Depositi chimici vicino alle case: Genova si mobilita contro un altro stupro del territorio

Una serata rovente in una sala gremita con un unico obiettivo: dire NO ai depositi chimici a pochi metri dalle case dei genovesi. La situazione è stata analizzata da comitati, associazioni, insegnanti, avvocati, portuali, privati cittadini e sindacati. Ecco cosa è accaduto e come ha risposto il sindaco Bucci.

Genova – I depositi costieri di materiali chimici genovesi potrebbero essere spostati da Multedo, dove si trovano attualmente, a uno dei quartieri più popolosi di Genova, per di più a pochi metri dalle abitazioni. Secondo il progetto del Comune, a Ponte Somalia verrebbero collocati 77.000 metri quadrati di nuovi depositi chimici: un nuovo maxi-polo nel Municipio Centro Ovest, poco distante dal simbolo di Genova, la Lanterna. Da giorni a Sampierdarena si respira un’aria tesa: buona parte della popolazione si dichiara molto preoccupata dall’ufficializzazione del primo atto del trasferimento dei depositi, notizia appresa dai giornali locali anziché da un incontro pubblico sul territorio.

Nei mesi scorsi Uniti per Genova ha lanciato una petizione che portava alla luce la questione: “I depositi chimici creano gravi pericoli per la salute delle persone – riporta il testo –, impattando sull’ecosistema della nostra città. Negli ultimi quarant’anni a Multedo si sono verificati gravissimi incidenti con morti e feriti, oltre a enormi danni ambientali causati da incendi, esplosioni e sversamenti, come accaduto negli anni 1977, 1987, 2014 e 2016″.

“Una eventuale esplosione dei depositi – continua l’appello lanciato dal comitato–, oltre alle emissioni nocive, avrebbe effetti devastanti sulla città in un ampio raggio dalla Lanternacon il rischio di reazioni a catena. Per questo spostarli vicino alle case non è una soluzione praticabile”.

Perché allora spostare il problema, anziché risolverlo? Proprio a partire da questa sensazione di impotenza comitati di cittadini, associazioni e tanti residenti hanno fatto sentire la propria voce ieri sera nell’assemblea pubblica convocata dal Muncipio II Centro Ovest.

LA QUESTIONE

Tra i principali ostacoli che al momento impedirebbero lo spostamento dei depositi chimici a ponte Somalia c’è ancora l’ordinanza 32 del 2001 della Capitaneria di porto. Secondo l’atto impeditivo, in porto “non è consentito l’ormeggio di navi cisterne per la movimentazione di prodotti petroliferi e petrolchimici”.

Oltre alla pericolosità dei materiali che verrebbero stoccati al porto, i residenti temono soprattutto che il sindaco di Genova, Marco Bucci, stia nutrendo convinzioni non aderenti alla realtà. Sui giornali si leggono alcune dichiarazioni atte a rassicurare i cittadini: “Tutto verrà fatto nella massima sicurezza, non deve esserci la minima preoccupazione”.

Il sindaco aggiunge: “Facciamo una cosa importante per la città, non ci sono rischi: dobbiamo far progredire la città e tutti i genovesi dovrebbero essere contenti di ciò che facciamo. Non ci saranno, poi, né problemi per la vista perché i depositi non si vedrebbero dalle case, né per la salute”, ha dichiarato su varie testate locali”.

Dalle abitazioni di chi vive in Lungomare Canepa per, questa è la vista (vedi foto sotto): la grande gru blu individua l’inizio del molo, mentre i pilastri del capannone poco più indietro si collocano a metà dello stesso molo. La prossimità di balconi e parapetti domestici rispetto all’area portuale quindi è evidente.

Vista da un balcone in Lungomare Canepa

LE SENSAZIONI E LE TESTIMONIANZE

Proprio per questo all’assemblea pubblica di ieri sera al Centro Civico Buranello hanno partecipato tantissimi genovesi arrabbiati – oltre duecentoventi e parecchi sono rimasti fuori – provenienti da tutti i quartieri, non solo residenti nel centro ovest, desiderosi di dire la propria: «Non è questo che voglio per i miei figli e nipoti. Il sindaco un giorno ha detto: “Io sono felice se i miei cittadini sono felici”. Lo chiedo a voi adesso allora: dopo questa notizia siete felici?», ha riferito qualcuno.

«Il litorale di ponente è già saturo: non vogliamo altri stupri sul nostro territorio», ha affermato una cittadina. «I genovesi si rendono conto del pericolo per tutta la città e di quanto sia veramente deleteria questa delocalizzazione? Una vera bomba a orologeria, che qualora avvenisse un’esplosione – cosa non improbabile e non augurabile – farebbe saltare in aria mezza città», ha ribadito una residente.

«L’unica soluzione è quella di spostarli da Multedo a sedi lontane dagli agglomerati urbani, per evitare danni alle persone e alla città!». E ancora: «Quando si parla di futuro sostenibile, mi chiedo: “Questo futuro quando arriverà?”». «Siamo tutti stufi, ma non siamo pochi: la prossima volta saremo cinque volte di più e scenderemo per le strade per farci sentire».

Proprio il presidente del Municipio II Centro Ovest, Michele Colnaghi, ha convocato l’assemblea pubblica, sottolineando: «Siamo una comunità molto mite, ma siamo tutti ormai esasperati da queste servitù. I materiali chimici passeranno sotto l’ospedale, a pochi metri dalle scuole dei nostri figli, accanto alle case. Il nostro maggiore timore è la sicurezza: i carichi attraverseranno le vie e l’interno del centro abitato e stiamo parlando di tonnellate di materiali pericolosi che sfioreranno le abitazioni».

«Nel 2020 a Beirut c’è stato un incidente molto grave – ricorda Colnaghi – a seguito di un’esplosione di sostanze chimiche in porto. L’onda d’urto ha raso al suolo la città sino dieci chilometri di distanza, con almeno trenta morti e migliaia di feriti. Noi non vogliamo che tutto questo accada a Sampierdarena».

Uno scatto dell’assemblea pubblica

In prima linea sulla questione il Comitato Lungomare Canepa: «Il problema ci riguarda tuttiVia Sampierdarena e il municipio si trovano a neanche 300 metri di distanza dal sito individuato. Questa sarebbe la “giusta soluzione”?! Ottant’anni fa Sampierdarena ha subito uno schiaffo, abbiamo ancora persone che si ricordano la spiaggia che avevamo e questo quartiere non sarà ancora una volta una vittima. Bucci ci dia un segnale di essere il sindaco anche di Sampierdarena, non solo del resto della città».

Daniele Benigno, dell’associazione La Strada dell’Arte, dichiara: «Tutti vogliono la bellezza, per questo noi pretendiamo alle istituzioni più verde e il restauro dei palazzi storici. Qui ci vuole un grande progetto di risanamento, per far riemergere la bellezza straordinaria di questo quartiere. Si può anche solo pensare di mettere una bomba davanti alle case? Sampierdarena è il cuore di Genova, che ospita, tra i tanti tesori, anche il simbolo della città, la Lanterna. Dobbiamo essere uniti, perché i popoli divisi subiscono soprusi indicibili».

Un cittadino infine ha ribadito: «Di solito il degrado regna dove le istituzioni latitano. Quello che emerge chiaramente da questa serata è che qui dovreste investire come state facendo in altri quartieri con un intervento continuativo ed efficace su questo territorio».

LA RISPOSTA DEL SINDACO

Dopo i numerosi interventi, in cui sono emersi chiaramente la delusione, lo sconcerto e la sensazione di angoscia sul futuro, il primo cittadino Marco Bucci, è intervenuto cercando di rassicurare i presenti in sala: «La salute e la sicurezza sono le più protette in questa nuova dislocazione. Ci sono ben tre enti che garantiranno che i lavori verranno fatti a modo, quindi non c’è alcun rischio per la popolazione. In merito ai transiti invece faccio presente che tutte le merci pericolose transiteranno per via sommergibile, mentre la parte di carichi prevista su gomma, passerà all’interno della nuova sopraelevata portuale».

«Dentro il porto c’è una nuova costruzione che porterà direttamente all’attacco dello svincolo di Genova-aeroporto», ha aggiunto il sindaco. «Infine, anche la valutazione dell’impatto ambientale sul territorio è risultata negativa. Sono d’accordo con voi: Sampierdarena merita di ritornare a essere quella di prima».

«La città è fatta di tante persone – ha concluso – e io devo occuparmi di tutti. Ci sono delle evidenze secondo cui collocare qui i depositi chimici non darà problemi alla salute dei cittadini, come emerso chiaramente dai documenti redatti dai tecnici. Non ci saranno pericoli, né di trasporto, né di salute, né di sicurezza. Per questo, come sindaco mi sono sentito in dovere di prendere questa decisione. Chi non li vuole qui può suggerire qualche altro posto?».

LE PROSSIME MOSSE

«Pare chiaro che il Comune abbia già deciso, ora sta a noi ora impedire questa follia», ha dichiarato infine il presidente del Municipio, che ha cercato, nonostante l’atmosfera tesa e i toni molto accesi, di riportare la discussione su modi civili e più pacifici possibili.

A partire da oggi verranno quindi intraprese due strategie parallele: la prima dal punto di vista legale, analizzando documenti e redigendo una approfondita documentazione da presentare al TAR, e la seconda dal punto di vista comunitario, organizzando una grande manifestazione civica che coinvolgerà la cittadinanza e andrà a condizionare la città per far sì che tutti possano rendersi conto di ciò che sta per succedere su questo territorio.

A fine assemblea, conclusasi informalmente, Mariano Passeri, consigliere LeU del Municipio, ha affermato: «L’incontro di stasera è stata una vittoria sia per il numero dei presenti che per la sentita partecipazione, ci sono stati interventi di spessore. In merito alla questione depositi, se stiamo andando verso il tanto acclamato futuro, prendendo ispirazione dall’agenda 2030 e dal PNRR, non si può ancora parlare di depositi chimici nelle città. Se le aziende non si adeguano al cambiamento, non dev’essere Genova a perire sotto questa situazione anacronistica: è il momento di cambiare».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/depositi-chimici-genova/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Ecco i costi ambientali ed economici degli incendi. Le soluzioni? Ci sono, basta volerle applicare

È un’analisi agrodolce quella che tira le somme dei danni provocati dai roghi dell’estate 2021. Da un lato abbiamo milioni di euro spesi non sempre avvedutamente e politiche regionali spesso inspiegabilmente carenti nei confronti della prevenzione. Dall’altro ci sono tecnologie all’avanguardia che hanno già dimostrato la loro efficacia e una rete di cittadini e associazioni sempre più attiva nel chiedere che l’emergenza incendi venga affrontata finalmente in maniera seria e definitiva.

80.000.000 di euro è il costo del servizio aereo per i tre mesi estivi. La flotta Canadair dello stato, pilotata dalla società Babcock, ha effettuato 5547 ore di volo dal 15 giugno al 22 settembre e 1048 ore di volo con gli elicotteri dei Vigili del Fuoco, per un costo di oltre 59 milioni di euro comprensivi della quota fissa dell’appalto. Le regioni interessate dagli incendi questa estate sono state Sicilia, Sardegna, Calabria, Puglia, Basilicata, Campania, Molise, Abruzzo, Toscana e Liguria. Oltre 50.000 roghi hanno richiesto l’aiuto di forze francesi. Rispetto al 2020 si è registrato un aumento del 256% in tema di incendi. La Sicilia detiene il record: nel 2021 sono andati a fuoco 78.000 ettari. Seguono la Sardegna con oltre 20.000 – tra aree verdi e uliveti millenari – e la Calabria con oltre 11.000 ettari e 5 morti. Senza contare le migliaia di animali morti, l’impatto devastante sul territorio provocato dai fuochi e la spesa economica richiesta per fronteggiare questo disastro.

A leggere questi dati, peraltro incompleti, lo sconforto prende il sopravvento. Un’emergenza che vale non solo per l’Italia, ma anche per altri paesi dell’Europa e del mondo. Eppure esiste una rete attiva di cittadini e associazioni che si batte quotidianamente per evitare che gli incendi proliferino nel nostro territorio. Sono anche disponibili tecnologie capaci di rilevare un principio d’incendio entro 100 secondi e, grazie a un sistema di geolocalizzazione, avvertire immediatamente le sale operative. In Italia succede però che una regione come il Lazio decide di avvalersi di sistemi del genere e un’altra come la Sardegna, nonostante abbia installato dei dispositivi simili già nel 1985, decide di smantellarliLa tecnologia è un valido aiuto se è al servizio dell’uomo e se viene adattata alle singole aree e agli operatori, altrimenti può risultare poco efficace e dannosa. Claudio Becchetti – responsabile del progetto SES5G, Secure Environment supervisor empowered by Satellite and 5G technology, co-finanziato da Leonardo in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana e ASI e da vari partner come EPG e Giorgio Pelosio, esperto in sistemi per la prevenzione degli incendi boschivi da più di 35 anni – in occasione dell’evento “La prevenzione degli incendi boschivi”, svoltosi lo scorso 16 ottobre in Sardegna, ha raccontato degli esiti più che vantaggiosi attuati all’interno del parco di Castel Fusano, vicino Roma, sotto il profilo dell’ordine pubblico, degli incendi e della protezione dell’ambiente attraverso tecnologie innovative, come satelliti e droni.

«Questa estate a Castel Fusano veniva innescato un incendio quasi ogni giorno. All’interno della pineta vi sono centinaia di piccole radure, luoghi perfetti per lasciare rifiuti e appiccare fuochi. Sono tanti i pini secchi, negli anni è andato distrutto circa il 30% della pineta. Quest’anno si sono ridotti parecchio gli incendi, anche perché era stato annunciato l’uso di questi dispositivi di sorveglianza e controllo del territorio attraverso anche telecamere nei punti di accesso alla pineta».

«Non ha bruciato nulla e gli interventi effettuati hanno utilizzato solo mezzi di terra. Questo tipo di tecnologia rileva un principio di incendio entro 100 secondi. Se si interviene subito non servono elicotteri e mezzi aerei. Tutti gli strumenti sono geolocalizzati e consentono di avvisare immediatamente le sale operative e i vigili del fuoco. Gli incendi sono visibili anche a 15 chilometri di distanza».

Il sistema si avvale anche dell’esperienza di Leonardo, che sviluppa tecnologie per incendi da un centinaio di anni: ha cominciato con gli elicotteri nel 1907, poi i droni, fino ad arrivare ai satelliti nel 1985. Dallo spazio viene in aiuto una serie di satelliti come Prisma, con un sensore tra i più evoluti a livello mondiale che indica qual è il livello di acqua sul territorio, dove sono le biomasse e quale vegetazione ha più difficoltà, calcolando così l’indice di rischio.

Si gioca tutto sulla tempestività: più minuti trascorrono dall’inizio del fuoco, più ingenti e gravi saranno i danni. Eppure in Sardegna – ad Arzana per l’esattezza –, dove una sperimentazione simile è partita più di vent’anni fa, si sta pensando di smantellare tutti gli impianti esistenti. Già nel 1999 c’era stata una forte opposizione da parte del Corpo Forestale Regionale che aveva portato allo spegnimento degli impianti nel 2000. Dal 2003 al 2005 9 impianti su 25 furono riaccesi per volere della Corte dei Conti e dell’Assessore all’Ambiente dell’epoca. Da allora sono completamente inutilizzati. Si tratta di 55 impianti totali e 15 centri operativi. Sono andati “in fumo” oltre 9 milioni di euro con lo smontaggio di tralicci, basamenti e sistemi di alimentazione. La rete coprirebbe un territorio di oltre 1.800.000 ettari con tre stazioni e una sala operativa, per un costo totale di 25 milioni di euro, che equivale al danno registrato la scorsa estate in Sardegna a seguito degli incendi.

«Ci siamo bruciati tutto questo in una sola estate. La tecnologia c’è e funziona, Roma è un esempio. In Sardegna siamo in una fase di pre-smantellamento, il costo per riattivare sarebbe stato di 2 o 3 milioni di euro e ci sarebbero voluti un paio di anni. Smantellando tutto ci vorranno 10 anni per ricostruire e minimo 40 milioni di euro per rifare tutto. Speriamo che qualcuno si possa rifare in seguito al decreto legge 120 dell’8 settembre scorso, che attribuisce a questo tipo di tecnologia una valenza importante per la prevenzione dei boschi», dice Giorgio Pelosio, direttore tecnico della EPG. Gli esempi virtuosi e la voglia di molti cittadini di contrastare fortemente gli incendi sono più vivi che mai. Abbiamo anche intervistato alcuni di lorosingole persone e reti che si adoperano per condividere le buona pratiche, denunciare ciò che non funziona e colmare le mancanze della macchina istituzionale. In Sicilia, ad esempio, è stato proposto anche un pool investigativo sul tema degli incendi. Al livello nazionale è appena nata la Rete Nazionale Basta Incendi, che raggruppa diversi organismi nazionali e regionali e si pone come obiettivo l’analisi degli incendi, lo studio del ripristino ambientale, la prevenzione e la tutela dei boschi. La buona notizia è che tutti, ma proprio tutti – cittadini singoli e/o associazioni, reti – possono farne parte. E bisogna agire subito perché un’altra estate è già alle porte!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/11/costi-incendi-soluzioni/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Nel borgo di montagna arriva una “scuola ispirazionale” per combattere lo spopolamento

Dall’1 al 6 Settembre a Sant’Anna Valdieri avrà luogo la terza edizione della ormai ben rodata Inspirational Travel School, figlia di una agenzia nata anni fa, l’Inspirational Travel Company. Una scuola per imparare e progettare un nuovo turismo, dove vicinanza, prossimità, conforto, desiderio di (ri)partenza si fanno capisaldi di una esperienza diversa, più intima e interiore. Circa un anno fa ha preso vita l’Inspirational Travel School; si tratta di una vera e propria scuola dove si parla principalmente della psicologia del viaggio, di come quest’ultimo possa essere visto non solo come luogo fisico, il posto in cui passare qualche giornata, ma anche e soprattutto come luogo interiore, capace di ispirare un diverso stile di vita. Dall’1 al 6 Settembre si terrà presso Sant’Anna Valdieri, un piccolo borgo di montagna a rischio spopolamento in provincia di Cuneo, la terza edizione, organizzata dalla bolognese Silvia Salmeri, 34 anni, fondatrice di Inspirational Travel Company, l’agenzia che ha dato vita al turismo ispirazionale.

«Si tratta di una realtà nata ben 6 anni fa che si occupa dell’organizzazione viaggi attraverso il brand del nostro tour operator, Destinazione Umana, e della realizzazione di corsi di formazione per aspiranti consulenti di viaggio che vogliono unire nozioni di psicologia alla parte d’organizzazione del viaggio. Inoltre, realizziamo progetti di comunicazione per operatori del mondo del turismo che desiderano promuoversi in questa nicchia. Abbiamo ideato il concetto di turismo ispirazionale, per cui abbiamo spostato il focus dalla meta alla persona e nello specifico all’ispirazione che essa stessa sta cercando da un determinato viaggio».

Ci racconta in questo modo Silvia di cosa, in generale, si occupa l’Inspirational Travel Company, un piccolo mondo, ma nemmeno troppo piccolo, fatto di luoghi da scoprire, non solo a livello spaziale ma in special modo a livello interiore, grazie a un’organizzazione che punta e investe soprattutto nell’individuo come fulcro di una esperienza che non vuole esaurirsi nella mera vacanza di qualche giorno in cui spengere del tutto mente e spirito, anche grazie ai cosiddetti Inspirational Travel Designer, consulenti di viaggio che disegnano l’esperienza psicologicamente più giusta per il loro cliente. È ormai da diversi anni che si sta intensificando un problema ormai da troppo tempo presente nel nostro territorio, si tratta dello spopolamento di aree lontane dai grandi centri urbani, zone rurali, piccoli borghi; un’emergenza che richiede di essere fermata al più presto, terribilmente attuale e difficile da far cambiare rotta. Una minaccia per quella parte d’Italia che fa vivere le vecchie tradizioni e che si adopera per valorizzare un patrimonio che sta andando perduto. Piano piano, l’abbandono sempre più spinto di queste terre, ci sta facendo dimenticare tesori paesaggistici e artistici, per nulla valorizzati da un turismo di massa che impiega mezzi e denaro in mete blasonate e ‘scacciapensieri’.

«Nella nostra Inspirational Travel School cerchiamo di trovare soluzioni innovative contro lo spopolamento dei borghi e la perdita di identità dei piccoli centri a carattere rurale. Una scuola di formazione di marketing territoriale itinerante per esplorare il mondo del turismo ispirazionale e le sue opportunità di creazione di valore, soprattutto in aree interne e a rischio spopolamento. L’ Inspirational Travel School è pensata per consulenti e operatori del settore turistico e culturale, proprietari di strutture ricettive e in generale per chiunque voglia attrarre nuove energie sul proprio territorio per fermarne lo spopolamento e dare vita a progetti di rinascita».

Una scuola che cerca di arricchire un mondo, quello del turismo, attraverso una complessa varietà di competenze e un’ottica rivolta maggiormente all’importanza dell’ambiente e del territorio, con una grande inclinazione verso il singolo e le esigenze interne, più riflessive che lo muovono. Le prime due edizioni dell’Inspirational Travel School si sono tenute in Calabria, ora, con la terza, ci si è voluti spostare per raggiungere quella parte del Piemonte caratterizzato da borghi a rischio spopolamento. Questa terza edizione avrà luogo a Sant’Anna Valdieri, luogo che è stato rianimato anche grazie alla presenza e all’opera di sette donne imprenditrici che hanno deciso di spostarsi e vivere in quella zona e nella quale hanno aperto e avviato attività come ostelli, rifugi, case vacanza, bar, ristoranti. Si tratta di una settimana, forma residenziale, caratterizzata da un programma formativo nel quale la mattina ci saranno professionisti che andranno a portare delle testimonianze complete in questo ambito, spunti che gli studenti potranno applicare nei loro territori, e nel pomeriggio ci sarà il tempo per fare delle escursioni sul territorio al fine di conoscerlo meglio.

«Durante il lockdown non abbiamo potuto organizzare viaggi ma ci siamo adattati nel campo dell’insegnamento, grazie ai corsi non più in sede ma per via telematica. Adesso siamo ripartiti e, a differenza di altri tour operator, non dobbiamo reinventarci; questo rappresenta un forte vantaggio competitivo in questo periodo: ci concentriamo nei viaggi per piccoli gruppi in mete decisamente non affollate perché fuori dai circuiti del turismo di massa, sempre molto a contatto con la natura e, inoltre, coltiviamo un forte aspetto introspettivo, cosa di cui dopo quello che è successo se ne sente di più il bisogno. Siamo stati quindi in grado di riprenderci probabilmente meglio rispetto ad altri».

Un’azienda che è riuscita a raccogliere, anche in un tempo difficile come questo, i suoi frutti, grazie a idee vincenti e a una base costituita da un ideale rivolto all’altro e all’ambiente; un’offerta che punta non sulla quantità ma nella qualità di un viaggio, e specifichiamo ‘viaggio’ e non ‘meta’, che si fa via, strada, nella quale apprendere qualcosa su di sé, nella scoperta di luoghi in via di spopolamento che tanto hanno da offrire a chi desidera scoprirli. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/07/nel-borgo-di-montagna-arriva-una-scuola-ispirazionale-per-combattere-lo-spopolamento/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Se l’uomo se ne va, la natura si riprende ciò che è suo

Quando l’uomo abbandona un territorio e se ne va, la natura si riprende rapidamente ciò che prima occupava. Lo spiega bene Roberta Kwok sulla rivista americana PNAS, Proceedings of the Academy of Science. Lo spiega altrettanto bene, ispirandosi alla Kwok, Pietro Greco su “Micron”.9839-10625

La riconquista. La natura si riprende rapidamente il territorio prima occupato e poi abbandonato dall’uomo. Il primo ad accorgersene negli anni ’80 del secolo scorso e a registrarlo con rigore scientifico fu, probabilmente, Ingo Kowarik, un ecologo urbano dell’Università tecnica di Berlino: le case abbandonate o distrutte e mai ricostruite dopo la Seconda guerra mondiale nella capitale tedesca erano state riconquistate dalla natura selvaggia e metamorfizzate in foresta. Un’oasi urbana nata per caso, con erbe, arbusti, alberi nativi e non che costituivano un ecosistema inedito.
Alle “oasi urbane accidentali” la rivista PNAS, i Proceedings of the Academy of Science degli Stati Uniti, dedica un lungo e interessante articolo firmato da Roberta Kwok. Dove si documenta come di casi simili a Berlino, in giro per il mondo, ce ne sono a decine. Prendete Detroit, per esempio. La città dell’auto che nel 1950 contava 1,8 milioni di abitanti e oggi non supera le 675.000 unità. Uno spopolamento di vasta portata, che ha lasciato senza abitanti interi quartieri e migliaia di abitazioni. Lo chiamano il deserto industriale. Ma sbagliano, perché non è un deserto. Perché le aree abbandonate sono state riconquistate, appunto, da erbe e arbusti e piante che ospitano una quantità incredibile di insetti e uccelli e persino qualche animale più grande. Qualcosa di analogo è stato riscontrato a Baltimora da Christine Brodsky, una ecologa urbana della Pittsburgh State University del Kansas, che nel 2013 ha portato a termine uno studio sugli uccelli che popolano i quartieri disabitati della città del Maryland che ha conosciuto uno spopolamento analogo a quello di Detroit. Ebbene, Christine Brodsky e il suo gruppo di lavoro hanno individuato in città 60 diverse specie di uccelli, alcuni dei quali, come i parula del nord e le capinere, che in genere preferiscono la foresta. Anche la Grande Parigi ha conosciuto il fenomeno dello spopolamento con conseguente abbandono delle abitazioni in alcuni quartieri. Le chiamano wasteland, territori dei rifiuti. Ma un gruppo di scienziati francesi, tra cui Audrey Muratet, un ecologo dell’Agenzia regionale della Biodiversità dell’Ile de France, ha documentato che non si tratta esattamente di deserti. In quei territori abbandonati dai cittadini comuni e frequentati solo da spacciatori e dai loro clienti è ospitato il 58% della biodiversità botanica di Parigi. Ci sono più specie lì che in tutti i parchi e i giardini ben ordinati della capitale francese. D’altra parte anche nelle periferie più degradate di molte città italiane si registra un qualche fenomeno di riconquista se non di conquista ex novo: dai gabbiani ai pappagalli, molti cieli urbani sono frequentati da ospiti volanti sconosciuti fino a qualche tempo fa. Mentre non è raro in alcune zone delle nostre città imbattersi in volpi, cinghiali e in qualche serpentello.  Potremmo continuare con gli esempi. Ci sono, in giro per il mondo, Italia compresa, aree industriali abbandonate, magari ancora con colline di carbone, che si stanno trasformando in vere e proprie paludi, ricche anche di batteri che metabolizzano nitrati. E, a mare, i fosfati. Pare che nel Golfo di California i batteri metabolizzino il 28% dei composti del fosforo, riducendo la fioritura di alghe che a sua volta sottrae ossigeno al mare. Spesso i batteri operano con un’efficienza ancora superiore, che consente loro di superare il tasso di inquinamento. Ne consumano più loro, di inquinanti, di quanto non ne riescano a produrre l’uomo. Insomma, nelle aree dismesse crescono gli spazzini dell’ambiente. Ma lasciamo da parte gli esempi specifici e veniamo ai dati complessivi. Tra il 1950 e il 2000, riporta ancora PNAS, oltre 350 città in tutto il mondo hanno conosciuto un marcato fenomeno di spopolamento. In assoluta controtendenza, perché in questi anni il mondo ha conosciuto un inedito sviluppo urbano e ha visto, per la prima volta nella storia, la popolazione che vive in città superare quella che vive in campagna. Nelle centinaia di città spopolate, sono state abbandonate decine di migliaia di abitazioni e interi quartieri. Non si tratta di fatti marginali. In un recente rapporto si documenta come, ormai, il 17% del territorio urbano degli Stati Uniti – addirittura il 25% in alcune città – sia in condizioni di assoluto abbandono. Un ecologo americano, Christopher Riley, ha provato a fare un po’ di conti. E ha calcolato che i servizi naturali prodotti dalla natura selvaggia che sta riconquistando i territori urbani abbandonati dall’uomo ammontano a 2.931 dollari per ettaro, contro i 1.320 degli ecosistemi urbani ordinati e degli 861 dollari delle aree di campagna. Il report su PNAS tende a sfatare anche un luogo comune, secondo cui l’arrivo di specie aliene (piante o animali che siano) rappresentano di per sé un fattore negativo per gli ecosistemi. Non sempre è così. L’arrivo nelle aree urbane di piante e animali provenienti da altre regioni e persino da altri continenti rappresenta quasi sempre un fattore di equilibrio. D’altra parte si tratta di un ecosistema nuovo e nessuno è, per definizione, un alieno. Viva la riconquista, dunque? Beh, se vediamo il problema da un punto di vista squisitamente ecologico, sì: viva la riconquista. Ma ci sono anche correlati sociali. Nelle aree urbane abbandonate regna il degrado umano e cresce la delinquenza. E, in questo caso, trovare il miglior equilibrio non è affatto semplice.

Chi è Pietro Greco

Pietro Greco, laureato in chimica, è giornalista e scrittore. Collabora con numerose testate ed è tra i conduttori di Radio3Scienza. Collabora anche con numerose università nel settore della comunicazione della scienza e dello sviluppo sostenibile. E’ socio fondatore della Città della Scienza e membro del Consiglio scientifico di Ispra. Collabora con Micron, la rivista di Arpa Umbria.

Fonte: ilcambiamento.it

Chi uccide i fiumi toscani?

E’ un vero e proprio allarme fiumi e in questo momento la situazione in Toscana è drammatica. Interventi disastrosi distruggono ecosistemi e mettono a rischio la sicurezza idraulica del territorio. E purtroppo la Toscana non è l’unica Regione dove tali scempi si stanno moltiplicando…fiumitoscana

E’ un vero e proprio allarme fiumi e in questo momento la situazione in Toscana è drammatica. Interventi disastrosi distruggono ecosistemi e mettono a rischio la sicurezza idraulica del territorio. E purtroppo la Toscana non è l’unica Regiove dove tali scempi si stanno moltiplicando… Stiamo provocando con le nostre mani uno dei più gravi danni al sistema idraulico naturale. Il reticolo di torrenti, ruscelli, fiumi che si snodano a meandri nella piatta pianura padana, o che precipitano in forre e gole delle montagne e colline del centro Italia sono oggetto, da oltre cinquant’anni di un attacco feroce fatto di canalizzazioni, briglie, dighe, cementificazioni e addirittura, in molti casi, di interramenti, che significa che il fiume viene fatto passare in canali sotterranei artificiali. All’attacco umano, che si prefigge insensatamente di tenere sotto controllo una delle forze più potenti della natura, ovvero l’acqua, cercando di costringerla in spazi forzati e di impedirne il naturale andamento, si è contrapposta la realtà delle cose. Da quando l’opera di distruzione dei fiumi è cominciata, si sono moltiplicati gli eventi catastrofici, che hanno colpito la popolazione e l’economia di intere zone. E tuttavia si continua ad ignorare questa realtà, a non conoscere e non capire che cosa sono e come funzionano i corsi d’acqua. Si vedono i fiumi come semplici elementi del paesaggio da tenere sotto controllo, e non come ecosistemi dalla struttura complessa, in continuo mutamento e sorretti da un equilibrio dinamico molto fragile. Ma l’ignoranza in tema fluviale è sempre stata funzionale al lucro di persone senza scrupoli, pronte ad arricchirsi a scapito della sicurezza dei territori. Dopo la grande cementificazione d’Italia, che ha portato ai tragici eventi che si ripetono ogni anno con interi paesi costruiti in aree alluvionali, oggi i fiumi subiscono l’enorme pressione del nuovo sistema delle imprese coinvolte nel mercato dell’energia da biomasse. Avete capito bene. Infatti, tra le energie alternative risultano esserci le centrali termoelettriche a biomasse, che a seconda della dimensione hanno bisogno di grandi quantità di materia vegetale per poter funzionare (ed essere economicamente remunerative). Come al solito in Italia, grazie ad amministratori compiacenti e poco lungimiranti, c’è chi riesce a trasformare una opportunità di contrasto al drammatico problema dei cambiamenti climatici in una speculazione inaccettabile: è lecito alimentare una centrale termoelettrica a biomassa, a bilancio CO2 teoricamente neutro, al costo della distruzione diretta di un ecosistema? La cosiddetta “ripulitura” dei corsi d’acqua sta comportando in più parti la distruzione completa di tutta la vegetazione riparia, anche secolare, che le rive dei fiumi, gli argini e le naturali casse di espansione ospitano. Oggi si taglia quella vegetazione che l’evidenza, l’esperienza, le indicazioni in normativa e, se non bastasse, numerosi studi scientifici dimostrano necessaria per la funzionalità ecologica del fiume, oltre ad essere utilissima nello smorzare la furia delle piene, nel depurare le acque dagli inquinanti, nel proteggere le sponde dall’erosione. Macchine potentissime radono al suolo tutto, dai pioppi e dagli ontani di trenta metri di altezza fino ai cespugli, riducendoli poi in trucioli e schegge; smuovono la terra che poi le piogge porteranno via producendo frane e smottamenti. Tutto questo è cronaca di questi giorni anche in provincia di Siena, come ha denunciato il WWF, per una serie di interventi autorizzati dalla Provincia e dal nuovo Consorzio di Bonifica Toscana Sud, che negli ultimi tre anni hanno abbattuto la vegetazione su oltre 50 km di fiumi e torrenti. “Siamo molto preoccupati” – dichiara Tommaso Addabbo, presidente del WWF Siena. “Da un lato c’è lo Stato, che legifera e recepisce direttive comunitarie che imporrebbero il raggiungimento di un “buono stato ecologico” degli ecosistemi d’acqua dolce entro il 2015, come previsto dalla Direttiva Quadro Acque 2000/60/CE. Dall’altro non solo non si procede in modo deciso a sanare i danni del passato, ma in molti casi si persevera nella distruzione della naturalità, in un quadro amministrativo sconcertante”. “Per la sicurezza del territorio sono necessari interventi pianificati e selettivi, mirati esclusivamente a garantire la stabilità idraulica del sistema, preservando l’integrità delle sponde e la funzionalità ecologica del fiume, come chiesto dalla normativa. Alcuni enti l’hanno finalmente recepito, e stanno modificando, seppur lentamente, i loro progetti in tal senso. Altri enti, come recentemente fatto sul fiume Arbia dal Consorzio di Bonifica Toscana Sud, mettono ancora in atto la distruzione totale”. “Ma il problema non è da addebitarsi ai soli Consorzi di Bonifica. Anche le Province hanno le loro responsabilità con concessioni di taglio rilasciate a privati, praticamente senza alcuna prescrizione, con risultati disastrosi”.

Fonte: ilcambiamento.it

CicloMurgia: turismo su due ruote per valorizzare il territorio

Iniziative, imprese, progetti, cultura. La Puglia è davvero una regione in gran fermento, dal Gargano al Salento e, in particolare, intorno a Bari e Lecce. Tra i motivi di questo diffuso risveglio vi è Bollenti Spiriti 2.0, programma della Regione Puglia che – tramite la sua principale iniziativa, Principi Attivi – ha contribuito in modo significativo all’avvio di molti interessanti progetti. È il caso di CicloMurgia, nato con l’intenzione di valorizzare il patrimonio naturalistico e culturale dell’Alta Murgia attraverso il cicloturismo, promuovendo il turismo su due ruote mediante la gestione di servizi per il cicloturista.

Una delle finalità dei promotori del progetto, come si legge sul sito, “è quella di far riscoprire l’indissolubile legame tra noi e la nostra ‘madre terra’, che è trascurata, dimenticata e spesso violentata dall’azione dell’uomo”. “Siamo convinti che solo attraverso lo stupore della conoscenza, dato dalla ricerca e dall’esplorazione si possa ristabilire una parte di quell’equilibrio, da tempo perso, tra uomo e natura. Per queste ragioni il nostro impegno è rivolto alla realizzazione di esperienze  basate sull’Essenzialità, la Condivisione, l’elogio della Lentezza, il progresso visto come ‘Decrescita’; e supportate dalla pratica sperimentale (laboratori, attività in natura), lo studio scientifico, storico e artistico del territorio”.

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Grazie allo sviluppo di questo progetto, il parco Nazionale dell’Alta Murgia è oggi dotato di dieci percorsi cicloturistici con un annesso piano di comunicazione e valorizzazione del territorio. Le escursioni in mountain bike sono previste ogni domenica da aprile a ottobre. I percorsi non sono particolarmente ardui o tecnici e proprio per questo sono aperti a tutti. L’idea, infatti, è quella di far conoscere la storia dei luoghi e godere del paesaggio. È per questo che i ritmi sono lenti e le pause frequenti. La costruzione dei percorsi, inoltre, è stata attenta ad integrare tutte quelle aree svantaggiate a causa della mancanza di un’adeguata attività promozionale o della difficile accessibilità dei luoghi. Dopo molti anni di viaggi in bici e tre anni di escursioni nel Parco Nazionale dell’Alta Murgia, l’associazione Ciclomurgia ha deciso di mettere a disposizione delle strutture turistico ricettive interessate, le proprie competenze in materia di cicloturismo ed accoglienza dei cicloviaggiatori. È nato così “4cycling”  il progetto che aiuta alberghi, agriturismi, e B&B a diventare bike friendly.logo

Dallo scorso anno 4cycling propone “Transmurgiana in mountain bike” , con l’obiettivo di far  scoprire la Puglia da un altro punto di vista, ad un’altra velocità e nei suoi angoli più nascosti. Quest’anno il tour si terrà nei primi tre giorni di maggio, dall’1 al 3, per un totale di 205 km con un livello di difficoltà di percorrenza medio/alto. Tra le altre attività proposte negli anni da Ciclomurgia vi sono anche: il progetto MurgiaScuola, pensato per far vivere ai ragazzi un’esperienza diversa dalla tradizionale gita scolastica e far scoprire, anche tramite laboratori, le bellezze del Parco Nazionale dell’Alta Murgia; il servizio Bicibus, che permette a gruppi di bambini di recarsi a scuola in bici, insieme a due adulti che li accompagnano, e Bla Bla Murgia.3735954_orig-1024x679

Il patrimonio paesaggistico, artistico ed enogastronomico dell’Alta Murgia costituisce un grosso serbatoio di attrattive per il cicloturista. Per questo secondo i promotori di Ciclomurgia occorre sviluppare strategie ed iniziative finalizzate a valorizzare l’esistente in un’ottica di sostenibilità, stimolando l’offerta turistica e creando nuove opportunità di lavoro per i giovani.

Il sito di CicloMurgia 

Visualizza CicloMurgia sulla Mappa dell’Italia che Cambia! 

Fonte : italiachecambia.org

Consumo di suolo, l’Italia perde ancora terreno

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Quasi il 20% della fascia costiera italiana – oltre 500 Km2 – l’equivalente dell’intera costa sarda, è perso ormai irrimediabilmente. È stato impermeabilizzato il 19,4% di suolo compreso tra 0-300 metri di distanza dalla costa e quasi e il 16% compreso tra i 300-1000 metri. Spazzati via anche 34.000 ettari all’interno di aree protette, il 9% delle zone a pericolosità idraulica e il 5% delle rive di fiumi e laghi. Il cemento è davvero andato oltre invadendo persino il 2% delle zone considerate non consumabili (montagne, aree a pendenza elevata, zone umide). A mappare lo stivale della “copertura artificiale”, l’ISPRA che, grazie alla cartografia ad altissima risoluzione, nel suo Rapporto sul Consumo di Suolo 2015 – presentato questa mattina a Milano, nel corso del convegno collaterale all’EXPO2015 “Recuperiamo Terreno” – utilizza nuovi dati, aggiorna i precedenti e completa il quadro nazionale con quelli di regioni, province e comuni, senza trascurare coste, suolo lungo laghi e fiumi e aree a pericolosità idraulica. L’Italia del 2014 perde ancora terreno, anche se più lentamente: le stime portano al 7% la percentuale di suolo direttamente impermeabilizzato (il 158% in più rispetto agli anni ’50) e oltre il 50% il territorio che, anche se non direttamente coinvolto, ne subisce gli impatti devastanti. Rallenta la velocità di consumo, tra il 2008 e il 2013, e viaggia ad una media di 6 – 7 m2 al secondo. Le nuove stime confermano la perdita prevalente di aree agricole coltivate ( 60%), urbane ( 22%) e di terre naturali vegetali e non (19%). Stiamo cementificando anche alcuni tra i terreni più produttivi al mondo, come la Pianura Padana, dove il consumo è salito al 12%.ispra-suolo

Ancora, in un solo anno, oltre 100.000 persone hanno perso la possibilità di alimentarsi con prodotti di qualità italiani. Sono le periferie e le aree a bassa densità le zone in cui il consumo è cresciuto più velocemente. Le città continuano ad espandersi disordinatamente (sprawl urbano) esponendole sempre di più al rischio idrogeologico. Esistono province, come Catanzaro, dove oltre il 90% del tessuto urbano è a bassa densità. Nella classifica delle regioni “più consumate”, si confermano al primo posto Lombardia e Veneto (intorno al 10%), mentre alla Liguria vanno le maglie nere della copertura di territorio entro i 300 metri dalla costa (40%), della percentuale di suolo consumato entro i 150 metri dai corpi idrici e quella delle aree a pericolosità idraulica, ormai impermeabilizzate (il 30%). Tra le zone a rischio idraulico è invece l’Emilia Romagna, con oltre 100.000 ettari, a detenere il primato in termini di superfici. Monza e Brianza, ai vertici delle province più cementificate, raggiunge il 35%, mentre i comuni delle province di Napoli, Caserta, Milano e Torino oltrepassano il 50%, raggiungendo anche il 60%. Il record assoluto, con l’85% di suolo sigillato, va al piccolo comune di Casavatore nel napoletano. Fino al 2013, il valore pro-capite ha segnato un progressivo aumento, passando dai 167 m2 del 1950 per ogni italiano, a quasi 350 m 2 nel 2013. Le stime del 2014 mostrano una lieve diminuzione, principalmente dovuta alla crescita demografica, arrivando a un valore pro-capite di 345 m2 . Le strade rimangono una delle principali causa di degrado del suolo, rappresentando nel 2013 circa il 40% del totale del territorio consumato (strade in aree agricole il 22,9%, urbane 10,6%, il 6,5% in aree ad alta valenza ambientale).L’ISPRA ha anche effettuato una prima stima della variazione dello stock di carbonio, dovuta al consumo di suolo. In 5 anni (2008-2013), sono state emesse 5 milioni di tonnellate di carbonio, un rilascio pari allo 0,22% dell’intero stock immagazzinato nel suolo e nella biomassa vegetale nel 2008. Senza considerare gli effetti della dispersione insediativa, che provoca un ulteriore aumento delle emissioni di carbonio (sotto forma di CO2), dovuto all’inevitabile dipendenza dai mezzi di trasporto, in particolare dalle autovetture.

Tutti i numeri dell’ “Italia artificiale” sono disponibili in formato open data all’indirizzo www.consumosuolo.isprambiente.it

Riferimenti: Via Ispra

Tratto da : galileonet.it

Kenya, la crescita urbana minaccia il Parco Nazionale di Nairobi

Il parco nazionale della capitale del Kenya è l’unico al mondo all’interno del territorio di una capitale

Il Parco Nazionale di Nairobi, alla periferia della capitale del Kenya, è l’unica riserva nazionale al mondo a essere attualmente attiva sul territorio di una capitale. Quest’anomalia che non presentava alcun problema al momento della fondazione, nel 1946, sta presentando il conto ora, con uno sviluppo urbano incontrollato che si sta allargando alle terre che una volta erano proprietà dei contadini Masai. Il parco di Nairobi, fondato quasi settant’anni fa dai coloni britannici, accoglie circa 120mila visitatori all’anno e ospita 80 specie di mammiferi fra cui leopardi, leoni, mammiferi, rinoceronti, giraffe, zebre e antilopi in un territorio di 117 kmq al cui orizzonte si stagliano i grattacieli della capitale kenyana. Sono molte le associazioni ambientaliste che tentano di difendere questo territorio che, per colpa dell’urbanizzazione selvaggia, della maleducazione dei turisti e del vento che porta i rifiuti dalla vicina città, deve fare i conti con sacchi di plastica, bottiglie e imballaggi vari.

Si trovano sempre più rifiuti, portati dal vento dalle abitazioni dei dintorni o gettate dai turisti. Da poco ho visto un serpente morire infilato dentro una lattina di soda e incapace di uscirne,

spiega Patricia Heather-Hayes, avvocato in prima fila nella lotta per la preservazione del parco dell’associazione Fonnap. Nel parco sono presenti 39 leoni e 90 rinoceronti, 450 specie di uccelli, 40 di anfibi e 500 di alberi, una biodiversità che si è preservata anche grazie all’osmosi con l’area semi-desertica di Athi-Kapthi, una vasta area semi-desertica di 2200 kmq. Le migrazioni da questo bacino sono ora minacciate dalla crescita urbana e dal progetto di una nuova arteria stradale – la Southern Bypass – e da una linea ferroviaria che potrebbe passare all’interno del Parco. La ferrovia dovrebbe garantire la connessione fra il porto di Mombasa e Nairobi. Fonapp e altre associazioni cercano di contrastare questa ondata sviluppista che rischia di minacciare il parco più vecchio del Kenya, custode delle specie più rappresentative della fauna africana, ad eccezione degli elefanti.Political Stand Off Affects Kenyan Tourism

Fonte: Le Monde

© Foto Getty Images

Forum Salviamo il Paesaggio: tutti uniti contro il consumo del territorio

Secondo una statistica del Sole 24 Ore, le case invendute in Italia sono 540mila e un quarto di esse è appena stato edificato. Eppure, si continua a costruire. Perché? Forse per lo stesso motivo per cui oggi l’82% dei Comuni italiani è a forte rischio idrogeologico, come denuncia il Corpo Forestale dello Stato. O per cui, come rileva uno studio del WWF, nel nostro paese vengono urbanizzati 90 ettari di territorio ogni giorno. Uno scempio a cui ogni cittadino è moralmente chiamato a opporsi. Ma non da solo. Esiste un forum che riunisce più di 1000 sigle, che a loro volta rappresentano centinaia di migliaia di persone che vogliono fermare il suicidio che stiamo commettendo, violentando in maniera efferata il nostro territorio, da molti considerato il più bello del mondo. Il suo nome è Salviamo il Paesaggio.

«La nostra sfida più grande è riuscire a parlare una lingua che sia comprensibile per il mondo accademico e per quello politico, ma soprattutto per i cittadini», spiega Alessandro Mortarino, coordinatore nazionale del Forum Salviamo il Paesaggio. «La nostra forza sono gli oltre 150 comitati locali che, riuniti sotto un simbolo, una progettualità e una struttura di portata nazionale, operano quotidianamente sul territorio per portare questi argomenti all’attenzione di tutti». Ma quali sono gli argomenti in discussione? Dalla cementificazione al dissesto idrogeologico, dalle grandi opere agli inceneritori, il Forum si occupa di tutto ciò che in questo momento sta minacciando la salubrità e la vita stessa della terra su cui poggiamo i nostri piedi. «In termini operativi, portiamo avanti numerose iniziative, come il “censimento del cemento”, il supporto ai comitati locali e l’attività conferenziera e divulgativa. Il prossimo grande traguardo è la stesura di una proposta di legge di iniziativa popolare contro il consumo del territorio». Per quanto l’obiettivo sia ambizioso, non ci si muove su un terreno inesplorato. Riccardo Picciafuoco, architetto paesaggista e coordinatore del tavolo tecnico “Paesaggio Marche”, racconta ciò che è successo nella sua Regione: «A un certo punto abbiamo capito che le istituzioni non stavano ponendo rimedio alla situazione marchigiana, diventata ormai emergenziale. Non si preoccupavano del consumo di suolo sproporzionato rispetto al fabbisogno delle comunità, né tantomeno della scarsa partecipazione dei cittadini alle scelte. Così, dopo tre anni di lavoro sul testo e sei mesi di raccolta firme nelle piazze, abbiamo presentato una legge di iniziativa popolare sul governo del territorio». Dal punto di vista del consenso è stato un enorme successo: a fronte della soglia minima di 5000 firme necessarie per la presentazione, il Forum Paesaggio Marche ne ha raccolte quasi 9000. Una cittadinanza attiva dunque, che adesso si aspetta una risposta pronta e responsabile da parte del mondo politico, che svolge un ruolo determinante. «Il problema principale – spiega Riccardo – è che i Comuni si basano sulla tassazione delle aree edificabili e delle rendite per far quadrare i propri bilanci. Quindi, da una parte gli oneri di urbanizzazione sulle aree edificabili e dall’altra l’IMU sulle aree edificate. Bisogna trovare un’alternativa a questa dipendenza».

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Eppure, con coraggio e metodo, c’è chi ha dimostrato che anche nel quadro finanziario e normativo attuale è possibile mettere in pratica una politica virtuosa. Ne sa qualcosa Domenico Finiguerra che, mentre era sindaco di Cassinetta di Lugagnano, in provincia di Milano, è riuscito a “snellire” il piano regolatore comunale fino ad approvarne uno a crescita zero. «Quando c’è la volontà politica, nulla è impossibile», sottolinea Domenico. «A livello nazionale si sono definiti gli schieramenti con il varo del decreto Sblocca-Italia, che contiene la più grave offensiva contro i beni comuni, il territorio e l’ambiente che il nostro paese abbia mai conosciuto. Trivellazioni, attacco al demanio, inceneritori, il paesaggio come merce di scambio. È sorto uno spartiacque che delineerà due schieramenti: chi starà dalla parte dei poteri forti, del partito del cemento, di chi vuole saccheggiare i nostri beni non riproducibili, e chi vi si opporrà». L’ex sindaco Finiguerra, ora consigliere comunale ad Abbiategrasso, propone anche una riflessione più ampia sul consumo di suolo e sul land grabbing, accaparramento di territorio da parte di chi non ha a cuore gli interessi di chi lo abita: «L’attenzione da parte degli Stati o delle grandi multinazionali straniere verso la nostra terra ha due funzioni: una economico-finanziaria e speculativa e un’altra legata al mantenimento della sovranità alimentare. Nel 2050 la popolazione mondiale arriverà a dieci miliardi di persone e il grande problema sarà garantire cibo per tutti. Questo innescherà altre dinamiche, che riguardano anche la ripartizione delle risorse». La terra è dunque una risorsa primaria, a cui l’uomo è legato in maniera simbiotica. Per questo motivo, ricoprendo il pianeta di cemento egli sta firmando la propria condanna.finiguerra

Attenzione però a non commettere un errore grave, ma purtroppo estremamente comune, ovvero pensare che le “grandi questioni” non ci tocchino da vicino, che siano di competenza delle alte sfere. «La maggior parte delle persone non si rende conto della bellezza del posto in cui vive. Solo alcuni lo fanno e sono i più attivi nel difendere il proprio territorio. La consapevolezza anche di una sola persona però, spesso può cambiare le cose. Fare la propria parte, per quanto piccola essa possa essere, è fondamentale». Anche Virginia Scarsi, coordinatrice della redazione di Salviamo il Paesaggio, si è messa in gioco in prima persona: «Lavoro nell’ambito della comunicazione e il desiderio di lavorare per questo movimento mi è venuto quando mi sono trovata a dover ritoccare sempre più spesso foto dei paesaggi, cancellando capannoni, tralicci e altre deturpazioni dovute alla cementificazione. Ho cominciato a sentirmi frustrata e a voler fare qualcosa di concreto per cambiare la situazione». L’obiettivo è quello di raccogliere sotto lo stesso cappello soggetti che da tempo operano in questo campo – comitati, collettivi, associazioni ambientaliste e così via. «Il problema infatti – spiega Virginia – è la grande frammentazione: in Italia siamo ancora divisi fra guelfi e ghibellini, ognuno agisce per conto proprio, combatte le sue piccole battaglie. Noi abbiamo pensato di creare un soggetto che unificasse tutte queste sigle per pesare di più a livello nazionale. L’esistenza del Forum ha già sortito buoni effetti, grazie anche ai canali della comunicazione. Quando un comitato locale ha un problema, noi lo rilanciamo a livello nazionale e la sua visibilità viene amplificata, così come il suo potere contrattuale e la sua credibilità».

 

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Una struttura ben articolata e funzionale, che però necessita della presa di coscienza di ciascuno di noi. Dobbiamo abbandonare la logica “nimby” e pensare al territorio del nostro Paese come a un immenso bene comune, il più grande e il più prezioso che abbiamo. E non dobbiamo avere paura di difenderlo, con la consapevolezza che ci sarà sempre qualcuno che ci supporterà, ma mai nessuno che lo farà al posto nostro.

 

Il sito di Salviamo il paesaggio.

 

Fonte : italiachecambia.org

 

Let’s Clean Up Europe, iscrizioni aperte dal 9 marzo

Dopo il successo della prima edizione, torna la campagna europea contro il littering e l’abbandono dei rifiuti in programma dall’8 al 10 maggio. Chiunque potrà proporre ed organizzare azioni di raccolta e pulizia straordinaria del territorio che coinvolgano direttamente ed attivamente i cittadini381977

Dopo il successo della prima edizione, torna Let’s Clean Up Europe, la campagna europea contro il littering e l’abbandono dei rifiuti (www.ewwr.eu/lets-clean-up-europe). Quest’anno le azioni si concentreranno dall’8 al 10 maggio, con la possibilità di organizzare attività per tutto il periododal 3 al 17 per garantire la massima partecipazione possibile. L’Italia è uno dei paesi europei che aderiscono all’iniziativa, grazie al coordinamento del Ministero dell’Ambiente e al Comitato Promotore italiano che organizza la Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti da ormai 6 anni e di cui fanno parte lo stesso Ministero dell’Ambiente, Federambiente, Città metropolitana di Roma Capitale, Città Metropolitana di Torino, ANCI, Legambiente, AICA (Associazione Internazionale per la Comunicazione Ambientale) che si occupa della segreteria organizzativa e l’UNESCO come invitato permanente.
La campagna si basa su una call-to-action: chiunque potrà proporre ed organizzare, sull’intero territorio nazionale, azioni di raccolta e pulizia straordinaria del territorio che coinvolgano direttamente ed attivamente i cittadini.
Per aderire, dal 9 marzo sarà sufficiente andare sul sito del Ministero dell’Ambiente e dei partner del progetto e compilare on-line il modulo di partecipazione. Possono aderire istituzioni ed enti locali, associazioni di volontariato, scuole, gruppi di cittadini, imprese e ogni altra tipologia di enti. Ai gruppi aderenti sarà richiesto di contabilizzare ove possibile la quantità di rifiuti raccolti – suddivisi per tipologia – e il numero di partecipanti compilando in un secondo momento una scheda di monitoraggio che consentirà di raccogliere dati confrontabili tra i vari Stati aderenti. Gli organizzatori invieranno a tutti i gruppi aderenti una bandiera con il logo della manifestazione e chiederanno ai partecipanti di inviare immagini o video dei volontari in azione anche attraverso i social network (Let’s Clean Up Europe è su Twitter e Facebook, hashtag #cleanupeurope). In attesa dell’apertura delle iscrizioni, non rimane quindi che iniziare a pensare alla propria azione per la seconda edizione di Let’s Clean Up Europe!

Fonte: ecodallecitta.it