettano il pulmino scolastico, ragazzini e adulti il pullman di linea; poi c’è ancora chi lungo le strade ha l’antiquata abitudine di camminare; senza contare quei poveracci (sono milioni) che ci abitano, lungo le strade diserbate, e che uscendo di casa calpestano, assieme ai loro bambini e cani, il diserbante appena irrorato, e poi se lo portano dentro casa per continuare l’opera non più “erbicida”, forse “omicida”? Perché la gente che abita, cammina, aspetta il pullman lungo le strade, a differenza dei lavoratori agricoli che spargono i pesticidi, non ha guanti, tute, scarponi da lavoro da lasciare nella rimessa o da ripulire dopo ogni trattamento, come raccomandano le ASL e persino la Syngenta. Quanto alle leggi sui prodotti “fitosanitari”, termine asettico e menzognero per definire i veleni inquinanti, distruttori di ambiente, di equilibrio ecologico, di salute del suolo e dell’aria e dell’acqua, prodotti dall’industria agrochimica e diffusi sul globo terraqueo a milioni di tonnellate, in genere impongono:
– che il diserbante non venga irrorato a meno di dieci metri da corsi d’acqua e invasi (lungo le strade corrono i fossi di scolo delle acque, ci sono i tombini che convogliano acque di scolo, sotto le strade ci passano i fiumi e i torrenti e i ruscelli);
– che l’area trattata venga delimitata o segnalata con divieto di accesso (le strade statali!?);
– e, dulcis in fundo, che “le aree interessate ai trattamenti non devono trovarsi a meno di 10 metri da strade pubbliche”.
Dunque, diserbare con gli erbicidi i bordi delle strade è, a tutti gli effetti, illegale. Oltre che mentalmente insano, irresponsabile, sconsiderato, ecocida e gli altri epiteti metteteceli voi, perché non si possono scrivere su un giornale. Ne consegue il dovere, per chiunque tenga all’ambiente, di intervenire per far cessare questa pratica
In molti casi si è riusciti a “convincere” facilmente le amministrazioni provinciali, anche inviando la suddetta lettera con le firme ai giornali locali. Siamo costretti anche questa volta a una battaglia “in difesa”.
Quando ero una ragazzina, chi mi insegnò a giocare a scacchi (che sono un gioco di simbolica guerra), mi fece notare che, per vincere, bisogna riuscire a essere all’attacco. In effetti, chi costringe l’avversario in difesa è automaticamente in vantaggio: chi si difende deve pensare e agire per non essere sopraffatto, non ha tempo e modo di pensare e organizzare una strategia. Nella guerra all’ambiente, che vuol dire guerra al pianeta e a tutte le sue creature, portata avanti (in questo caso anche con l’aiuto dell’ANAS) dai matti pericolosi che dominano ormai il mondo, il movimento ambientalista, cioè i savi o pressoché tali, che il mondo e tutte le sue creature vorrebbero salvarli, sono negli ultimi anni quasi sempre in difesa. E cediamo terreno palmo a palmo. Mi viene allora da domandarmi in che modo, per esempio, potremmo “attaccare” i Signori dell’Agrochimica e i loro succubi, e non solo cercare di difenderci scompostamente da essi. E una risposta, certamente parziale, non decisiva, ma del tipo “azione” e non solo “reazione”, e quindi importante, mi sembra di trovarla:comprando e mangiando solo cibi biologici (se proprio non ce la facciamo a consumare tutto tutto bio, almeno tutti i cibi di uso quotidiano). I prodotti di quegli agricoltori che sono ancora contadini, cioè abitanti e lavoratori rispettosi della terra, suoi custodi; combattenti spesso solitari di una battaglia che è per il bene comune, che preserva suolo, acque e tutte le creature che ci vivono; gente che va controcorrente e che fa fatica, ma che è la sola speranza di sopravvivenza dell’agricoltura. E poi, meno importante ma importante, non comprando piante e fiori impestati che arrivano dal Kenia schiavizzato, non spruzzandoci addosso o vaporizzando nelle case prodotti chimico sintetici per ammazzare le zanzare, non mettendo insetticidi negli angoli di casa per far fuori le formiche, non usando il collare antipulci che emana pesticidi sul nostro cane e su nostro figlio che gioca con lui. I prodotti che vendono anche al supermercato come insetticidi sono altrettanto nocivi, hanno gli stessi principi attivi di quelli che gli “agricoltori convenzionali” spargono sui campi con qualche precauzione in più.
E convogliano anch’essi un flusso di denaro, e potere, nelle tasche dei matti pericolosi che dovremmo rendere innocui.

Piena splendeva la luna quando presso l’altare si fermarono:

e le cretesi con armonia sui piedi leggeri cominciarono spensierate a girare attorno all’ara sulla tenera erba appena nata.
(Saffo)

Fonte: il cambiamento

Porto di Gioia Tauro, il potere delle cosche tra navi e veleni

Le ecomafie nel porto di Gioia Tauro continuano a fare affari d’oro. Secondo Wikileaks “ci sono occhi dappertutto”ITALY-SYRIA-CHEMICAL-WEAPONS

Il porto di Gioia Tauro è, gloriosamente, il più grande terminal per trasbordo di tutto il mar Mediterraneo e lo scalo merci principale lungo l’asse America-Europa-Medio Oriente: a Gioia Tauro transita di tutto, solo nel 2011 sono stati 2.300.000 i container movimentati in questo porto (nel 2007 oltre 3 milioni), dai beni alimentari alla cocaina, dai materiali d’importazione ai rifiuti tossici. Nel porto di Gioia Tauro giungeranno le armi chimiche provenienti dall’inferno siriano.

L’importanza di Gioia Tauro, la sua posizione e il volume d’affari di questo grande porto, è legata a doppio filo con traffici che di etico hanno ben poco: controllato storicamente dalla cosca Piromalli-Molè, gli affari nel porto di Gioia Tauro vanno avanti ininterrotti (con qualche lieve disturbo) già dai primi anni ‘80, ma è nell’ultimo decennio del “secolo breve” che i soldi veri, e i traffici seri, hanno creato il valore criminale intrinseco di questo enorme porto del sud. L’Operazione Decollo del 2004, ad esempio, portò alla luce il traffico di droga che dalla Colombia arrivava al cuore dell’Europa, passando (per l’80% del volume totale) proprio da Gioia Tauro: un crocevia che non ha riguardato solo il mercato degli stupefacenti ma anche merci contraffatte di vario genere e rifiuti tossici. In una drammatica relazione del 2008 della Commissione parlamentare Antimafia si descrive come la ‘ndrangheta

“controlli o influenzi gran parte dell’attività economica intorno al porto e utilizza l’impianto come base per il traffico illegale. […] è legittimo effettivamente affermare che la malavita ha eliminato la concorrenza di società non controllate o influenzate dalla mafia nella fornitura di beni e servizi, eseguire lavori di costruzione e di assunzione di personale. E che ha gettato un’ombra sul comportamento del governo locale e altri organismi pubblici.”

Nella relazione del 2004 a Gioia Tauro viene invece dedicato un capitolo intero, che potete consultare qui da pagina 89. Il primo terminal per il transhipment del Mediterraneo, a soli 70km dal capoluogo calabrese, garantisce alle cosche di agire all’interno di un tessuto criminale talmente vasto da rendere complicatissime indagini e scoperte sulle attività criminali nel porto: trovare container “particolari” su di una banchina ove ogni anno ne vengono movimentati oltre 2 milioni è come cercare un albero in Islanda: solo nel 2009 furono settemilaquattrocento le tonnellate di rifiuti sequestrati dalle autorità italiane. Gioia Tauro è l’ultima pista seguita in Italia dalla giornalista Ilaria Alpi, morta in circostanze misteriose a Mogadiscio mentre camminava sul filo dei veleni che unisce l’Italia all’Africa subsahariana: un fenomeno, quello dei traffici di veleni tra Italia ed Africa (Nigeria, Somalia ed Etiopia in particolare), ancora oggi poco chiaro, sommerso come un iceberg nell’omertà delle cosche e del segreto di Stato. Le ‘ndrine reggine, compresi i Piromalli, offrono un servizio di brokeraggio rifiuti economico e efficace, in tutta Italia, in tutta Europa: da sempre grandi quantità di rifiuti tossiconocivi transitano dalle banchine di Gioia Tauro per sparire nel profondo blu del Mediterraneo.

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Nel 2008 un’operazione dei Carabinieri del NOE dimostrò come ingenti quantitativi di materie plastiche tossiche, scarto di lavorazione di molte aziende italiane, venissero imbarcate a Gioia Tauro direzione Hong Kong e, una volta attraccate al porto cinese, venivano spedite agli schiavi delle fabbriche di giocattoli, per tornare infine in Europa sotto forma e colore di balocco per bambini. La seconda legge della termodinamica:

“Noi forniamo la materia prima per auto-inquinarci di ritorno: questo è veramente assurdo.”

diceva l’ex procuratore nazionale antimafia, oggi Presidente del Senato, Pietro Grasso. Se prendiamo i cablogrammi di Wikileaks le tinte del quadro sul porto più grande del Mediterraneo si fanno ancora più fosche: persino il presidente Obama, nel 2010, esprimeva preoccupazioni sulle infiltrazioni mafiose nei traffici marittimi del porto di Gioia Tauro; scriveva L’Espresso:

“Una delle più grandi preoccupazioni dell’America di Obama: il traffico di materiale nucleare clandestino utilizzabile dai terroristi che potrebbe essere movimentato attraverso porti come Gioia Tauro, descritto come una falla nei controlli europei.”

La ‘ndrangheta, che nel porto avrebbe “occhi dappertutto” e “funzionari disponibili a guardare dall’altra parte mentre si commettono illegalità”, è una presenza che emerge sempre più grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie (come gli scanner), che a Gioia Tauro fanno fatica a prendere piede. Una “pistola fumante” è la nave cargo fermata al porto di Genova nel 2010 e proveniente proprio da Gioia Tauro con a bordo un container contentente cobalto-60 o le 7 tonnellate di esplosivo T4 sequestrate, sempre nel 2010, proprio nel porto Calabrese (secondo Wikileaks sarebbero potuti essere utilizzati per la costruzione di una “bomba sporca”, ma i cablogrammi non chiariscono chi potesse avere questo tipo di obiettivo). Va sottolineato come le operazioni di polizia e le nuove tecnologie abbiano ridimensionato i traffici illeciti nel porto di Gioia Tauro (rispetto al 2012 il traffico di container l’anno scorso ha visto una flessione in negativo di quasi il 20%, segno che le cosche dirottano in altri porti, in Italia e in Europa, una parte dei loro traffici), ma certamente non si può definire “il porto più sicuro” del Mediterraneo, come qualcuno al Ministero delle Infrastrutture ha tentato di raccontare. Anche perchè dove non arriva la ‘ndrangheta arriva lo Stato, come testimonierebbe un documento citato da Terra e coperto in parte da segreto di Stato (consultabile nella relazione della Commissione Pecorella a questo link), che rivelerebbe come il porto di Gioia Tauro sia stato un luogo sicuro anche per i traffici di veleni coordinati dai servizi segreti, la stessa pista seguita da Ilaria Alpi: centinaia di milioni di euro stanziati ai servizi per provvedere allo “stoccaggio di rifiuti radioattivi ed armi”.

Fonte: ecoblog

Valutazioni di Impatto Ambientale?VIA libera all’egualitarismo dei veleni

 

“Più l’ambiente è sano ed incontaminato, più è vocato ad accogliere le peggiori nefandezze!”. Andrea Marciani spiega in questo articolo la logica che porta ad una sorta di ‘egualitarismo’ del degrado, una distribuzione “democratica” dei veleni su tutto il territorio nazionale.

 

 

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La scienza ambientale ha fatto grandi progressi ed il suo studio appassiona un numero sempre crescente di studenti. A questo incremento di capacità ed interesse non corrisponde però un effettivo miglioramento delle condizioni ambientali del pianeta. Al contrario stiamo assistendo a devastazioni che solo pochi anni fa sarebbero state impensabili: basti per tutte l’esempio dell’estrazione delle sabbie bituminose in Alberta , nel civilissimo Canada, dove un tratto di foresta primaria grande quanto il Belgio è stato raschiato via dai bulldozer e l’intero sistema fluviale del Canada sud-occidentale inquinato dagli idrocarburi liberati nell’estrazione. Perché l’affinamento delle tecniche di indagine e monitoraggio sulla salute degli ecosistemi ed il vasto esercito di laureati consacrati a questi studi, non producono un’effettiva protezione degli ecosistemi? La risposta è evidente: il potere del profitto. In un mondo in cui il sistema finanziario sta smantellando gli Stati nazionali e le democrazie parlamentari, il denaro esercita un potere incontrastabile, non ci sono comunità locali in grado di resistere a lungo, né studi scientifici abbastanza ponderosi da sconfiggere, con il semplice buon senso, la bulimia distruttiva del neo capitalismo. Ma allora tutti questi laureati che fine fanno, in quali settori esercitano la loro professione quelli che non riescono a trovare posto nei dottorati di ricerca o nell’insegnamento ? Semplice, finiscono a lavorare per il ‘nemico’. Già, perché questa diffusa sensibilità ambientale una traccia l’ha lasciata nelle normative nazionali, ed in Italia come in Europa si è concretizzata nelle Procedure di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), che ormai ogni progetto di grande rilevanza deve affrontare per ottenere le autorizzazioni amministrative.

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Purtroppo, come recita l’adagio, “fatta la legge, trovato l’inganno” e, vista la complessità della materia, gli speculatori del saccheggio delle risorse naturali, hanno avuto bisogno di arruolare laureati proprio in quel settore nato per proteggere l’ambiente naturale. Nasce così una nuova disciplina ambientale che ha, come scopo principale, di stabilire quanto, dell’ambiente naturale, si può sacrificare alle attività industriali. Una sorta di disciplina scientifica ‘inversa’, dedita cioè al raggiungimento di finalità opposte a quelle per la quale era stata ideata. Principali esponenti di questa nuova disciplina sono gli odierni ministri ed assessori dell’Ambiente, che, in ogni grado delle istituzioni, svolgono un ruolo opposto a quello che, nell’immaginario collettivo, la qualifica attribuisce loro: di difensori, cioè, dell’ambiente naturale. Se analoga inversione fosse applicata agli altri assessorati, potremmo avere un assessore all’Industria che si occupa di demolire capannoni industriali in attività, per sostituirli con parchi pubblici ed uno alla Sanità che sancisce quanti cittadini possono essere deliberatamente infettati col virus dell’Aids senza nuocere troppo alla salute pubblica. Nel corso di una campagna di opposizione ad un progetto di miniera di antimonio particolarmente devastante, ho conosciuto una giovane laureata in scienze ambientali che si era occupata della stesura dello studio di impatto ambientale per la ditta proponente. Dai suoi documenti e dalla sua esposizione, ho appreso di alcune tecniche interessanti che regolano questa nuova disciplina “inversa” e che sono utili per sostanziarne la sua ‘intrinseca perversione’.

Il primo fattore che viene esaminato, nell’approccio alla stima di un impatto ambientale, è “lo stato di salute” dell’ambiente in cui si vuole intervenire. Si attribuisce a questo, una valutazione su di una scala che va da I a VI , dove VI rappresenta un ambiente vergine, raro ed incontaminato, mentre I quello più degradato e corrotto, poi si calcola l’impatto dell’opera su di una scala di valori che va da 1 a 5, dove 1 sta per impatto lieve (L) e reversibile in breve tempo (RBT) e 5 sta per un impatto molto rilevante (MR) ed irreversibile (IRR) infine si incrociano le due scale su di una tabella come quella qui allegata:

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In bianco le situazioni in cui l’impianto non si può fare, in verde dove si può fare senza problemi ed in giallo quelle situazioni in cui, con qualche integrazione documentale e qualche prescrizione da parte della commissione esaminatrice di VIA (utile ai sui membri per sfuggire a future sanzioni, una volta accertati i danni irreversibili causati) l’impianto si può comunque fare. Come si evince facilmente, più l’ambiente è sano ed incontaminato, più è vocato ad accogliere le peggiori nefandezze! Ad un cittadino ingenuo e sprovveduto, questa metodologia potrebbe apparire demenziale, ma l’istituzione di questa prassi risponde ad una logica precisa e pone le basi per la definitiva sconfitta dell’ambientalismo. Si realizza così, infatti, una sorta di “egualitarismo” del degrado, una distribuzione “democratica” dei veleni su tutto il territorio nazionale, che avrà come principale conseguenza l’impossibilità di realizzare studi clinici comparativi tra campioni diversi di popolazione, per stabilire la diversa incidenza tumorale. E dato che il ricorso a test comparativi rappresenta l’unica possibilità che la scienza medica ha, oggigiorno, per dimostrare la correlazione tra un certo inquinante ed una certa patologia degenerativa, gli industriali ed una certa classe politica a questi asservita, avrebbero così conseguito una sostanziale licenza di uccidere. A noi cittadini comuni, mentre vediamo sfumare ormai la speranza di una più equa ripartizione delle ricchezze e delle risorse, baluginata dalle dottrine economiche sociali del secolo scorso, ma trascinata via dalla crisi attuale, pare non resti altro da fare che condividere la sorte dei nostri fratelli di Taranto, di Bagnoli o di porto Marghera, in un cupo egualitarismo che attribuisce a tutti eguale diritto a partorire figli deformi od a morire ancora giovani di leucemia. A meno naturalmente di un improvviso ed inderogabile risveglio collettivo.

Fonte: il cambiamento