Rob Hopkins: “Si potrà abbattere il capitalismo ponendogli un’alternativa”

La Transizione può salvare il mondo dalla distruzione annunciata? È la domanda che è stata rivolta a Rob Hopkins, insegnante di permacultura e fondatore del movimento delle Transition Towns, nell’ambito di un’intervista che vi proponiamo. L’insegnante in permacultura Rob Hopkins è conosciuto per aver fondato nel 2006 a Totnes, Inghilterra, il “Transition network” o Movimento di transizione. Partendo dalla costatazione dell’inevitabile esaurimento delle energie fossili e del loro impatto ambientale negativo, tale movimento sostiene la transizione verso un modo di vita più resiliente, che impari a fare a meno del petrolio, rilocalizzare le attività, sviluppare la auto-organizzazione e che promuova la giustizia sociale. Il movimento da allora si è espanso e le città di una cinquantina di paesi diversi sono entrate nella rete di Transizione. Di passaggio a Parigi, Rob Hopkins, ha tenuto una conferenza alla Recyclerie  il 21 Novembre. Ne abbiamo approfittato per domandargli se la Transizione potrebbe salvare il mondo dalla sua distruzione annunciata.

A 12 anni dalla sua fondazione, quanto si è diffuso il Movimento di Transizione? Si parla di più di 1500 gruppi in Transizione iscritti…

Non è facile quantificarli, in quanto esistono molti gruppi che non sono iscritti al nostro sito. Ad esempio in Giappone abbiamo quattro gruppi iscritti sul nostro sito, mentre ce ne sono 70 iscritti in quello giapponese. Abbiamo gruppi in una cinquantina di Paesi. Tutti i Paesi europei hanno gruppi di transizione. I più attivi sono forse in Belgio, Germania, Giappone, Svezia… Si stanno sviluppando anche delle organizzazioni nazionali, come Transition Italia. Ma grosso modo l’ordine di grandezza è quello. Cinque o sei anni fa il numero di gruppi cresceva in modo esponenziale. Il film Domani ha fatto accelerare la nascita di gruppi in Belgio, dove si stavano sviluppando diverse iniziative. Oggi nascono meno gruppi ma quelli già esistenti approfondiscono ancora di più la loro transizione, sono sempre più attivi. Vediamo emergere delle reti di città in transizione, che esplorano modi di lavorare insieme. 

Avete parlato del film Domani: nel seguito di questo documentario, Dopo Domani, Laure Noualhat e Cyril Dion fanno un bilancio della Transizione e concludono che per far sì che funzioni, devono essere coinvolti tutti gli attori: cittadini, amministratori, imprese…

In un mondo ideale certamente sì: la finanza, la politica e la comunità che si mobilitano insieme permettono di avanzare. Ma anche se non ci sono tutti gli ingredienti si può comunque cucinare un piatto delizioso arrangiandosi con le risorse disponibili. A volte incontro dei sindaci o degli amministratori locali, che mi dicono: “Ci piacerebbe molto avviare una Transizione ma non ci sono gruppi esistenti in città”. In altri posti sono i gruppi in Transizione che si lamentano del mancato sostegno della municipalità. Ma vorrei consigliare alle persone motivate di mobilitarsi comunque. Nella mia città, Totnes, la maggior parte di quello che abbiamo fatto è nato con pochissimo sostegno da parte del consiglio municipale. Crescendo come comunità siamo riusciti a generare l’energia necessaria per realizzare i nostri progetti. 

“Le idee e le possibilità fioriscono grazie al lavoro democratico realizzato a monte” 

Il miglior luogo al mondo per osservare una Transizione come io me la immagino, penso sia Barcellona. Là il movimento municipale reinventa la città e la democrazia. Hanno creato un’impresa energetica per la città al 100% da fonti rinnovabili che appartiene ai cittadini e sviluppano dei meccanismi che permettono alle persone di investire e di finanziare in comunità dei progetti. Inventano moltissime iniziative di quartiere, le idee e le possibilità fioriscono grazie al lavoro democratico realizzato a monte. Amo anche molto quello che succede a Liège, il loro modo di reinventare il sistema alimentare con il forte sostegno della municipalità.

Totnes, la città inglese culla del movimento di Transizione

La Transizione non è una preoccupazione da privilegiati? Bisogna che anche i disagiati abbiamo il tempo e i mezzi per potersi impegnare su questi temi.

Credo che su questo pianeta molte delle cose straordinarie emergano di fatto in zone povere. Nel sud povero degli Stati Uniti, come a Jackson, nel Missisippi, dove esiste l’incredibile progetto “Cooperation Jackson”, o a Cleveland, nell’Ohio. In queste città molto povere, a maggioranza nera e dove il tessuto industriale è scomparso, le persone si sono auto-organizzate in cooperative. Si sono ispirati al movimento di Transizione, con una dimensione di giustizia sociale espressa più che esplicitamente. Quello che può succedere in comunità con poco denaro è stupefacente. Certamente, i gruppi di Transizione sorgono quando ci sono tempo, spazio, energia e fiducia. Non sempre esistono tutti questi elementi ma alcuni riescono a trasformare gli inconvenienti in vantaggi. In Scozia, per esempio, un movimento di Transizione si è formato all’Università malgrado la grande mobilità della popolazione. Con un terzo delle persone che si rinnovano ogni anno ciò avrebbe potuto essere uno svantaggio ma è stato utilizzato come una forza. 

Credete che si possa cambiare di scala in tempo? Malgrado tutte queste iniziative il movimento resta marginale e sembra molto lontano dal rispondere all’appello urgente degli scienziati. L’inquinamento aumento, la biodiversità sparisce, il clima si dirige verso un riscaldamento di 4/5°C da qui alla fine del secolo…

Sì, assolutamente. Bisogna individuare i buoni esempi e imparare da loro per salire di scala. Abbiamo una finestra di azione molto ridotta descritta dal Giec, qualche settimana fa (il rapporto speciale del gruppo di esperti intergovernamentale sull’evoluzione del clima pubblicato l’8 Ottobre stima  che dovremmo abbassare le nostre emissioni di CO2 del 45% entro il 2030, ndr). 

“Fantastico! Abbiamo l’occasione eccitante di reinventare tutto” 

La grande sfida, per me, consiste nel comprendere perché non reagiamo collettivamente, dicendoci: “Fantastico! Abbiamo l’occasione eccitante di reinventare tutto”. L’immaginazione gioca un ruolo essenziale per guidare le nostre reazioni. Abbiamo gli esempi sotto gli occhi, come Jackson, Barcellona, Bristol e Manchester hanno dichiarato l’urgenza climatica e stanno riesaminando l’insieme delle loro politiche municipali nell’ottica di questa urgenza. Se mettiamo insieme tutti i pezzi del puzzle, abbiamo una discreta visione di quale dovrebbe essere la risposta giusta.

Parlate del ruolo dell’immaginazione e predicate instancabilmente un messaggio di ottimismo. Cosa rispondete a chi sottolinea il rischio che un simile messaggio favorisca coloro che negano la portata del pericolo e attenui la consapevolezza dell’urgenza?

Bisogna essere prudenti in questo. Le parole che utilizziamo hanno un impatto importante. Se parliamo di disperazione, di crollo e diciamo che è troppo tardi, paralizziamo completamente la conversazione e diventa molto difficile essere creativi e fantasiosi. C’è molta disperazione oggi, ed è giustificata. È difficile non disperarsi leggendo le informazioni sul clima… Ma se è troppo tardi questo significa che non ci resta che gestire il lento degrado di tutto. E il modo migliore di governarlo è essere creativi. C’è sempre una opportunità per evitare il peggio. Il Giec ci dice che bisogna reinventare tutto: questo necessita di uno sforzo collettivo di immaginazione. 

“Il capitalismo distrugge la vita sul pianeta. Dunque, piuttosto che di innovazione preferisco parlare di bisogno di immaginazione”. 

Il governo dice in continuazione che è una questione di innovazione. Ma non è così. L’innovazione si fa quando il modello fondamentale su cui questa si basa è funzionante. Potete innovare con nuovi ingredienti la vostra pizza se avete una buona pasta, poiché il modello fondamentale funziona. Ma la base al giorno d’oggi, il capitalismo, non funziona, distrugge la vita sul pianeta. Dunque, piuttosto che di innovazione preferisco parlare di bisogno di immaginazione. 

L’immaginario del capitalismo è oggi molto potente, con la promessa fortemente radicata di un consumo esponenziale di beni e di servizi. Come stimolare un nuovo immaginario?

Le persone sono stanche, spaventate e prive di ispirazione. La mia analisi è che viviamo una crisi dell’immaginazione. Il nostro sistema educativo non produce persone che abbiano fantasia. Forse è stato così un tempo ma non è più così adesso. L’economia mondiale è in guerra contro l’immaginazione, crea solitudine, ansia e stress nelle persone, che pensano solo in quanto consumatori. Passiamo sempre meno tempo nella natura. L’impatto degli smartphone e dei social è molto forte. 

“Cantate, scrivete delle poesie, disegnate, girate dei film, rendete tutto questo vivo”. 

Troppo spesso le persone che si battono per questo mettono l’accento sulla distopia. Ma a cosa serve? Aiutatemi piuttosto ad immaginare come potrebbe essere un mondo diverso. Quando i politici dicono: bisogna ridurre le nostre emissioni fossili dell’80% entro il 2040, come posso immaginare in che modo potrebbe essere? Raccontatemi delle canzoni su questo, scrivetene delle poesie, disegnatemelo, fatene dei film, rendete tutto questo vivo. Ho recentemente incontrato dei ricercatori che lavorano sulle dipendenze. Hanno lavorato con delle persone in sovrappeso che consumano troppo cibo mal sano, aiutarli dicendo a loro di mangiare di meno, non funziona assolutamente. I ricercatori hanno invece lavorato sulla loro immaginazione stimolando tutti i loro sensi. I pazienti si sono visualizzati che correvano, ascoltavano il canto degli uccelli, sentivano i loro corpi e i muscoli svilupparsi e reagire positivamente, hanno immaginato di rientrare a casa soddisfatti del loro sforzo… Presentare a loro un quadro d’insieme a ciò che potrebbe assomigliare ad una alternativa, ha stimolato maggiormente i pazienti a rinunciare al gelato al cioccolato. I movimenti ecologisti fanno spesso l’errore di non raccontare una storia che sia veramente affascinante ed entusiasmante. A descrizione di ciò che potremmo essere, potrebbe capovolgere la situazione.

Piante commestibili nelle aiuole sparse in ogni angolo della città di Totnes: è questo il progetto “Incredible Edible”

Un simile cambio di paradigma può fare a meno della politica? Il vostro messaggio vuole unire e non dividere ma l’immaginario che volete rovesciare oppone una resistenza attiva…

Effettivamente alcuni pensano che la transizione non sia sufficientemente attivista e rumorosa e non si occupi abbastanza della politica. Io rispondo che la transizione è molto politica in quanto è dimostrazione e sperimentazione di cose che marciano. Questo weekend a Londra c’è stata una grande giornata di azione del movimento Extinction Rebellion (sabato 17 novembre migliaia di manifestanti hanno bloccato cinque ponti londinesi come richiamo al governo ad agire d’urgenza per il clima, ndlr). Mia moglie era lì e ha fatto parte delle persone arrestate. Molte delle persone coinvolte nella Transizione, fanno anche parte di questo movimento. 

“Abbiamo persone appartenenti a tutto lo spettro politico che sono implicate” 

Ma se la transizione diventa vendicativa e contestatrice, perdiamo molte persone. La Transizione non è che un mezzo, concepito per funzionare in una comunità e per funzionare al di sotto dei radar della politica, per attirare più persone possibile. Alcuni vi trovano degli elementi “verdi”, altri una contestazione di sinistra, abbiamo persone di tutto lo spettro politico che sono implicate per far cambiare qualcosa di veramente importante per loro. Dunque quando si critica la Transizione per la sua mancanza di radicalità o di politica, è come rimproverare ad un cucchiaio di tagliare male il pane. Abbiamo attrezzi differenti per ogni cosa… 

Per certi ecologisti radicali, chiedere degli sforzi alla popolazione fa il gioco del capitalismo esentando le grandi imprese, maggiori responsabili dell’inquinamento, dalle loro responsabilità. Rivendicate una maggiore efficacia appellandovi sia all’immaginazione che al pragmatismo?

Mi si dice spesso che il pragmatismo non funzioni mai a meno che non affrontiamo dapprima il capitalismo. Credo che sia una scusa per non fare nulla. Come faccio per distruggere o cambiare il capitalismo in casa mia, nella mia città? Se prendete quest’obiettivo complesso e lo dividete in tanti piccoli pezzi, ci sono molte cose che si possono fare localmente. Forse possiamo creare la nostra banca, forse possiamo spingere la nostra economia locale e indipendente, fare ingrandire le fattorie della comunità, fare in modo che il denaro resti quì e non vada verso delle multinazionali che lo depositeranno nei paradisi fiscali. Credo che si possa iniziare ad abbattere il capitalismo se gli si oppone una meravigliosa alternativa, qualcosa di più di quello che lui offre. Il capitalismo produce solitudine, isolamento sociale, miseria ed ansia. Al suo posto si possono creare dei progetti che uniscono le persone, che creano nuovi impieghi, che permettano di investire il vostro denaro altrove, che diano accesso ad una migliore nutrizione che le persone possano pagarsi. È questa per me la risposta al capitalismo. 

I collapsologi difendono le vostre stesse soluzioni ma con un messaggio diverso: il crollo della nostra civilizzazione è molto probabile i nostri sforzi di adattamento devono servire soprattutto alla resilienza del “dopo”. Voi insistete sul messaggio ottimista ma, in fondo, condividete la loro idea?

Dipende da cosa intendiamo per crollo. Se vivete a Porto Rico o in Siria, il crollo ha già avuto luogo… Anche in alcune comunità della banlieue parigina è in corso. In un certo senso parlare di crollo è un privilegio di coloro che possono permettersi di osservarlo. Se andate a Detroit, a Jackson, questi posti si sono sgretolati e le persone si sono chieste che fare. Radunarsi e liberare le immaginazioni ha permesso loro di reagire e di avere degli approcci molto creativi. Non sono sicuro che la collapsologia possa suscitare la stessa reazione. Se comincio una transizione nella mia città dicendo: “Presto tutto crollerà, venite tutti ad impegnarvi”, attirerò una piccola parte della popolazione. E se nel giro di tre anni il crollo non avviene, ci diranno che avevamo torto. A mio avviso, quello che mobilita le persone è una descrizione sul futuro che ancora è possibile creare. Questo futuro può comportare una parte di crollo, ma bisogna parlarne in modo positivo, eccitante: bisogna dare alle persone delle cose di cui abbiano voglia. 

Articolo originale pubblicato su Usbek & Rica

Traduzione a cura di Elena Palazzini ed Enrico Bozzano Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/12/rob-hopkins-abbattere-capitalismo-ponendo-alternativa/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Un anno che può cambiare la vita, praticamente

“Practical Sustainability”, ovvero sostenibilità pratica. Questo il tema al centro del corso annuale proposto in Inghilterra dall’organizzazione Shift Bristol. Un percorso basato su soluzioni pratiche, creative e positive per contribuire ad un futuro più sostenibile, resiliente e in equilibrio con gli ecosistemi che ci circondano. Da Leslie Griffiths, che ha vissuto questa esperienza, ecco il racconto di un anno che le ha davvero cambiato la vita. Anche un giorno qualunque può cambiare completamente la nostra direzione. Io mi trovavo nel centro della cittadina inglese di Bristol per un evento sui cambiamenti climatici quando per caso la mia attenzione cadde su un volantino un po’ stropicciato appoggiato su una panchina. Riportava a grandi lettere tre parole che in quel momento mi sembravano la cura perfetta contro il senso di frustrazione, sfiducia e impotenza nei confronti delle sfide che il nostro pianeta sta affrontando: Practical Sustainability e Shift. Le prime due “Practical Sustainability”, ovvero sostenibilità pratica, racchiudono tutto ciò che possiamo fare con le nostri mani ogni giorno per soddisfare i nostri bisogni senza compromettere le risorse disponibili alle generazioni future. Nonostante la parola “sostenibilità” fosse diventata molto comune negli ultimi decenni, la concepivo spesso come un concetto piuttosto astratto, difficilmente applicabile ad azioni pratiche e scelte quotidiane. Tuttavia, dentro di me sentivo che molti aspetti della mia vita non erano in sintonia né con la natura circostante né con la mia coscienza interiore. Distratta da impegni in apparenza prioritari e accecata da tecniche di manipolazione sociale, queste sensazioni rimanevano spesso nascoste e quando affioravano non sapevo come gestirle. Fu la terza parola che lessi su quel volantino ad aprire una breccia sul da farsi: “Shift”, che significa cambiare. Era giunto il momento di cambiare.DSC_0513.jpg

Venni così a conoscenza di un’impresa sociale no-profit chiamata Shift Bristol organizzatrice di un corso annuale in Practical Sustainability basato su soluzioni pratiche, creative e positive per contribuire a un futuro più sostenibile, resiliente e in equilibrio con gli ecosistemi che ci circondano.  Attraverso un percorso di educazione non-formale, laboratori, attività pratiche e lavoro di gruppo, Shift Bristol si propone di affrontare temi come ecologia profonda, energie rinnovabili, rigenerazione del suolo, economia circolare e transizione. Visite a realtà locali che mettono in pratica principi di permacultura e condivisione permettono di avvicinarsi a stili di vita in sintonia con la natura, a sperimentarsi in autoproduzione, bioedilizia, orticoltura, riutilizzo di materiali di scarto e ad esplorare la propria creatività. Mi innamorai immediatamente dell’idea, tutto sembrava risuonare, ma ci volle tempo per riuscire ad ascoltare la mia spinta interiore, mettere da parte l’esitazione nel lasciare un lavoro sicuro e lo scetticismo di alcuni nell’appoggiare una scelta che mi avrebbe portato a vivere in una delle città più care del Regno Unito con metà delle risorse finanziarie guadagnate fino a quel momento. Alla fine mi iscrissi al corso. Contro ogni aspettativa, già dopo poche settimane iniziai a risvegliarmi la mattina con un paio di occhi nuovi sul mondo, sulle mie responsabilità come consumatrice e come essere umano in connessione con tutto il resto della vita sul pianeta in qualsiasi forma. Iniziai a vedere come tutto sia collegato, a divorare i libri messi a disposizione dalla “biblioteca del cambiamento” e a confrontarmi con insegnanti esperti provenienti da background diversissimi ma che condividono con passione saperi ed esperienze.DSC_0723.jpg

Un ruolo unico ed essenziale in questo percorso appartiene alle persone con cui l’ho condiviso. Ventisei menti e ventisei cuori alla ricerca di qualcosa di più profondo, sotto la superficie delle cose, al di là di ciò che ci viene servito dai media. Avere la possibilità e soprattutto il tempo di osservare insieme le dinamiche di gruppo, risolvere conflitti, prendere decisioni consensuali, affrontare paure e riflettere sul cambiamento ha creato non solo grandi collaborazioni e amicizie vere ma anche la certezza di non essere soli in questo nostro percorso verso un futuro sostenibile. Indubbiamente ci furono anche momenti di sconforto e rabbia, nell’apprendere le conseguenze dell’uso di glifosato, gli effetti della vendita di semi della Monsanto in India, nel vedere foto di luoghi di natura incontaminata spazzati via per accedere alle sabbie bituminose da cui ricavare petrolio, nell’assistere al salvataggio di creature rimaste intrappolate in imballaggi di plastica etc. Ma qualsiasi percorso di cambiamento inizia anche scontrandosi con la realtà che ci disgusta e, fortunatamente, Shift Bristol seppe fornire supporto, strumenti e occasioni in cui trasformare la disperazione e l’apatia di fronte a travolgenti crisi sociali ed ecologiche, in azioni costruttive e collaborative. Ogni mese si attendevano con ansia le “gite fuori porta” che per un paio di giorni permettevano di immergersi in meravigliose realtà come quella della comunità di Brithdyr Mawr nel Galles occidentale, che si prende cura della terra lasciando la minima impronta possibile, come l’antico bosco accudito da Ben Law, l’ecovillaggio di Lammas e molti altri.

A primavera inoltrata per evitare la pioggia e per coronare la fine prossima del percorso, fu prevista la costruzione di una casetta di legno che in futuro avrebbe ospitato un asilo nel bosco, corsi di yoga e meditazione. Sembra incredibile come mesi di collaborazione, scambio, discussioni accese e apprendimento portarono un gruppo con una manciata di nozioni in bioedilizia a realizzare una struttura non solo solida e robusta ma anche bellissima. Sotto l’occhio attento ed esperto di tre guru dell’autocostruzione e della falegnameria potemmo mettere insieme i pezzi di un’esperienza che ha lasciato un segno. Considero questo corso come un prato fiorito, su cui io e gli altri, come api, abbiamo potuto trarre ispirazione come nettare e assaggiare approcci e soluzioni diverse unite da una visione comune di sostenibilità e benessere. Apprezzo infinitamente il fatto che ci siano state presentate le mille sfaccettature di ogni realtà, opinioni opposte, cause e conseguenze di ogni scelta senza la presunzione di giudicarle giuste o sbagliate. Ora, a un anno dalla fine del corso, mi ritrovo infinitamente più ricca di prima, di un bagaglio unico, di un’esperienza intensa, e posso confermare che – come suggerisce il nome Shift che a me inizialmente appariva molto ambizioso – dopo un percorso simile il cambiamento accade veramente. È inevitabile.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/06/come-un-anno-puo-cambiare-vita/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

L’Europa guida la transizione verso i trasporti puliti

Il pacchetto mobilità pulita è l’ultima di una serie di proposte politiche mirate a rafforzare la leadership globale dell’Unione europea (UE) in materia di trasporti sostenibili. Per il commissario Miguel Arias Cañete, «la gara mondiale per lo sviluppo di auto pulite è stata avviata».

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Con l’entrata in vigore dell’accordo di Parigi, stiamo assistendo a una rinnovata volontà di procedere verso economie a ridotto tenore di carbonio a livello internazionale. Circa un quinto delle emissioni di gas a effetto serra prodotte nel vecchio continente deriva dai trasporti su strada: per questo, la mobilità pulita è una priorità per i legislatori dell’UE. La Commissione europea ha dunque avanzato una serie di proposte politiche per rendere più verdi i trasporti in Europa: l’ultima in ordine di tempo è quella relativa al pacchetto mobilità pulita.

“La gara mondiale per lo sviluppo di auto pulite è stata avviata. L’Europa deve però mettersi al passo se vuole condurre e guidare questo cambiamento globale.”

Miguel Arias Cañete, commissario europeo per l’Azione per il clima e l’energia

Si tratta del secondo pacchetto sulla mobilità presentato nel 2017: il primo, L’Europa in movimento, comprende una rosa di proposte in materia di sicurezza stradale, sistemi di pedaggio intelligenti, traffico, inquinamento atmosferico, emissioni di CO2 e condizioni di lavoro. I pacchetti sono stati elaborati sulla scia della strategia europea per una mobilità a basse emissioni, adottata nel giugno del 2016, che stabilisce una serie di azioni mirate ad aiutare l’Europa a rimanere competitiva nel settore e a rispondere alle crescenti esigenze di mobilità di persone e merci. In diverse regioni del mondo sono già in via di realizzazione investimenti e innovazioni nel campo della sostenibilità dei trasporti su strada, in particolare per quanto concerne i veicoli a basse o a zero emissioni: la Cina, ad esempio, ha introdotto quote di vendita obbligatorie a partire dal 2019, mentre la California e altri nove Stati americani hanno reso più rigorosi gli standard esistenti. L’UE rischia pertanto di perdere terreno in questa gara mondiale e non può permettersi di vestire i panni dell’inseguitrice.mobility-graph

Il pacchetto mobilità pulita comprende nuove norme in materia di emissioni di CO2 per auto e furgoni: rispetto ai livelli del 2021, nell’UE le emissioni medie dei nuovi veicoli rientranti in queste categorie dovranno essere tagliate del 15 % entro il 2025 e del 30 % entro il 2030. Al fine di stimolare i produttori a innovare, è inoltre previsto un meccanismo di incentivi flessibile e indipendente dalle tecnologie, che interesserà i veicoli a basse o zero emissioni.

Nel pacchetto sono poi inclusi una direttiva sui veicoli puliti, la revisione della direttiva sui trasporti combinati, una direttiva sui servizi di trasporto passeggeri effettuati con autobus e un piano d’azione, abbinato a soluzioni in materia di investimenti, per un’infrastruttura per i combustibili alternativi. Inoltre, una nuova iniziativa unionale intende sostenere la produzione di batterie in Europa, che riveste un’importanza strategica.

Le proposte mirano ad aiutare l’UE a centrare i suoi obiettivi in materia di clima ed energia, grazie a un’ingente riduzione delle spese sostenute per i combustibili e a un aumento significativo di competitività e occupazione. Tra i considerevoli benefici derivanti dalla loro applicazione sono da menzionare la riduzione di 170 milioni di tonnellate di CO2 (equivalenti al totale annuale di emissioni in Austria e Grecia) tra il 2020 e il 2030, il miglioramento della qualità dell’aria, il risparmio per i consumatori di circa 18 miliardi di euro l’anno sull’acquisto di combustibili, la possibile creazione di 70 000 posti di lavoro e la riduzione della spesa petrolifera annuale europea di circa 6 miliardi di euro.

In merito al pacchetto mobilità pulita, il commissario per l’Azione per il clima e l’energia, Miguel Arias Cañete, ha affermato: «La gara mondiale per lo sviluppo di auto pulite è stata avviata. L’Europa deve però mettersi al passo se vuole condurre e guidare questo cambiamento globale. Oggi investiamo nell’Europa e tagliamo l’inquinamento per rispettare l’impegno preso con l’accordo di Parigi di ridurre le emissioni di almeno il 40 % entro il 2030».

Fonte: ec.europa.eu/environment

Ansia e panico: quando il mio corpo mi chiese di cambiare vita

“Di giorno stringevo mani di politici e speculatori. Di sera contavo i soldi e nutrivo la lista degli oggetti da comprare per costruire la famiglia del Mulino Bianco. Ero fiero di me. La mia vita contribuiva ad aumentare il PIL. Poi, d’un tratto, l’ansia. Fortissima e costante. Era davvero quella la felicità?”.

Fortunatamente del costume dell’uomo felice mi sono spogliato da un pezzo. Mi spiego.

Ricordate il monologo finale di Trainspotting? Il lavoro, il maxitelevisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il cd, l’apriscatole elettrico, il mutuo, la polizza vita, ecc. Ecco, io ci ero arrivato col più regolare dei percorsi: laurea col massimo dei voti, master, stage, primo contratto, rinnovo, rapida carriera. Project manager in ambito “sviluppo locale”: 2,5mila euro al mese più bonus, trasferte, buoni pasto e telefono aziendale. Di giorno stringevo mani di politici e speculatori senza scrupoli. Di sera contavo i soldi e nutrivo la lista degli oggetti da comprare per costruire quella che la mia compagna di allora chiamava – con sguardo sognante – “la famiglia del Mulino Bianco”. Di notte non avevo tempo di pensare ai progetti di devastazione ambientale legalizzata che contribuivo a finanziare col mio lavoro; la mattina dopo dovevo svegliarmi presto per stringere altre mani. Ero fiero di me. La mia vita contribuiva ad aumentare il PIL. Poi, d’un tratto, l’ansia. Fortissima e costante. Era davvero quella la felicità?Edvard-Munch-The-Scream-detail

Edvard Munch, L’Urlo

Ho resistito qualche anno. Come fai a mollare subito quando cresci col mito di Fonzie e degli eroi hollywoodiani? Poi il mio corpo lo ha fatto per me. Attacchi di panico, ipocondria, gastrite, insonnia. Uno dei tanti medici conosciuti nelle mie passeggiate serali (e seriali) al Pronto Soccorso mi disse, in napoletano: “lei non è malato; è solo nu poco filosofo”. La ricetta, secondo lui, era smettere di rimuginare all’ingranaggio di cui facevo parte, alle conseguenze di quel sistema globale fondato sulla rapina e la distruzione delle risorse chiamato sviluppo. “Fottitene! E pigliate ‘na pastiglia” (di ansiolitico). Ci ho pensato un po’ su. Poi ho stracciato la ricetta. All’inizio non è stato facile. Frase fatta, ma è la verità. Il mondo attorno a me indossava o ambiva a indossare lo stesso costume che mi ero tolto. Tutti credevano che mi sarei solo preso un anno sabbatico per tornare poi alla carriera più determinato di prima. Del resto “come fai a vivere senza lavorare?”. In effetti la risposta non ce l’avevo. Non ancora, almeno. Mi limitai a stringere la cinghia, scoprendo che potevo sopravvivere anche senza cambiare l’auto ogni due anni e che col couchsurfing potevo viaggiare (e aiutare altri viaggiatori) senza pagare alberghi. Qualcuno mi disse che stavo facendo Downshifting (letteralmente: scalare la marcia).

Non avendo il lavoro, ero tornato ad appropriarmi del mio tempo. Lo utilizzavo per scrivere racconti e sceneggiature su personaggi che ricercavano se stessi e il proprio ruolo nel mondo. Per scrivere mi documentavo. Fu così che mi capitò per le mani un libro di Maurizio Pallante: La decrescita felice. Dopo tre capitoli mi accorsi che mia madre, nei pranzi di famiglia, cucinava il doppio del necessario; e che, ogni volta che avevo sete, compravo spazzatura a forma di bottiglia con dentro mezzo litro d’acqua del rubinetto. La Decrescita mi fece scoprire che il lavoro – mito della società industriale per il quale si scrivono gli articoli iniziali delle costituzioni – può essere utile sì, ma anche dannoso, e che la crescita economica non è sempre positiva, come dicono al TG. Se cresce il consumo di ansiolitici o di incidenti d’auto sarà positivo per le case farmaceutiche e automobilistiche, ma non per noi e per l’ambiente. A chiarirmi che la critica allo sviluppo era una roba seria e che veniva da lontano, fu un vecchio video su Robert Kennedy, assassinato qualche mese dopo avere pronunciato un celebre discorso sull’inadeguatezza del PIL  come misura del benessere.

Nel frattempo avevo iniziato a lavorare qui e là su cose che mi interessavano: organizzazione di eventi, marketing per una casa editrice, sceneggiatura e regia. Guadagnavo molto di meno ma avevo tempo per viaggiare, leggere, cucinare, andare in bici. Avevo cambiato i miei valori di riferimento. Non potevo più vivere nello stesso mondo. E così lo lasciai. Vendetti la mia auto e partii per la Spagna per fare WWOOF. Da volontario in aziende di agricoltura naturale mi spiegarono che il sistema biologico perfetto, circolare e autorigenerante, è la foresta. Il sistema “permanente” per eccellenza. Per vivere meglio e “permanere” nel mondo l’uomo dovrebbe limitarsi a osservare la natura e progettare i propri insediamenti imitandola. Su una verde collina nel nord dell’Andalusia, la Permacultura aveva fatto capolino nella mia vita.Facendo-wwoofing-in-Andalusia

Facendo wwoofing in Andalusia

Tornato alla base, mi misi a navigare sul web alla ricerca di associazioni, imprese e progetti virtuosi ai quali offrire una mano. Ne trovai tanti. Addirittura realizzai che ci sono intere città che si stanno organizzando per affrontare la Transizione da un modello economico basato sulla disponibilità di petrolio e sulla logica di consumo delle risorse, a un nuovo modello sostenibile, basato sulle energie rinnovabili e caratterizzato da un alto livello di resilienza. Mi accorsi che nessuno di questi progetti virtuosi sarebbe nato se le persone che li avevano promossi non avessero deciso di spogliarsi del loro costume di scena, inseguendo una felicità diversa da quella, artefatta, somministrata a dosi massicce da pubblicità, disinformazione e brutti programmi televisivi. Le persone: ecco quello che mi mancava. Il tassello finale che nessun libro poteva fornirmi. Cominciai a incontrarne parecchie, specie dopo l’inizio della mia collaborazione con Italia che Cambia, che con la sua mappa aveva appena creato una rete di persone in cambiamento e iniziava a raccontare le loro storie. La grande sorpresa fu la scoperta che, per molte di costoro, la spia lampeggiante del malessere che le aveva portate al cambiamento aveva lo stesso, cupo colore della mia: gli attacchi di panico.18676341_10213148274451229_2009560568_o

“Progettare il cambiamento” all’ecovillaggio Tempo di Vivere

Il passo successivo è stato chiedermi quanta gente non abbia ancora il coraggio di uscire dalla propria zona di comfort per trovare, insieme ad altri potenziali compagni di viaggio, un nuovo equilibrio. Quanta gente è possibile salvare da una sofferenza annunciata semplicemente dandogli la possibilità di incontrare un’alternativa di valori? È nato così “Progettare il Cambiamento”, il percorso formativo che ho ideato per Italia che Cambia.
Tre appuntamenti in diversi ecovillaggi con i massimi esponenti del Cambiamento italiano (fra cui Maurizio Pallante, che coi suoi libri aveva dato inizio a quello mio personale: quale onore lavorare al suo fianco!). E se credete che sia per puro caso che abbiamo inserito nel primo modulo, dal titolo “Il Pensiero del Cambiamento”, materie come Downshifting, Decrescita, Permacultura e Transizione… beh, rileggetevi questo articolo. Saranno una decina d’anni da quando mi sono spogliato del costume di scena. Ora non ho più niente addosso. Dell’uomo felice mi è rimasta la pelle.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2017/09/ansia-panico-corpo-chiese-cambiare-vita/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Di chi è la colpa?

Di chi è la colpa se le cose non vanno in questo mondo e ci troviamo ad affrontare problemi enormi come i cambiamenti climatici, le disuguaglianze sociali ed economiche, le malattie, l’inquinamento? La colpa è dei banchieri? Dei politici? Del vicino che fa fare i bisogni del cane sul marciapiede? È colpa nostra? È colpa della “gente” che – come noi – permette al sistema di comandarla a suo piacimento? Ma soprattutto, è utile cercare un colpevole?designate-427537_1920-1030x6861

C’è un racconto molto interessante che è stato tramandato oralmente per generazioni all’interno della tribù degli Xoulhata dell’America Centrale. Recita all’incirca così:

Un giorno un uomo scoprì che il suo vicino di casa gli aveva rubato la pecora e l’aveva arrostita. L’uomo si arrabbiò molto, andò a casa del vicino con l’intenzione di fargliela pagare. Ma il vicino, che di mestiere faceva il pescatore, gli disse: “Ho rubato la tua pecora per nutrire i miei figli perché non ho più niente. La colpa non è mia ma del mio vicino che ha rubato l’acqua del lago, facendo morire i pesci”. Allora l’uomo andò a casa del vicino del vicino con l’intenzione di fargliela pagare, ma questo, che di mestiere faceva l’agricoltore, gli disse: “la colpa non è mia ma del Dio della pioggia, che non ha fatto piovere e quindi io ho dovuto prendere l’acqua dal lago per innaffiare i miei campi”.

Allora l’uomo andò da Dio della pioggia con l’intenzione di fargliela pagare ma il Dio disse: “la colpa non è mia ma di tuo figlio che mi ha pregato a lungo perché non facessi piovere” Allora l’uomo andò da suo figlio con l’intenzione di fargliela pagare, ma il figlio disse: “la colpa non è mia ma tua, che non mi fai uscire quando piove. E visto che io voglio giocare fuori prego perché non piova”. Allora l’uomo non seppe più cosa fare.

Ora i lettori più attenti si saranno accorti da alcuni dettagli che il racconto non può essere attribuito veramente alla tribù degli Xoulhata, in primo luogo perché la tribù degli Xoulhata non aveva problemi a far uscire i bambini di casa quando pioveva e in secondo luogo perché essa non aveva una tradizione narrativa orale vera e propria visto che non è mai esistita. Me la sono appena inventata, così come il racconto in questione, perché attribuirlo a una tribù di nativi americani faceva decisamente più effetto. Comunque non è questo il punto. Il punto è: di chi era, secondo voi la colpa nel racconto? Del vicino? Del vicino del vicino? Del Dio della pioggia? Del figlio? Dell’uomo stesso?

Ci ostiniamo in ogni situazione a voler individuare un colpevole a cui addossare tutta la resposabilità di qualcosa. Ma ha senso? E se non lo ha, perché continuiamo a farlo? Come l’uomo del racconto, siamo spesso ossessionati dalla ricerca del colpevole. È un gioco che ci appassiona molto: qualsiasi cosa succeda di sbagliato la prima cosa che ci chiediamo è: di chi è la colpa?

Di chi è la colpa se le cose non vanno in questo mondo e ci troviamo ad affrontare problemi enormi come i cambiamenti climatici, le disuguaglianze sociali ed economiche, le malattie, l’inquinamento?

La colpa è dei banchieri? Dei politici corrotti? Del vicino che fa fare i bisogni del cane sul marciapiede? E allora vai con le crociate purificatrici, con la caccia alle streghe.

È colpa nostra? È colpa della “gente” che – come noi – permette al sistema di comandarla a suo piacimento? Perché non alziamo tutti la testa assieme e non ci ribelliamo uniti? Siamo tutti pecore! E allora vai con la autofustigazioni e le reprimenda.

Insomma, in qualsiasi modo la si metta non quadra. Il punto è che cercare e punire il colpevole di turno non serve a modificare di una virgola il sistema, perché una volta che lo avessimo punito e tolto di mezzo ci accorgeremmo che il sistema ne ha già prodotto un altro uguale al precedente, e che quel colpevole era nient’altro che il risultato inevitabile del sistema stesso. Allora la colpa è del sistema? Bah, che io sappia i sistemi non sono particolarmente interessati alle colpe o ai meriti, si limitano semplicemente a funzionare in determinati modi. Peraltro dare la colpa “al sistema” spesso sottintende implicitamente l’identificare il sistema con un gruppetto di persone ultrapotenti che sedute intorno a un tavolo in qualche stanza segreta decidono le sorti del mondo schiacciando qualche tasto. Che poi magari quel tavolo esiste anche, non lo metto in dubbio, ma pensare che sia “colpa loro”, che siano loro il problema, ci fa mancare di nuovo il bersaglio. Se anche eliminassero le persone potenti in questione, essere sarebbero rimpiazzate in un batter d’occhio da altre, sedute ad un altro tavolo ma con le stesse identiche caratteristiche. Perché? Perché il sistema che ha prodotto quel tavolo è rimasto immutato. Ma quindi non si può fare niente? Fortunatamente non è così. Una volta appurato che il gioco del “Di chi è la colpa?” non porta a niente e fa parte dei meccanismi di questo sistema possiamo aprirci ad altri giochi. Ci sono tanti altri giochi interessanti a cui giocare, che vanno – questi sì – a cambiare il funzionamento del sistema. Giochi basati sulla collaborazione, che ci aiutano a riconoscere i meccanismi a cui tutti inconsapevolmente prendiamo parte e a non giudicare gli altri e noi stessi. Parlo di “giochi” come la sociocrazia, la facilitazione, la comunicazione non violenta, che cambiano il nostro modo di rapportarci con gli altri e con noi stessi. Io non sarei in grado di spiegarveli in maniera esaustiva, ma in Italia esistono persone preparatissime che tengono corsi e incontri formativi, che possono spiegarci come introdurre questi piccoli tasselli di cambiamento nelle nostre vite e nel rapporto con gli altri. Quindi se questo articolo vi è sembrato interessante o vi ha incuriosito, magari andateveli a cercare e ad approfondire.

Se invece lo avete trovato inutile, noioso o poco interessante che dire… mi dispiace, colpa mia!

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2016/10/di-chi-e-la-colpa/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=general

Grani antichi, autoproduzione e magia: vivere felici a Tempa del Fico

Si può vivere lontani da ogni centro abitato, spersi nella natura selvaggia dell’altopiano cilentano, eppure immersi in un fitto tessuto di relazioni sociali? La storia di Tempa del Fico, ovvero di Donatella, Angelo e delle loro due figlie, dimostra che non solo è possibile, ma anche estremamente appagante. Questa è la storia di un luogo magico in cui si autoproduce tutto e si vive felici, e delle persone speciali che l’hanno creato.

“Devi superare uno spiazzo e poi girare a destra nella stradina sterrata, fai quattro chilometri e quando vedi un cartello giallo con scritto Tempa del Fico svolti a destra. Mi raccomando non seguire il navigatore sennò finisci fuori strada!”

Sono le dieci di sera. La nostra macchina serpeggia seguendo le curve di una stradina di campagna che si inerpica per gli altopiani del Cilento. I fari della macchina spazzano la strada con due coni di luce, tutto attorno è già buio. Sono al telefono con Angelo che cerca di spiegarmi la via più breve per arrivare: è una mezz’ora abbondante che seguiamo la strada di campagna e dovremmo esserci quasi, ma il navigatore impazzito segna che mancano ancora 40 minuti, forse ad indicarci che in quel luogo il tempo scorre più lentamente. Angelo, al telefono, mi rassicura: “Tranquillo, dieci minuti e state qua”.

Quando finalmente arriviamo troviamo un cagnolone bianco come la neve che viene a farci le feste e Angelo che ci attende all’ingresso. “Venite che la cena è quasi pronta”. Nonostante l’ora tarda ci hanno aspettato per mangiare. Donatella ha preparato una zuppa di grano (il loro grano), una torta salata con la zucca e del pane raffermo fatto a tozzetti e condito con olio, origano e altre spezie e olive nere essiccate nella cenere; poi tira fuori una ricotta salata e un salamino di cinghiale che gli ha portato un pastore vicino. Il tutto innaffiato da ottimo vino rosso.

A tavola con noi, assieme ad Angelo e Donatella ci sono le loro due figlie Annarita e Mariantonia e due ragazze che fanno woofing. Sarà per il cibo meraviglioso, la conversazione, o il vino, sarà forse per un insieme di elementi ma mi sento invaso da una sensazione di pace. Dopo un lungo viaggio in macchina durato tutto il giorno ho l’impressione di essere arrivato a casa.

Tempa del Fico: così si chiama questo luogo del tutto particolare, sperduto in mezzo ai monti nel cuore del Cilento, dove Angelo e Donatella hanno costruito una casa, una famiglia e un modo sereno e accogliente di stare al mondo.10408719_10204809803238216_3460126989773636728_n

Tutto è iniziato agli inizi degli anni Novanta, quando Angelo acquistò il terreno. Ai tempi aveva ancora un lavoro tradizionale in città, ma piano piano iniziava a lavorare sempre meno e ad autoprodurre sempre di più. “Ai tempi non la chiamavamo ancora transizione, ma la facevamo”, commenta Angelo, che nel frattempo iniziava a ristrutturare la casa secondo i principi della bioarchitettura.

Poi un giorno arrivò Donatella: lavorava da un orefice, fabbricava gioielli prezioni, collane, anelli, monili. Portava sempre i tacchi e si vestiva di tutto punto, ma non era felice: “A un certo punto non stavo più bene, ero anemica, sempre stanca, insoddisfatta. Gli amici e i familiari insistevano perché andassi a stare in campagna per qualche giorno, così arrivai qui. E qui sono rimasta”.

L’amore con Angelo, poi le due bambine. E un lento ma costante apprendimento di tutti quei saperi che il vivere in campagna richiedeva: riconoscere le piante, gli animali, cucinare. Oggi la famiglia Avagliano vive autoproducendo praticamente tutto, dalla farina, al pane, alla pasta, a tutti i tipi di vegetali e frutta, alle conserve e tutto il resto. I grani che coltivano sono grani antichi cilentani, e i metodi di coltivazione sono attenti a preservare la ricchezza del terreno. Quel po’ di reddito monetario di cui hanno bisogno lo ricavano attraverso l’ospitalità e vendendo i loro prodotti.13327528_10208294760879979_8039068592373336747_n

Si potrebbe pensare che sia una vita isolata, quasi eremitica, ma è esattamente l’opposto. Infatti sono immersi in un tessuto di relazioni molto forte e collaudato. Ci sono i vicini e le vicine, che vengono spesso a far visita, ci sono gli ospiti sempre numerosi, ci sono gli amici delle due bambine che amano giocare in questo paradiso (soprattutto da quando c’è anche un tappeto elastico!).

Addirittura assieme ai “cumpari”, ovvero gli altri contadini e produttori della zona fra cui anche Terra di Resilienza, hanno fondato la Cumparete, una rete informale di relazioni incentrata su rapporti di condivisione e collaborazione. E hanno dato vita alla “Ciucciopolitana”, una metropolitana rurale in cui al posto delle carrozze ci sono i “ciucci”, gli asini, che accompagnano grandi e bambini nelle escursioni.

Queste e tante altre storie e iniziative ci hanno raccontato Angelo e Donatella durante i nostri due giorni di permanenza alla Tempa del Fico. Tuttavia è difficile raccontare questa esperienza a parole (e in questo, per fortuna, mi viene in aiuto il bel video qua sopra girato e montato da Paolo Cignini), perché l’essenza di questa famiglia e delle sue attività non sta – o perlomeno non solo – nelle cose che fanno, per quanto siano numerose e incredibili, ma nell’odore e nei colori di questo luogo, nell’atmosfera che vi si respira. Nella capacità di vestire la straordinarietà della loro esperienza con gli abiti della più assoluta normalità e naturalezza. Niente è fuori posto, niente appare forzato. La gioiosa diversità delle due bambine, l’una calma e introspettiva, amante della lettura e dello studio, l’altra più “selvaggia” ed energica, che fa home-schooling e sa riconoscere tutte le erbe e cavalcare il mulo di famiglia, sembrano l’eco di una connessione profonda con il luogo e la sua biodiversità.12814385_10207530682338493_2371574138971454347_n

Il secondo giorno, prima di ripartire, Angelo ci fa vedere come fare la pasta e Donatella ci porta a raccogliere la melassa per fare un infuso. Pranziamo assieme: ci sono ospiti, la tavolata conterà una quindicina di persone o forse più. Poi i saluti. Ce ne andiamo con la pancia piena di cibo e la testa ed il cuore di tante altre cose.

 

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2016/07/io-faccio-cosi-127-grani-antichi-autoproduzione-e-magia-vivere-felici-a-tempa-del-fico/

Cristiano Bottone e Transition Italia: perché la transizione può salvare le città in crisi

“Tra vent’anni non sarete delusi delle cose che avrete fatto, ma di quelle che non avrete fatto”. Con queste parole di Mark Twain ci accoglie il blog della prima città in transizione italiana in ordine cronologico, Monteveglio. Qui, in un comune della Valsamoggia in provincia di Bologna, il cambiamento è iniziato nel 2008 appena due anni dopo la fondazione della prima Transition Town al mondo, Totnes Town, città che sorge sulla punta Sud Ovest della Gran Bretagna. Da questo primo esperimento sociale, brillantemente teorizzato da Rob Hopkinsteorico e fondatore del movimento, vengono gettate le basi in Italia. L’inizio non è stato facile perché molte teorie risentono della specifica realtà inglese, ma per definizione la transizione è un esperimento in costante evoluzione e con l’impegno della rete coinvolta si è arrivati a consolidare prima la realtà di Monteveglio, poi altre città dell’hinterland bolognese e infine a valicare i confini regionali raggiungendo il numero totale (per ora) di trentacinque città in transizione in tutto il paese, riunite nel “Nodo italiano della rete internazionale di Transizione“.

https://www.youtube.com/watch?v=YOd1kVudCOI

“La transizione dell’hinterland bolognese è ormai una realtà ben visibile e non più puntiforme” racconta con soddisfazione Cristiano Bottone, una delle prime guide del movimento che ha portato al cambiamento di Monteveglio (città in cui risiede) e attuale referente del movimento Transition Town in Italia. “Tanto è stato fatto dal meccanismo del buon esempio”, continua a spiegare, “alcuni sindaci che vedono il buon funzionamento delle iniziative organizzate si avvicinano alla transizione”. Molto è dipeso anche dalle caratteristiche culturali di questa regione, terra originaria delle cooperative, dove il concetto del “fare rete insieme” è radicato a tutti i livelli.

Monteveglio (Bo)

Monteveglio è la prima Transition Town italiana

 La voglia di agire per il meglio non basta, spesso le migliori intenzioni amministrative sono ostacolate dalle leggi di un paese fortemente burocratizzato, ma molte delle difficoltà incontrate sono state superate grazie ai tavoli di lavoro e confronto preparati dall’ANCI utili anche per aggirare questo tipo di ostacoli giudiziari. “I sindaci che aderiscono al progetto di transizione hanno capito che bisogna uscire dal gioco della politica competitiva”, chiarisce Cristiano, “io ho visto amministratori accapigliarsi sulle modalità di tassazione ma poi convergere sull’importanza indiscutibile della qualità dell’aria e dell’acqua“. Dal presupposto di fondo del movimento di Transizione non si scappa insomma: il raggiungimento del Picco del petrolio e il surriscaldamento globale devono portare necessariamente al ripensamento dei modelli abitativi e produttivi tradizionali, riportando l’uomo e le sue esigenze all’interno di un sistema molto più ampio con cui deve interagire rispettando le regole dei processi che fanno funzionare l’intero ingranaggio. E la buona notizia è che tutto questo è convenuto e conviene ancora. La transizione di Monteveglio ha preceduto di pochissimo lo scoppio della crisi e andare nella direzione dell’autosufficienza energetica e produttiva ha aiutato molto l’amministrazione a fronteggiare la scure dei tagli governativi che si è abbattuta anche sui comuni più virtuosi.

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Cristiano Bottone, attuale referente del movimento Transition Town in Italia

 Parlare di una comunità in transizione, ovviamente,  non significa che tutti sono coinvolti ma Cristiano Bottone e il gruppo Guida – le persone che cercano di traghettare i cittadini verso il cambiamento – sono stati facilitati dalla collaborazione con le amministrazioni locali. Cominciando dai due temi chiave per il territorio, il cibo e l’energia, hanno avviato la pratica dell’agricoltura degli orti sinergici e hanno aperto un gruppo di acquisto del fotovoltaico slegato dalla logica della redditività e degli incentivi statali. Il nuovo approccio ha ispirato gli amministratori per modificare il piano di edificazione del nuovo edificio scolastico che oltre ad essere dotato di pannelli fotovoltaici è anche scollegato dalla rete gas metano e quindi energeticamente autosufficiente. E proprio sulla scuola il movimento Transition di Monteveglio ha continuato a puntare la propria attenzione, per piantare il seme dell’educazione ambientale, dell’importanza dell’autosufficienza energetica e dell’alimentazione sostenibile. Proprio da quest’ultimo elemento è nata una realtà associativa molto importante per il territorio, non solo di Monteveglio ma anche dei comuni limitrofi, l’”Associazione Streccapogn“, organizzazione che deve il suo nome al termine dialettale con cui si indica il radicchio selvatico, prodotto tipico di quest’area. La “Streccapogn” ha l’obiettivo di creare un rete rurale di contadini e utilizzatori sensibilizzati al concetto di agricoltura e distribuzione sostenibili, per produrre lavoro, per favorire lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile e per creare una rete sociale e umana intorno al proprio territorio.Transition-Town

Oltre ai numerosi risultati raggiunti nel corso degli anni, Cristiano Bottone annovera tra le sue maggiori soddisfazioni l’espansione territoriale dell’esperimento di transizione. “Da Biella, dove stanno nascendo numerose iniziative su un territorio in transizione sempre più consolidato, fino alla Transition Appio Latino di Roma, dove stanno germogliando iniziative e progetti nuovi”, chiosa Cristiano, “arriva forte il messaggio di una cittadinanza in movimento, verso il cambiamento.”

Fonte :italiachecambia.org

Tribewanted e la comunità di Monestevole: dal turismo sostenibile verso una grande transizione

“A tribe is wanted”, ovvero “cercasi tribù”. Tutto è iniziato da una email inviata nel 2006 al fine di trovare 5000 persone disponibili a versare 130 sterline a testa per sviluppare una comunità sostenibile per eco-turismo nell’arcipelago delle Fiji. Il messaggio è stato accolto e così, grazie al crowdfunding, è nata la comunità dell’isola di Vorovoro ed è partita l’avventura di Tribewanted.

Fondata nel 2006 da Ben Keene, poi diventato socio dell’italiano Filippo Bozotti, la cooperativa inglese Tribewanted porta avanti un progetto di turismo sostenibile e responsabile con l’obiettivo di trovare un giusto equilibrio di sostenibilità ambientale, sociale ed economica, valorizzando le tradizioni e la cultura locale. Tre le comunità sinora create: una nelle Fiji (nell’isola di Vorovoro), una sulla John Obey Beach in Sierra Leone, e una a Monestevole, in una piccola frazione di Umbertide in provincia di Perugia. Dal 2013, inoltre, Tribewanted è partner del progetto Guludo, in Mozambico.230104_5833698565_3111_n

Nelle comunità Tribewanted inizialmente è il team internazionale che gestisce il progetto, ma entro la fine della prima stagione turistica si trasferisce conoscenza al personale locale affinché la comunità possa essere gestita localmente. In tal modo si genera anche occupazione. Le comunità fisiche sono unite da una community online mondiale, che oggi conta circa 10.000 “Tribe members”. Ogni mille tribe members che verseranno 10 sterline al mese (circa 13 euro) consentiranno a Tribewanted di aprire una nuova comunità nei paesi scelti dalla maggioranza. L’obiettivo è quello di costruire una rete di 10 nuove comunità modello che dimostrino concretamente che la sostenibilità può essere realizzata realmente e che uno stile di vita diverso è possibile, oltreché necessario.536134_10151454306493566_1121834413_n

Ogni membro della tribù usufruisce di sconti e benefici quando decide di trascorrere in una delle comunità Tribewanted una ‘vacanza alternativa‘. L’idea, infatti, è quella di offrire l’opportunità di vivere un’esperienza basata sulla condivisione delle attività e sullo scambio di competenze, tempo e risorse. “Noi crediamo – si legge sul sito di Tribewanted  – nella forza delle esperienze comunitarie al fine di influenzare positivamente il cambiamento dei comportamenti delle persone. Attraverso la creazione di comunità sostenibili e la condivisione di esperienze interculturali significative, stimolanti e divertenti, sia sul campo sia online, vogliamo dare un’impronta positiva che ispiri altre persone a fare lo stesso”. Dalle Fiji alla Sierra Leone, fino alla nascita, nel 2013, della comunità sostenibile di Monestevole, nel cuore dell’Umbria, per dimostrare che anche in un Paese ‘sviluppato’ è possibile portare avanti un progetto basato su un modo diverso di viaggiare e vivere il territorio.379722_10151452156038566_1091237402_n

Nel cuore verde dell’Italia, Tribewanted Monestevole è costituito da un casale del 1500 e 25 ettari di bosco. Qui vi abitano e lavorano stabilmente 10 persone che condividono il loro tempo e le loro attività con gli ospiti della comunità. I tribe members e gli ospiti possono così partecipare a progetti di bio-edilizia, di energia rinnovabile, di riciclo delle acque e di permacultura, ma anche svolgere vari compiti quotidiani, dalla manutenzione dell’orto alla raccolta delle olive, dalla vendemmia alla musica, dall’accudire gli animali e molto altro. È alla comunità di Monestevole che il co-fondatore di Tribewanted Filippo Bozotti dedica la totalità del suo tempo da quando, nel 2012, ha deciso di tornare a vivere in Italia dopo molti anni trascorsi all’estero. “Ad un certo punto ho sentito il desiderio di mettere radici. Tutti mi dicevano di non tornare in Italia e questo è uno dei motivi per cui io invece ho deciso di farlo”.

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Una laurea in finanza alla Boston University che gli è servita per capire cosa non voleva fare, il desiderio di informarsi accresciuto dopo i fatti dell’11 settembre e quindi la presa di coscienza di voler esser parte della soluzione e non complice dei meccanismi che hanno generato gli attuali problemi del mondo. È stato graduale il percorso che ha portato Filippo alla decisione di dedicarsi a questo progetto, convinto che il cambiamento debba avvenire dal basso, dalla comunità, a livello locale e sistematico. “L’Italia ha tantissime opportunità per diventare un esempio nel mondo. Nel nostro Paese esistono tanti progetti virtuosi, e allo stesso tempo c’è ancora molto da fare. Credo che il cambiamento arriverà quando raggiungeremo il ‘punto critico’, che di solito è l’1% della popolazione impegnata in progetti di cambiamento. Sono sicuro che prima o poi avverrà una grande transizione, in Italia e nel mondo. Spero che questa arrivi in modo pro-attivo e non reattivo”.

 

  1. Tribewanted Monestevole è aperto a tutti. Anche le persone non iscritte al Tribewanted possono accedervi, pagando il 20% in più rispetto ai membri.

 

Il sito di Tribewanted 

Il sito di Tribewanted Monestevole 

Visualizza Tribewanted Monestevole sulla Mappa dell’Italia che Cambia: clicca qui 

 

Fonte : italiachecambia.org

Rob Hopkins e la transizione verso un mondo sostenibile

George Ferguson è il sindaco di Bristol, una grossa città del sud dell’Inghilterra di quasi mezzo milione di abitanti, e il suo salario annuale ammonta a circa 50mila sterline. Al momento della sua elezione, nel novembre del 2012, Ferguson ha annunciato che questa somma gli sarebbe stata corrisposta in Bristol Poundsla moneta alternativa di Bristol. Il Bristol Pound è la moneta locale più diffusa in Inghilterra, ma non certo l’unica. Ne esistono anche a Totnes, Brixton, Lewes, Stroud. E sapete cos’hanno in comune queste località britanniche? Sono tutte Città in Transizione.

Transizione… Ma verso che cosa? E con quali modalità, coinvolgendo chi? Sono queste le prime domande che, ormai quasi dieci anni fa, un giovane insegnante di permacultura della provincia inglese ha rivolto a se stesso, consapevole della necessità di avviare un grande processo per modificare la società e traghettarla verso il cambiamento a cui il mondo sta ineluttabilmente andando incontro. Il nome di questo insegnante è Rob Hopkins, co-fondatore del movimento delle Transition Towns. Il punto di partenza è un ragionamento tanto semplice quanto cruciale: la società attuale dipende quasi interamente dai combustibili fossili, in particolare dal petrolio. Come teorizzò ormai quasi cinquant’anni fa il geofisico Marion King Hubbert, il picco del petrolio è già stato raggiunto e questo vuol dire che le riserve dell’oro nero stanno cominciando a esaurirsi e d’ora in poi sarà sempre più difficile e costoso estrarlo. A questo, si accompagna un degrado dell’ecosistema che ha raggiunto livelli allarmanti, come testimoniano i pesanti cambiamenti climatici in corso. Che fare quindi? Le conclusioni sono quasi obbligate: è necessario avviare la costruzione di una nuova società che non sia più oil addicted, ma che faccia ricorso alle numerose soluzioni alternative ed ecologiche di approvvigionamento energetico e di reperimento delle materie prime.IMG_2051

Ma da buon permacultore, Rob sapeva che non si può modificare una comunità concentrandosi su un solo obiettivo, appartenente a un singolo ambito. Ecco quindi che una città resiliente deve anche ripensare la propria politica finanziaria, dotandosi di uno strumento monetario che, come ha detto uno degli ideatori del Bristol Pound, sia «creato dai cittadini per i cittadini». Anche il comparto produttivo e commerciale deve essere oggetto di intervento, creando filiere locali che consentano alla ricchezza generata di rimanere sul territorio. Non si può poi prescindere dall’educazione: scuole e università devono preparare i ragazzi alle buone pratiche, senza limitarsi alla teoria e insegnando anche il “saper fare”. E che dire dell’urbanistica, dell’edilizia, dei trasporti, dell’informazione, dell’accesso ai dati, delle relazioni sociali…  «La chiamiamo transizione perché parliamo di un passaggio», ci ha spiegato Rob Hopkins quando lo abbiamo incontrato a Bologna lo scorso ottobre, durante la sua visita in Italia organizzata da Transition Italia. «Un passaggio dal modello attuale, che ci conduce al suicidio climatico, a un modello compatibile, che ci porta verso una vita serena e sana su questo pianeta». Ma questo non è che il punto di partenza: «Per me la transizione ha a che fare con la costruzione di un sistema culturale ricco, abbondante, locale, resiliente. E soprattutto col vedere le sfide di questi tempi come opportunità per stimolare la nostra creatività e la nostra originalità».ChelseaFringe3_2219212b

In occasione del suo viaggio a Bologna, Rob ha incontrato studenti dei licei e dell’università, i maggiori rappresentanti istituzionali del Comune e dell’Alma Mater, mass media, attivisti e semplici cittadini. Come un vento rinfrescante, con l’ironia e la semplicità che lo contraddistinguono, ha portato a tutti ottimismo ed entusiasmo attraverso la forza dell’esempio. I suoi incontri infatti, sono sempre stati caratterizzati non solo da spiegazioni teoriche dei nuovi modelli che la transizione cerca di costruire e insediare, ma anche da testimonianzecase history, con tanto di foto e filmati, di ciò che i transizionisti stanno facendo in giro per il mondo. Così, davanti alle espressioni curiose e interessate del sindaco Virginio Merola e del prorettore Dario Braga, il papà della Transizione ha raccontato delle edible bus stops di una linea di Londra, ovvero le fermate del bus “commestibili”, cioè corredate di piccoli orti con verdure piantate e coltivate dai residenti della zona a disposizione degli utenti dell’autobus. Oppure del Bristol Pound di cui abbiamo parlato all’inizio, la moneta complementare di Bristol, che dopo aver avuto l’approvazione della Bank of England, viene ora accettata da più di 650 negozi e ha un sistema di pagamento elettronico e on-line. O ancora, il Local Entrepreneur Forum, un tavolo che favorisce l’incontri di investitori e imprenditori che vogliono avviare attività sociali, sostenibili, resilienti e finalizzate a creare benessere nel territorio. Sono queste iniziative che possono essere ricondotte all’idea della REconomy. «Verso il 2010 – racconta Rob in proposito –, è emerso questo concetto. Abbiamo capito che la transizione era una cosa seria e ambiziosa, perché ci chiede di reinventare il modo con cui ci alimentiamo, produciamo energia, viviamo. Per questo motivo, era necessario creare anche un nuovo modo di fare economia: generare nuovi posti di lavoro, avviare nuove attività di imprenditoria sociale, trovare nuove modalità di investimento del denaro. C’era bisogno di canalizzare le risorse al fine di rendere possibile nel mondo reale questo cambiamento».well_done_dragons-1024x443

Parallelamente, si è sviluppato l’aspetto della transizione interiore: «La transizione non è solo pannelli solari e carote biologiche! C’è bisogno di creare una cultura resiliente e sana del lavoro di gruppo, allo scopo di risolvere gli storici problemi legati all’attivismo, che è soggetto a un alto rischio di bruciarsi dopo la spinta iniziale. Per questo motivo abbiamo cominciato a chiederci come potevamo progettare la nostra attività in modo da sostenerci a vicenda e questa idea della transizione interiore è stata per molti aspetti il punto di svolta. Spesso, quando viaggio e incontro le persone, mi sento dire: “la transizione è fantastica, bravo Rob, hai fatto una cosa splendida!”. Ma non li ho fatti io tutti quei progetti, in Brasile, a Brixton, a Bologna, in Giappone. Ovunque la risposta che vedo è che la transizione si adatta al territorio e alle passioni delle persone che lo abitano. Io sono un po’ come un’ape che se ne va in giro a raccontare storie. E adesso ne avrò una in più di cui parlare e riguarderà ciò che state facendo voi a Bologna, in Italia». Già, l’Italia… «Qui l’economia è un disastro e continua a peggiorare. Però la vedo come un’opportunità, una possibilità da parte del vostro paese di posizionarsi come prima economia post-crescita. Se solo fossimo capaci di abbandonare l’obiettivo della crescita, la pretesa tornare a un’epoca impossibile. Qui c’è una cultura del cibo straordinaria, ci sono enormi potenzialità per le energie rinnovabili, grandi capacità manuali e pratiche. Basta guardare dalla giusta prospettiva e l’Italia potrebbe diventare la Silicon Valley di una nuova economia». Questo è un invito. Di più, è un’esortazione, quasi una sfida che ci viene posta. Gli strumenti ci sono, le potenzialità e le risorse anche. Adesso spetta solo a noi.

Rob ci lascia con una conclusione che tradisce lo squisito british humor con cui ha conquistato tutti in giro per il mondo, ma che cela anche una grande verità. «Non c’è garanzia che il lavoro che stiamo facendo abbia l’effetto che vogliamo. Del resto, se ci fosse la certezza che andrà tutto bene sarebbe noioso e non ci sarebbe motivo di farlo. È qualcosa che sentiamo di dover fare anche, soprattutto, perché non sappiamo come andrà a finire».

 

 

Fonte: : italiachecambia.org

Stati Generali del Lavoro, proposte di transizione e cambiamento

“Una parata di proposte tanto ampia da coprire quasi tutto il pensabile, o meglio il trasformabile”. Ricco di spunti pragmatici l’esito degli Stati generali del Lavoro svoltosi a fine settembre in Val di Susa. Proposta simbolo della tre giorni, l’istituzione di un Centro Studi sulla Transizione e il Cambiamento.statigeneralilavoro

Eleonora Ponte, l’ispiratrice degli Stati Generali del Lavoro, aveva dichiarato che a Vaie ci sarebbe stata la bomba atomica, intendendo con ciò un’esplosione di idee nuove e dirompenti che sarebbero scaturite dall’impegno dei partecipanti. Promessa mantenuta: la seduta plenaria di domenica 28 settembre, quella in cui gli 8 tavoli hanno presentato quanto concluso il giorno prima, è stata una parata di proposte tanto ampia da coprire quasi tutto il pensabile, o meglio il trasformabile – dalle nuove idee in materia di risparmio energetico agli ecovillaggi, dalle banche e monete alternative alla ristrutturazione del tempo di vita e di lavoro, dall’educazione al consumo ai “luoghi dove si impara con diletto” -, che chi vuole potrà scoprire nei dettagli sulla apposita pagina del sito. Qui credo sia invece il caso di soffermarsi sul denominatore comune di tutto questo: appunto, l’idea di cambiamento. Tra i tanti slogan ormai insopportabilmente privi di significato che ci investono da tutti i mezzi della cosiddetta informazione non si sente blaterare che di riforme, ma chi riesca ancora a far mente locale per percepire il vero significato di quel che si vuol dire vi scoprirà dei messaggi in cui di nuovo non c’è nulla: alleggerire la Costituzione, spazzare via un altro po’ di diritti, adeguarsi ulteriormente, ammesso che sia umanamente possibile, a quel che vogliono i mercati. Reazione pura, purtroppo vecchia come il mondo. A Vaie abbiamo invece respirato una boccata di aria fresca, abbiamo sentito che le persone devono venire prima del profitto, che è la solidarietà e non la concorrenza che fa produrre meglio e di più, che solo perché viene più o meno retribuita un’attività non può automaticamente aspirare alla nobile definizione di lavoro. Ma, ancora più importante, abbiamo notato come tutti, ma proprio tutti, i tavoli fossero giunti alla stessa conclusione riguardo alla fatica principale di questa transizione: lasciarsi alle spalle le vecchie abitudini mentali, preconcetti che sono gabbie, ma nei quali la maggior parte delle persone è ancora comodamente rannicchiata perché pensare costa fatica, paura di perdere i propri punti di riferimento, opposizione da parte della maggioranza silenziosa e adeguata. Soprattutto richiede un grande sforzo in prima persona, in un mondo in cui gli inviti a delegare e a trovare soggetti da incolpare al posto della propria passività sono infiniti. Direi che la rivoluzione da tanti invocata parte da qui, dal rinnovare se stessi, le proprie idee, le proprie azioni. Nulla di eclatante, magari non all’inizio: ogni aspetto dell’esistenza può essere occasione di riflessione privata e meglio ancora pubblica, di ogni nostro gesto dovremmo chiederci perché lo compiamo in un certo modo, non fosse che per giungere alla conclusione che non si può fare diversamente, ma che perlomeno si sono esplorate altre possibilità. Ecco perché la proposta simbolo degli Stati Generali del Lavoro è la creazione di un Centro Studi sulla Transizione e il Cambiamento che funga da propulsore dell’auto-programmazione degli individui e delle comunità: perché questa è la strada per affrontare positivamente la crisi, che forse è tanto vituperata proprio perché ci sta mostrando che non possiamo proseguire a essere più o meno consapevolmente complici del sistema che ci sta conducendo sull’orlo dello sfascio generale. E soprattutto perché, come dice il documento conclusivo del tavolo dedicato al tema, in caso contrario “la transizione avverrà comunque, ma con esiti tragici e con l’imposizione di enormi e diffuse sofferenze”.

A noi la scelta.

Fonte: il cambiamento