TeFFIt, alla scoperta del potere curativo delle nostre foreste

Gli effetti benefici del contatto con la natura, con i boschi e con gli alberi sono noti e documentati e sono tante le organizzazioni che favoriscono questa pratica. Oggi vi parliamo di una rete chiamata TeFFIt, che connette e unisce competenze trasversali in diversi campi per sfruttare la meglio le terapie forestali.

«I due ecosistemi più completi e autonomi presenti sul nostro pianeta sono le foreste e le barriere coralline. La foresta è il modello più evoluto al quale tende la vita emersa e tornare ad essa vuol dire tornare ad una conoscenza più profonda dei meccanismi e persino dei significati che regolano la vita stessa sul nostro pianeta». Con queste parole la dottoressa Fiammetta Piras e Raoul Fiordiponti, mi introducono in un mondo per me nuovo e affascinante. Mi riferisco a quello della rete TeFFIt – Terapie Forestali in Foreste Italiane e di Outdoor Education APS, nata grazie alla sinergia intellettuale di Università in campo medico, biologico e forestale da soggetti pubblici e privati. L’obiettivo è andare a integrare le conoscenze reciproche per realizzare azioni di studio sugli effetti benefici della fruizione di ambienti boschivi sani italiani, ma anche cercare di ottenere il riconoscimento delle Terapie Forestali come promozione della salute nel sistema sanitario italiano. Grazie a una chiacchierata con la portavoce del CTS, la dott.ssa Piras, e con il presidente dell’associazione, Raoul Fiordiponti, il quadro diventa molto più chiaro in merito a questa attività, che non ha niente a che vedere con l’escursionismo o la meditazione guidata in natura. Partiamo dal principio.

Una diversa prevenzione e promozione della salute

Le terapie forestali sono delle pratiche di prevenzione e promozione della salute, ma anche un intervento sanitario che supporta le terapie convenzionali soprattutto per malattie croniche non trasmissibili. In alcuni stati queste vengono già prescritte dai medici curanti e in paesi come Giappone, Svezia, Norvegia, Germania e Stati Uniti se ne raccomanda la pratica alla popolazione. Gli studi scientifici degli ultimi quarant’anni stanno dimostrando i benefici sulla salute psicofisica umana grazie a una regolare frequentazione di ambienti forestali maturi e ricchi di biodiversità.

«La TeFFIt è l’unica realtà in Italia a integrare i punti di vista del mondo forestale, medico, ecologico e della conduzione in ambiente naturale, creando un rapporto sinergico al fine di sviluppare ricerche finalizzate a strutturare metodi innovativi di promozione della salute e prevenzione delle malattie croniche», mi raccontano. L’Associazione promuove infatti percorsi finalizzati al benessere, studiati e sperimentati in foreste italiane sane ed evolute. 

I boschi sono detti sani quando si auto-organizzano rispetto a una serie di elementi che li caratterizzano, in particolare la quantità e diversità di organismi che li abitano – biodiversità – e le relazioni che questi instaurano tra loro – biocomplessità. I fitoncidi, ad esempio, sono segnali che emettono tutte le piante: se una di loro soffre, essendo in comunicazione con le altre, cambierà linguaggio, il quale verrà così captato da tutta la rete che si auto-organizzerà. Dopo esperienze in diverse foreste italiane, la dottoressa Piras e Raoul Fiordiponti, in contesti e situazioni diverse, si sono accorti che le esperienze vissute nelle foreste insieme ai gruppi accompagnati le reazioni positive erano sorprendenti, soprattutto per alcune patologie croniche. Anche bambini con deficit dell’attenzione hanno registrato netti miglioramenti con percorsi di terapie forestali. «Ogni persona trarrà un diverso beneficio che deve essere reciproco. Non si va nel bosco per usarlo e consumarlo, il beneficio deve continuare nel tempo e dei boschi bisogna avere cura e rispetto», sottolineano. 

La relazione tra uomo e foresta

«Tutto passa attraverso il contatto fisico con il fitto dialogo fisico chimico della foresta – spiegano la dott.ssa Piras e Raoul Fiordiponti – fatto di odori, colori, luci, suoni, forme, ma anche spore, pollini, persino microbi alleati e salutari che ci avvolgono quando ci immergiamo in essa. Quando la foresta è ricca e sana, questo “chiacchiericcio” è perfettamente orchestrato e il nostro corpo ne viene attratto e viene indotto a partecipare e adattarsi. I nostri ritmi finalmente rallentano e la foresta ci dà il “la”, come un abile direttore d’orchestra, perché anche le nostre funzioni tornino a risuonare in modo armonioso tra loro e con l’ambiente che ci circonda».

Ovviamente tutto questo è vero solo se al corpo e alla mente non viene imposto di impegnarsi in esercizi o altre attività, ma sono lasciati liberi di abbandonarsi agli stimoli che ricevono. Allora una foresta integra può trasformarsi in uno specchio che riflette un’immagine di noi più sana e serena come modello di benessere che sentiamo nostro e che possiamo raggiungere, ispirandoci anche ad adottare stili di vita migliori. Ciò non può essere vero se si va, invece, in un bosco malamente gestito, impoverito, “mutilato” del suo sottobosco, disturbato da una presenza umana indelicata e invadente, e la cui “sinfonia” risulterà inevitabilmente scarna e stonata.
«È pur vero che le persone poco abituate alla natura selvatica – continuano a raccontare – all’inizio possono sentirsi disturbate e persino infastidite o spaventate dall’apparente disordine delle foreste integre, e vanno introdotte ad esse con delicatezza e attenzione».

«Ma via via che il contatto con la Natura si approfondisce, esso evolve in una relazione sempre più stupefacente, gratificante e salutare. E le persone cominciano a percepire anche le differenze tra un bosco e l’altro, come sia diversa una pineta da una macchia mediterranea o da una faggeta. E ciascuno impara a muoversi in sintonia con foreste differenti, rispettandole e traendo da ognuna il beneficio migliore per sé. Scoperte e meraviglie non finiscono mai, basta comprendere con correttezza i dati forniti dalla scienza sul potere terapeutico delle foreste come ecosistemi e non ostinarsi a vederle come semplici luoghi dove fare attività prestabilite o assorbire qualche ingrediente terapeutico».

La TeFFIt organizza diversi corsi rivolti alle persone che vogliono capire come creare questa relazione e migliorare da soli la propria salute frequentando foreste sane, autodeterminate, biodiverse, biocomplesse. Sono corsi di Auto immersione in Foresta, di Conduttori in Immersione in Foresta e corsi relativi all’Outdoor Education basati su studi scientifici. Tutti vengono erogati da professionisti, medici, forestali e professori universitari, online, dal vivo e con parte pratica in presenza. L’obiettivo è velocizzare il ritorno alla relazione con la foresta, percepire i canti degli uccelli, ma anche ritrovare il significato dei profumi e dei colori come linguaggi che variano a seconda che si tratti di un allarme, di un richiamo o di un vero e proprio canto di gioia di vivere. Si cominciano a comprendere i diversi meccanismi esistenti, ad interpretare il significato di “parole” e “frasi” per noi esseri umani inconsuete, ma non solo perché si sono imparate cognitivamente, ma perché si è finalmente entrati in relazione con il popolo delle foreste.

Obiettivi generali

TeFFIt è l’unica realtà italiana con il registro nazionale dei conduttori iscritti all’elenco del Mise – Ministero dello Sviluppo Economico. L’idea non è fornire solo una formazione, ma individuare persone con cui sviluppare questa rete e continuare a fare ricerca, a capire come funziona questo meccanismo, ad avere più dati. Ai conduttori viene chiesto di svolgere un lavoro certosino che metta in evidenza il tipo di bosco in cui si sono fatte le immersioni, la stagione, la temperatura e altri dati scientifici che servono a rendere sempre più preciso il quadro. È improbabile, infatti, che una macchia mediterranea funzioni tal quale a una foresta di sequoie. Anche il tipo di relazione è preferibile che venga fatta da chi conosce molto bene un territorio. Nel Nord Europa sono abituati al cattivo tempo e a vivere la natura in tutte le condizioni metereologiche. Chi abita al Sud, invece, farà più fatica ad adattarsi a condizioni che nella sua quotidianità non vive. Anche le linee guida europee in merito agli studi sulle terapie forestali tengono molto in riferimento la localizzazione geografica perché la relazione con la foresta cambia in base al proprio ambiente, alle proprie necessità, alla propria realtà geografica e al proprio sistema sanitario, persino alla propria cultura, sottolineano. La rigidità, il riduzionismo o un approccio solo basato sull’intuito non aiutano molto in questo processo di relazione. Solo attraverso un metodo corretto che interseca più saperi si permetterà alle persone di trovare nel bosco quello che nei lavori scientifici viene chiamato il “luogo preferito”, inteso come quello in cui ciascuno si trova più a suo agio e ne trae il massimo beneficio per sé. Dimenticate le escursioni in natura, esercizi di meditazione o le varie forme di jogging, le attività proposte da TeffIt consistono nell’entrare in contatto con la natura attraverso sensazioni fisiche e non è richiesto neanche un impegno mentale. Al contrario, l’attenzione involontaria che usiamo quando siamo in natura non necessita di alcuno sforzo. Vagare in natura, con la mente e con il corpo, sarà la sensazione più stimolante e curativa mai provata!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/10/teffit-potere-foreste/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Orti Generali: il bene comune rigenerato che diventa orto collettivo e impresa sociale.

Orti Generali è un progetto di rigenerazione urbana di un’area in stato di semi-abbandono nel quartiere Mirafiori, a Torino. Oggi è uno spazio che offre centosessanta orti con la possibilità di coltivare, in gruppo o in famiglia, come associazione o individualmente ed imparare, con corsi di formazione teorica e pratica, attività e laboratori, alcuni dei temi legati all’agricoltura biologica, all’orticoltura e ai lavori rurali. Abbiamo incontrati uno dei co-fondatori del progetto, Matteo Baldo, che ci ha raccontato tutti i dettagli del progetto. In questo preciso momento in cui vi scrivo, nella sede di Orti Generali in Strada Castello di Mirafiori a Torino, la temperatura è di -1°C, ma quella del terreno è di un 1°C. Non c’è bisogno di annaffiare, ma si potrebbe zappare. L’umidità del terreno è di circa il 21%. Va bene, lo ammetto: sto cercando un modo originale per iniziare il racconto della storia di Orti Generali, un progetto di rigenerazione urbana che ha permesso il recupero comunitario di un parco fluviale, sulle rive del torrente Sangone, precedentemente in stato di semi-abbandono. Oggi su questa superficie sono stati assegnati a persone e famiglie circa centosessanta orti, di diversa grandezza, destinati all’autoproduzione. All’interno di Orti generali esiste inoltre un orto collettivo, che viene coltivato insieme ai volontari del quartiere, i cosiddetti Ortolani Solidali.

Lo spazio non è riservato ai solo esperti di orticultura: lo staff di Orti Generali assiste e forma tutte e tutti coloro che vogliono cominciare ad autoprodursi il proprio cibo, senza l’utilizzo di sintesi chimica ed esclusivamente in biologico. È anche per questo che all’interno dell’area è presente un polo didattico dove seguire corsi di formazione, frequentati anche dalle scuole che visitano l’area, e dove vengono distribuiti materiali informativi di vario tipo per imparare tutte le conoscenze necessarie ad una buona coltivazione. Altro pilastro di Orti Generali, come avete letto all’inizio di questo pezzo, è l’innovazione tecnologica: a disposizione degli ortolani c’è una centralina che rileva diversi parametri come meteo, umidità, temperatura locali, e aziona all’occorrenza un impianto di irrigazione centralizzato per tutti gli orti. I dati sono pubblici e a disposizione di tutte e tutti: lo scopo è ridurre al minimo lo spreco di acqua per l’irrigazione.
Orti Generali è nato da un’idea dell’Associazione Coefficiente Clorofilla, oggi Orti Generale APS, ed è curato da Stefano Olivari e Matteo Baldo. È nato da un’idea di Isabella Devecchi e grazie al prezioso aiuto di Marco Bottignole.

Immagini di copertura di Umberto Costamagna e Federica Borgato

La rigenerazione: il recupero

Facciamo un passo indietro: siamo nel quartiere Mirafiori, periferia sud di Torino. Luogo simbolo del “boom economico” (dal 1951 al 1971 Mirafiori Nord passò da 18.700 a 141.000 abitanti), conosciuta perlopiù per la presenza degli stabilimenti Fiat, è attraversata dal Torrente Sangone e sta vivendo un graduale processo di trasformazione strutturale e sociale, proprio e soprattutto a causa dell’abbandono produttivo della casa automobilistica. Una costante di questo quartiere sono sempre stati gli orti spontanei: appezzamenti di terra che, più o meno legalmente, venivano coltivati dagli abitanti del quartiere. Orti Generali sorge infatti ispirandosi ad un precedente progetto di ricerca chiamato “Miraorti”, progetto di ricercazione e sperimentazione nato nell’Ottobre del 2010 allo scopo di “riflettere sulle future trasformazioni dell’area di Mirafiori sud, lungo il torrente Sangone, attraverso un percorso di progettazione partecipata del territorio” e nasce con l’obiettivo di costruire un modello di impresa sociale per la trasformazione e la gestione di aree agricole residuali cittadine. Il progetto di ricerca è così confluito in un modello più attuativo, quello di Orti Generali. La riflessione gira attorno ad un tema fondamentale e ce la spiega Matteo Baldo, uno dei co-fondatori di Orti Generali: «Molti degli orti di questa area erano abusivi e i terreni intorno versavano in condizioni di abbandono, con la presenza di numerosi rifiuti e oggetti abbandonati. Quando siamo arrivati qui, a Maggio del 2018, abbiamo avviato una bonifica perché erano presenti tonnellate di materiali impropri. Questo processo si è potuto attuare grazie al fondamentale aiuto dei volontari di quartiere, e questo processo ha poi favorito il dialogo con gli ortolani per l’utilizzo di materiali il più possibile naturali per la costruzione e la coltivazione degli orti».

La struttura: non solo orti

Oggi Orti Generali esiste anche grazie ad un bando di concessione della Città di Torino. I centosessanta orti sono stati assegnati a chiunque ne abbia fatto richiesta, ma una precedenza è stata data alle ragazze e ai ragazzi al di sotto dei trentacinque anni, «categoria che abbiamo protetto riservandogli trentacinque orti con un contributo agevolato, perché uno degli obiettivi di Orti Generali è diffondere alle nuove generazioni i principi dell’autoproduzione – spiega Matteo – ma non ci siamo dimenticati di quelle famiglie e le persone che sono in difficoltà economica, che noi chiamiamo gli Ortolani Solidali. A fronte di un contributo simbolico, queste persone sono il cuore pulsante di Orti generali perché diventano parte dello staff, gestendo insieme a noi il verde pubblico e tutte le necessità dello spazio. Aiutiamo e veniamo aiutati grazie al senso di responsabilità di ogni persona». 

Le assegnazioni degli orti sono state velocissime perché la partecipazione delle persone è stata sin da subito molto sentita, tanto che oggi Orti generali sta riflettendo per ampliare e adibire un’altra area del Parco per la costruzione di nuovi appezzamenti coltivabili. All’interno di Orti Generali, come potete vedere anche dal video sopra, è presente una vera e propria fattoria con pecore e galline, un orto collettivo le cui eccedenze vengono redistribuite grazie al progetto “Mirafiori Quartieri Solidali” alle famiglie in difficoltà. Inoltre possiamo trovare un bistrot con un chiosco per mangiare e un’area ludica: «Sono presenti alcune sdraio, nel quale le persone possono rilassarsi e godersi il paesaggio. Lo abbiamo voluto perché, nel passato, le persone che non potevano permettersi di partire per le vacanze al mare venivano qui, sul Torrente Sangone, a trascorrere alcune ore in relax. E’ un aspetto che non vogliamo perdere», racconta Matteo. 

La sostenibilità culturale e sociale

In Orti generali, oltre al tema dell’agricoltura sana e delle tecniche e tecnologie adatte a realizzarla, è centrale l’aspetto della comunità. Il primo orto nato dentro Orti Generali è un orto sinergico, nato dalla bonifica di un orto precedente. Spiega Matteo che «ciò è successo grazie alla collaborazione con il Servizio Dipendenze dell’Asl locale, che ha permesso l’arrivo qui di persone che sono state protagoniste di percorsi riabilitativi e di ortoterapia». Uno dei risultati è stato appunto “SOS Orto” (così chiamato dagli stessi partecipanti a questi percorsi), l’orto sinergico che è divenuto anche un’aula didattica per chi voglia capire come realizzarlo. «Siamo diventati anche un contenitore di tante iniziative e tanti progetti diversi – spiega Matteo – e con il Dipartimento di Biologia dell’Università di Torino abbiamo sviluppato un progetto sugli impollinatori, per divulgare la loro importanza e facilitare la convivenza fruttuosa tra insetti e uomini. Con il Dipartimento di Agraria abbiamo approfondito le tematiche legate agli Impollinatori e abbiamo inoltre sviluppato un filone di informazione legato all’inquinamento e al rapporto tra coltivazione e aree urbane. Abbiamo ottenuto dati scientifici per capire quali sono le barriere naturali per evitare che lo smog contamini le nostre colture».
All’interno di Orti Generali è presente anche un apiario, sviluppato insieme ad un’Associazione chiamata “Parco del Nobile”, che da anni fa didattica legata agli orti e che permette agli ortolani di Orti Generali di avvicinarsi al mondo dell’apicoltura e di produrre anche una piccola quantità di miele.

Ci allontaniamo e ci salutiamo con Matteo, dopo il nostro lungo incontro durato più di un’ora, con una riflessione generale sul senso del progetto: «Il minimo comune denominatore di tutte queste attività è poter partecipare ad un processo di costruzione e rigenerazione del bene comune, che metta al centro della propria azione la condivisione e la partecipazione. Tutti, indipendentemente dal livello di contributo, possono fare qualcosa per cambiare le sorti di un luogo».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/01/orti-generali-bene-comune-rigenerato-diventa-orto-collettivo-impresa-sociale/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Grazie agli abitanti del borgo nasce un parco naturale per ripopolare la montagna

L’eroe di questa storia è Marco Guerrini, sindaco di Carrega Ligure, borgo montano del comune di Alessandria che, grazie alla tenacia e all’amore per il suo territorio, ha dato vita ad un’azione partecipata con gli abitanti del borgo e con l’intera valle per far divenire il Parco Naturale Alta Val Borbera area protetta, con l’obiettivo di evitare il progressivo spopolamento ed abbandono di questi luoghi. Si tratta della vittoria di un’intera valle che ha scommesso sulla bellezza e potenzialità del proprio territorio e di un senso di appartenenza capace di generare il cambiamento.

Carrega Ligure è un comune montano di confine, localizzato nell’estremità sudorientale del Piemonte, in provincia di Alessandria. Il Comune si trova nell’Alta Val Borbera, in un’area caratterizzata da meraviglie naturali ed un ambiente tanto selvaggio quanto suggestivo: paesaggi incontaminati, panorami mozzafiato, pendii erbosi e boschi di faggio secolari. Un luogo magico e affascinante che accoglie da sempre gli amanti della natura, donando ai loro polmoni aria salubre e pulita e rendendo smog e inquinamento concetti distanti. Si tratta di un paesaggio tipico degli appennini, territorio che i piemontesi poco conoscono ma che racchiude in sé la ricchezza delle quattro regioni che si incontrano proprio in sua corrispondenza: Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte.

Un luogo da favola, si direbbe, eppure come in tutte le favole, per giungere al lieto fine, è necessario superare una sfida: il problema principale che il borgo di Carrega Ligure si trova da anni a fronteggiare è il crescente rischio di abbandono dovuto ad un progressivo spopolamento da parte degli abitanti, dapprima verso l’estero e successivamente verso i maggiori centri urbani ed industriali. E’uno spopolamento in percentuale tra i più consistenti del territorio piemontese, di cui si vedono gli effetti concreti in ciò che rimane nelle frazioni del Comune, ormai quasi completamente abbandonate e disabitate, che lasciano troppo spazio ad una popolazione che nell’intero paese non arriva a sfiorare i 100 abitanti. Si tratta di una storia di abbandono, come le numerose che ormai caratterizzano i centri montani, in particolare quelli appenninici e responsabile di indebolire severamente le attività economiche del luogo quali agricoltura, allevamento e turismo, che in questi contesti hanno da sempre trovato la loro vocazione, compromettendo l’esistenza e la valorizzazione di un luogo ricco di storia e tradizione.

E’ di Marco Guerrini, sindaco di Carrega Ligure, l’iniziativa di rilanciare il borgo di montagna salvaguardandolo dall’ inevitabile spopolamento, con una richiesta forte e chiara: far istituire un parco naturale sul territorio dove il comune è collocato, per rilanciarlo in chiave turistica e salvarlo da un abbandono inevitabile. Ebbene si, si tratta proprio di un comune di montagna a chiedere l’istituzione di un parco naturale che sarà area protetta, rafforzato dalla significativa presenza di siti di interesse comunitario della Rete Natura 2000 e che sarà, allo stesso modo, una prospettiva di un futuro possibile per le valli e di attrazione e sviluppo territoriale. Una possibilità unica nel suo genere per rimettere in luce un’area che ha ancora tanto da offrire, puntando proprio su due tratti caratterizzanti quali ambiente e biodiversità. Per raggiungere lo scopo, il primo passo è stato quello di convincere il Consiglio Comunale a votare unanimamente per la richiesta di istituzione del parco, che ha trovato un ampio consenso, spinta dall’amore verso il proprio territorio.
Il passo successivo è stata la richiesta di un vero e proprio sostegno da parte dei cittadini: coinvolgere attivamente gli abitanti della Val Borbera col fine di far sentire la propria voce fino in Regione, proponendo di approvare al più presto l’istituzione del nuovo Parco naturale come area protetta.

Un parco, un vero e proprio bene comune, la cui iniziativa è stata accolta e condivisa con entusiasmo e passione dagli abitanti, che non hanno fatto attendere una loro risposta: nel 2017 un migliaio di persone hanno sollecitato la Regione inviando mail e messaggi in sostegno della richiesta del Sindaco. Si tratta di residenti del luogo, visitatori, amanti della natura che in questi paesaggi ritrovano ricordi e valori passati. Un coro di voci che, all’unisono rappresenta una ventata di speranza per un progetto condiviso che parte proprio dal basso e che ci parla di un legame indissolubile tra l’uomo e la terra. Proprio in questi giorni, dopo lunghi anni di attesa, il Consiglio regionale ha approvato la nuova legge che istituisce 10mila ettari di nuove aree protette, oltre a quelle già esistenti, per un totale di 200mila ettari, includendo anche il Parco regionale dell’Alta Val Borbera, che sarà affidato all’Ente di gestione delle Aree protette dell’Appennino piemontese.

Nel complesso sono ben tre i provvedimenti che hanno ricadute dirette per l’Alessandrino: oltre all’istituzione del Parco naturale e dell’area contigua dell’Alta Val Borbera presso il Comune di Carrega Ligure, si aggiungono l’ampliamento della Riserva naturale di Castelnuovo Scrivia e l’istituzione delParco del Po piemontese, che vede l’unione delle aree protette del Po alessandrino e del parco del Po vercellese. Una vittoria del territorio, una buona notizia che genera positività in un momento in cui il dibattito per il clima e l’ambiente è acceso più che mai. Ma si tratta soprattutto della vittoria di un’intera valle che ha creduto nella bellezza e potenzialità dei propri borghi e di un senso di appartenenza capace di scommettere su futuro per generare il cambiamento.

Foto copertina
Didascalia: Rovine Castello Malaspina Fieschi Doria
Autore: Paolo De Lorenzi
Licenza: Pagina fb Comune di Carrega Ligure
Fonte: http://piemonte.checambia.org/articolo/grazie-abitanti-borgo-nasce-parco-naturale-per-ripopolare-montagna/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Sulla terra si muore di fame ma noi sprechiamo soldi per andare nello spazio

L’uomo è certamente l’essere vivente più strano e inconcepibile che ci sia sulla faccia della terra. Di sicuro non il più intelligente, dato che sta riuscendo ad autodistruggersi come specie e portando con sé innumerevoli altri esseri viventi nella sua follia suicida: sta provocando le sesta estinzione di massa.

L’uomo è certamente l’essere vivente più strano e inconcepibile che ci sia sulla faccia della terra. Di sicuro non il più intelligente, dato che sta riuscendo ad autodistruggersi come specie e portando con sé innumerevoli altri esseri viventi nella sua follia suicida: sta provocando le sesta estinzione di massa. Ci sono tanti esempi eclatanti che dimostrano che dobbiamo ancora evolverci e parecchio pure. Sulla terra l’80% della popolazione, che non vive nell’attico del restante 20%, è in situazioni molto difficili o drammatiche a seconda dei casi. Miseria, fame e disperazione determinati dal modello di sviluppo del ricco 20% sono la quotidianità di miliardi di persone e i più cinici fra i nostri simili dicono pure che è colpa loro, che sono sottosviluppati, che non si danno da fare. Di fronte a tale situazione (che dovrebbe vederci tutti impegnati fino a che l’ultimo dei nostri simili abbia una vita degna di questo nome, cibo, riparo e serenità), si sprecano soldi, risorse, energia e competenze nelle maniere più assurde e insensate in spregio e sdegno alla gente in condizioni spaventose.

Uno dei modi più eclatanti per sputare sulla povertà e dignità umana è la corsa fra le nazioni per mandare equipaggi nello spazio. Conosciamo pochissimo della nostra terra, degli animali, dei vegetali, dei processi naturali, ma nonostante ciò vogliamo andare nello spazio, senza nessun motivo razionale e intelligente.  Andare nello spazio è estremamente dispendioso, non serve e in più è pericoloso perché lassù non ci sono le condizioni per sopravvivere all’esterno nemmeno un minuto.  La mentalità tipicamente maschile di prevalere e primeggiare la si ha anche nella corsa allo spazio, cioè la corsa al nulla. Gli americani andarono sulla luna esclusivamente per farlo prima dei russi, piantarono una bandiera americana  (in un luogo dove non c’è letteralmente niente, il che già dà la dimensione della follia) e se ne tornarono a casa. Come i cani che fanno la pipì per marcare il territorio, solo che in questo caso la cosa è assai più dispendiosa. Che non servisse a nulla andarci è dimostrato anche dal fatto che sulla luna non c’è mai più andato nessuno. Ma ogni paese che abbia una potenza economica ragguardevole cerca di entrare a fare parte del club dei marcatori del territorio in qualche modo. Adesso l’obiettivo si è anche spostato ed è diventato ancora più impegnativo e costoso. Qualche ricco miliardario ha deciso che bisogna andare su Marte o fare passeggiate ed escursioni spaziali e quindi via ad investimenti stellari per questa spaziale idiozia.  Ma con tutti i  gravi problemi che ci sono nel mondo e negli stessi Stati che concorrono alla corsa nello spazio, possibile non si capisca che tutti quei soldi buttati in questa demenza potrebbero essere usati per risolvere i tanti e drammatici problemi in cui quotidianamente si dibattono le persone a cui dello spazio interessa più o meno che zero? Ma qui entra in gioco un fattore fondamentale che è quello della immaginazione umana purtroppo indirizzata verso direzioni assai discutibili. Lo spazio è l’ignoto e nell’ignoto si può immaginare tutto quello che si vuole e quindi cinematografia, televisione e letteratura ci hanno ricamato molto. E quando c’è di mezzo il condizionamento dei media, del cinema, si accetta che si buttino soldi invece di utilizzarli in maniera sensata. L’immaginazione, la fantasia, il sogno utilizziamoli per fare stare meglio ogni persona e salvaguardare il nostro ambiente. Scegliamo il tutto del pianeta Terra e non il nulla dello spazio. Anche perché se non siamo capaci di preservare il nostro di pianeta e i suoi abitanti con quale senso andiamo a colonizzare altri pianeti? Per rendere una pattumiera pure loro? Meglio di no, meglio rimanere con i piedi ben piantati per terra e la mente rivolta al benessere di tutti. 

Fonte: ilcambiamento.it

Se l’uomo se ne va, la natura si riprende ciò che è suo

Quando l’uomo abbandona un territorio e se ne va, la natura si riprende rapidamente ciò che prima occupava. Lo spiega bene Roberta Kwok sulla rivista americana PNAS, Proceedings of the Academy of Science. Lo spiega altrettanto bene, ispirandosi alla Kwok, Pietro Greco su “Micron”.9839-10625

La riconquista. La natura si riprende rapidamente il territorio prima occupato e poi abbandonato dall’uomo. Il primo ad accorgersene negli anni ’80 del secolo scorso e a registrarlo con rigore scientifico fu, probabilmente, Ingo Kowarik, un ecologo urbano dell’Università tecnica di Berlino: le case abbandonate o distrutte e mai ricostruite dopo la Seconda guerra mondiale nella capitale tedesca erano state riconquistate dalla natura selvaggia e metamorfizzate in foresta. Un’oasi urbana nata per caso, con erbe, arbusti, alberi nativi e non che costituivano un ecosistema inedito.
Alle “oasi urbane accidentali” la rivista PNAS, i Proceedings of the Academy of Science degli Stati Uniti, dedica un lungo e interessante articolo firmato da Roberta Kwok. Dove si documenta come di casi simili a Berlino, in giro per il mondo, ce ne sono a decine. Prendete Detroit, per esempio. La città dell’auto che nel 1950 contava 1,8 milioni di abitanti e oggi non supera le 675.000 unità. Uno spopolamento di vasta portata, che ha lasciato senza abitanti interi quartieri e migliaia di abitazioni. Lo chiamano il deserto industriale. Ma sbagliano, perché non è un deserto. Perché le aree abbandonate sono state riconquistate, appunto, da erbe e arbusti e piante che ospitano una quantità incredibile di insetti e uccelli e persino qualche animale più grande. Qualcosa di analogo è stato riscontrato a Baltimora da Christine Brodsky, una ecologa urbana della Pittsburgh State University del Kansas, che nel 2013 ha portato a termine uno studio sugli uccelli che popolano i quartieri disabitati della città del Maryland che ha conosciuto uno spopolamento analogo a quello di Detroit. Ebbene, Christine Brodsky e il suo gruppo di lavoro hanno individuato in città 60 diverse specie di uccelli, alcuni dei quali, come i parula del nord e le capinere, che in genere preferiscono la foresta. Anche la Grande Parigi ha conosciuto il fenomeno dello spopolamento con conseguente abbandono delle abitazioni in alcuni quartieri. Le chiamano wasteland, territori dei rifiuti. Ma un gruppo di scienziati francesi, tra cui Audrey Muratet, un ecologo dell’Agenzia regionale della Biodiversità dell’Ile de France, ha documentato che non si tratta esattamente di deserti. In quei territori abbandonati dai cittadini comuni e frequentati solo da spacciatori e dai loro clienti è ospitato il 58% della biodiversità botanica di Parigi. Ci sono più specie lì che in tutti i parchi e i giardini ben ordinati della capitale francese. D’altra parte anche nelle periferie più degradate di molte città italiane si registra un qualche fenomeno di riconquista se non di conquista ex novo: dai gabbiani ai pappagalli, molti cieli urbani sono frequentati da ospiti volanti sconosciuti fino a qualche tempo fa. Mentre non è raro in alcune zone delle nostre città imbattersi in volpi, cinghiali e in qualche serpentello.  Potremmo continuare con gli esempi. Ci sono, in giro per il mondo, Italia compresa, aree industriali abbandonate, magari ancora con colline di carbone, che si stanno trasformando in vere e proprie paludi, ricche anche di batteri che metabolizzano nitrati. E, a mare, i fosfati. Pare che nel Golfo di California i batteri metabolizzino il 28% dei composti del fosforo, riducendo la fioritura di alghe che a sua volta sottrae ossigeno al mare. Spesso i batteri operano con un’efficienza ancora superiore, che consente loro di superare il tasso di inquinamento. Ne consumano più loro, di inquinanti, di quanto non ne riescano a produrre l’uomo. Insomma, nelle aree dismesse crescono gli spazzini dell’ambiente. Ma lasciamo da parte gli esempi specifici e veniamo ai dati complessivi. Tra il 1950 e il 2000, riporta ancora PNAS, oltre 350 città in tutto il mondo hanno conosciuto un marcato fenomeno di spopolamento. In assoluta controtendenza, perché in questi anni il mondo ha conosciuto un inedito sviluppo urbano e ha visto, per la prima volta nella storia, la popolazione che vive in città superare quella che vive in campagna. Nelle centinaia di città spopolate, sono state abbandonate decine di migliaia di abitazioni e interi quartieri. Non si tratta di fatti marginali. In un recente rapporto si documenta come, ormai, il 17% del territorio urbano degli Stati Uniti – addirittura il 25% in alcune città – sia in condizioni di assoluto abbandono. Un ecologo americano, Christopher Riley, ha provato a fare un po’ di conti. E ha calcolato che i servizi naturali prodotti dalla natura selvaggia che sta riconquistando i territori urbani abbandonati dall’uomo ammontano a 2.931 dollari per ettaro, contro i 1.320 degli ecosistemi urbani ordinati e degli 861 dollari delle aree di campagna. Il report su PNAS tende a sfatare anche un luogo comune, secondo cui l’arrivo di specie aliene (piante o animali che siano) rappresentano di per sé un fattore negativo per gli ecosistemi. Non sempre è così. L’arrivo nelle aree urbane di piante e animali provenienti da altre regioni e persino da altri continenti rappresenta quasi sempre un fattore di equilibrio. D’altra parte si tratta di un ecosistema nuovo e nessuno è, per definizione, un alieno. Viva la riconquista, dunque? Beh, se vediamo il problema da un punto di vista squisitamente ecologico, sì: viva la riconquista. Ma ci sono anche correlati sociali. Nelle aree urbane abbandonate regna il degrado umano e cresce la delinquenza. E, in questo caso, trovare il miglior equilibrio non è affatto semplice.

Chi è Pietro Greco

Pietro Greco, laureato in chimica, è giornalista e scrittore. Collabora con numerose testate ed è tra i conduttori di Radio3Scienza. Collabora anche con numerose università nel settore della comunicazione della scienza e dello sviluppo sostenibile. E’ socio fondatore della Città della Scienza e membro del Consiglio scientifico di Ispra. Collabora con Micron, la rivista di Arpa Umbria.

Fonte: ilcambiamento.it

Dalle piante possiamo imparare chi siamo

L’etnobotanica e la paleoetnobotanica in particolare ci possono aiutare a ricostruire la storia della relazione tra l’uomo e il mondo vegetale: in che modo gli uomini hanno usato le piante per scopi alimentari, medicinali o per costruirsi ripari e come le hanno selezionate e modificate nel tempo.9596-10362

Lo studio approfondito di questa disciplina fa risalire l’alterazione dell’ambiente naturale da parte dell’uomo a tempi molto remoti. Tuttavia, nelle civiltà più antiche come nelle popolazioni indigene di molti paesi ancora adesso, ogni intervento umano era teso a un sostanziale equilibrio con la natura e non c’era traccia di quella netta separazione tra mondo umano e mondo naturale che contraddistingue ora la nostra civiltà. L’uomo stesso sembra non percepirsi più come parte integrante dell’ambiente in cui è nato con le conseguenze serissime che conosciamo.

Ne parliamo con la Prof. ssa Marta Mariotti, docente di Botanica Sistematica presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze

Che cos’è l’etnobotanica?

E’ la disciplina che studia l’uso che l’uomo fa delle piante, il suo rapporto con esse in vista di un uso a scopo alimentare, medicinale o per materiale da costruzione. Sempre quindi con una prospettiva di utilizzo e relazione. Parliamo sia le piante che crescono in ambiente naturale sia quelle coltivate in agricoltura.

Lei si occupa di paleoetnobotanica in particolare. Di che si tratta?

La paleoetnobotanica studia le piante del passato cercando di ricostruire la storia dell’utilizzo che l’uomo ne ha fatto.

Perché la paleoetnobotanica è così importante?

Perché ci fa conoscere il rapporto che l’uomo ha avuto con le piante, un rapporto che è cambiato nel tempo e che è diverso da cultura a cultura. Inoltre  gli interventi che l’uomo ha fatto in passato sulle piante hanno finito per incidere sull’equilibrio naturale. L’uomo ha, cioè, cambiato  i rapporti sia qualitativi che quantitativi all’interno delle comunità vegetali e ha iniziato un’alterazione dell’ambiente.

L’uomo fa parte dell’ambiente o è al di fuori dell’ambiente naturale?

Oggi lo si considera spesso al di fuori, come colui che lo invade e con la sua presenza lo altera e lo aggredisce. Personalmente però sono più propensa a considerarlo all’interno del sistema naturale nel quale è integrato anche se mi rendo conto che è diventato sempre più uno sfruttatore dell’ambiente stesso.

Ma se l’uomo fa parte dell’ambiente ed è integrato al suo interno, come mai tende a distruggerlo? Nessun altro animale lo fa.

E’ un problema di storia e di educazione. Se noi vediamo le popolazioni che ancora vivono nel Terzo Mondo, vediamo che l’uomo sfrutta comunque le piante che usa ma cerca di non abusarne e di tutelarle. La nostra civiltà invece ha imparato a prendere senza pensare cosa questo significhi non solo per le prossime generazioni ma anche per sé domani stesso. Questo è il suo atteggiamento.

Come si è creato questo distacco? Cosa ha determinato questo squilibrio?

E’ stato determinato dalla conoscenza che non c’è più. La responsabilità è essenzialmente dell’allontanamento dall’ambiente naturale e dall’inurbamento. Se ci pensiamo, in città non ci rendiamo conto delle stagioni che si susseguono, non abbiamo contatto con la natura se non solo marginalmente. Le civiltà contadine vivevano invece in equilibrio con essa. Non conosco alcuna popolazione contadina o che viva a stretto contatto con la natura e che non la rispetti. Ho conosciuto alcune popolazioni africane e, di certo, a nessuna di esse verrebbe mai in mente di prendere più di quanto sia prudente fare. Perché sa che se prende di più oggi, prenderà di meno domani. Questa è una consapevolezza che, chiusi nelle nostre città, abbiamo completamente perso. Questa stessa separazione c’è anche con le cose che mangiamo. Quasi nessuno sa cosa mangiamo davvero né ce lo chiediamo più.

Quando è iniziato questa progressiva separazione? Possiamo dire negli ultimi cento anni?

In realtà è iniziato tutto molto prima. Non è facile dire quando ed i tempi sono diversi da civiltà a civiltà. Direi che negli ultimi cento anni questo processo ha subito un’accelerazione.

Quindi il suo obiettivo è diffondere conoscenza in vista di un progressivo riavvicinamento tra uomo e natura?

In un certo senso sì. Quello che vorrei fare io è contribuire alla consapevolezza dei miei studenti. Per quanto riguarda invece la ricerca mi occupo dell’alimentazione del passato. In particolare del ruolo delle piante nella dieta del paleolitico.

Però la dieta paleolitica di cui si sente molto parlare ultimamente è a base di proteine animali.

Secondo la dieta del paleolitico, per come è diffusa e conosciuta,  solo pochissime piante sarebbero incluse. I cereali, ad esempio, non dovrebbero far parte dell’alimentazione umana almeno al di fuori dell’area di origine. I sostenitori della “Dieta Paleolitica” affermano che il nostro organismo non è in grado di metabolizzarli. Dal punto di vista biologico, però, queste affermazioni non sono state provate e spesso chi si occupa di dieta paleolitica non conosce bene la biologia delle piante. Nelle mie ricerche è, invece, emerso che in realtà almeno l’avena, uno dei cereali, è usata in Italia da più di 30.000 anni. A quel tempo, inoltre, venivano utilizzate piante che da noi hanno perso il loro ruolo all’interno dell’alimentazione umana.

Può farci qualche esempio? E perché secondo lei?

Un esempio può essere la Tifa, della quale venivano utilizzati i fusti sotterranei per ricavarne farina. Evidentemente la coltivazione del grano e dell’orzo, una volta arrivati dal MedioOriente, è risultata economicamente più redditizia della raccolta dei rizomi di Tifa, una pianta che è legata agli ambienti umidi.

Qual è il ruolo di questa disciplina nella salvaguardia dell’ambiente?

Consideriamo che quando si introduce una pianta estranea in un sistema naturale, i danni non sono la sua comparsa laddove non c’era, ma tutta  una serie di cambiamenti, anche molto più profondi, che la sua presenza comporta. Ogni pianta porta con sé una serie di microrganismi estranei al nuovo ambiente e stabilisce rapporti diversi con le altre piante. Interferisce, cioè, con l’equilibrio di un sistema ben oltre i cambiamenti che vediamo. Quando vengono importate delle sementi si introducono spesso, involontariamente, anche piante infestanti esotiche, indesiderate. Quando introduciamo  una specie esotica in grado di incrociarsi con una autoctona, diamo origine ad ibridi. Ad esempio, se si porta una pianta americana in Europa e questa è in grado di  ibridarsi con le europee, alla fine avremo la comparsa nelle popolazioni europee di alcuni geni di provenienza americana. Si tratta quindi di una modificazione della ricchezza genica della popolazione iniziale. Interventi di questo tipo alterano in modo profondo l’ambiente e questo nella conservazione della natura è un problema.

Nel tempo questa alterazione viene riassorbita? Penso ad esempio al caso del pomodoro.

Alcune piante come il pomodoro non sono mai riuscite a spontaneizzarsi e sono rimaste nel coltivato. Il problema invece è quando le piante “scappano” dalle coltivazioni.

Può farci un esempio?

I vitigni introdotti dall’America. Due secoli fa arrivarono come portainnesto per le nostre viti. Oggi invece andiamo nelle campagne e ci troviamo la vite americana inselvatichita.

Questo fenomeno porta anche a un cambiamento in specie e quantità per quanto riguarda i parassiti?

Sì, certo.

Importare piante diverse dalle nostre è legale?

Adesso ci sono leggi che lo impediscono ma una volta si faceva tranquillamente. Noi botanici per primi lo facevamo. Adesso per motivi di studio si può fare ma con molti accorgimenti e con periodi di quarantena.

Per quanto riguarda invece le piante geneticamente modificate?

Questo è un discorso molto grosso. L’uomo modifica selezionando da sempre. Le faccio un esempio: la pianta di fagiolo. Quando i fagioli sono maturi, apriamo il baccello (cioè il legume, il frutto) e togliamo i fagioli (i semi) dal suo interno. In natura, quando i fagioli sono maturi il baccello si apre da solo ed i fagioli cadono a terra.   L’uomo ha scelto da millenni piante che  sono difettose dal punto di vista genetico, i cui legumi non si aprono. Lasciate a se stesse queste piante non hanno la possibilità di riprodursi mentre messe in coltivazione l’uomo le preferisce perché invece di raccogliere per terra i semi, può raccogliere i baccelli che li contengono direttamente dalla pianta. La stessa cosa possiamo dire per i cereali che formano la spiga. In natura i chicchi (i frutti), via via che maturano, cadono sul terreno. L’uomo ha selezionato invece piante difettose con spighe che non lasciano cadere i loro chicchi e in questo modo può mietere il grano con le spighe integre. Altrimenti dovrebbe raccogliere tutti i chicchi caduti a terra. L’uomo quindi ha sempre selezionato varianti genetiche, spesso svantaggiose per la pianta, che però rendevano più facile la raccolta. Ha selezionato piante incapaci di affermarsi in natura e ha iniziato a coltivarle. Altre volte ha favorito quelle piante che avevano frutti più grandi, più gradevoli. Nel caso dei cereali spighe più compatte. In questo senso, quindi, l’uomo ha sempre scelto piante un po’ “anomale” che in natura non avrebbero continuato ad esistere. Poi ha sempre operato l’ibridazione e ha seminato sempre i semi più grandi. Ibridando si producono piante diverse dai genitori e questo è già scegliere organismi geneticamente “modificati”. La differenza è che oggi conosciamo tecniche di intervento mirate. L’uomo per millenni l’ha fatto inconsapevolmente mentre adesso lo facciamo in modo consapevole.

Sono pericolosi gli organismi geneticamente modificati?

Sono pericolosi nel momento in cui le multinazionali utilizzano queste conoscenze per sperimentare nei paesi in via di sviluppo piante che hanno controindicazioni. Oppure il far coltivare dal contadino ignaro una pianta che il primo anno ha una produzione altissima e il secondo anno, visto che la pianta non crescerà proprio, costringerlo ad acquistare  quel dato fertilizzante chimico messo in vendita dalla multinazionale stessa. Quindi la finalità non è più avere nelle mani piante che siano utili ma costringere all’acquisto di sostanze prodotte dalle multinazionali.

John Zerzan dice che il problema è l’agricoltura in sé e che nel momento in cui abbiamo iniziato a coltivare abbiamo alterato l’equilibrio naturale. Che ne pensa?

L’agricoltura inizia nel neolitico. L’uomo pensa di portare vicino a casa le piante che consuma e inizia, quindi a coltivarle. Non sono d’accordo che il problema sia l’agricoltura in sé ma l’uso egoistico e incosciente della domesticazione delle piante.

Per chi volesse saperne di più sull’etnobotnica o sui suoi progetti di studio?

Ci sono molte riviste scientifiche dedicate a questa materia e anche molti siti on-line sull’argomento. Purtroppo ci sono pochissime pubblicazioni divulgative che affrontano l’argomento con il necessario rigore scientifico.

Fonte: ilcambiamento.it

PFAS in Veneto: l’inquinamento è sotto controllo?

L’acqua potabile di molti comuni del Veneto risulta inquinata da PFAS, composti chimici altamente pericolosi per l’uomo e per l’ambiente. Greenpeace ha lanciato una petizione per chiedere di individuare e bloccare tutte le fonti di inquinamento da PFAS e di abbassare i livelli consentiti per queste sostanze. Da diversi anni l’acqua potabile di molti comuni veneti è inquinata da PFAS, composti PerFluoroAlchilici, un gruppo di sostanze chimiche di sintesi estremamente pericolose per l’uomo e per l’ambiente e presenti in molti prodotti di uso comune (pentole antiaderenti, indumenti e tessuti impermeabili-idrorepellenti, anti-macchia e ignifughi, pelletteria, carte alimentari oleate e carta forno, contenitori in plastica per alimenti e bevande, pesticidi, insetticidi e detersivi, solo per citarne alcuni). Da qualche settimana Greenpeace Italia ha lanciato una petizione per chiedere alla Regione Veneto di individuare e bloccare tutte le fonti di inquinamento da PFAS e di abbassare i livelli consentiti per queste sostanze nell’acqua potabile allineandoli con quelli in vigore in altri paesi europei “perché salute e ambiente vengono prima del profitto”.Pfas3

Foto Greenpeace Italia

A marzo 2017 Greenpeace Italia ha rilevato la presenza di PFAS negli scarichi di diverse industrie locali, ma il problema è noto sin dal 2013 in seguito alla pubblicazione di uno studio del CNR-Consiglio Nazionale delle Ricerche che ha appurato la contaminazione da PFAS nei corsi d’acqua (in particolare nel torrente Agno) e nelle falde acquifere di una vasta area compresa tra le province di Vicenza, Verona e Padova (in tutto una sessantina di comuni) e abitata da oltre 350.000 persone. Tuttavia la Regione Veneto – denuncia Greenpeace Italia – invece di bloccare le fonti di inquinamento e la distribuzione di acqua potabile alla popolazione, ha deciso di alzare i limiti dei livelli di PFAS nelle acque destinate al consumo umano. I livelli di PFAS consentiti in Veneto sono stati innalzati più volte negli ultimi anni e, oggi, sono tra i più alti al mondo (530 ng/l in Veneto contro 100 ng/l della Germania e 70 ng/l degli USA). Tra il 2013 e il 2016 anche ARPAV-Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto ha rilevato la contaminazione da PFAS ed ha individuato una delle principali fonti di inquinamento nel depuratore di Trissino (provincia di Vicenza), nel quale confluiscono gli scarichi di un’azienda chimica locale. Ma, come evidenzia Greenpeace Italia nel suo report di marzo 2017 intitolato “PFAS in Veneto: inquinamento sotto controllo?”, la contaminazione è correlata anche alla presenza ultradecennale in provincia di Vicenza dei distretti tessile di Valdagno e conciario di Arzignano, entrambi vicini al torrente Agno.  Nel 2015 in Veneto, così come in altre aree del mondo interessate dall’utilizzo di PFAS (Greenpeace cita ad esempio di Stati Uniti, Cina e Olanda) queste molecole artificiali non sono state riscontrate solo nell’acqua, ma anche nel sangue degli abitanti e in alcuni alimenti come uova, pesci, fegato bovino e verdura.Rubinetto3

Nel maggio del 2015 la Regione Veneto e l’Istituto Superiore di Sanità hanno lanciato un programma di monitoraggio biologico su oltre 600 persone residenti in 14 comuni veneti al fine di valutarne il grado di esposizione tramite l’analisi di campioni di sangue. I risultati preliminari hanno mostrato che, in alcune delle popolazioni venete più esposte, le concentrazioni di PFOA (Acido PerFluoroOttanoico, uno dei molti tipi di PFAS) sono fino a 20 volte più alte rispetto alle popolazioni italiane non esposte a questa contaminazione. I PFAS sono considerati “inquinanti persistenti globali” e l’esposizione ad altre concentrazioni è stata correlata dalla comunità scientifica internazionale a gravi effetti sulla salute umana e sull’ambiente. Sono interferenti endocrini, sostanze che vanno ad interferire nei processi primari di sviluppo dell’organismo umano, cioè vanno a “disturbare” la normale comunicazione tra cellule e ormoni, in particolare con gli ormoni che regolano la riproduzione. Inoltre, sono correlati all’insorgenza di tumori ai testicoli e ai reni, possono causare colesterolo alto, ipertensione, alterazione dei livelli del glucosio, patologie della tiroide e, una volta entrati nel corpo umano attraverso la catena alimentare o l’acqua, hanno ciclo di emivita pari a 25 anni (cioè permangono nel sangue umano per 25 anni prima di essere eliminati dai reni). “Da un punto di vista medico, le popolazioni esposte ai PFAS, in particolare quelle che vivono nelle vicinanze degli impianti produttivi, possono considerarsi a rischio”, ha dichiarato il dottor Vincenzo Cordiano, ematologo e presidente di ISDE Vicenza (Associazione Medici per l’Ambiente-ISDE Italia). I PFAS, ha spiegato il dott. Cordiano, sono molecole artificiali che resistono fino a 400°C e per i quali non esiste ancora alcuna metodica di degradazione, né naturale né chimica. Perciò tendono ad accumularsi nell’ambiente, nell’acqua e nell’aria (attraverso gli insetticidi che si disperdono nel pulviscolo atmosferico) e da qui, attraverso la catena alimentare e la respirazione, nel sangue e nei tessuti di animali e uomini. Inoltre, interferendo con la funzione degli ormoni sessuali sono importanti anche per la conservazione delle specie animali e della biodiversità.Pfas1

Foto Greenpeace Italia

“La contaminazione minaccia seriamente le popolazioni esposte”, ha sottolineato Giuseppe Ungherese, campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. Secondo quanto dichiarato da Greenpeace Italia e confermato da Acque Veronesi – la società che gestisce l’erogazione dell’acqua potabile nella città di Verona – a marzo 2017 è stato superato il livello consentito di PFOS nell’acqua potabile di un pozzo dell’acquedotto che serve la città veneta. “Il PFOS (Perfluoro Ottan Sulfonato) è una delle sostanze più pericolose del gruppo dei PFAS, tanto da essere l’unico composto regolamentato a livello internazionale. Il PFOS è un noto interferente endocrino che può accumularsi nel fegato, nei reni e nel cervello umano” ha dichiarato Giuseppe Ungherese, Responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. “Questo superamento conferma quanto la situazione in Veneto sia gravissima e che le misure adottate finora dalle autorità regionali non sono adeguate per fermare l’inquinamento da PFAS. Eventi di questo tipo ci dicono che si è ben lungi dall’avere il controllo delle fonti e dell’entità della contaminazione e, per questo, ribadiamo alla Regione la necessità di un monitoraggio degli scarichi il più ampio possibile. Solo così saranno tutelati in modo adeguato l’ambiente e la salute dei cittadini”. Per tutti questi motivi Greenpeace Italia ha deciso di lanciare la petizione online in cui chiede alla Regione Veneto di fermare gli scarichi di PFAS nelle aree contaminate, adeguare i limiti di sicurezza per la presenza di PFAS nell’acqua potabile ai valori restrittivi adottati da altri Paesi Europei, censire gli scarichi e individuare tutti i responsabili dell’inquinamento da PFAS: “la salute e la sicurezza dei cittadini viene prima del profitto delle industrie”.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2017/05/pfas-veneto-inquinamento-sotto-controllo/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

L’uomo che parla con le api

Le api stanno scomparendo e questo si sa ormai da tempo. Per fermare tutto questo sarebbe indispensabile e urgente pensare a un nuovo modello di agricoltura integrata. A parlarcene è Nicola Saviano… l’uomo che parla con le api.salviamo_le_api_

Le api stanno scomparendo e questo si sa ormai da tempo. Questi insetti meravigliosi, insieme ad altri animali impollinatori, muoiono a causa dei cambiamenti climatici, del riscaldamento globale, della scomparsa della biodiversità botanica e per via delle monocolture industriali intensive che implicano l’uso spesso indiscriminato di pesticidi e agenti chimici dannosi. Tutto questo potrebbe avere conseguenze serissime per l’impollinazione e quindi per la nostra alimentazione e sopravvivenza. Per fermare tutto questo sarebbe indispensabile e urgente pensare a un nuovo modello di agricoltura integrata, sostenibile per tutti gli esseri viventi (e non solo per l’uomo), sana e rispettosa dell’ambiente. L’apicoltura, che senz’altro ha avuto e continua ad avere serie difficoltà a causa di tutto questo, non è, però, senza responsabilità. Nell’apicoltura tradizionale, infatti, si utilizzano farmaci per curare le patologie più comuni delle api o gli attacchi della Varroa, un acaro molto pericoloso per questi insetti. I farmaci utilizzati possono contaminare il miele. Per avere una maggiore produzione, inoltre, non si esita spesso a depredare le api di tutto il loro miele sostituendolo con zucchero o altri preparati specifici che talvolta vengono addizionati di antibiotici o altri farmaci. Anche la produzione di propoli o pappa reale pone questioni etiche che non possono essere sottovalutate.  Esiste, però, un’apicoltura diversa, il cui scopo non è solo economico ma il cui primo obiettivo è l’attenzione a come stanno e a cosa sentono ed esprimono questi animali. Si tratta di un nuovo approccio all’allevamento che sviluppa una relazione simbiotica tra l’uomo e le api, rispettandole, ascoltandole e comunicando con loro.  Nicola Saviano, 38 anni, sposato e con un figlio di 6 anni, è di Erba (CO) ma vive a Roma. Ci parla di una nuova relazione tra uomini e api e di un diverso approccio che implica necessariamente anche una diversa visione della nostra stessa vita. Nicola parla dell’amore che questi insetti ci possono insegnare, del ruolo che hanno sul pianeta Terra e di quanto poco le conosciamo.

Nelle tue conferenze parli d’amore. Qual è la relazione tra l’amore, le api e l’uomo?

Le api ci stanno aiutando ad evolvere. L’amore è una forza che nelle api è pienamente presente. Si sono sviluppate prima dell’uomo e quindi hanno sviluppato il sacrificio e il dono che sono componenti dell’amore. L’uomo, invece, non è ancora arrivato a questo livello e, secondo me, le api sono su questa terra anche per svolgere questo compito così importante. L’uomo deve ancora evolvere e deve farlo sotto forma di coscienza ma una coscienza più avanzata e spirituale. Questo è possibile con lo sviluppo del terzo occhio. Le api ce l’hanno già. Questa coscienza di amore, quindi, ce l’hanno molto ben presente.

Questa interpretazione non parte da un punto di vista, però, molto “umano”? Cioè: non è un altro modo per giustificare l’allevamento e di conseguenza lo sfruttamento di questi animali? Noi abbiamo bisogno delle api ma le api hanno bisogno di noi?

Le api sono arrivate su questo pianeta prima di noi. L’uomo ha il dovere di difendere la natura nel suo insieme e le api sono il vero e proprio cardine della vita e dell’amore. Abbiamo con loro un legame molto importante e dobbiamo assolutamente proteggerle.

Fino ad ora, però, questa difesa e questa protezione da parte dell’uomo non c’è stata. Le api infatti stanno scomparendo.

L’uomo sta evolvendo ma fino ad ora, infatti, non è riuscito a sviluppare la coscienza necessaria. La parte egoistica dell’uomo ha sfruttato questa risorsa fondamentale e continua a farlo ma quando saremo in grado di evolverci capiremo che allevare le api non significa solo fare il miele.

Tu sei un apicoltore che non produce miele. Come mai?

Non lo produco più da molti anni. Non mi interessa e non mi è mai interessato. Quando andavo in apiario sapevo che avrei dovuto uccidere delle api per ricavare il miele per venderlo. Quindi si faceva per soldi, per denaro. Non mi sono più sentito di fare quel lavoro. L’unico interesse nei confronti del miele ora è il suo aspetto curativo. Lo considero una medicina da assumere a piccole dosi e con le quali posso curare me e la mia famiglia. In ogni caso non sempre è possibile prenderlo. Lo chiedo alle api e in caso ne prelevo pochissimo. Sono legato a loro, mi riconoscono e sanno chi sono. Le api hanno una memoria. Allevare le api significa qualcosa di molto diverso.

Come comunichi con le tue api?

Uso parole, suoni e fischi. Le api sanno che quello che faccio è importante anche per loro. E’ la missione della mia vita.

Qual è esattamente questa missione?

Ogni persona sa nel profondo che le api sono importanti ma non sa cosa fare o come fare per aiutarle. Raccontando la mia esperienza porto un messaggio chiaro e preciso che non può essere confuso: un messaggio di amore e di cambiamento.

E’ una nuova frontiera dell’apicoltura

E’ una nuova frontiera che apre le porte a una visione completamente diversa e a una sensibilità diversa da parte di chi deve comunicare con tutte le altre persone. Sto facendo corsi e sono venuto a parlare all’EUPC qui a Bolsena portando il mio lavoro e la mia ricerca. Voglio far conoscere la mia storia con le api, una storia che mi ha cambiato la vita.

Come hai cominciato?

Ho trascorso l’infanzia in un grande giardino con tanti animali, piante da frutto e un orto coltivato con la sapienza contadina. In seguito ho viaggiato per il mondo e ad un certo punto ho incontrato l’apicoltura che mi ha interessato e poi appassionato conducendomi verso studi e ricerche sulle api sia di carattere scientifico che olistico: Steiner, la Biodinamica, Fukuoka e la Permacultura mi hanno offerto strumenti di osservazione e di indagine più approfonditi. Tutto è cominciato quando ho conosciuto un apicoltore di 80 anni che mi ha insegnato le tecniche per recuperare gli sciami che aveva sviluppato lui stesso. Non è stato facile perché ero terrorizzato all’inizio ma pian piano tutto è cambiato. Adesso posso stare tranquillamente in mezzo alle api. Uso le protezioni soltanto perché il veleno delle api, se si viene punti, a lungo andare, può dare problemi. E’ un tipo particolare di veleno che aumenta la nostra coscienza.

Dove tieni le tue api?

Prima ero ad Ostia Antica dove, a causa dei prodotti chimici usati nei campi agricoli adiacenti al mio, ho assistito più di una volta alla morte delle mie api. Ho dovuto quindi spostarmi e adesso ho generazioni di api naturali da più di cinque anni.

Hai detto che il miele biologico non esiste. Ci spieghi perché?

Il miele che mangiamo è fatto da api stressate, maltrattate e che vivono in condizioni molto innaturali. Mi è capitato di mangiare il miele preso direttamente dai favi naturali e il suo sapore, la sua energia sono completamente differenti. Il miele è una vera e propria medicina e deve essere trattato in modo totalmente naturale, se preso in piccole dosi diventa medicamentoso.

Qual è il futuro dell’apicoltura?

Il futuro dell’apicoltura deve cambiare in questa direzione. Le api portano la vita diffusa nei campi. La loro forza e il loro movimento sono estremamente potenti. In permacultura le api sono fondamentali perché portano vita a tutto il progetto. Sono il primo elemento da inserire.

Qual è il tuo obiettivo?

Per me è essenziale la ricerca nei confronti di questi animali. Attraverso l’osservazione e la difesa della loro vita possiamo permettere all’essere umano un’evoluzione di coscienza che altrimenti non sarebbe possibile. Che io sappia non ci sono al momento altri apicoltori che fanno questo ma è necessario un approccio completamente diverso e un cambiamento di direzione è indispensabile.

Manteniamo l’approccio classico all’apicoltura che è quello di produrre miele. In questo senso, può esistere un’apicoltura etica?

Ci si avvicina in parte l’apicoltura biodinamica. Quello che manca è però la consapevolezza della vita della famiglia di api, delle regole relative al posizionamento degli sciami, le necessità delle famiglie ed altre cose che ho scoperto durante la mia ricerca. Ho iniziato a tenere corsi in questo senso e cioè insegnare alle persone come si fa con le api.

Che cosa facevi prima di diventare apicoltore?

Molti lavori diversi ma sono sempre stato in mezzo alla natura. Sono stato istruttore subacqueo tra le molte cose che ho fatto. Ancora adesso faccio l’istruttore di wind surf e il musicista.

Non sembri molto entusiasta della permapicoltura? Perché?

E’ stata sviluppata in Argentina dove le api sono africanizzate e sono molto differenti dalle nostre. Dovrei avere più elementi per poter giudicare.

Quali sono state le scoperte più importanti che hai fatto durante la tua ricerca?

Più che scoperte le chiamerei intuizioni. In particolare riguardano l’orientamento e la costruzione dei favi naturali, la forma e i materiali delle arnie naturali. Sto facendo sperimentazioni in proposito.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Creare una scuola basata sulla l’apicoltura naturale e fare corsi e conferenze in giro per l’Europa.

Ho un sito internet e una pagina Facebook.

Fonte: ilcambiamento.it

Vespa velutina: letale per gli alveari, pericolosa per l’uomo

La vespa velutina attacca gli alveari e può essere pericolosa anche per l’uomoGettyImages-73368767

È arrivata anche in Italia la vespa velutina (Nigrithorax) che viene comunemente chiamata calabrone killer. Si crede che questa vespa cinese, più piccola di un calabrone, con linee meno marcate e di colore più scuro di quello europeo, sia arrivata nel nostro Paese con un carico di porcellane provenienti dalla Cina. Un uomo è stato punto negli scorsi a Civitanova Marche e, in questo caso si pensa che le vespe fossero contenute in alcune canne di bambù che l’uomo ha portato con sé al termine di un viaggio in Oriente. In Piemonte e in Liguria il calabrone killer ha già causato ingenti danni agli apicoltori: il pericolo per le api è altissimo perché la vespa velutina se ne ciba quando queste sono ancora vive. Una volta spezzate le api, ne toglie la parte esterna per cibarsi dei muscoli del torace. Per arrivare al decesso occorre che la persona abbia una sensibilizzazione speciale alla loro puntura o un’allergia, cosa che accade anche con i calabroni europei. Il maggiore pericolo per gli esseri umani è determinato dal fatto che la vespa velutina è più aggressiva. Le velutine costruiscono i loro rifugi fra i cespugli o a livello del terreno, ecco perché sono possibili casi di contattato incidentale con gli uomini. Lo scorso anno in Francia un agricoltore è morto dopo essere entrato in contatto con uno sciame nella Valle della Loira Cuneo, Alessandria e Imperia sono le tre province italiane nelle quali sono stati segnalati il maggior numero di ritrovamenti. L’Università di Torino, in collaborazione con il Cra Api di Bologna sta mettendo a punto un micro-radar che, una volta catturata una vespa velutina, può fungere da transponder conducendo al nido, per la sua distruzione. L’operazione non è facile, anche perché si lotta contro il tempo: bisognerebbe distruggere il nido prima che le vespe vengano fecondate.

Fonte:  Il Resto del Carlino

Smog, nuovo studio sull’esposizione ai diesel: “Gravissimi cambiamenti nel sangue”

University of British Columbia, 16 volontari asmatici chiusi in una stanza a respirare emissioni diesel paragonabili a una strada di Pechino: “In poche ore abbiamo osservato cambiamenti del sangue che potrebbero avere un impatto a lungo termine. L’impatto sull’organismo è stato molto più forte di quanto previsto” | Lo studio381561

Basterebbero due ore di esposizione ai gas diesel per causare danni significativi – e a lungo termine – al corpo umano. Le particelle inquinanti sarebbero in grado di alterare l’espressione genica nell’uomo, secondo uno studio canadese della University of British Columbia (UBC), realizzato da un gruppo di ricercatori guidati da Chris Carlsten e pubblicato sulla rivista ‘Particle and Fibre Toxicology‘.
Nel corso della ricerca, 16 volontari adulti non fumatori ma asmatici sono stati invitati a stare in una stanza chiusa. Hanno quindi respirato aria filtrata o scarico di motori diesel, con un inquinamento del livello di una strada a Pechino. L’impatto sull’organismo e’ stato molto più forte di quanto previsto dagli scienziati. “In poche ore – ha detto Carlsten – abbiamo osservato cambiamenti del sangue che potrebbero avere un impatto a lungo termine“. Secondo gli scienziati, infatti, l’esposizione a particolato altera un meccanismo chimico che influisce sul Dna umano.
Il passo successivo per i ricercatori sarà quello di trovare un modo per riparare il danno. “Quando si riesce a dimostrare l’esistenza di cambiamenti che si verificano troppo in fretta spesso significa che è possibile invertire gli effetti osservati sia con una terapia, un cambiamento nell’ambiente o addirittura una dieta”, ha detto Carlsten.
Lo studio: Short-term diesel exhaust inhalation in a controlled human crossover study is associated with changes in DNA methylation of circulating mononuclear cells in asthmatics

Fonte: ecodallecitta.it