Marco Bozzolo: il custode dei castagneti, tra tradizione e innovazione

Si definisce orgogliosamente un “muntagnin”: un testardo. Consiglia a tutti di esserlo, nella vita e non solo nel lavoro. Vi raccontiamo la storia di Marco Bozzolo e della sua azienda agricola, la prima a praticare la trasformazione della Castagna Garessina, protagonista del recupero di una tradizione che, apparentemente perduta, oggi viene diffusa anche a scopo didattico e turistico.

Dolce e delicata. A detta di molti intenditori, la migliore castagna secca in assoluto. Si tratta della Castagna Garessina, frutto tipico di alcune valli del Piemontese come l’Alta Valle Tanaro, la Val Casotto e la Valle Mongia, il luogo da dove vi raccontiamo la storia di Marco Bozzolo e della sua azienda agricola. Marco è un ventottenne che, dopo un’esperienza di studio, è tornato ad occuparsi del castagneto familiare, recuperando una tradizione storica abbandonata e proiettandola in una dimensione presente e futura di filiera. L’azienda di Marco si trova precisamente a Viola, in provincia di Cuneo, e incontriamo il ragazzo durante i nostri viaggi alla scoperta del progetto RestartAlp.  L’azienda agricola si occupa della coltivazione, trasformazione e distribuzione di prodotti basati appunto sulla Castagna Garessina, che viene essiccata dall’azienda con il metodo tradizionale: quaranta giorni di “fuoco, fumo e magia” che avviene ancora oggi nell’essicatoio originale, una costruzione in pietra e legno dell’Ottocento, completamente ristrutturata nel 2018.

Il risultato sono creme, biscotti, torte, farine, miele, pasta secca, tutti prodotti rigorosamente a base di castagna. Si tratta della prima azienda che si occupa della trasformazione della Castagna Secca, altro nome con cui è nota la Castagna Garessina. L’azienda vende i propri prodotti tramite un proprio store online e attraverso molte botteghe specializzate in enogastronomia, basate soprattutto in città come Genova, Milano e Torino, con un’attenzione crescente anche al mercato estero.  Marco proviene da una famiglia che pratica la castanicoltura da secoli. Dopo una Laurea in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Genova ed un master di primo livello in Economia dell’Ambiente e dello Sviluppo presso l’Università degli Studi di Siena, non ha avuto nessun dubbio nella volontà di sviluppare l’azienda di famiglia. Lo ha fatto a partire dal 2016: “non erano affatto rose e fiori, o un percorso in discesa come può sembrare a primo impatto” ci racconta Marco “perché fino a quando l’azienda è stata gestita da mio nonno questa era l’attività principale di famiglia, quella che ci dava da vivere, per intenderci. Dagli anni Settanta in poi, nella Valle Mongia e anche nelle vallate qui accanto, c’è stato un graduale ma intenso processo di spopolamento, accompagnato da un quasi totale abbandono di molte tradizioni legate alla castagna. Dopo averle mangiate per secoli, le persone ne avevano quasi la nausea”.

Ma un montagnin è un montagnin e la sfida, fatta di testardaggine e passione, era ormai avviata: “ero e sono convinto che la montagna, soprattutto oggi, abbia tanto da offrire, se riusciamo a coniugare innovazione e tradizione”.
Per questo motivo Marco ha deciso di occuparsi della filiera in ogni suo aspetto: dalla conduzione e sviluppo dei castagneti fino alla trasformazione del prodotto. Con un particolare molto importante: “credo che uno dei grandi vantaggi della nostra generazione è aver capito l’importanza del fare rete. Da sempre, in questo territorio, ci sono tante eccellenze ma i diversi operatori non riuscivano mai a fare rete. Io penso che dove non riesco ad arrivare, ci arriva qualcun altro, ed insieme si vince davvero. Per questo tutte le nostre trasformazioni sono conto terzi, abbiamo fatto un accordo di filiera e ci appoggiamo ad un laboratorio della zona. Marciamo entrambi nella stessa direzione: quella della qualità del prodotto”.

L’audacia e il coraggio di Marco hanno beneficiato di una sponda importante: l’attenzione del papà nella cura del terreno. Se molti castagneti della zona sono stati abbandonati, quelli di famiglia hanno sempre ricevuto le cure della famiglia Bozzolo: “è vero che io ho trasformato l’azienda nella mia attività principale, ma nonostante lo facessero come hobby mio padre e mio zio non hanno mai smesso di prendersi cura di questi terreni”. L’attenzione al recupero e al mantenimento delle tradizioni, come antidoto all’abbandono dei territori, ha spinto dunque l’azienda agricola Marco Bozzolo ad ampliare i propri ambiti di azione anche verso la didattica e il turismo.

“I nostri terreni e le nostre strutture sono aperte a tutti i visitatori che vogliono scoprire l’affascinante mondo della Castagna Garessina” conclude Marco “e a tale scopo abbiamo predisposto un castagneto didattico, aperto a studenti, gruppi di turisti e curiosi. Stiamo inoltre cercando di attrezzare un’aula didattica, dove spiegare nel dettaglio il processo dell’essiccazione della castagna e coinvolgere anche i bambini: essendo stato un processo abbandonato per molti anni, necessita di essere divulgato per recuperare metodi e saperi. Collaboriamo con diversi tour operator e sono molti i turisti nordamericani ed nordeuropei che visitano l’azienda”.

Fonte: http://piemonte.checambia.org/storie/marco-bozzolo-custode-dei-castagneti-tra-tradizione-innovazione/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Calabria: il turismo è ospitalità e tradizioni

Conoscere la Calabria, da sempre terra di accoglienza e tradizioni, da cui trarre ispirazione per un modello di turismo da trasmettere ovunque. Torna dal 28 al 30 settembre a Nicotera, in provincia di Vibo Valentia, il Festival dell’Ospitalità, un evento dedicato alla promozione di nuovo modo di viaggiare e ospitare in maniera sostenibile. Il turismo fatto di tradizioni ed ospitalità, che affonda le sue radici profonde nella Calabria più antica, diventa un modello al quale ispirarsi. A raccontarlo è anche quest’anno il Festival dell’Ospitalità in una tre giorni con workshop formativi e tutor che forniranno indicazioni e strategie legate al marketing territoriale per ogni settore specifico. La IV edizione del Festival dell’Ospitalità si terrà a Nicotera, in provincia di Vibo Valentia, e coinvolgerà l’intero borgo. Professionisti e consulenti del settore e del mondo dell’ospitalità, appassionati di viaggio, esperti di digitale e della comunicazione, provenienti da tutta Italia tornano a confrontarsi, anche nel 2018, sul tema, sempre attuale, del turismo.calabria-festival-ospitalita

Organizzato da Evermind, Home for Creativity e Kiwi società cooperativa, con il patrocinio dell’ Agenzia nazionale del Turismo (Enit) e delTouring Club d’Italia, il Festival, che per il 2018 ha ricevuto il marchio Mibact per l’Anno Europeo del Patrimonio Culturale, “nasce dall’esigenza – spiegano gli organizzatori – di creare un momento di incontro, tra esperti del settore e chiunque sia interessato a conoscere la terra, la Calabria, da sempre fonte di accoglienza e ospitalità, da cui trarre ispirazione per un modello di turismo da trasmettere ovunque. Chiunque voglia partecipare alla creazione di un nuovo modo di viaggiare e di fare ospitalità in maniera sostenibile, e desideri contribuire per discutere e riflettere sui cambiamenti profondi delle nuove frontiere del turismo, rimettendo in discussione lo stesso significato di viaggio, territorio ed accoglienza, sarà a Nicotera dal 28 al 30 settembre”. Cambia, dunque, il Viaggiatore e nasce l’esigenza, anche per i territori e per chi vive di turismo, di soddisfare le sue numerose necessità che non sono più soltanto “mare, lettino, sole e spiaggia”, ma si chiamano esperienze di vita ed emozioni da portare a casa dentro l’album dei ricordi. Tutto questo non sempre si coniuga con il pacchetto “chiavi in mano” e passa anche attraverso strategie di Promozione del territorio. Per questo la Calabria, perché è piena di Esperienze innovative e di eccellenza dei singoli operatori territoriali che si aprono all’ospitalità con nuovi modi di fare Ricettività turistica.door-2730801_960_720

Il Festival vuole essere un’opportunità di incontro e confronto tra queste realtà, con lo scopo di facilitare la creazione di reti, nuove relazioni ed iniziative condivise.

Nicotera sarà interamente coinvolto. Per questo il Festival si propone come una realtà locale perché permette al borgo che lo ospita di partecipare attivamente all’organizzazione della tre giorni e di costruire la propria identità come destinazione di viaggio; regionale perché mira all’esaltazione del patrimonio umano e turistico calabrese, invitando buyer e influencer da tutto il mondo a conoscere le peculiarità calabresi e comunicarne la bellezza e il valore; nazionale perché è l’unico festival italiano dedicato all’ospitalità, ogni anno invita decine di operatori a offrire la propria testimonianza e il proprio mentoring in ambito turistico e attrae un pubblico sempre più vasto di operatori del settore provenienti da ogni parte d’Italia per partecipare a questo appuntamento imperdibile.

In più quest’anno ci saranno numerose sorprese legate proprio alle realtà d’eccellenza del territorio. Continua, inoltre, l’intreccio di successo che da anni ormai fonde il Festival dell’Ospitalità, Calabria Ispirata e gli Inspiring Tour. Esperienze che diventano tematiche centrali e narrazioni concrete nella tre giorni del Festival.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/07/calabria-turismo-ospitalita-tradizioni/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Giuseppe Li Rosi: in Sicilia i semi antichi per combattere l’agri-business

Sintetizzato dal chimico tedesco Fritz Haber negli anni venti, utilizzato nei campi di concentramento tedeschi per sterminare i prigionieri negli anni quaranta, impiegato in Vietnam per stanare i vietcong negli anni settanta, oggi l’acido cianidrico è nei nostri campi, sugli scaffali dei supermercati, sulle nostre tavole. È il paradosso dell’agri-industria, per la quale la velocità di trasformazione dei prodotti e la massimizzazione delle rese contano più di ogni cosa, anche della salute di chi quel cibo lo mangia.

Nello scenario molto più confortante e accogliente della calda Sicilia, culla della biodiversità italiana, incontriamo Giuseppe Li Rosi, agricoltore e custode del tesoro dell’agricoltura tradizionale: i semi. «Le multinazionali hanno capito che mettere le mani sui diritti dei semi è una mossa strategica – ci spiega Giuseppe – e attraverso tali diritti possono controllare economia, salute e possibilità di evoluzione di qualsiasi popolo». Mentre parla, alle sue spalle si muove placidamente un mare verde smeraldo: è il campo di germoplasma della Stazione Sperimentale di Granicoltura, dove viene conservata parte dei semi autoctoni siciliani a rischio di estinzione. «La Stazione – racconta – nasce nel 1927 e oggi si dedica alla conservazione di questi frumenti, che rappresentano una specie di banca dati alla quale attingere in caso di malattie dei nostri grani moderni, modificati attraverso una mutagenesi». Si tratta di un patrimonio importantissimo per continuare ad avere la capacità di produrre il cibo in Sicilia, ma ovunque è vitale conservare la biodiversità locale, frutto dell’esperienza millenaria della comunità rurale.terre_frumentarie

Per anni l’agribusiness ha manipolato le colture conformandole alle proprie esigenze. Questo ha trasformato due elementi basilari per la vita dell’uomo – il cibo e le medicine – nei suoi più grandi nemici. «Prendiamo il caso del glutine», spiega Giuseppe. « Il frumento è stato “modificato” per migliorare la pastificazione, per elevarne la temperatura di essiccazione e accorciare i tempi di produzione. Per fare questo, è stato aumentato l’indice di glutine, che misura la durezza o l’elasticità del glutine. La ricerca mira a creare frumenti con un indice di glutine alto, vicino al 100, ottimi per l’industria. I frumenti con basso indice di glutine sono classificati come scarsi. Ma un alimento con un indice di glutine ottimo il nostro intestino non lo riconosce e non lo digerisce». Giuseppe è legato da sempre alla campagna siciliana, dov’è nato e cresciuto e dove da anni porta avanti un percorso di reintroduzione delle sementi originarie. Una battaglia che non si limita all’ambito agricolo, ma sconfina in quello legale e culturale. «Ho cominciato a piantare poco a poco i semi antichi, fino a quando tutta la porzione dell’azienda coltivata a cereali, circa 100 ettari, è stata convertita con grani autoctoni siciliani. Questa scelta è stata fatta due anni fa. Quando ho cominciato a coltivare questi grani l’ho dovuto fare di nascosto, perché se li semini perdi i contributi europei, legati solo all’utilizzo di semi certificati, appartenenti a multinazionali o sementieri». Alle difficoltà burocratiche si è aggiunto lo scetticismo degli altri agricoltori, inizialmente ostili e oggi indifferenti agli sforzi di Giuseppe e della sua azienda, Terre Frumentarie. Anche la circolazione dei semi è rigidamente normata: «Per legge non si possono comprare i semi da un’altra azienda agricola. Ma tutti i semi venduti dall’industria sementiera sono nati con la mutagenesi indotta, contengono glutini che non vengono riconosciuti dal nostro intestino, hanno bisogno di nitrato d’ammonio sennò non producono niente. Oggi per fortuna alle aziende biologiche è permesso autoriprodursi il seme, però non si può comprarlo né venderlo. Dalla Stazione di Granicoltura si può prendere solo qualche piccola parcella di semi. In realtà, se venissero applicati alcuni articoli della legge sementiera italiana, potremmo scambiarci semi fra aziende, ma non succederà mai. C’è un trattato FAO sul traffico di semi che l’Italia ha recepito, senza però fare le legge applicativa. Nel resto d’Europa la situazione è molto simile. Il problema è che chi fa le leggi in campagna non c’è mai stato».raddusa

Dicevamo che è anche una battaglia culturale. «È così: hanno fatto perdere la dignità all’agricoltore e far scattare in lui la molla della rivalsa. Così ha cercato di far studiare i figli, di ingentilirsi, di ammodernarsi, di applicare le tecnologie. Per questo è stato facile convincerlo a utilizzare tecniche che facilitano la coltivazione. Tutta l’agricoltura è stata asservita all’industria: oggi è un atto illegale comprare semi da chi non è autorizzato a venderli. Bisogna poi comprare il fosfato, il nitrato, il diserbante e il fungicida. E quando si vende, la materia prima è destinata solo all’industria». Ciononostante, in questo periodo di forte crisi, Giuseppe è soddisfatto dell’andamento economico di Terre Frumentarie. La svolta è arrivata quando ha deciso di sottrarsi al giogo dell’agricoltura industriale: «Oggi le mie prospettive sono molto migliori rispetto a qualche anno fa, quando producevo frumento e lo vendevo alle aziende di trasformazione. Sono entrato in un indotto che si rifornisce con materie naturali, non geneticamente modificate. Oggi chi acquista cibo è più consapevole, più attento alla qualità, più esigente. Per questo il mercato del biologico è in grande crescita». Terre e Tradizioni è il secondo marchio che Giuseppe ha creato, che si occupa della trasformazione e della vendita dei prodotti dell’azienda agricola.

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Ci sono sempre più persone che si fanno delle domande, c’è più movimento, se ne parla di più sui mass media. Cominciamo ad avere voce in capitolo. Il mercato più fertile per il biologico rimane quello del nord Italia, ma anche la Sicilia comincia a svegliarsi: aumentano i negozi bio, i mercatini, i punti di vendita diretta. «La Sicilia ha un patrimonio genetico più grande di tutte le altre regioni messe insieme», conclude Giuseppe. La missione dunque è tutelarlo e farlo prosperare, affinché diventi parte integrante dell’economia e della cultura dell’Isola.

Fonte: italiachecambia.org/

La cultura popolare in rete

Da sette anni sono all’opera per riscoprire, valorizzare e condividere le antiche culture popolari, i riti, le tradizioni, le feste che per secoli hanno scandito il tempo e i ritmi delle popolazioni nei rispettivi territori. Ora hanno partecipato al bando nazionale “Che fare” con il progetto OR@LE, un archivio accessibile e gratuito che raccoglie la storia dei territori. E’ la Rete Italiana di Cultura Popolare.rete_italiana_di_cultura_popolare

Sono partiti in piccolo, riunendo esponenti di due province italiane, ma già pensavano in grande e nel giro di poco, nel 2004, erano già un “comitato” di province, che portava in dote patrimoni di tradizioni, usi, costumi e rituali. Poi nel 2007 il comitato è stato riconosciuto Rete italiana di Cultura Popolare dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ora ha partecipato al bando nazionale “Che fare” per il progetto OR@LE,  un archivio accessibile a tutti e gratuito che raccoglie la storia dei territori italiani in formato testo, audio, foto e video, progetto al quale tutti possono contribuire. Della realtà della Rete ci parla il direttore Antonio Damasco.

La vostra rete è riuscita a mobilitare diverse realtà; qual è il bilancio dell’esperienza portata avanti finora?
«Negli ultimi tre anni, il progetto della Rete è stato riconosciuto anche all’estero, permettendoci di costruire rapporti di collaborazione con più di dodici paesi dell’area euro-mediterranea e sviluppando il progetto “Arianna. Euro Mediterranean Network of Culture and Heritage”. Oggi la Rete, formata da antropologi, linguisti, storici, ma anche da enti pubblici e privati ed in collaborazione con istituzioni culturali ed il mondo del volontariato e del terzo settore è presente in molte aree del territorio italiano».

Quali restano gli obiettivi da raggiungere e quali invece ritenete raggiunti? O è meglio parlare di obiettivi costantemente in movimento?  «La Rete ha come obiettivo sostanziale quello di mettere a sistema le riconosciute diversità che caratterizzano le attività socio-culturali dei territori. Le motivazioni sono connesse alla volontà di far emergere, promuovere e riproporre i saperi radicati nei territori, interessandoci alla loro capacità di essere luoghi di socialità, in cui è possibile la trasmissione dei saperi. Gli obiettivi principali che continuiamo a perseguire sono:
–        far emergere e promuovere le culture radicate nei territori italiani euro-mediterranei, inserite in un continuo dialogo affinché il sentimento positivo dell’appartenenza alla cultura locale non si trasformi in un pericoloso localismo;
–        creare le condizioni affinché tali culture, inserite in un sistema di rete, costituiscano una risorsa per lo sviluppo sostenibile e per la promozione delle risorse locali;
–        contribuire a creare una cornice identitaria nazionale che raccolga e valorizzi la pluralità delle culture locali italiane;
–        coinvolgere le nuove generazioni, favorendo il passaggio dei saperi e sviluppando iniziative per mezzo di strumenti contemporanei e innovativi;
–        sviluppare i presupposti affinché le comunità locali riconoscano, attraverso questi scambi, le proprie culture come necessarie ed avvenga una riappropriazione delle stesse da parte delle nuove generazioni in chiave innovativa e contemporanea».

Cultura e tradizione possono essere valori in grado di aiutare ad uscire da questa crisi strutturale anche di valori?
«La cultura antica e le tradizioni prodotte dai territori e dalle comunità di riferimento sono senza dubbio valori da riscoprire e condividere. La nostra indagine parte da un percorso storico per approdare spesso alle nuove idee di socialità, debitrici di elementi solo apparentemente scomparsi o meglio assopiti, ma che ad una analisi più attenta sembrano semplicemente trasformati. Per il gruppo che ha iniziato questa avventura, che era radicato nel Torinese, tutto è iniziato perché volevamo incontrare la tradizione. In una sorta di ricerca emozionale, dove l’ambiguità del presente di noi immigrati di seconda generazione o sradicati dalle campagne autoctone e inseriti in una città multiculturale, si scontrava con una discordante radice linguistica e carnale. Cercavamo di appartenere alla città di Torino dove eravamo  cresciuti e ci eravamo formati. Con gli anni ho imparato dall’antropologia che il nostro sentimento era ed è comune a quello di molte altre migrazioni, dove i padri rifiutano la propria memoria mentre i figli ri-leggono quella dei nonni, così come ora sta accadendo ai nuovi migranti provenienti da Perù, India, Romania e tanti altri paesi. Questo è stato l’avvio: incrociando alcuni di questi maestri inconsapevoli avevamo la possibilità di conoscere una “cultura altra”, assente dai programmi scolastici. In un luogo dove i saperi si erano sedimentati, re-inventati, sovrapposti a quelli di molti altri e si erano trasferiti da una generazione all’altra, da padre in figlio e da madre in figlia, oralmente, attraverso l’esercizio della comunità, della condivisione delle esperienze: voce, corpo e azione. Non era un atto artificiale, ma necessario. Non vogliamo mitizzare un mondo, non parliamo di un passato arcadico. Vogliamo però provare a vincere almeno la battaglia delle diversità culturali, far sapere alle generazioni future che la bellezza è reperibile ovunque, che non vi sono luoghi deputati e che non bisogna possedere degli oggetti per poterne godere. Quello che cerchiamo è la festa, il rito, quello necessario, dove una comunità di uomini ha bisogno di riconoscere i suoi simili, anche nel momento più infelice, più doloroso. Ricordo che un amico, docente di antropologia a Roma, mi raccontò un episodio di “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Non credo vi sia situazione peggiore di quella descritta dall’autore sopravvissuto alla Shoah, ove la dimensione “uomo” perdeva qualsiasi connotazione, anche fisica, per essere ridotto ad un cumulo di carne ed ossa, senza più sentimenti ed emozioni, permettendo così ad altri uomini di sentirsene possessori e quindi in grado di sostituirsi alla morte. Il docente mi raccontò che, durante una ricerca per un libro sulle feste, trovò, quasi inaspettati, barlumi di spirito festivo, poche parole appunto, dentro questo magnifico e orribile racconto. Come i Greci di Salonicco,  che “stanno stretti in cerchio, spalla a spalla, e cantano una delle loro interminabili cantilene”. E che dicendosi, “l’anno prossimo a casa” “continuano a cantare, e battono i piedi in cadenza, e si ubriacano di canzoni”. Basterebbe questo frammento a spiegare il ruolo della cultura in una società dove gli uomini vogliono, devono, convivere e perché la politica non può da essa prescindere, se riconosciuto compito della politica è leggere e costruire i complessi rapporti del vivere comune. Tanto più, se questa cultura non crea elite, non si divide in alta e bassa».

Ritenete che questo sia il momento giusto per sensibilizzare la popolazione alla diversità di culture e provenienze? Non notate una recrudescenza di intolleranza? «I riti portano con sé semi ed elementi che accomunano paesi e civiltà di tutto il mondo. Basti pensare alla tradizione della Poesia a Braccio. Abruzzo, Lazio e Toscana sono le terre in cui è nato il canto a braccio in endecasillabo e dove continua a essere praticato. Anche nella Sardegna del nord i poeti cantano utilizzando l’ottava rima, mentre nel sud dell’isola la metrica è differente. Inoltre, durante le gare, si va oltre al confronto di tesi differenti: l’esercizio consiste nel riconoscere un contenuto segreto all’interno dei versi. La bravura, e la competizione, sta nello scoprire questo elemento nascosto tra le rime dell’intervento della squadra avversaria. Ma il canto a braccio è presente anche al di fuori dell’Italia. Per quel che riguarda l’estero abbiamo testimonianze significative nell’area ispanica, Baleari e Paesi Baschi in primis. Ma questa poesia è molto diffusa anche nell’America centrale, sebbene i versi 10 anziché 8, e non sempre siano endecasillabi. Meno conosciuto, ma altrettanto importante, è il canto a braccio nel mondo arabo: Palestina, Libano, Nord Africa. Potremmo declinare altri numerosi esempi simili, connessi alle ritualità del fuoco, alle processioni devozionali, alle maschere zoomorfe e tanto altro. I riti e le feste sono l’espressione lampante che l’umanità è del tutto interconnessa».

Fonte: http://www.ilcambiamento.it

In bicicletta attraverso l’Asia per raccontare tradizioni e conflitti

In bicicletta partendo dalla foce del Danubio e attraversando l’Asia alla caccia di immagini, suoni e parole: è l’impresa cui si accingono Daniele Giannotta ed Elena Stefanin. Al loro progetto hanno dato anche un nome, Cycloscope, «per raccontare contraddizioni e conflitti, tradizioni ed evoluzioni culturali, meraviglie naturali e disastri ambientali nelle ex repubbliche dell’Unione Sovietica».viaggio_asia

Elena Stefanin e Daniele Giannotta sono una coppia di trentenni; il loro progetto si chiama Cycloscope e  nasce dall’idea di un “ciclo di cicli” «perchè sia solo il primo di una lunga serie». Si tratta di un viaggio in bicicletta dalla foce del Danubio attraverso l’Asia Centrale alla ricerca di immagini, suoni e parole: una serie di reportage che racconti contraddizioni e conflitti, tradizioni ed evoluzioni culturali, meraviglie naturali e rischi ambientali delle ex Repubbliche Sovietiche. «Ognuno dei dieci reportage che gireremo tratterà di un tema specifico, legato al territorio che attraverseremo – dicono – Il viaggio partirà dalla Romania, dove il 10% della popolazione è composta da cittadini rom. Rom e Sinti sono la più numerosa minoranza europea, tra i 10 e i 12 milioni di persone. Non hanno uno stato, non ne hanno mai voluto uno. La loro storia, o meglio la loro diaspora, ha avuto origine in India intorno all’anno 1000: è stata ed è ancora un continuo susseguirsi di rifiuto e persecuzioni. Una volta arrivati in Europa ha avuto inizio una lunga serie di violenze legalizzate (in tutti i paesi europei, nessuno escluso): venivano marchiati a fuoco, impiccati, “uccidere uno zingaro” non implicava nessuna sanzione ed anzi, si veniva incoraggiati a farlo. Fino ad arrivare al Porrajmos, il “divoramento”, il genocidio compiuto nei campi di concentramento della seconda guerra mondiale che si concluse con lo sterminio di un numero imprecisato di Rom e Sinti, dai 500.000 a un milione e mezzo.  In Romania i Rom continuano a vivere ai margini della società. Siamo curiosi anche di incontrare  i rom di Buzescu, un piccolo paesino di 4.500 abitanti nella regione della Valacchia, 100 chilometri ad est di Bucarest. Qui vivono quasi solo Rom ricchi (quindi in realtà non molti), Buzescu viene descritto un po’ da tutti come il regno del kitsch anche se in realtà le case sì, sono kitsch, ma mettono allegria». «Per quanto riguarda le tematiche ambientali ci occuperemo dell’evaporazione del Lago Aral, una delle più grandi tragedie ambientali del pianeta, ma della quale la maggior parte delle persone è all’oscuro. Il lago Aral è stato, da tempo immemorabile e fino a pochi anni addietro, il quarto lago del mondo per superficie, adesso è quasi uno stagno. Negli anni ’40 il governo sovietico decise di deviare i suoi principali affluenti, l’Amu Darya e il Syr Darya allo scopo di irrigare la circostante regione desertica nel tentativo di incrementare la coltivazione di riso, cereali e cotone. Il lago Aral cominciò ad evaporare negli anni ’60 perdendo una media di 50 cm di acqua all’anno. Questo imprudente esperimento ha generato negli anni inaspettati cambiamenti climatici, gravi problemi per la salute della popolazione e devastato la robusta economia della regione, basata sulla pesca. Nel 2007 la portata del lago fu quantificata come ridotta del 90% rispetto a quella originale. Visiteremo questa regione durante il nostro viaggio, cercando di dare il nostro piccolo contributo alla visibilità di questa tragedia». Elena e Daniele non si fermeranno qui. «In Kazakhstan andremo anche alla ricerca di ciò che rimane della secolare cultura nomade, ormai quasi estinta. Sotto il governo di Stalin, tra il 1928 ed il 1931, i nomadi kazaki, che costituivano la maggior parte della popolazione, sono stati costretti a diventare coltivatori. Questi tentativi ebbero il solo effetto di far morire di fame il bestiame e di far scappare i nomadi. La carestia si generalizzò nell’autunno 1931, facendo iniziare le fughe di massa della popolazione verso altre regioni dell’URSS e verso la Cina. In due anni, tra 1931 e 1933, la popolazione del Kazakhstan era diminuita di più di 2 milioni di persone (su una popolazione totale di 6,5 milioni). Oggi, circa l’1% della popolazione del Kazakhstan conduce ancora uno stile di vita nomade. Indagare e comprendere le antiche tradizioni nomadi e le loro evoluzioni sarà l’obiettivo del nostro reportage».
«In Georgia andremo a conoscere una particolare tecnica tradizionale di viticoltura. Nel 2006 il governo russo ha posto l’embargo sull’importazione dei vini georgiani e moldavi. Il mercato russo rappresentava circa l’85% dell’esportazione vinicola. L’embargo russo, che dietro futili motivazioni igieniche cela in realtà ragioni politiche, ha messo in ginocchio la produzione del più antico vino del mondo. Da qualche anno, anche grazie al presidio di Slow Food e al lavoro di diversi enti locali, si punta di nuovo sui metodi tradizionali di vinificazione, a rischio di estinzione. Principale caratteristica di questi metodi è l’utilizzo di vasi interrati in terracotta (Qvevri) nei quali viene fatta fermentare tutta la vinaccia insieme al mosto. La macerazione può arrivare fino a sei mesi. I vini georgiani così prodotti risultano tutti diversi poiché racchiudono le caratteristiche del luogo in cui sono stati prodotti. Oltre al vino, cercheremo di approfondire un altro tema dal forte impatto ambientale, la produzione di energia idroelettrica. In particolare della centrale idroelettrica Khudoni : il progetto prevede la costruzione di una diga ad arco in cemento dell’altezza di circa 200 metri, situata circa 34 km a monte della diga Enguri, nei piani la Khudoni HPP avrà una capacità di 700 MW, con una produzione di 1,7 miliardi di kw, sarà inoltre completata da una serie di altre centrali idroelettriche a monte, anch’esse sul fiume Enguri. Secondo i calcoli del governo, la costruzione della Khudoni HPP incrementerebbe del 20% la produzione elettrica del paese, per un costo di 1,2 miliardi di dollari ed una durata dei lavori di 5-6anni. Sembra un progetto impressionante che potrebbe produrre letteralmente tonnellate di energia pulita, ma è questa energia davvero pulita? Qual è il prezzo e chi lo pagherà? Il progetto Khudoni non è una idea nuova. Fu bloccato dalle ong nei primi anni 1990, tra questi un ruolo importante è stato giocato da Green Alternative. Secondo questa associazione il progetto Khudoni è un’opera ad alto rischio di disastro ecologico, intensifica la devastazione di foreste e di habitat della fauna selvatica, la perdita di popolazioni di specie fluviali e il degrado dei bacini imbriferi a monte, a causa della inondazione della zona serbatoio in una delle regioni montuose più straordinarie della Georgia. La parte superiore del bacino del fiume Enguri combina foreste sub-alpine e praterie, ambienti rocciosi e tundra alpina. La zona è ben conosciuta per la sua fauna endemica. Questa include diverse specie forestali di uccelli, una comunità di grandi rapaci e uccelli. Stambecchi, camosci, orsi bruni, lupi, linci, caprioli e cinghiali sono abbastanza comuni. L’impatto cumulativo delle centrali Khudoni, Enguri e Tobari avrà effetti negativi sulla qualità delle acque, sulle esondazioni naturali e sulla composizione della fauna fluviale. Se questo non fosse ancora abbastanza, il progetto “richiede il reinsediamento di un certo numero di villaggi unici (tra cui Khaishi), il sito di Khudoni si trova a Zemo Svaneti (Alta Svanezia), una zona di bellezza unica. Preservata dal suo lungo isolamento, la regione caucasica dell’Alta Svanezia è un eccezionale esempio di paesaggio montano, constellato da decine di villaggi medievali e case-torri. Il villaggio di Khaishi comprende ancora più di 200 delle proprie rinomate ed inusuali costruzioni, utilizzate nella storia sia come abitazioni, che come postazioni di difesa contro gli invasori che hanno afflitto la regione in epoca medievale e precedenti. La regione Zemo Svaneti è entrata a far parte del patrimonio mondiale dell’UNESCO nel 1996. Il numero di villaggi da inondare sarebbe 14, patrie di 769 persone, 524 ettari di terreno, mentre in uno studio preliminare banca  mondiale le persone da “ricollocare” sarebbero più di 1600. Il processo di reinsediamento è legato ad un altro problema, la controversia sulla proprietà della terra. Secondo la burocrazia georgiana la maggior parte di queste terre non appartengono ufficialmente a nessuno, il governo ne ha quindi disposto il trasferimento agli investitori per la cifra simbolica di 1 USD. Si tratta di più di 1500 ettari di terreno, tra cui terreni agricoli, boschi, strade, infrastrutture, eccetera. Secondo Tabula, dopo aver raggiunto un accordo con il governo della Georgia, Trans Electrica ha deciso di restituire queste terre alla popolazione, aiuterà la gente del posto a registrarle, a spese della società stessa, e solo allora inizierà con l’acquisizione dei terreni. A tal fine, la società ha assunto una società canadese , RePlan. Ad oggi tutto questo è ancora unicamente un proclama». Elena e Daniele chiedono però l’aiuto di chi, come loro, vuole saperne di più. «La realizzazione di questo progetto non è semplice, richiede molto lavoro di documentazione e anche risorse economiche. Per ora abbiamo trovato due sponsor, Extrawheel, che ci fornirà i rimorchi per le biciclette, e l’officina di riparazione bici Pedalando, che si occuperà di preparare le biciclette per il viaggio. Per chiunque volesse contribuire alla nostra avventura c’è la nostra pagina di crowdfunding».

Fonte: il cambiamento

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