Accordo USA-UE sui dazi: importeremo soia OGM e shale gas dall’America?

Firmato ieri l’accordo tra Donald Trump e Jean-Claude Juncker per mettere fine alla guerra dei dazi, tra le conseguenze c’è la promessa dell’UE di importare più soia dagli USA.http _media.ecoblog.it_e_eb0_accordo-usa-ue-sui-dazi-auto-2

Raggiunto ieri l’accordo tra Stati Uniti e Unione Europea che apre la strada alla pace commerciale tra le due aree economiche, che negli ultimi mesi si erano sfidate a suon di dazi e contro dazi. Dopo l’incontro tra il presidente USA Donald Trump e quello della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, infatti, è stata rilasciata una dichiarazione comune. In tale dichiarazione si legge che USA e UE si impegnano ad abbattere la gran parte delle barriere, sia tariffarie che non tariffarie, al commercio di tutti i prodotti industriali non rientranti nel settore delle automobili e dei componenti per automobili. Nella stessa dichiarazione si legge anche che l’Europa si impegna a comprare più semi di soia e più gas naturale dagli Stati Uniti.

Questa dichiarazione ha suscitato non poche perplessità in Europa, per due motivi. Il primo è che gran parte del gas naturale americano viene estratto con la ben nota tecnica del fracking, che devasta il sottosuolo in cerca del cosiddetto “shale gas“. Il problema, però, è più per gli americani che per gli europei. Diversa è la questione per quanto riguarda il secondo dei prodotti americani, i semi di soia. La perplessità degli europei sta nel fatto che quasi il 100% della soia prodotta negli USA è OGM. Di conseguenza Trump ha detto che la delegazione europea venuta a Washington per trattare la fine della guerra commerciale ha promesso di comprare soia OGM. Prima di gridare allo scandalo, però, è necessario vedere come stanno realmente le cose. Per quanto riguarda la soia ce le spiega Paul Donovan, economista di UBS, società svizzera di servizi finanziari con sede a Basilea e Zurigo:

Juncker wince nell’arte dell’accordo. Trump fa un passo indietro sulle minacce di tassare i consumatori auto americani. La UE è d’accordo a parlare (l’UE ama parlare). Le forze del mercato guidano le importazioni UE di soia, qualunque cosa Trump possa dire su Twitter.

L’Unione Europea, quindi, non può aumentare o ridurre gli acquisti di soia OGM americana.

Un concetto ribadito da Donovan anche sul suo blog: “Il presidente USA ha twittato che i dirigenti UE compreranno più semi di soia. I dirigenti UE non possono farlo. Gli Stati Uniti sono già il più grande esportatore di semi di soia in UE. Non ci sono sussidi, dazi o quote sui semi di soia in UE. I privati contadini decidono se comprare o meno più semi di soia“.

Le importazioni di soia dagli USA alla UE oggi ammontano a 4-6 milioni di tonnellate l’anno, come confermano sia i dati (tabella qui sotto) dell’USSEC (U.S. Soybean Export Council, organo che fa lobby per conto dei produttori americani di semi di soia, riconosciuto dall’Unione Europea) che quelli del Foreign Agricultural Service del Dipartimento dell’Agricoltura del Governo americano.http _media.ecoblog.it_b_bee_importazioni-di-soia-ogm-usa-in-europa-dati-ussec

Ma gli OGM non erano vietati (o comunque molto ristretti) in Unione Europea? Com’è possibile che ogni anno importiamo milioni di tonnellate di semi di soia palesemente OGM dagli Stati Uniti?

E’ più che possibile, visto che l’Europa permette l’ingresso di prodotti agricoli geneticamente modificati purché non siano destinati alla semina. In Europa, salvo rarissime eccezioni, è vietato solo seminare OGM e la grandissima parte della soia OGM che importiamo dagli Stati Uniti serve ad alimentare il bestiame allevato in territorio UE. Fino al dicembre scorso, ad esempio, l’Unione Europea ha confermato per altri dieci anni l’autorizzazione alla commercializzazione di sei prodotti agricoli OGM per mangimi e alimenti non destinati alla coltivazione: quattro tipi di soia, un tipo di colza e un tipo di mais. Con l’accordo sui semi di soia (che alla fine non è nulla di nuovo, come abbiamo visto) con l’Europa di Juncker il presidente Trump spera di tenere a bada i coltivatori americani di soia OGM che, recentemente, hanno dovuto subire la decisione della Cina di chiudere alle importazioni di soia americana come ritorsione, ancora una volta, ai dazi imposti da Trump su alcuni prodotti cinesi.

Fonte: ecoblog.it

Scuolabus elettrici, in USA e Canada si fa sul serio

Blue Bird e Lion Bus annunciano investimenti e partnership sui nuovi autobus elettrici per il trasporto scolastico.http _media.ecoblog.it_a_a53_scuolabus-elettrici-in-usa-e-canada-si-fa-sul-serio

L’elettrificazione del parco autobus negli Stati Uniti e nel Canada procede, concentrandosi anche sugli scuolabus destinati al trasporto degli alunni a scuola. Due grandi aziende nordamericane del settore, infatti, hanno già modelli di autobus elettrici e si stanno muovendo per assicurarsi l’infrastruttura di ricarica. La statunitense Blue Bird ha presentato due scuolabus elettrici, il Type A Micro Bird G5 il Type D poco dopo aver ricevuto un finanziamento dal Department of Energy (DOE) americano da 4,4 milioni di dollari a dicembre scorso per lo sviluppo di un terzo modello: il Type C Vision elettrico. il primo bus elettrico di Blue Bird risale addirittura al 1994, ma era un prototipo dimostrativo mentre i nuovi modelli incorporano le più recenti tecnologie in fatto di motori elettrici, batterie ed elettronica. Attualmente i bus elettrici di Blue Bird hanno batterie da 100 a 150 kWh, con una percorrenza massima di 130-160 km. Non moltissimi, ma più che sufficienti per fare diverse volte il percorso casa-scuola tipico di uno scuolabus. Proprio per questo l’azienda sta lavorando sulla tecnologia Vehicle to Grid (V2G), che permette di cedere alla rete elettrica l’energia immagazzinata nelle batterie, vendendola e guadagnandoci. Per mezza mattinata, infatti, uno scuolabus sta fermo ad aspettare l’uscita dei bambini da scuola e può vendere la sua energia (immagazzinata di notte, quando costa di meno) proprio quando essa costa di più. Tutto questo abbassa notevolmente i costi complessivi di esercizio dei mezzi, il che si traduce in un semplice concetto: scuolabus più economici per i genitori. La canadese Lion Bus, altra società nordamericana che produce autobus e scuolabus, sta facendo esattamente lo stesso percorso: pochi giorni fa ha annunciato l’accordo con Power Energy Corporation, una controllata di Power Corporation of Canada, per lo sviluppo dei suoi bus elettrici.

Lion al momento è concentrata sullo sviluppo di un minibus dedicato al trasporto di disabili e studenti, che verrà lanciato sul mercato nel 2018. La società produce già il modello eLion, con 72 passeggeri di portata massima, batterie LG da 130 kWh e una percorrenza di 90-150 chilometri per carica. Cioè, come dice la stessa azienda, fino a 15 volte la lunghezza del percorso medio tra casa e scuola.

Fonte: ecoblog.it

Usa, alcuni stati spingono per il diritto alla riparazione dei prodotti elettronici. Apple si oppone.

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Sono otto gli stati americani che vogliono una legge nazionale sul “Right to Repair” per eliminare la prassi delle riparazioni consentite solo alla casa produttrice e ai centri autorizzati, che fa lievitare i costi. Apple sarebbe pronta a contrastarli. In queste settimane è rimbalzata la notizia sulla legge svedese che riduce le tasse a chi ripara invece di comprare un bene nuovo. Gli obiettivi sono la riduzione degli sprechi e dei rifiuti ma anche la crescita del mercato della riparazione e dell’artigianato. La Francia ha una legge contro l’obsolescenza programmata dei dispositivi elettronici e in Italia si attendono politiche più coraggiose che premino chi sceglie la riparazione. Ma è dagli Stati Uniti che arrivano le notizie più interessanti su questo fronte, perché coinvolgono uno dei colossi della tecnologia globale, la Apple di Cupertino.  Al centro della vicenda c’è il cosiddetto Digital Right to Repair Bill, ovvero la legge sul diritto alla riparazione. La norma ha lo scopo di obbligare i produttori a vendere i propri pezzi di ricambio autorizzati anche ai negozi di riparazione indipendenti e ai consumatori. In più i produttori dovrebbero mettere a disposizione del pubblico anche i manuali. Il provvedimento vuole fermare la prassi del settore dei dispositivi elettronici che consente di riparare i prodotti solo dalla società di produzione o tramite centri di riparazione autorizzati. Apple chiaramente non ci sta, perché l’apertura verso processi di riparazione liberi dal giogo della casa madre è una minaccia per i propri fatturati. Facciamo un esempio. L’azienda di Cupertino è proprietaria di tutte le componenti dell’iPhone. Se il telefono ha dei problemi Apple raccomanda di rivolgersi ai centri autorizzati che però subiscono un controllo fortissimo su tutte le componenti, con la conseguente lievitazione dei costi di riparazione. Con la nuova legge questo potrebbe cambiare, perché chi compra uno smartphone, un tablet o un portatile non dovrà più pagare i prezzi ingenti imposti dalle aziende per riavere i propri dispositivi funzionanti. Sono già otto gli stati Usa che hanno un disegno di legge sul right to repair. Secondo alcune fonti, Apple starebbe preparando una strategia di opposizione al provvedimento. Oltre allo Stato del Nebraska – che ha già programmato un’audizione per il 9 marzo – ci sono anche Minnesota, New York, Massachusetts, Kansas, Wyoming e qualche settimana fa si sono aggiunti anche Illinois e Tennessee.  Dietro la presentazione dei disegni di legge c’è Repair.org, un’organizzazione molto attiva nel settore della riparazione indipendente che lamenta danni dovuti al monopolio delle attività di riparazione detenuto dai produttori. Secondo fonti non ufficiali Apple – e probabilmente anche AT&T, una compagnia telefonica statunitense con sede in Texas – avrebbe programmato un intervento durante l’audizione del 9 marzo a Lincoln, la capitale del Nebraska, con l’intenzione di rivolgersi ai legislatori dello stato facendo leva sui pericoli che potrebbero derivare dalle riparazioni eseguite dai centri indipendenti.  Questa non è la prima volta che Apple si oppone ad un disegno di legge simile con la scusa che per motivi di sicurezza è necessario il controllo da parte del’azienda su tutta la filiera di produzione e riparazione, fino alle singole viti.  Ma Gay Gordon-Byrne di Repair.org, che testimonierà all’udienza in Nebraska del 9 marzo, sottolinea che la scusa della sicurezza è ormai diventata vecchia. Apple e le altre società che si oppongono al right to repair sono accusate di pensare più all’effetto negativo del disegno di legge sui propri ricavi miliardari, invece di prendersi cura dei propri clienti.

Fonte: ecodallecitta.it

 

Auto elettriche, gli Usa approvano l’obbligo di rumore

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Dal settembre 2019 tutte le auto elettriche dovranno emettere un rumore a velocità inferiori ai 30 km/h. La silenziosità delle auto elettriche è uno degli aspetti ambivalenti con i quali i regolatori di Stati Uniti ed Europa devono fare i conti: il contributo fornito alla diminuzione dell’inquinamento acustico è bilanciato dai rischi connessi alla sicurezza dei ciclisti, dei pedoni (specialmente quelli non vedenti) e degli altri automobilisti.  Negli Stati Uniti è stato approvato in questi giorni il Quiet Car safety standard, un nuovo regolamento per rendere le auto elettriche meno silenziose. La NHTSA (National Highway Traffic Safety Administration), l’agenzia governativa statunitense che si occupa di valutare la sicurezza dei veicoli stradali, ha stabilito che dal settembre 2019 tutte le auto elettriche dovranno emettere un qualche tipo di rumore quando viaggeranno a una velocità inferiore ai 30 km/h.  Al di sopra dei 30 km/h non ci sarà quest’obbligo poiché il rumore prodotto dagli pneumatici e dall’aria è sufficiente per allertare i pedoni.  L’ente governativo non ha specificato la tipologia del rumore ma ha fissato nella velocità di 18,6 miglia all’ora (equivalente ai nostri 30 km/h) la soglia sotto la quale dovrà attivarsi automaticamente il rumore di sicurezza.  Le case automobilistiche hanno meno di tre anni per mettersi in regola, anche se in alcuni modelli (per esempio la Kia Soul Ev e la Nissan Leaf) il cicalino di sicurezza è già presente.  Secondo le stime della NHTSA l’obbligo di rumore eviterà 2400 infortuni all’anno.

Fonte: ecoblog.it

Dal TTIP al CETA: come uscire dalla “Gabbia dei trattati”?

Dal TTIP al TTP, al CETA. In via di approvazione in varie aree del mondo, i trattati globali costituiscono una delle principali minacce per il nostro futuro. Per cercare di fare luce sui loro aspetti più oscuri e meno noti, abbiamo intervistato Matteo Bortolon, autore del libro appena uscito per Dissensi “La gabbia dei trattati”.

Hanno nomi inoffensivi, semplici sigle, ma rappresentano una delle principali minacce per il nostro futuro, la nostra salute, il cibo che mangiamo e l’acqua che beviamo, la nostra sovranità. Sono i trattati globali, dal TTIP al TTP, al CETA, che in varie aree del mondo sono in via di approvazione spinti dalle multinazionali con l’aiuto delle loro istituzioni, il Fmi e la Banca mondiale. Riguardano quasi ogni aspetto della nostra vita, eppure non se ne parla molto. Abbiamo intervistato Matteo Bortolon, autore del libro appena uscito per Dissensi “La gabbia dei trattati”, per cercare di fare luce sui loro aspetti più oscuri e meno noti.

Matteo, da cosa nasce l’idea di scrivere un libro su un argomento che potrebbe apparire “tecnico” come una serie di trattati commerciali?

Dalla militanza e dalla necessità. Dalla militanza perché sono impegnato assieme ad altri amici e compagni in un’opera di divulgazione per far conoscere il più possibile il contenuto di questi trattati; la necessità è di divulgare cose che vengono decise sopra la testa dei cittadini e poi incidono nella loro vita! Il potere conserva la sua forza quando è nell’ombra, quando il processo decisionale è nell’opacità. Il TTIP come dice giustamente John Pilger, è la cosa più importante che stia succedendo in Europa attualmente, i tg dovrebbero aprire con le notizie che lo riguardano, invece se ne parla pochissimo…

Il tuo libro si chiama La gabbia dei trattati. In che senso questi nuovi trattati internazionali contribuiscono a metterci in gabbia?

Nel senso che orientano la politica degli Stati senza il consenso dei cittadini. Gli Stati hanno già numerosi obblighi di vario genere a cui dovrebbero sottostare: il rispetto dei diritti umani, protezione dell’infanzia e della maternità, ambiente ecc. Entro tali limiti gli Stati hanno la sovranità, cioè la possibilità di determinare le politiche nazionali con metodi democratici. Vuoi privatizzare l’acqua? Vuoi usare una forma di energia molto inquinante? Lo scrivi nel programma e vediamo se prendi la maggioranza! I trattati di libero commercio vincolano invece gli Stati nella direzione di portare acqua al mulino degli interessi costituiti, che ho chiamato il “blocco egemonico”: i super-ricchi, le multinazionali e i loro apparati. Così che se al potere andasse qualcuno con un programma a favore del bene comune, dei cittadini, dei poveri, scopre di poter fare ben poco perché è vincolato, è legato. Se non si mettono a fuoco questi meccanismi diventa futile votare, siamo in gabbia.

Parliamo del TTIP, quali sono i settori più a rischio? Quali le possibili conseguenze per l’Europa e l’Italia?
Il Trattato comprende un po’ tutti i settori della vita pubblica: servizi pubblici, ambiente, lavoro, finanza… tutto, tutto può rientrare. Sono esclusi in maniera definitiva solo i poteri governativi (esercito, polizia, magistratura, governo vero e proprio) e il settore degli audiovisivi per via dei francesi che su questo settore hanno una sensibilità specifica. Ogni paese ha molto da perdere: per l’Italia, ad esempio, l’alimentare è uno dei settori chiave e non mi sembra che ci siano rimasti molti settori economici particolarmente floridi! In questo campo peggiorerebbe sia la qualità dei cibi a cui le persone hanno accesso sia la forza economica delle aziende; quelle medie e piccole probabilmente verrebbero spianate senza scampo. Un altro settore importante è quello sanitario. Ci sarebbe una spinta forte ad una accelerazione della privatizzazione del sistema sanitario nazionale. Gli esempi precedenti di trattati simili mostrano conseguenze molto pesanti in tal senso.ttip_china_usa_transatlantische_beziehungen_freihandelsabkommen

Alcuni spunti e possibili scenari li possiamo forse prendere dal TTP, il gemello del TTIP ma relativo all’area del Pacifico. Che tipo di accordo è stato raggiunto?

Al momento in cui parliamo il TTP deve essere ancora approvato, è stato raggiunto un accordo su di un testo condiviso e adesso i singoli paesi devono ratificarlo. Nel libro riporto in merito le preoccupazioni di ambito medico e sanitario, Medici senza frontiere dice che su questo piano sarà il trattato più dannoso di sempre, perché rafforzando i diritti di proprietà intellettuale blinda il diritto delle case farmaceutiche di ottenere profitti. In generale il TPP è considerato, credo a ragione, funzionale a circondare la Cina, costruendo una rete di paesi amici. E’ anche uno dei trattati più ambiziosi e bizzarri, mette assieme 12 paesi di tre continenti differenti, con livelli di struttura produttiva, economia molto diversi. Trattati del genere si dicono “regionali” perché normalmente riguardavano paesi vicini o la stessa area geografica. L’area del Pacifico è una cosa che sfida la stessa nozione di “regione geografica” se pensiamo che ci mettono dentro USA, Vietnam, Cile…

E invece di cosa tratta il meno noto CETA?

Non ho studiato approfonditamente il CETA, nel libro ho dovuto fare una scelta; ma è noto che si tratta di un antecedente del TTIP: un accordo dell’UE con il Canada. In esso vediamo un pezzetto di futuro: in merito, per esempio alle denominazioni di indicazione geografica per i prodotti: prosciutto di Parma, Grana Padano per esempio. Dovremmo poter evitare che uno faccia del formaggio in California e poi ci metta l’etichetta con scritto “Grana padano”, no? In un’intervista il Commissario UE all’agricoltura ha garantito che ci saranno tutele, e chiama in causa proprio il CETA. Ma se guardiamo agli allegati tecnici vedendo realmente quanti prodotti italiani vengono tutelati, la lista è assai corta. Noi abbiamo in Italia svariate centinaia di prodotti del genere, di cui circa 270 con indicazione geografica protetta; nel CETA sono elencati circa 350 prodotti ma di tutta Europa! Quelli italiani sono solo 41 (li ho contati uno ad uno). Quindi beh non sembra un modello molto buono.

In generale qual è il disegno (ammesso che ce ne sia uno) dietro alla carica di questi nuovi trattati?
In parte il disegno è lo stesso: istituire un livello decisionale in cui contano solo le grandi aziende e le lobby, sovraordinato rispetto alle leggi per i comuni mortali! Anche a livello giuridico il progetto è quello di istituire una giurisdizione differenziata per le grandi imprese. Ma il contesto è molto diverso.Import_Export

Cosa li distingue dai vecchi trattati degli anni Novanta come il WTO e il NAFTA?

Ai tempi degli anni Novanta il lustro del libero mercato era di carattere espansivo: si fondava sulla egemonia USA con la Russia ridotta nell’angolo, la Cina isolata, e l’India e l’Europa in fasi di transizione. I vecchi trattati erano la trascrizione della vittoria del capitalismo USA sulla guerra fredda, che prometteva benefici a tutti; un’atmosfera di ottimismo incarnata dal democratico Clinton. Adesso siamo nella crisi economica mondiale e i trattati vengono negoziati alla chetichella segretando tutto. Inoltre sono sul terreno le potenze emergenti, e ognuno cerca di costruirsi un suo spazio di potere in aree geopolitiche in competizione. I nuovi trattati anziché espandere il dominio USA cercando di frenarne il declino, assorbendo l’UE e costruendo un network di paesi “amici”. Ed i rivali fanno lo stesso. Tecnicamente l’enfasi è un po’ di meno sulla apertura di nuovi mercati e più sulla uniformazione regolatoria, in modo che nella stessa area si costruiscano mercati omogenei.

Quali prospettive vedi per il futuro? Che azioni individuali e collettive possiamo intraprendere per uscire dalla “Gabbia dei trattati”?

Nello specifico, mentre il TPP sembra essere sulla via di entrare in vigore con molta probabilità, il TTIP ha molte più difficoltà. Una delle maggiori siamo noi: senza il consenso è tutto molto più difficile, pensa al successo della manifestazione di Berlino di ottobre scorso! Ma ci sono altre difficoltà più oggettive: le classi dirigenti sono divise, l’assetto dell’UE è abbastanza in crisi… e gli USA sono solitamente molto rigidi, non mollano su nulla. Quindi le controparti europee sono in imbarazzo! Sono tutti d’accordo nello schiacciare i cittadini sotto i dettami del mercato ma se non c’è un minimo di equilibrio sembrerebbe una capitolazione per gli stessi settori egemonici europei. Penso che abbiamo buone speranze che il TTIP venga abortito, perché fra qualche mese inizia la campagna elettorale per le presidenziali negli USA e lì si blocca tutto… Ma a prescindere da tali difficoltà dei nostri avversari sono solo azioni di difesa se non si rimette sul tavolo la costruzione di una sovranità pienamente democratica, cioè la ricollocazione delle decisioni in ambiti conoscibili e influenzabili dai cittadini, altrimenti possiamo solo bloccare a valle tali tentativi di dominio, ma alla fine qualcosa passa! Personalmente trovo illusorie le prospettive di democratizzazione dell’UE.

Perciò credo si debba procedere su due binari paralleli: da una parte bloccare il TTIP e le altre minacce simili, dall’altra discutere fra noi su come agire per riportare le decisioni nel perimetro di istituzioni veramente democratiche. E’ difficile attivare questo tipo di dibattito ma non c’è scelta, se non giocare eternamente in difesa! In questo si gioca il nostro futuro!

 

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2015/11/ttip-ceta-gabbia-trattati/

Usa-Cina, accordo per sconfiggere il mercato illegale dell’avorio

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Stati Uniti Cina hanno firmato un importante accordo per porre fine al commercio globale di avorio. La Casa Bianca ha comunicato che i due Paesi sono pronti a emanare un divieto quasi completo sull’importazione e l’esportazione di avorio, un divieto che riguarda “restrizioni significative e tempestive per l’importazione di avorio come trofei di caccia” e anche “passi significativi e tempestivi per fermare il commercio nazionale d’avorio”. La Cina è il primo paese al mondo nel commercio dell’avorio, seguito proprio dagli Stati Uniti. Negli ultimi anni il prezzo all’ingrosso delle zanne di elefante è letteralmente esploso, quadruplicando dal 2010 al 2014, per cui l’accordo cino-statunitense è visto come un passo cruciale per fermare il commercio di avorio. Nella popolazione cinese sta maturando una forte coscienza ecologica e anche il tema dell’avorio non fa eccezione: secondo un sondaggio condotto quest’anno da Wild Aid, il 95% degli intervistati a a Pechino, Shanghai e Guangzhou ha dichiarato che il governo cinese dovrebbe bandire la vendita dell’avorio. Nella stessa indagine si è scoperto che la consapevolezza del bracconaggio è aumentata del 50% dal 2012.

Fonte:  The Guardian

L’agroalimentare italiano salvato dall’export: +36% negli Usa

Le tensioni fra Ue e Russia hanno fatto crollare del 45% gli ordini della Russia. Le esportazioni del settore agroalimentare italiano negli Stati Uniti hanno registrato un aumento del +36% rispetto all’anno precedente, secondo i dati raccolti ad aprile 2015. Il forte impulso all’export è stato favorito dal tasso euro/dollaro estremamente favorevole, ma risultati oltre le aspettative sono stati anche quelli riguardanti l’India (con un +25%) e Cina (con un +18%). La Coldiretti, in riferimento ai dati Istat sul commercio estero nei paesi extra Ue ad aprile 2015, ha registrato un aumento record del 12,2% delle esportazioni italiane rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Il cambio favorevole ha reso maggiormente competitive le aziende di casa nostra e l’export diventa, ancora una volta, un’ancora di salvezza per i molti piccoli, medi e grandi imprenditori capaci di guardare oltre i confini nazionali. L’export è il fattore in grado di sostenere l’economia in una fase nella quel permane la stagnazione dei consumi interni.
Anche nei dati relativi all’export di alimenti e bevande verso Stati Uniti e Cina del primo trimestre permane il segno positivo: + 20% per l’export verso gli Usa e + 23% verso l’Estremo Oriente. Pesante è, invece, il segno negativo delle esportazioni verso la Russia: le tensioni nei rapporti fra l’Ue e Mosca conseguenti al conflitto ucraino, il crollo del rublo e l’embargo hanno portato a un calo del 45% rispetto ai primi tre mesi del 2014. Ora bisogna capire se l’Expo 2015 farà da ulteriore volano a un export che resta il fiore all’occhiello della nostra economia. Intanto, proprio quest’oggi, il ministro Martina ha lanciato The Extraordinary Italian Taste, un marchio di qualità destinato a proteggere il cibo italiano dai numerosi “falsi cibi” che si trovano in commercio in giro per il mondo e che sottraggono alla nostra filiera agroalimentare all’incirca 60 miliardi di euro l’anno di potenziali esportazioni. Questa, infatti, è la cifra del business che ruota intorno ai cibi contraffatti e al cosiddetto Italian Sounding di cui Ecoblog si è occupato più volte.made-in-italy

Fonte:  Coldiretti

Rifiuti elettronici: un terzo dell’e-waste arriva da Usa e Cina

Secondo l’Università delle Nazioni Unite, nel 2014 sono stati prodotti 41,8 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici. In testa alla classifica c’è la Norvegia.

Un recente studio dell’Università delle Nazioni Unite ha stimato che nel 2014 sia stato stabilito il nuovo record della spazzatura elettronica: 41,8 milioni di tonnellate di rifiuti come frigoriferi, lavatrici, elettrodomestici, televisori, computer e telefonini. La stessa ricerca ha rivelato che solamente un sesto di questa spazzatura viene correttamente riciclata e che, entro il 2018, la quota complessiva dell’e-waste potrebbe superare la soglia di 50 milioni di tonnellate. L’elemento più paradossale che emerge da questa ricerca è che sono i Paesi che hanno un più forte coscienza ambientalista a produrre i maggiori quantitativi di rifiuti pro-capite: la graduatoria relativa al 2014 vede in testa la Norvegia con 28,4 kg pro-capite, seguita da Svizzera (26,3 kg), Islanda (26,1 kg), Danimarca (24 kg), Gran Bretagna (23,5 kg), Paesi Bassi (23,4 kg) e Svezia (22,3 kg). Al decimo posto ci sono gli Stati Uniti con 22,1 kg, ma vista la sua popolazione i consumatori statunitensi incidono tantissimo sul “peso” globale dei rifiuti elettronici. Cina e Stati Uniti insieme producono il 32% dei rifiuti complessivi. In termini assoluti al primo posto ci sono gli Stati Uniti con 7,072 milioni di tonnellate di rifiuti, seguiti dalla Cina con 6,032 milioni di tonnellate e dal Giappone con 2,200 milioni di tonnellate. Il dato sui rifiuti elettronici evidenzia quanto ampia sia la forbice fra i Paesi più avanzati e quelli del Terzo Mondo o in via di sviluppo: la media di rifiuti elettronici del continente africano è di appena 1,7 kg pro-capite all’anno. Per fornire un esempio concreto della cifra di rifiuti elettronici annuali, le Nazioni Unite spiegano che le 41,8 milioni di tonnellate di rifiuti annui sono l’equivalente di 1,15 milioni di carri-armati messi in fila lungo 23mila km. Se si riuscisse a riciclare al 100% questa quantità di rifiuti, si potrebbe generare una ricchezza quantificabile in 52 miliardi di dollari.

Fonte:  BBC

© Foto Getty Images

Accordo USA-India per contrastare i cambiamenti climatici

L’accordo prevede un’attivita’ di cooperazione per lo sviluppo delle energie rinnovabili, delle tecnolgie off grid e di riduzione dell’inquinamento. Il Presidente Obama ha siglato uno storico accordo con il presidente del”India Narendra Modi perche” le due nazioni operino insieme per contrastare i cambiamenti climatici, mettendo sul tappeto una serie di obiettivi che dovrebbero “espandere il dialogo politico e il lavoro tecnico sulle energie rinnovabili e le tecnologie a bassa emissione di gas serra.” L’accordo non specifica obiettivi di riduzione delle emissioni, come nel caso di quello raggiunto con la Cina lo scorso novembre, ma contiene tuttavia una serie di punti qualificanti:

(1) Cooperazione per raggiungere obiettivi ambiziosi alla conferenza di Parigi di fine anno;

(2) Un fondo comune di 125 milioni di dollari in 5 anni per sostenere progetti di ricerca su energie rinnovabili, efficienza energetici e biofuel di nuova generazione;

(3) Accelerare la crescita di una finanza dell’energia pulita, che potrebbe riguardare un portafoglio di un miliardo di dollari

(4) Cooperazione per migliorare la qualita’ dell’aria nelle citta’ indiane

(5) Sviluppo di tecnologie off grid in grado di portare le energie rinnovabili a chi e’ ancra fuori dalla rete elettrica nelle campagne.

L’India ha il 17% della popolazione mondiale, ma contribuisce solo per il 5,5% alle emissioni di gas serra. Tuttavia e’ molto probabile che verra’ colpita duramente dai cambiamenti climatici; per questo l’accordo di oggi e’ particolarmente importante.Obama-Modi

Fonte: ecoblog.it

Cambiamenti climatici, accordo tra Cina e Usa per azione globale: i commenti di Greenpeace, Kyoto Club e Legambiente

Cina e Usa hanno annunciato i nuovi target di riduzione delle emissioni lasciando intendere che nel 2015 l’accordo ONU diverrà globale. L’accordo storico tra Usa e Cina per la riduzione delle emissioni di CO2 è stato raggiunto ieri al termine del Vertice bilaterale sulla cooperazione economica a Pechino nella grande Sala del popolo tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama.CHINA-US-DIPLOMACY

Gli Stati Uniti e la Cina, che insieme rappresentano più di un terzo di tutte le emissioni di gas a effetto serra a livello mondiale hanno negoziato un accordo ampio per ridurre le emissioni drasticamente entro il 2030; accordo che il presidente Barack Obama ha definito una “pietra miliare”. Gli obiettivi sono stati posti al 2025 per ridurre le emissioni di gas serra del 28 per cento al di sotto del livello fissato nel 2005. Allo stesso tempo, la Cina ha dichiarato che intende iniziare a ridurre le proprie emissioni di anidride carbonica entro il 2030 e di aumentare la quota di energia a emissioni zero, tra cui nucleare, eolico, solare e altre al 20 per cento di tutti i suoi consumi per anno. Resta a questo punto da rimpinguare gli obiettivi che si è posta l’Unione Europea, impegnata da quest’anno a ridurre le sue emissioni di almeno il 40 per cento rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030 che da molti sono stati giudicati ancora insufficienti. Per gli Stati Uniti, l’accordo punta a raddoppiare il ritmo di riduzione della CO2 portandolo dall’attuale da 1,2 per cento l’anno al 2,3 per cento al 2020 e al 2,8 per cento per l’anno dopo. La Casa Bianca sostiene che l’ambizioso obiettivo potrebbe essere raggiunto in base alle leggi esistenti e che potrebbe generare fino a 93 miliardi dollari in “benefici netti” di miglioramento della salute pubblica e ridurre l’inquinamento. Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del WWF Italia commenta così lo storico accordo:

Tutti i Governi devono ora accelerare il ritmo e la portata dei loro impegni per i negoziati sul clima delle Nazioni Unite. E dovrebbero iniziare nel corso della riunione del G20 di questo fine settimana, annunciando di voler porre fine ai sussidi ai combustibili fossili (impegno già preso a Pittsburgh nel 2009): 88 miliardi di dollari che ogni anno vanno ad alimentare la maggiore fonte di anidride carbonica e, quindi, il cambiamento climatico. Siamo alla vigilia della COP 20 di Lima, poi c’è un anno di negoziati sino al traguardo di Parigi, alla fine del 2015. Il fatto che Cina e USA abbiano messo sul piatto un primo impegno è un ottimo inizio, vuol dire che non si arriverà all’ultimo momento con le carte tutte coperte, come avvenne a Copenaghen, provocando poi il sostanziale fallimento del tentativo di concludere un accordo globale significativo. In termini di numeri, lo prendiamo come un primo impegno, la scienza del clima e l’equità richiedono più azione.

U.S. President Barack Obama Visits China

Fonte: CRINYT

© Foto Getty Images