A quando i lockdown e i DPCM per tutelare l’ambiente, quindi la nostra salute?

Ma se i cambiamenti climatici e l’emergenza ecologica fanno molti più morti del coronavirus, a quando allora i lockdown e i DPCM per salvare il genere umano che rischia di non sopravvivere al disastro del Pianeta? Rischiamo una previsione: mai.

Non entriamo nel merito se siano giustificate o meno le pesantissime restrizioni della libertà a cui siamo costretti ormai da un anno ma, anche ammettendo che lo siano, se tanto ci dà tanto, visto che a livello ambientale il pericolo è molto più grande del coronavirus e le conseguenti vittime sono molte di più, da chi dice di proteggere la nostra salute ci aspetteremmo un “lockdown ambientale” e DPCM con misure rigidissime e capillari perchè in gioco c’è la sopravvivenza dell’intero genere umano. E invece niente di questo accade. Circa la catastrofe ambientale nessuna misura drastica è stata presa, niente è stato chiesto di fare ai cittadini, figuriamoci imporglielo come oggi si impongono mascherine, gel, coprifuochi, chiusure, distanziamenti, con tanto di pesanti multe e nonostante ci siano sempre più perplessità che tutte queste misure abbiano una reale efficacia. E pensare che invece per salvare l’ambiente e conseguenti vite umane, le misure che dovrebbero essere prese sarebbero di immediata e indubbia efficacia.

Ci si chiede allora: ma della salvaguardia di quale salute e di quali vite si sta parlando? Perchè per proteggere alcune vite si agisce e per altre no? Ma come può essere possibile questa incredibile e macroscopica disparità?  E se fosse vero che tutte queste misure sono necessarie per proteggere la nostra salute, allora non si capisce come mai, ad esempio, gli allevamenti intensivi, autentiche bombe ecologiche e sanitarie produttrici di sofferenza e cibo malsano, non vengano chiusi all’istante. Se si agisse così si tutelerebbe la salute di persone e animali ma ciò paradossalmente non sembra essere affatto un obiettivo di chi ci dice che sta facendo di tutto per la nostra salute e questo la dice lunga sulla sua credibilità. Una ulteriore prova della “inspiegabile” situazione di disparità in cui si adottano due pesi e mille misure ce la dà una voce ufficiale come quella del neo ministro per la transizione ecologica Cingolani (quindi non certo un “complottista”) in un suo articolo scritto recentemente per il quotidiano la Repubblicadove cita dati da ecatombe ed emergenza gravissima.

«…il riscaldamento climatico è causa di siccità, con un impatto enorme sulla fauna e l’agricoltura; lo scioglimento dei ghiacciai diminuisce le risorse di acqua dolce mentre l’innalzamento del livello dei mari porta all’erosione delle coste. I continui scambi di calore tra una terra surriscaldata e la stratosfera, più fredda, generano eventi metereologici estremi, come tifoni e nevicate improvvise, che devastano i territori. Se si eccettuano i terremoti, dal 1980 ad oggi il numero di eventi naturali catastrofici è aumentato in maniera costante di anno in anno; ciò ha causato la perdita di 400.000 vite umane e la spesa di più di un trilione di dollari, pari all’1,6% del PIL mondiale». 

«E mentre la terra si riscalda, peggiora anche la qualità dell’aria che respiriamo, con un impatto sulla salute di Sapiens e sul suo ecosistema. L’emissione di particolati carboniosi (Black Carbon), idrofluorocarburi e metano, inquina l’atmosfera e provoca il rilascio di sostanze tossiche, con gravi conseguenze sociali ed epidemiologiche. Ogni anno, l’inquinamento dell’aria causa tra i sei e i sette milioni di decessi nel mondo».

E questo senza contare i milioni di morti che si hanno per l’inquinamento di terra, cibo e acqua, laddove i cibi che mangiamo e l’acqua che beviamo sono pieni di ogni tipo di inquinante che determina malattie letali.

Dove sono i lockdown, dove sono i dpcm, dove sono le imposizioni drastiche immediate, necessarie per far fronte a questa immane catastrofe? Spieghino politici, esperti, task force varie, che tanto sembrano prodigarsi per la nostra salute, perché niente si fa in questa direzione, ma proprio niente, nemmeno lontanamente paragonabile a quello che si è fatto e che si continua a fare per il Covid. Ci spieghino il perché, ci spieghino come si fa a non vedere l’ovvio, ci spieghino perché non agiscono con la stessa solerzia, la stessa sicumera, la stessa drammaticità come quando ci snocciolano quotidianamente le cifre dei morti di serie A, cioè quelli da Covid, gli unici che per loro contano. Perchè per gli altri morti non si fanno bollettini quotidiani, aperture di telegiornali, articoli e servizi a non finire, speciali di ogni tipo, reportage chilometrici, ecc. ? Chi invoca lockdown a tutto spiano, alimentando un terrore mediatico martellante, ci chiediamo perché non faccia lo stesso per una situazione molto più grave come quella ambientale. Finché non avremo risposte o interventi in questo senso, non potremmo che continuare a dare credibilità zero per chi divide salute e morti di serie A e salute e morti di serie Zeta. E il perché lo faccia, speriamo che venga a galla presto, prima che la catastrofe ambientale si aggravi diventando ancora più irrefrenabile visto che continuiamo a non fare nulla preoccupandoci di tutt’altro. E intanto in pochi giorni a febbraio siamo passati da temperature sottozero a temperature quasi estive, ma come disse il comandante del Titanic: andiamo avanti tranquillamente…..

Fonte: ilcambiamento.it

Ambiente è priorità per più di un giovane su tre

Per più di un giovane italiano su tre (38%) l’ambiente rappresenta l’emergenza principale subito dopo il lavoro, tanto che nell’ultimo anno ha modificato profondamente i propri comportamenti: i risultati dell’indagine sulla svolta green delle giovani generazioni.

Ambiente è priorità per più di un giovane su tre

Per più di un giovane italiano su tre (38%) l’ambiente rappresenta l’emergenza principale subito dopo il lavoro, tanto che nell’ultimo anno ha modificato profondamente i propri comportamenti iniziando ad acquistare abiti o accessori usati, utilizzando il carsharing per i piccoli spostamenti, condividendo spazi di lavoro con altre persone o l’auto per i lunghi tragitti. E’ quanto emerge dalla prima indagine Coldiretti-Ixe’ su “La svolta green delle nuove generazioni” presentata in occasione della consegna degli Oscar Green, il premio all’innovazione per le imprese che creano sviluppo e lavoro con i giovani veri protagonisti italiani del Green Deal. Tra i comportamenti che gli under 35 sono pronti ad adottare pur di tutelare l’ecosistema c’è in testa il mangiare cibi a km zero, indicato dal 77% secondo Coldiretti-Ixe’, seguito dall’andare a piedi invece che in macchina o in moto (64%), dalla rinuncia all’utilizzo dei condizionatori (56%), dallo spendere di più per acquistare solo prodotti alimentari biologici (56%), fino addirittura a rinunciare a vacanze che prevedono viaggi aerei (33%). Non è un caso che le tematiche ambientali siano spesso o addirittura spessissimo al centro delle conversazioni del 64% dei giovani sotto i 25 anni, contro una media generale del 48%. Una così elevata attenzione per la sostenibilità porta quasi 1 giovane su 2 (48%) a chiedere le manette per i responsabili di danni ambientali come sversamento di petrolio in mare o inquinamento dei terreni, mentre un 52% vorrebbe una grossa multa e il ripristino a sue spese e solo un 2% eviterebbe di punire gli autori del misfatto con la scusa che ciò metterebbe a rischio posti di lavoro. Al contrario, secondo Coldiretti-Ixe’, per quasi sei giovani su 10 (59%) proprio il rispetto della natura e della sostenibilità crea nuova occupazione. Nella classifica green dei settori che inquinano di meno – continua Coldiretti – i giovani mettono in testa l’agricoltura, che precede l’edilizia, il comparto energetico e i trasporti, con l’industria fanalino di coda. Proprio la campagna viene indicata inoltre dall’80% degli under 35 come una risorsa per l’ambiente, poiché contrasta i cambiamenti climatici e il consumo di suolo e protegge le risorse naturali.

“La nuova attenzione dei giovani per le tematiche ambientali rappresenta una base importante da cui partire per modernizzare e trasformare l’economia italiana ed europea – sottolinea il presidente della Coldiretti Ettore Prandini – orientandola verso una direzione più sostenibile in grado di combinare sviluppo economico, inclusione sociale e ambiente”.

Ecco i risultati di alcuni dei quesiti posti

COSA SARESTI DISPOSTO A FARE PER TUTELARE L’AMBIENTE?

mangiare solo prodotti a km zero e di stagione 77%

rinunciare o ridurre drasticamente spostamenti in auto, scooter, motocicletta 64%

rinunciare all’aria condizionata 56%

spendere di piu’ per acquistare solo prodotti alimentari biologici 56%

rinunciare a vacanze che prevedono viaggi aerei 33%

fonte: ilcambiamento.it

Olio extravergine d’oliva: cosa cambia dal 1° luglio 2016

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A partire dal 1° luglio 2016 sarà illegale mettere sulle bottiglie di olio extravergine d’oliva simboli che richiamano l’italianità se il prodotto non è stato ottenuto da olive coltivate su territorio nazionale. A cambiare le regole è il decreto 103/2016 del Ministero delle politiche agricole, fortemente sostenuto da Coldiretti, che è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale. Si tratta, naturalmente, di un passo in avanti sia per la tutela dell’olio d’oliva, sia per quanto concerne una maggiore difesa dei consumatori e dei produttori. I produttori che riporteranno “segni, figure o illustrazioni che possono evocare un’origine geografica diversa da quella indicata in etichetta” verranno sanzionati. Insomma se in etichetta verrà segnalata la provenienza delle olive da Tunisia o Spagna non si potrà evocare il “made in Italy”. Per la prima volta viene sanzionato ilCountry sounding ovvero il fatto che sulla confezione vengano posti segni che richiamano un’origine geografica diversa da quella indicata in etichetta. La norma consente di punire i comportamenti di concorrenza sleale messi in atto da tutti i marchi registrati in Italia successivamente al 31 dicembre 1998 o in Europa al 31 maggio 2002.

Fonte:  Coldiretti

 

Un paese poco attento agli animali

Un Paese pigro e poco attento alla tutela e alla gestione degli animali. Le migliori città raggiungono a malapena la sufficienza (60 punti su 100) in un settore che, invece, dovrebbe ottenere punteggi ben più alti considerata la grande presenza di amici a quattro zampe in città. È quanto emerge dalla terza edizione “Rapporto Animali in Città”, l’indagine di Legambiente dedicata ai servizi e alle attività dei Comuni capoluogo di provincia.animali_in_citta

Il quadro che viene fuori è quello di un Paese che, seppur ama gli animali, è ancora molto indietro nell’effettiva tutela e nei servizi offerti ai cittadini e ai loro animali d’affezione.
Se l’86% delle amministrazioni dichiara di avere un assessorato e/o un ufficio comunale dedicato ad affrontare le problematiche animali, scende al 72% il numero delle amministrazioni che ha semplicemente chiesto alle ASL quale fosse il numero dei cani iscritti all’anagrafe canina (ad eccezione di Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia dove i Comuni tengono l’anagrafe canina), strumento indispensabile per fronteggiare il randagismo in Italia. Per quanto riguarda i servizi mancano sufficienti spazi aperti dove portare quotidianamente a spasso i propri amici a quattro zampe: in media nei Comuni italiani è presente uno spazio dedicato ogni 28.837 cittadini. Ed ancora il 47% dei Comuni ha dichiarato di aver adottato regolamenti per l’accesso degli amici a quattro zampe in uffici e/o locali aperti al pubblico, mentre solo il 34% dei Comuni costieri che ha risposto al questionario ha adottato un regolamento per l’accesso al mare o al lago. Dati ancor più negativi arrivano anche quest’anno dalla conoscenza della biodiversità animale in città: solo il 26% dei Comuni realizza una mappatura delle specie animali presenti sul territorio. Nella Penisola le città che nel complesso si impegnano maggiormente per gli animali d’affezione sono le città medie che, nella classifica finale dell’indagine di Legambiente, superano la sufficienza come Prato, prima in graduatoria (79,36), seguita da Bolzano (74,34) e Modena (71,42). Le grandi e le piccole città, invece, arrancano. Padova, seppur prima tra le grandi città, ha un punteggio appena al di sotto della sufficienza (59,97) seguita da Firenze (50,81) e Verona (47,99). Tra le piccole città il gradino più alto lo conquista Pordenone che supera di poco la sufficienza (63,5), seconda e terza posizione in classifica per Chieti (59,1) e Biella (57,51).

“Il quadro che emerge dal Rapporto Animali in Città – dichiara Antonino Morabito, responsabile nazionale Fauna e Benessere animale – mostra tutta l’urgenza, anche economica, di un totale cambio di strategia tra i diversi attori responsabili: Amministrazioni comunali, Regioni e Governo. Una città pet-friendly non è un sogno impossibile da realizzare, ma è fondamentale che le Istituzioni diano assoluta priorità ad anagrafe e sterilizzazione mettendo in campo soluzioni innovative ed economicamente vantaggiose per cittadini, al fine di ‘chiudere quei rubinetti’ oggi totalmente aperti che ininterrottamente alimentano le vie del randagismo di cani e gatti, con tutti i problemi e le sofferenze che porta con sé. Nel contempo non è possibile trascurare oltre l’attivazione di efficaci e regolari controlli e sanzioni per il funzionamento delle regole di civile convivenza in città”.

Anche quest’anno per la lettura e il confronto dei dati ricevuti, i capoluoghi di provincia, ai quali è stato inviato il questionario per l’anno 2012, sono stati suddivisi in tre gruppi: 15 grandi città con più 200mila abitanti, 44 medie città con popolazione tra 80mila e 200mila abitanti e 45 piccole città con meno di 80mila abitanti. Al questionario hanno risposto 13 grandi città, 37 medie città e 31 piccole città. Novità di questa terza edizione è la classifica dei capoluoghi di provincia realizzata sulla valutazione di trentatré differenti indicatori.

I dati del Rapporto. Ben il 100% delle grandi città, l’89% delle medie e il 77% delle piccole città. Invece per quanto riguarda le strutture e i luoghi dedicati ai servizi agli animali d’affezione (come canili, colonie feline, pensioni per cani e gatti, campi di educazione e addestramento cani, allevamenti, aree urbane per cani presenti sul territorio comunale), il 60% dei capoluoghi di provincia ha risposto positivamente, con migliori performance nelle medie città, dove il 72% delle amministrazioni ha censito tali strutture, contro il 54% delle grandi città e il 48% delle piccole città. In particolare per quanto riguarda le colonie feline, il 69% delle medie città ha dichiarato che esiste un piano di monitoraggio, contro il 61% delle grandi città e il 58% di quelle piccole.

Comuni informati sul numero di cani iscritti all’anagrafe canina – L’anagrafe canina è uno strumento fondamentale per combattere il randagismo. Dall’indagine emerge che il 72% dei Comuni conosce il numero dei cani presenti sul territorio (un dato in possesso delle ASL, ad eccezione dell’Emilia Romagna e del Friuli Venezia Giulia dove sono i Comuni che direttamente curano l’anagrafe canina). In particolare sui 13 grandi capoluoghi di provincia presi in esame, il 69% ha risposto positivamente. Tra le 37 medie città, il 73% ha risposto di sì. Su 31 piccoli capoluoghi di provincia il 74% ha risposto in maniera positiva. Ma è nel merito del dato che emerge il dramma: in media, ai Comuni capoluoghi risulta un cane ogni 24 cittadini residenti, passando da un cane ogni 33 residenti nelle grandi città, ad uno ogni 24 residenti nelle medie città ed uno ogni 21 residenti nelle piccole, cifre palesemente irrealistiche anche se solo confrontate con la media nazionale (un cane ogni 9 cittadini) e che dimostrano la totale assenza di attenzione data dagli uffici al valore e alla coerenza di quanto registrato.

Spesa media – Alla domanda se nel bilancio comunale è previsto uno specifico capitolo di spesa ha risposto positivamente l’83% dei Comuni. Dalle risposte date è emerso che la spesa media dichiarata dai Comuni capoluogo, in questo ambito, è di 2,87 euro/residente, con differenze per le tre categorie di città che vanno da un valore medio di 1,58 euro/residente delle grandi città, ai 2,95 euro/residente delle medie, ai 3,47 euro/residente delle piccole città. Ad esempio nelle grandi città, si passa da un massimo di spesa di 3,4 euro/residente di Roma agli 0,6 euro/residente di Genova, quindi dai 9,7 euro/residente di Terni agli 0,4 euro/residente di Novara e Treviso nelle medie città, e dagli 11,5 euro/residente di Matera agli 0,3 euro/residente di Belluno nelle piccole città. Costi molto diversi per le tasche dei cittadini italiani e, ad esempio, come accade a Matera, Grosseto e Roma non correlati ad una maggiore qualità del servizio offerto come conferma la posizione in classifica.

Regolamenti e/o ordinanze sindacali che vietano e sanzionano l’utilizzo di esche e bocconi avvelenati. Solo un Comune su due lo ha adottato (il 49% dei casi), molto meglio nelle grandi città (il 77% dei casi) che nelle medie (il 53% dei casi), mentre solo un Comune su tre delle piccole città lo ha fatto (il 32% dei casi). Per quanto riguarda invece gli spazi aperti dove giocare e rilassarsi insieme al proprio amico, dall’indagine di Legambiente è emerso che solo un Comune su due (il 52%) li ha realizzati ed, in media, nei Comuni capoluogo è presente uno spazio dedicato ogni 28.837 cittadini, valore che diventa di uno ogni 42.583 cittadini nelle grandi città, di uno ogni 27.308 cittadini nelle medie città e di uno spazio ogni 26.167 cittadini nelle piccole città. Dati poco positivi arrivano dai regolamenti che consentono l’accesso negli uffici e/o locali aperti al pubblico, solo il 47% dei Comuni capoluoghi di provincia ha, infatti, risposto di aver adottato tali provvedimenti. Le più attente sono le grandi città, dove il 77% delle Amministrazioni ha risposto positivamente contro il 55% delle città medie e il 26% delle piccole città. Situazione poco felice anche per chi ama portare gli amici a quattro zampe al mare e/o al lago. Tra i Comuni capoluogo costieri che hanno risposto al questionario, solo il 34% ha adottato un regolamento o un’ordinanza sindacale per l’accesso degli animali alla spiaggia: nel 33% dei casi nelle grandi città, per il 40% dei casi nelle medie e solo in un Comune su quattro (il 25%) per le piccole città costiere.

“In Italia – spiega Rossella Muroni, direttore generale di Legambiente – sono milioni le famiglie che hanno animali da compagnia in casa. Una tendenza in crescita che sottolinea lanecessità di ripensare e arricchire i centri urbani garantendo servizi e strutture di qualità a cittadini e ai loro amici a quattro zampe. Per realizzare ciò è indispensabile l’impegno delle amministrazioni per quanto riguarda una buona conoscenza della presenza e distribuzione di questi nuovi “abitanti”, la promozione di anagrafe canina e sterilizzazione degli animali, la sensibilizzazione dei proprietari di animali d’affezione a tenere comportamenti virtuosi nel rispetto dell’ambiente, delle persone e del benessere del proprio animale domestico. È inoltre importante rendere noti i contatti dello sportello comunale a cui le persone si possano rivolgere se soccorrono animali liberi in difficoltà. A questo riguardo il Rapporto Animali in città offre una accurata fotografia dei punti critici su cui lavorare per migliorare le nostre città attraverso l’impegno congiunto di amministrazioni e cittadini”.

Tornando ai dati del Rapporto Animali in Città, è emerso che i Comuni che hanno cani liberi controllati e tutelati dalla Pubblica Amministrazione sono nel 72% dei casi al sud, nel 28% al centro e in zero casi al nord Italia. Una peculiarità che si conferma, con alcune differenze, anche all’interno dei singoli gruppi di città grandi (0% nord, 20% centro, 80% sud), medie (0% nord, 28% centro, 72% sud) e piccole (0% nord, 33% centro, 67% sud). Per quanto riguarda l’esistenza di un nucleo del Corpo di Polizia municipale dedicato all’applicazione di regolamenti e ordinanze comunali sugli animali, il 54% dei Comuni ha risposto positivamente, senza differenza tra grandi (54%), medie (53%) e piccole (55%) città. Dato negativo arriva dai lettori dei microchip, un indispensabile strumento per leggere la “targa” del cane, il microchip. Benché il 64% dei Comuni dichiari di aver dotato il proprio personale di tale lettore, andando a vedere quanti sono i microchip che le amministrazioni dichiarano di aver dato in uso al personale ne risultano soltanto 106 in tutta Italia, ossia in media 1 per Comune capoluogo.

Animali liberi in difficoltà – Dall’indagine di Legambiente è emerso che il 54% dei Comuni sa dare informazioni ed ha predisposto procedure di intervento per aiutare i cittadini che soccorrono animali liberi in difficoltà, come un falco, un gabbiano ferito o un gattino. Meno di un Comune su tre nelle grandi città (il 31% dei casi), quasi due volte su tre nelle medie città (il 64% dei casi) ed esattamente nella media nazionale nelle piccole città (il 52% dei casi). I contatti per rivolgersi ad un Centro di recupero di animali selvatici li ha invece solo il 15% dei Comuni. Risposte efficienti si riscontrano, tra i grandi centri, ad esempio a Napoli grazie al servizio h24 svolto dal pronto soccorso veterinario dell’ASL NA1, tra le medie città a Modena e tra le piccole città a Biella grazie al lavoro degli uffici comunali in collaborazione con i Centri di recupero della fauna selvatica.

Biodiversità animale – Solo il 26% dei Comuni realizza una mappatura degli animali selvatici presenti sul territorio comunale, il 23% nelle grandi città, il 33% nelle medie e il 19% nelle piccole città. Una conoscenza indispensabile per migliorare le azioni di prevenzione e ridurre conflitti e danni (basti pensare ai rischi di incidente stradale) che sono sempre più costosi e talvolta drammatici.
CLASSIFICA FINALE RAPPORTO ANIMALI IN CITTÀ – 2013

Pos. Città Punti Pos. Città Punti Pos. Città Punti
Città Grandi   20 Vicenza 50,75 11 Asti 46,25
1 Padova 59,97 21 Foggia 49,63 12 Belluno 45,66
2 Firenze 50,81 22 Monza 47,46 13 Verbania 44,4
3 Verona 47,99 23 Udine 47,39 14 Teramo 44,15
4 Torino 47,39 24 Livorno 44,86 15 Nuoro 41,75
5 Genova 44,85 25 Pisa 42,34 16 Pavia 40,26
6 Venezia 42,45 26 Sassari 40,4 17 Ragusa 39,83
7 Catania 42,18 27 Como 38,21 18 Frosinone 39,72
8 Trieste 38,66 28 Varese 36,96 19 Aosta 38,41
9 Roma 30,84 29 Salerno 35,76 20 Matera 38,37
10 Palermo 29,87 30 Lecce 28,16 21 Benevento 34,63
11 Napoli 29,25 31 Grosseto 27,13 22 Macerata 34,28
12 Bari 28,55 32 Siracusa 26,81 23 Lodi 31,91
13 Messina 22,76 33 Pescara 26,71 24 Oristano 29,75
14 Bologna  0 34 Brescia 26,36 25 Avellino 29,08
15 Milano  0 35 Latina 25,76 26 Caltanissetta 28,61
Città Medie   36 Taranto 22,14 27 Campobasso 27,47
1 Prato 79,36 37 Catanzaro 18,78 28 Trapani 27,43
2 Bolzano 74,34 38 Reggio Calabria 0 29 Imperia 25,53
3 Modena 71,42 39 Ravenna 0 30 Savona 20,91
4 Terni 71,04 40 Rimini 0 31 Crotone 17,29
5 Parma 65,25 41 La Spezia 0 32 Vercelli 0
6 Bergamo 63,17 42 Ancona 0 33 Rovigo 0
7 Reggio Emilia 61,63 43 Brindisi 0 34 L’Aquila 0
8 Arezzo 61,62 44 Cagliari 0 35 Cosenza 0
9 Alessandria 60,12   Città Piccole   36 Vibo Valentia 0
10 Piacenza 59,85 1 Pordenone 63,5 37 Caserta 0
11 Pistoia 58,03 2 Chieti 59,1 38 Rieti 0
12 Perugia 57,02 3 Biella 57,51 39 Viterbo 0
13 Ferrara 56,56 4 Cremona 56,67 40 Lecco 0
14 Pesaro 56,31 5 Gorizia 55,3 41 Ascoli Piceno 0
15 Treviso 54,68 6 Siena 55,05 42 Isernia 0
16 Forlì 54,28 7 Cuneo 54,94 43 Agrigento 0
17 Novara 54,1 8 Potenza 52,06 44 Enna 0
18 Trento 53,91 9 Sondrio 48,7 45 Massa 0
19 Lucca 51,53 10 Mantova 46,83

Fonte Legambiente, Rapporto Animali in Città (Comuni, dati 2012) Legenda:
– in azzurro, Comuni costieri, marini e/o lacuali, di cui è stato valutato anche l’accesso alla costa;
– in arancione, Comuni che hanno trasmesso questionari non valutabili;
– in giallo, Comuni che non hanno trasmesso il questionario.

Fonte: il cambiamento

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Biodiversità a rischio: “distrutto il 60% degli ecosistemi”

Negli ultimi 50 anni è andato distrutto il 60% degli ecosistemi terrestri. È dunque necessario “aumentare la percentuale di superficie delle aree protette e investire per conservare il grande patrimonio naturale rilanciando così anche l’economia del Paese”. È quanto sostiene Legambiente che anticipa i primi dati del rapporto sulle specie e habitat in pericolo in Italia e nel mondo.biodiversita_8

È uno dei più importanti hot spot di biodiversità in Europa, ma il suo ricco patrimonio naturale è a rischio. A detenere questo primato europeo è l’Italia, che ospita circa 67.500 specie di piante e animali, circa il 43% di quelle descritte in Europa e il 4% di quelle del Pianeta. Al Belpaese spetta però anche il record delle specie a rischio: nell’Unione Europea il maggior numero di animali e piante minacciati, circa il 35%, si trova proprio nell’area del Mediterraneo, in particolare in Italia. Ma anche nel resto del mondo la situazione non è delle migliori: la perdita di biodiversità del pianeta avanza con tassi che incidono da 100 a 1000 volte più del normale. Negli ultimi 50 anni, si è degradato il 60% degli ecosistemi terrestri con pesanti ripercussioni socio economiche. È quanto emerge dal Rapporto Biodiversità a Rischio di Legambiente, che traccia un quadro aggiornato sulla situazione della biodiversità in Italia e nel mondo e raccoglie due interessanti approfondimenti sulle zone umide e la biodiversità in Abruzzo. Il dossier, i cui dati sono anticipati in vista della Giornata Mondiale della Biodiversità in programma domani 22 maggio, vuole riportare in primo piano il tema della biodiversità, capitale naturale del pianeta, risorsa fondamentale per lo sviluppo e la ricchezza economica. “Frenare la perdita di biodiversità – spiega Antonio Nicoletti, responsabile Aree Protette di Legambiente – è una delle sfide più grandi da affrontare attraverso l’adozione di misure concrete, che seguano le tante buone intenzioni proposte fino ad ora e che invece non hanno trovato un’effettiva attuazione. Il deludente risultato della Conferenza delle Nazioni Unite Rio+20, che ha portato alla sottoscrizione di un debole documento privo di impegni concreti e copertura finanziaria, accelera ancora di più la necessità di attuare interventi concreti per rilanciare l’economia, mitigare gli effetti del cambiamento climatico e fermare la perdita di biodiversità, importante capitale naturale su cui fondare il nostro sviluppo economico e benessere sociale.muschi_licheni

In questo percorso di rilancio,tutela e conservazione della biodiversità, le aree protette hanno un ruolo chiave nella conservazione e valorizzazione della natura, ma a loro spetta anche il compito di diventare un organismo moderno di gestione integrata e sostenibile del territorio cercando di far crescere, entro il 2020, la percentuale della loro superficie a livello mondiale (il 17% delle aree terrestri e il 10% di quelle marine) come stabilito dall’Onu”. Dal rapporto emergono bellezze naturali e criticità dell’Italia, un Paese dove sono presenti un’enorme varietà di ambienti naturali con ben 130 gli habitat individuati dalla Direttiva europea Habitat 92/43. La fauna italiana rappresenta più di un terzo dell’intera fauna europea con 57.468 specie e sono state censite 6.711 piante vascolari. Abbiamo, inoltre una delle più ricche flore europee di muschi e licheni. Questo ricco patrimonio è però sotto scacco: secondo i dati della Lista Rossa Nazionale delle specie minacciate, elaborata dal Comitato Italiano dell’IUCN, delle 672 specie di vertebrati valutate (576 terrestri e 96 marine), 6 sono estinte nella regione in tempi recenti. Le specie minacciate di estinzione sono 161 in totale (138 terrestri e 23 marine), pari al 28% delle specie valutate. Il 50% circa delle specie di vertebrati italiani non è invece a rischio di estinzione imminente. Complessivamente però le popolazioni dei vertebrati Italiani, soprattutto in ambiente marino, sono in declino. Per quanto riguarda i dati emersi dalla Lista Rossa parziale della flora d’Italia, invece, emerge che due specie endemiche sono completamente estinte a livello globale, mente altre sopravvivono solo ex situ nelle collezioni di giardini botanici. Questi dati evidenziano dunque la necessità di intensificare nei prossimi anni l’impegno dell’Italia per garantire che la biodiversità e i molti servizi che essa offre siano meglio integrati in tutte le altre politiche a livello nazionale e internazionale, in modo che la biodiversità diventi il fondamento su cui poggia il nostro sviluppo economico e il nostro benessere sociale. I fattori di perdita di biodiversità e le conseguenze economiche. I cambiamenti climatici, l’introduzione di specie aliene, il sovra sfruttamento e l’uso non sostenibile delle risorse naturali, le fonti inquinanti e la perdita degli habitat sono le principale cause di perdita di biodiversità. I soggetti più esposti agli effetti negativi della perdita di biodiversità sono le popolazioni che dipendono direttamente dai beni e dai servizi offerti degli ecosistemi. Ad esempio, la deforestazione mette a rischio un miliardo e mezzo di persone che vivono grazie ai prodotti e ai servizi delle foreste, le quali proteggono anche l’80% della biodiversità terrestre. La pressione intorno alle risorse idriche, inoltre, cresce sia in termini di quantità sia di qualità in molte zone del mondo. E il sovra sfruttamento eccessivo della pesca ha conseguenze economiche disastrose per l’intero settore. Senza contare che la perdita di biodiversità e il degrado degli ecosistemi comportano anche dei costi economici, di cui fino a poco tempo fa non si teneva praticamente conto. La perdita annua di servizi ecosistemici viene stimata a circa 50 miliardi di euro; ed entro il 2050 si stima che le perdite cumulative, in termini di benessere, potrebbero essere equivalenti al 7% del PIL.orso__marsicano7

Approfondimento zone umide. Quest’anno il Rapporto Biodiversità a Rischio contiene anche due interessanti approfondimenti. Il primo riguarda le zone umide, preziosi ecosistemi che forniscono acqua potabile, producono il 24% del cibo del Pianeta, servono all’irrigazione delle colture, fanno da barriera e da magazzini naturali di acqua in caso di inondazioni e sono importanti serbatoi di CO2. La complessità ecologica rende però le zone umide ambienti estremamente delicati e vulnerabili a una vasta gamma di pressioni antropiche su scala globale (bonifiche, urbanizzazione, artificializzazione in senso lato, pesca sportiva) e locale (stress idrico, inquinamento, agricoltura, pascolo, fruizione non controllata). A questi elementi di minaccia, bisogna poi aggiungere l’introduzione delle specie alloctone invasive come la nutria (Myocastor coypus), specie introdotta dall’America meridionale come animale da pelliccia, e la testuggine della Florida (Trachemys scripta), originaria dell’America centro-settentrionale e commercializzata in Italia come animale d’acquario. Approfondimento Abruzzo. Malgrado l’Abruzzo sia la regione con il più alto tasso di specie protette in Italia, la preziosa fauna abruzzese, tra cui lupo e orso bruno marsicano, è a rischio a causa delle costanti aggressioni di origine antropica. Solo da gennaio 2012, infatti, sono stati 44 gli esemplari di lupo trovati morti nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, di cui 36 solo dall’inizio del 2013. Nello stesso lasso di tempo sono deceduti anche 3 cervi e 2 esemplari di orso bruno marsicano. Questi dati dimostrano quanto ci sia da fare per riuscire a debellare una vera e propria piaga che, se non affrontata, rischia di vanificare gli sforzi di quanti si adoperano, con volontà e spirito di sacrificio, per salvaguardare il nostro importante patrimonio naturalistico. Da ricordare, infine, che ci sono anche buone notizie: la prima riguarda il ritorno nei mari italiani della Foca Monaca, una delle specie a maggior rischio di estinzione nel Mediterraneo, che ha scelto come rifugio una grotta sulla costa delle isole Egadi, in Sicilia al largo di Trapani. La presenza di questo animale testimonia dunque l’ottimo lavoro svolto dall’Area marina protetta in questi ultimi anni e dimostra come, con una corretta e attenta gestione del territorio, sia possibile far convivere la qualità ambientale ed elementi di grande naturalità con il turismo, la nautica da diporto e un’attività di pesca sostenibile importante qual è quella condotta nel mare delle Egadi. La seconda buona notizia è il ritorno della lince nell’Appennino. L’esemplare, un maschio adulto, è stato avvistato e fotografato sull’Appennino forlivese nei pressi di Santa Sofia, uno dei comuni del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna. L’avvistamento del grande predatore è una notizia eccezionale, dato che l’animale si riteneva estinto in buona parte del territorio nazionale. Una notizia che deve spronare l’intero mondo dei Parchi e la ricerca scientifica a proseguire le importanti azioni intraprese a favore della conservazione della biodiversità.

Fonte: il cambiamento