Sopravvivere significa riuscire a non morire. Non significa vivere, dunque. Significa mettere in atto tutte le nostre capacità, le nostre abilità non ancora scoperte, comportamenti inspiegabili, inaspettati, foss’anche discutibili. E’ per sopravvivere. E’ per continuare a vivere. Che sia in un modo o nell’altro non è in fondo poi quello il problema.
Sopravvivere significa riuscire a schivare il pericolo, riconoscerlo, inquadrarlo, isolarlo. Poi attuare una strategia per affrontarlo. Nelle nostre città piene di macchine (154 morti a Roma per incidenti stradali nel 2014, mi dice il cartello elettronico all’incrocio sulla Salaria, 1800 feriti, 45 pedoni cancellati dalla loro vita) i pericoli maggiori non sono neanche dovuti alla velocità dei veicoli che falciano sempre più persone. Caro ci costa, a pensarci bene. E i bordi delle strade si ingrossano di avanzi di vite mentre il nostro andare prosegue incurante, a fermarsi in qualche istante di sincero dispiacere, quasi un collaterali che accettiamo volentieri in nome del progresso e del brivido dello spararci veloci da un capo all’altro dei nostri confini. Fuori e dentro di noi. L’aria della sorta di bolla in cui viviamo è velenosa. Lo sappiamo. Ci rifugiamo nei parchi appena possiamo, fuggiamo lontani appena ne abbiamo la possibilità. Eppure se le nostre città fossero luoghi per vivere non avremmo bisogno di rifugiarci lontano, da qualche parte al primo ponte disponibile, al primo week end atteso come pane di libertà e di respiro. Ma non è neppure questo il pericolo più grande. I nostri passi sono respinti dalla durezza dell’asfalto, dai cementi ingrigiti e inaccoglienti, indifferenti alle nostre impronte, inalterati dalla nostra esistenza. Le nostre strade sono per le macchine, non più per le persone, i nostri cieli sono stati concepiti per i palazzi del tutto ignari alle stelle, non per i nostri occhi che non arrivano più a guardare, per i nostri sguardi diventati troppo corti, come tagliati, come privati delle loro ali, trattenuti a terra. E invece creati per migrare lontano, per raggiungere le linee delle albe e dei tramonti a scrutare i colori fusi degli orizzonti. Guardiamo le nostre vite sempre dalla parte opposta a dove siamo. Quasi avessimo bisogno del sogno che ci culla, che ci rende possibile il nostro dolore, che ci assicura per le nostre paure a vita, che ci lascia spettatori a guardare chi ce la fa, chi torna indietro, chi ha il coraggio di tentare. E diventiamo i loro peggiori giudici, a difesa delle nostre fortezze di pietra. Siamo stritolati dal tempo cui abbiamo dato scettri e corone. Gli abbiamo regalato le nostre vite, sacrificato le nostre relazioni, ceduto la nostra scena, i nostri anni inscatolati. Ma non è il tempo né la solitudine o la velocità. Non è l’aria irrespirabile né lo spazio che ci manca che possono metterci in pericolo. Non le relazioni inesistenti, usa e getta. Non la rabbia violenta che si scatena l’un l’altro al meno di niente. Non più di tanto. Il soggetto più pericoloso è la nostra Empatia. L’abbiamo presa e l’abbiamo etichettata come portatrice del rischio più estremo, per il nostro precario equilibrio di cuore e di mente. Un amico mi parla delle sue tecniche riservate al primo essere umano che vede al mattino sotto casa e che gli chiede qualcosa per strada: non sopporto la sua mano tesa, vorrei non vederlo, detesto come mi fa sentire. Passo anch’io di fretta, abbasso gli occhi, sbiascico qualche parola di circostanza ad accompagnare la mia gentilissima impassibilità. Abbiamo fretta da guadagnare, prigioni da raggiungere puntuali, soldi da raccattare per poterli ragionevolmente puntare sui tavoli da gioco delle nostre sicurezze. Che la nostra Empatia non ci raggiunga fin dove siamo. Che la nostra naturale indole di aiuto e compassione venga respinta e contenuta pena l’insostenibile sguardo che dovremmo riservare a noi stessi e a quello che siamo diventati. Totalmente immemori che ogni persona privata del suo sostentamento, del cibo che gli spetta come figlia della terra, dell’aria e della vita cui ha diritto, siamo noi. Siamo la stessa, identica cosa. Abbiamo tagliato i fili di ogni sentire comune, abbiamo perso il senso della nostra sorgente, ci siamo differenziati fino a morirne e fino a lasciar morire. Sono tante, sono troppe le persone intorno a noi che ci chiedono aiuto. Persino trai nostri amici e tra le persone che conosciamo bene. Persino quelle che stimiamo davvero e che amiamo profondamente. O crediamo di amare profondamente. Non possiamo che chiedere sostegno alla nostra imperturbabile noncuranza. Non possiamo che continuare a correre, concentrati sui nostri nulla, inconsapevoli dei frutti amari che cresceranno, soffocati dalla nostra sempre giustificabile aridità e di cui prima o poi saremo costretti a nutrirci. Del resto che cosa possiamo fare nelle nostre città di pietra? Dove il cemento ci è entrato dentro, fin nelle vene, rendendoci immobili nonostante tutte le apparenze. Siamo i nostri peggiori nemici, al cospetto delle nostre Signore Rispettabilità e Riservatezza. In ginocchio davanti ai nostri Signori Tempo e Lavoro. I vestiti migliori della nostra Indifferenza.
Fonte: ilcambiamento.it