Conai ad Ecomondo: “Con il riciclo dei rifiuti urbani 89mila nuovi posti di lavoro”

In occasione della fiera Ecomondo di Rimini, Conai ha presentato lo studio “Ricadute occupazionali ed economiche nello sviluppo della filiera del riciclo dei rifiuti urbani”. L’occupazione nel settore (raccolta differenziata, trasporto, selezione e riciclo) porterebbe a 89mila nuovi posti di lavoro380874

La vera sfida per lo sviluppo economico ed occupazionale del Paese viene dalla green economy. E’ quanto sostiene CONAI nello studio “Ricadute occupazionali ed economiche nello sviluppo della filiera del riciclo dei rifiuti urbani”, presentato nell’ambito del gruppo di lavoro 2 della 3° edizione degli Stati Generali della Green Economy, il cui tema centrale di quest’anno è “Lo sviluppo delle imprese della green economy per uscire dalla crisi italiana”.
Lo studio realizzato da CONAI, in collaborazione con Althesys, valuta quali ricadute occupazionali ed economiche per il nostro Paese si possano conseguire con il raggiungimento degli obiettivi europei al 2020, che fissano al 50% il riciclo dei rifiuti urbani. La sessione dedicata all’”Economia Del Riciclo Dei Rifiuti” tenutasi il 5 novembre, coordinata da CONAI e da COBAT, ha visto i principali attori della filiera del riciclo confrontarsi circa le prospettive di crescita economica e le concrete proposte di sviluppo del settore industriale del recupero.
“La normativa europea sui rifiuti” ha dichiarato Walter Facciotto, Direttore Generale di CONAI “ha fissato obiettivi più ambiziosi rispetto al passato che a nostro avviso solo attraverso lo sviluppo della green economy potranno essere raggiunti. In particolare ciò significa realizzare una più marcata industrializzazione della filiera italiana del waste management: dalle economie di scala, agli investimenti in infrastrutture, fino allo sviluppo dell’innovazione e della ricerca.”

La gestione dei rifiuti urbani oggi

Ad oggi, la situazione italiana nella gestione dei rifiuti urbani è ancora eterogenea. A livello Paese circa un terzo dei rifiuti urbani è avviato a riciclo e il ricorso alla discarica supera di poco il 40%: al Nord viene conferito in discarica solo il 22% dei rifiuti a fronte del 60% delle Regioni del Sud.

L’evoluzione al 2020

Lo studio di CONAI elabora due possibili scenari. Il primo scenario è definito teorico e prevede il raggiungimento del 50% del riciclo dei rifiuti urbani nelle tre macro aree Nord, Centro e Sud ed il conseguente sostanziale superamento del ricorso alla discarica.  Il secondo scenario, definito prudente, tiene conto delle attuali differenti situazioni ed ipotizza il raggiungimento di un tasso medio nazionale di riciclo dei rifiuti urbani al 50%, con punte minime al 40% e punte massime al 61%. In questo scenario, il conferimento in discarica si ridurrebbe di 4 milioni di tonnellate, ovvero rispetto al 2013 del 20% al Centro Sud e del 10% al Nord.

Gli effetti sull’occupazione

Nello scenario prudente, gli addetti aggiuntivi (occupazione diretta e indiretta) della filiera del riciclo (raccolta differenziata, trasporto, selezione e riciclo al netto dell’occupazione persa in altri settori, come per esempio le discariche) sarebbero circa 76.400, cui si andrebbero ad aggiungere ulteriori 12.600 posti creati dalla nuova necessaria infrastruttura impiantistica, per un totale di 89.000 nuovi posti di lavoro. Gli effetti occupazionali sarebbero più evidenti al Centro e al Sud, grazie al solo decollo della raccolta differenziata, mentre al Nord il maggiore impatto occupazionale si avrebbe nell’implementazione dell’industria del riciclo.

Le ricadute economiche complessive

L’occupazione non è l’unico fattore a beneficiare della diffusione e del rafforzamento dei sistemi di gestione integrata dei rifiuti. Il volume d’affari incrementale della filiera (raccolta differenziata, trasporto, selezione, produzione di semilavorati per il riciclo, compostaggio, termovalorizzazione etc.) nello scenario prudente è valutato pari a circa 6,2 miliardi, gli investimenti in infrastrutture in 1,7 miliardi, mentre il valore aggiunto generato da tali attività sarebbe di 2,3 miliardi.
Rilevanti potranno essere i benefici economici netti, cioè la differenza i benefici generati dal sistema CONAI e i costi. Un precedente studio di Althesys, infatti, ha valutato che, per la sola filiera del riciclo degli imballaggi da rifiuti urbani, dal 1998 al 2012 i benefici netti sono pari a circa 12,7 miliardi di euro.

Fonte: ecodallecitta.it

Efficienza energetica: il governo vuole stabilizzare le detrazioni fiscali. Richieste in aumento del 35% nel 2013

Secondo il viceministro allo Sviluppo Claudio De Vincenti, il governo sta pensando di rendere le detrazioni per l’efficienza degli edifici una misura stabile. Intanto, l’Enea registra, nel 2013, un incremento annuo del 35% le richieste di ecobonus, probabilmente dovuto all’aumento dell’aliquota dal 55% al 65%380563

Il governo sta pensando di trasformare in una misura strutturale la detrazione fiscale per gli interventi di miglioramento dell’efficienza energetica in edilizia. L’agenzia di stampa Reuters ha riportato una dichiarazione di Claudio De Vincenti, viceministro allo Sviluppo Economico con delega all’energia, rilasciata a margine di un convegno sull’efficienza energetica. «Vogliamo rendere strutturale il bonus per l’efficienza energetica nell’edilizia», ha detto l’esponente del governo nel corso di una video intervista proiettata durante l’incontro.  Le detrazioni fiscali destinate a chi effettua interventi di efficientamento energetico su un immobile sono da tempo oggetto di richieste di stabilizzazione da parte delle principali associazioni ambientaliste e degli organi di rappresentanza del settore edilizio. Attualmente, il bonus efficienza ha carattere temporaneo, e viene di solito prorogato – con variazioni nell’aliquota (attualmente siamo al 65%) e nelle modalità di riscossione – ad ogni scadenza.  Secondo l’ENEA, soggetto incaricato dalla legge per ricevere la documentazione obbligatoria per fruire delle detrazioni, nel 2013 c’è stato tra l’altro un «significativo aumento degli interventi di riqualificazione energetica rispetto all’anno precedente». Il numero delle pratiche inviate entro il termine ultimo del 30 settembre supera le 355.000, con un aumento di circa il 35% rispetto al 2012.  Altrettanto positivi i risultati in termini sia di risparmio energetico, con un incremento del 25% circa rispetto all’anno precedente, sia di investimenti, che crescono del 20% fino a raggiungere un totale di quasi 3,5 miliardi di euro. Più in dettaglio, i privati hanno investito complessivamente 28 miliardi di euro, mentre i nuovi posti di lavoro sono stati 226.000.  E il trend dovrebbe confermarsi per l’anno in corso. Per il primo bimestre 2014, infatti, si stimano 5,7 miliardi di euro di spesa, pari al 54% in più rispetto ai primi due mesi del 2013. L’incremento, sottolinea l’Enea, potrebbe essere dipeso direttamente dall’incremento dell’aliquota detraibile dal 55% al 65% della spesa sostenuta.  La scadenza dell’ecobonus è attualmente fissata al 31 dicembre 2014 per gli interventi su singole unità immobiliari e al 30 giugno 2015 per interventi su parti comuni degli edifici condominiali. Dopo queste date è prevista una progressiva riduzione dell’aliquota, fino a raggiungere il 50%, ma il governo, già prima delle ultime dichiarazioni del viceministro De Vincenti, sembra intenzionato a mantenere l’attuale aliquota del 65%.

(Photo @Camini sul web)

Fonte: ecodallecitta.it

Cosa si nasconde dietro il paradigma della crescita

Come ci ricorda Ivan Illich, il più grande pensatore del Novecento, il concetto di “sviluppo economico” nella sua accezione attuale fa la sua comparsa il 10 gennaio 1949, nel celebre “Discorso dei Quattro Punti” rivolto alla nazione dal presidente americano Truman, alla vigilia della ricostruzione post-bellica.crescita_economica_strozzi

Fino ad allora, tale espressione era relegata all’evoluzione delle specie animali, al gioco degli scacchi e poco altro. Da quel giorno, e in meno di una generazione, hanno invece cominciato a pullulare le più disparate teorie sull’opportunità di inscatolare all’interno di quel concetto il vero destino dell’evoluzione del genere umano: se da un lato si ricordano i cosiddetti“pragmatisti”, coloro cioè che attribuivano alla vocazione imprenditoriale l’unica rotta salvifica perseguibile; dall’altro lato, vi erano quelli che potremmo definire gli “aspiranti politici”, prevalentemente intenti a salvaguardare gli aspetti più “soft” del new-deal espansionistico, come per esempio l’intima realizzazione di se stessi. L’unico aspetto che
accomunava le due correnti di pensiero era, guarda caso, che la salvezza sarebbe necessariamente dovuta passare per la crescita: entrambi sostenevano che l’unica via percorribile sarebbe stata l’incremento della produzione e, con essa, una maggiore dipendenza dai consumi. La cosa vagamente ironica, ci ricorda sempre l’immenso Illich, è che ciascuno dei due “schieramenti” utilizzava, in difesa delle proprie ragioni, la foglia di fico della Pace. Tanto che, all’epoca, schierarsi contro lo sviluppo, oppure contro quella che sarebbe diventata (come la chiamo io) l’ipnosi consumistica globale, significava essere additati come nemici della Pace. Persino Gandhi fu spesso rappresentato come uno sciocco, un romantico o uno psicopatico, tanto che molti suoi insegnamenti furono astutamente distorti (e,aggiungo, violentati) nell’equivoco concetto di “strategia di sviluppo non violento”. Oggi, dopo 65 anni, è cambiato qualcosa? A cosa ha portato quel new-deal? Quali sono stati gli effetti sulla civiltà di quella rivoluzionaria intuizione di Truman?
All’indomani del Dopoguerra, l’Occidente ha cavalcato a spron battuto gli stilemi della crescita ad ogni costo. Ai quali, aggiungo io, è stata surrettiziamente affiancata la suggestione sociale dell’irrinunciabilità. Tutto, in un modo o nell’altro, avrebbe potuto (e dovuto) essere raggiungibile: il lavoro, la carriera, il successo, i viaggi, le esperienze, fino a farcire queste prospettive con le loro derivazioni idealistiche: la libertà, l’amore, la bellezza… La postmodernità ha astutamente previsto, per i suoi abitanti,l’illusoria prospettiva della panpossibilità:tutto sarebbe stato a portata di mano! Questo new-deal era, fuori da ogni discussione, diabolicamente perfetto: da un lato, garantiva continuità al paradigma economico dello sviluppo indiscriminato; dall’altro lato, soggiogava intere popolazioni, subordinandole a un imperativo di crescita che avrebbe sempre più richiesto un loro radicale asservimento al mondo del lavoro. Utile o inutile, questo era di secondaria importanza. Gratificante o umiliante, questo era di importanza, invece, nulla. E le persone? Ci arriviamo… Sempre in quegli anni, ci ricorda stavolta Zygmunt Bauman, il maggior sociologo vivente, assistiamo all’esaltazione di un ruolo sociale con cui molti di noi, ancora oggi, fanno quotidianamente i conti: la figura del manager.
Come molti di voi, so benissimo anch’io cosa significhi essere oggi un manager. Tuttavia, solo recentemente ho imparato che questo ruolo prende forma e vita, proprio in quegli anni, con il solo scopo di intermediare tra la catena di montaggio e la proprietà, divenuta ormai incapace di controllare direttamente tutte le microfunzioni del processo produttivo. Il manager, diversamente da quanto comunemente si crede, non è deputato a prendere decisioni, non gli vengono richieste particolari doti di lungimiranza o di problem-solving. No, niente di tutto ciò! Fin dai suoi albori, il manager deve fare essenzialmente due cose: osservare e riferire. Il perfetto morphing tra un vigilante e una spia. Avvilente? Forse, ma comunque ben remunerato! Unico requisito? La piena fiducia da parte della proprietà. (Quando mi viene chiesto come mai oggi non ci sia meritocrazia nel mondo del lavoro in Italia, io rispondo sempre: “La meritocrazia c’è eccome: si tratta solo di stabilire con quali prassi e atteggiamenti lo si vuole riempire, questo concetto…”.). La figura del manager è quella che oggi, con decine di chili di manuali di organizzazione aziendale sugli scaffali delle librerie, potremmo definire una commodity: un servizio cioè esternalizzabile, in quanto rappresenta un’inutile (a volte, dannosa) interferenza tra la base produttiva e il vertice decisionale della piramide aziendale. Dico “dannosa” perché, in molti casi, assolvere a una mera funzione di rendicontazione di quanto avviene sotto di loro, implica per la proprietà un assorbimento di risorse economiche che potrebbero compromettere la salute stessa dell’organizzazione. O che, comunque, potrebbero essere destinate ad investimenti a più alto ritorno. Ma lo sappiamo: come tutte le cose, la fiducia ha un prezzo, no?
Quindi, paghiamo pure la fiducia – si disse – ma insistiamo però su un altro imperativo, che ha preso sempre più piede dagli anni del boom economico ai giorni nostri: quello della produttività. E, con essa, arriviamo finalmente anche alle persone (che, come ormai sarà chiaro, occupano un ruolo periferico in tutto questo palinsesto organizzativo).
La produttività, per tutti i policy-maker (dal Presidente del Consiglio, al numero uno di Confindustria, fino al vostro caporeparto), è uno snodo strategico imprescindibile: va salvaguardata a tutti costi. Ma… senza esagerare. Perché, se la carichi troppo, la schiena del ciuco rischia pur sempre di spezzarsi. Ed è così che, come ci ricorda il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, grazie anche a un progresso tecnologico ben più che lineare (esponenziale), dagli anni Settanta ad oggi la produttività del lavoro è cresciuta nelle economie occidentali a ritmi forsennati. Molto superiori – per esempio – alla dinamica dei salari reali medi. Ed ecco che, per i più avvezzi alle relazioni macroeconomiche, si spiegano così anche le vere cause degli attuali livelli (sub)occupazionali. Pensiamoci: per ottenere lo stesso bene o servizio finale – un cesto di mandarini, un stampa fotografica, un nuovo contratto telefonico o un qualsiasi altro bisogno (per lo più, indotto) – al giorno d’oggi occorrono molte ore di manodopera in meno. La filiera è molto più corta e, soprattutto, dove si può fare a meno dell’uomo, subentra la tecnologia. Quella di cui tuttavia non si può fare a meno è chiamata manodopera qualificata: sempre più rara, sempre più strategica, ma pagata sempre meno, in quanto, mediamente, i salari comunque diminuiscono (e, da qui, il tema delle disuguaglianze distributive, che non affronterò in questa sede, perché troppo vasto). Tuttavia, proprio per tutelare la produttività (occhio: non i lavoratori), nel decennio a cavallo del nuovo millennio i soloni dell’organizzazione aziendale introducono un concetto nuovo, tanto suggestivo quanto ipocrita: la worklife balance (equilibrio lavoro-vita privata): nell’ambito di una vita dedicata prioritariamente al lavoro, occorre cioè consentire all’unità produttiva di distrarsi (dedicandosi alla famiglia, al tempo libero, agli hobby…). Infine, è di un paio d’anni fa quella che mi piace definire “la controriforma”, perfettamente illustrata da una docente della SDA Bocconi, santuario italiano della dottrina neoliberista: la work-life balance deve progressivamente essere sostituita con la worklife integration: lavoro e vita privata non devono cioè essere due “momenti” che, alternandosi, si completano vicendevolmente, bensì divengono due fasi della nostra vita che si compenetrano simultaneamente. Così, per fre un esempio banale, nessuno storcerà il naso se un lavoratore effettuerà una telefonata personale dall’ufficio, ma – simmetricamente – lo stesso lavoratore sarà poi dotato di blackberry, tablet o altri astutissimi “malefit” aziendali, in modo che possa poi essere mantenuto agganciato alla sua attività di giorno e, spesso, di notte (o, come oggi è molto più cool affermare, 24/7). In questa prospettiva, e citando ancora una volta Bauman,“[…] quei confini sacrosanti che separavano la casa dal luogo di lavoro, e il tempo da dedicare alla carriera da quello cosiddetto “libero”, sono praticamente svaniti; dunque, ogni attività della nostra vita diventa una scelta: seria, dolorosa e spesso seminale, tra carriera ed obblighi morali, tra impegni professionali ed esigenze vitali, nostre e di tutti coloro che hanno bisogno del nostro tempo, della nostra compassione, delle nostre cure, del nostro aiuto e della nostra assistenza.”
Questa è l’attuale situazione, cari amici de “il Cambiamento”. Ve l’ha provata a delineare, per sommi capi, una persona che, pesantemente radicata in questo mondo da una dozzina d’anni, ha la presunzione di conoscerla piuttosto bene e che ha deciso anche lui di fare il manager: cioè… osservando e riferendo. Il mio think-net si chiama “Low Living High Thinking”. Vivere basso e pensare alto è più di un semplice motto. E’ più che altro un destino. Ed è comune. Solo che, purtroppo, ancora in molti non lo sanno…

Fonte: ilcambiamento

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L’Istituto Prout: “Ecco la nostra alternativa al capitalismo”

Equità, sostenibilità, solidarietà. Scelte ovvie? Nient’affatto. Basta guardare in che direzione sta andando il mondo. Eppure c’è un sistema, che si propone come alternativo al capitalismo dominante, fondato proprio con l’obiettivo di «garantire a tutti le minime necessità per l’esistenza e favorire lo sviluppo equilibrato di ogni essere umano, dal punto di vista fisico, mentale e spirituale, in armonia con la natura» dicono dall’Istituto italiano di Ricerca Prout.capitalismoprout

Il Movimento

Il movimento Proutist Universal, registrato in Italia nel 1979, ha condotto opera di formazione e divulgazione della teoria Prout in molte città con seminari e conferenze, dibattiti pubblici e l’Associazione di promozione sociale ” IRP  Istituto di Ricerca Prout”, registrata nel 1999, è stata fondata con lo scopo primario di aiutare le persone a implementare le idee sulle quali si fonda questo sistema economico. A spiegare il razionale di questo sistema è Tarcisio Bonotto, presidente dell’IRP. «La teoria economica PROUT (Teoria della Utilizzazione PROgressiva – PROgressive Utilisation Theory) proposta dal filosofo e neo-umanista indiano Sarkar a partire dal 1967, si è rivelata a pieno titolo un sistema socio-economico alternativo al capitalismo e al defunto socialismo sovietico» dice Bonotto. «Sarkar ha fondato nel 1969 l’associazione socio-culturale PROUTIST UNIVERSAL, un movimento globale con il compito di divulgare i valori, le soluzioni della teoria PROUT, nei campi della società, economia, cultura, educazione, politica, istituzioni, che possa portare ad una nuova visione mondiale basata sulla necessità di garantire a tutti le minime necessità per l’esistenza e favorire lo sviluppo equilibrato di ogni essere umano, dal punto di vista fisico, mentale e spirituale, in armonia con la natura».  «Sarkar afferma che lo sviluppo economico non è in contraddizione con lo sviluppo delle potenzialità umane e la salvaguardia dell’ambiente. Per raggiungere questi obiettivi propone la suddivisione del territorio in aree socio-economiche autosufficienti, contrariamente a quanto sostengono i fautori della globalizzazione economica attuale. La teoria economica PROUT, dalla vasta portata sia filosofica che tecnica, propone una nuova visione dell’evoluzione della storia. Famoso il Ciclo Sociale proposto da Sarkar, applicato in modo eccellente dall’economista Ravi Batra per le sue 20 previsioni azzeccate, sugli eventi del secolo scorso». «Sarkar propone poi una ristrutturazione della teoria economica stessa trasformando la macro economia in economia generale, (per lo studio delle teorie economiche) la micro economia in economia commerciale e aggiungendo due nuove branche di studi e applicazioni: l’economia popolare, che dovrebbe proprio interessarsi della garanzia delle minime necessità (alimenti, vestiario, abitazione, cure mediche, educazione) e la psico-economia che affronta il problema dello sfruttamento nei luoghi di lavoro e la massima utilizzazione delle capacità individuali e collettive per la trasformazione scientifica ed economica». «Il PROUT è una teoria economica dinamica, può essere applicata in qualsiasi circostanza e paese e in qualsiasi condizione, da qui la definizione di progressiva. Prevede la massima utilizzazione delle potenzialità materiali, fisiche, mentali e spirituali, dell’individuo e della società, da qui il termine utilizzazione. Fonda le sue radici sul neo-umanesimo, che insegna il rispetto dell’ambiente nel suo insieme, quindi non solo esseri umani, ma anche animali, piante e oggetti inanimati, come espressioni tutte dell’armonia dell’Universo. Per questo viene definita socialismo umanistico, proposto, nelle parole di Sarkar, per il benessere e la felicità di tutti».

L’analisi

Franco Bressanin, cofondatore di IRP, mette poi in evidenza gli evidenti fallimenti del sistema capitalistico.
«Dal punto di vista  dell’uguaglianza sociale, dei diritti umani e dello sviluppo materiale, intellettuale e culturale-spirituale, negli ultimi decenni si è avuto un peggioramento. Il sistema capitalista attuale sovverte i valori umani, ponendo il denaro e l’accumulo di ricchezze al vertice dei valori, mentre solidarietà, arte, cultura, spiritualità, desiderio e sforzo di migliorarsi sono denigrati e spogliati della loro importanza. Il capitalismo impedisce la crescita e lo sviluppo interiore dell’essere umano, snaturandolo, e questo è  un primo fallimento. Il secondo fallimento è che rende le persone egocentriche, accresce le disparità economiche e  favorisce un pensiero puramente materialistico. Trasforma le persone in animali feroci attraverso una forma di competizione che calpesta tutti i diritti umani. Favorisce l’uso della forza, non solo fisica, al puro scopo di impadronirsi anche delle ricchezze degli altri, creando povertà e indigenza. Un terzo fallimento: la globalizzazione, che avrebbe dovuto propagare il benessere e l’affluenza in tutto il mondo, invece ha propagato e diffuso povertà e diseguaglianze. E ancora, un quarto fallimento: ci siamo dimenticati la funzione stessa del denaro come mezzo per lo scambio di beni e servizi. Aristotele stesso proclamava la natura di mezzo di scambio del denaro, arrivando a condannare il profitto. Oggi il denaro è tolto dalla circolazione nelle attività produttive ed inserito nelle attività finanziarie, massacrando la produzione di beni e servizi e di fatto impoverendo l’economia. Il quinto fallimento: il neoliberismo, nel contesto attuale di amoralità, sfociando spesso nella illegalità o peggio nella criminalità, non può che essere distruttivo e degenerante». Quindi, secondo Bressanin, «il sistema capitalista fondato sul profitto indiscriminato ha portato la società alla disintegrazione sociale ed economica. E la globalizzazione, come massima espressione del capitalismo a livello planetario, ha distrutto in ogni paese il tessuto produttivo, la coesione sociale e prodotto un oceano di debiti, sotto il cui peso la società stenta a riprendere il suo normale corso. Ha favorito l’indiscriminato accumulo di ricchezza in mano a poche persone, aumentando il divario tra ricchi e poveri. Allo stesso tempo è diminuita la circolazione del denaro, creando recessione e alla fine depressione economica». «Inoltre attraverso i media si nascondono i problemi veri, si devia l’attenzione pubblica su cose non importanti, o la si anestetizza con telenovela,  giochini a premio, o con il gioco d’azzardo di Stato. In questo modo la gente sciupa il suo tempo in inutili attività invece di dedicarlo al proprio sviluppo interiore. Ovviamente tutto ciò non può durare all’infinito, così si arriverà al punto di rottura, quando l’ignoranza pubblica, considerata un mezzo per tenere sotto controllo le masse, emergerà con tutta la sua forza dirompente e farà grippare la macchina economica e sociale. Se ci sono diseguaglianze sociali, nessuno vi pone rimedio, tanto la gente si arrangia in un modo o nell’altro. Si inquina l’ambiente, scaricando i rifiuti in mare, bruciandoli, seppellendoli,  tanto  i tumori compaiono dopo decine di anni, così si può continuare ad inquinare, tanto al momento la gente non muore. Ma alla fine la natura chiede il conto e la gente comincia a stare sempre peggio. La miopia mentale, la mancanza di pianificazione, la visione sfruttatrice dell’ambiente, delle persone e delle conoscenze miete le sue vittime. Il sistema socio-economico grippa e si ferma, per poi distruggersi, con dolore e sofferenza per i più. Nessuno può più venderlo come un successo».

La proposta Prout

«La teoria economica PROUT, propone un sistema economico collettivo, dove la proprietà dei mezzi di produzione sia collettiva, in mano alle persone che lavorano e il potere politico in mano a persone morali e capaci» prosegue Bressanin. In sostanza un’economia a responsabilità collettiva, con un sistema di cooperazione coordinata, non subordinata. La finalità è garantire le necessità basilari per l’esistenza a tutti,  l’aumento in modo progressivo del potere di acquisto, per il benessere di tutti, nessuno escluso. Dobbiamo ripristinare il circolo virtuoso PRODUZIONE- LAVORO-REDDITO-CONSUMI necessario a produrre un reddito utile a soddisfare i bisogni primari, per la sopravvivenza e lo sviluppo, diritto di nascita di ogni essere vivente». Rivoluzione Industriale  «La teoria economica PROUT propone un cambiamento strutturale del sistema produttivo, una rivoluzione industriale» continua Bonotto. Per le industrie prevede un sistema tripolare:
1. Aziende Pubbliche deputate alla produzione di materie prime a livello nazionale, regionale o locale. Saranno di loro competenza luce, acqua, gas, rifiuti, estrazione e  produzione di metalli ferrosi, filati, materiali edili con il criterio ‘né perdita, né profitto’ per regolare il mercato e non creare inflazione.
2. Aziende Cooperative, spina dorsale dell’economia, attraverso le quali la popolazione può controllare il potere economico. Alle cooperative sarà affidata la produzione e distribuzione dei beni essenziali all’esistenza per la popolazione. Come passo immediato chiediamo che il 51% delle azioni delle grandi imprese siano nelle mani dei lavoratori, i quali controlleranno gli amministratori e manager.
3. Aziende private che producono beni e servizi non essenziali o di lusso, piccole e micro imprese. Le aziende devono essere create nelle zone in cui sono presenti materie prime e decentrate sul territorio in ragione di esse, in modo tale da sviluppare ogni singola area socio-economica di ogni regione».

Riforma Agraria

«Il PROUT propone una gestione COOPERATIVA dell’agricoltura, in 3 fasi progressive che potranno durare circa 5 anni, sempre se gli agricoltori, attraverso la formazione, ne comprenderanno la necessità. L’Italia oggi non è più autosufficiente nella produzione agricola. Importiamo frutta e verdura dalla Cina. Attualmente circa il 95% delle proprietà agricole ha un’estensione media  di 5-10 ettari, risultando poco sostenibili e produttive. Si propone perciò la creazione di aree economicamente sostenibili unendo terreni anche non adiacenti, mantenendone la proprietà, da condividere in cooperazione. La gestione individuale/familiare della terra, la mezzadria, l’affitto delle terre non utilizzano appieno le potenzialità produttive della terra. Nel sistema agricolo cooperativo ciò può invece avvenire e si può applicare anche la cosiddetta agricoltura integrata: produzione non solo estensiva, ma integrata con orticoltura, floricoltura, allevamento, piscicultura, erbe officinali, sistemi di irrigazione, progetti di ricerca su fertilizzanti e sementi, utilizzando al meglio le potenzialità della terra e producendo un reddito più sicuro per gli agricoltori. Le cooperative avranno la capacità di fare ricerca affrancandosi dai privati». Pianificazione economica decentralizzta  «Il PROUT adotta il sistema di pianificazione decentralizzata. Vale a dire programmazione in funzione dello sviluppo per aree che vanno dai 5.000 ai 100.000 abitanti. “Conosci il territorio e pianifica” questo è il motto della pianificazione decentrata. La popolazione locale ha diritto di pianificare ogni aspetto del proprio territorio, inclusa certo l’amministrazione eletta».

Decentralizzazione Economica

«Per rendere possibili questi programmi il PROUT adotta la decentralizzazione economica (Economia nelle mani dei lavoratori e decentrata sul territorio)

• Obiettivo fondamentale: devono essere garantite a tutti le necessità basilari per l’esistenza

• Le persone non locali, esterne all’area socio-economica in questione, non devono interferire nell’economia locale. Occupazione prima alla popolazione locale.

• Le materie prime non devono essere esportate, solo i prodotti finiti per generare reddito locale

• Tutti i beni non prodotti in loco devono essere eliminati  dal mercato.

In poche parole siamo agli antipodi rispetto alle regole della globalizzazione, adottate per l’Italia dall’Europa, che impediscono lo sviluppo di ogni singolo paese.

• L’Italia deve diventare autosufficiente nella produzione dei beni essenziali.

• Deve avviare la manifattura per soddisfare il mercato interno e un 10-15% di esportazioni.

• Per questo deve salvaguardare le produzioni, disconoscendo i trattati WTO di globalizzazione.

• L’economia in mano alla popolazione (democrazia economica) eliminerà la corruzione prodotta dall’inciucio tra élite politiche ed economiche. Questa in sintesi la nostra visione socio-economica, un cambiamento di paradigma nello sviluppo socio-economico del nostro paese.

Per saperne di più: www.irprout.it

Fonte: il cambiamento

 

Target 20/20/20, l’Italia raggiunge 65% degli obiettivi efficienza

rino_romani

 

L’Italia dell’efficienza energetica è sulla strada giusta: a fine 2012 ha raggiunto il65% dell’obiettivo di risparmio previsto al 2016 che il nostro Paese si è prefissato per realizzare un’economia a basso consumo energetico, più sicura, più competitiva e più sostenibile. E’ il dato significativo emerso dal convegno “Efficienza energetica: lo strumento ideale per raggiungere gli obiettivi 20-20-20“, organizzato da Enea, nell’ambito di Smart Energy Expo, la prima fiera internazionale sull’efficienza energetica. “Gli strumenti di incentivazione messi in atto dal governo italiano per l’efficienza energetica hanno permesso al Paese di risparmiare a fine 2012 80 mila gigawatt/ora di consumi annui“, ha affermato il relatore del convegno, Rino Romani, Responsabile dell’Unità Tecnica dell’Efficienza Energetica dell’Enea, che ha organizzato 17 convegni durante Smart Energy Expo. “Oggi spingersi oltre i requisiti minimi conviene anche dal punto di vista economico perchè il costo globale dell’edificio si ammortizza in meno di trent’anni“, ha dichiarato invece, durante un seminario, Francesco Madonna, ricercatore di RSE – Ricerca Sistema Energetico, Ente che ha organizzato nelle tre giornate di manifestazione 9 convegni. Madonna, che fa parte di un gruppo di lavoro istituito dal ministero delle Sviluppo Economico, ha illustrato, descrivendone l’applicazione al caso italiano, una sintesi generale della metodologia comparativa per il calcolo dei livelli ottimali di efficienza energetica in funzione dei costi, da utilizzare per individuare i requisiti minimi di prestazione per gli edifici e per gli elementi edilizi. Questa metodologia deve essere applicata dagli Stati Membri per effettuare un confronto con i requisiti vigenti e, in futuro, per gli aggiornamenti di tali requisiti.

Fonte: Sceltesostenibili.it

La pressione umana sull’ambiente accelera le estinzioni ma il peggio deve ancora venire

L’impatto sull’ambiente si manifesta però con un secolo di ritardo: le estinzioni di oggi risentono dei livelli di pressione ambientale di inizio ‘900Animali-estinti-586x439

Lo  sviluppo economico (misurato dall’aumento del PIL), l’aumento della popolazione umana e il maggior prelievo di risorse hanno minacciato molte specie di animali e piante nel corso del ventesimo secolo, a volte causandone l’estinzione. E’ il risultato di un ampio  studio realizzato dall’Università di Vienna che ha correlato la percentuale di specie minacciate nei vari paesi europei con tre indicatori della pressione umana sull’ambiente: densità di popolazione, PIL pro capite e HANPP, cioè l’appropriazione umana della produttività primaria netta della natura. E’ stata trovata una correlazione significativa, per cui le nazioni con il maggiore impatto sull’ambiente sono anche quelle con il maggiore numero di specie minacciate. Se la cosa vi sembra abbastanza ovvia è perchè non avete ancora ascoltato la fine della storia. La correlazione non riguarda l’impatto dell’anno 2000, e nemmeno del 1950, ma quello dell’anno 1900! Detto altrimenti, occorrono vari decenni perchè  i danni all’ambiente naturale causati dalle attività antropiche si possano manifestare pienamente. Concludono i ricercatori:«Nonostante recenti azioni di conservazione, i rischi di larga scala della biodiversità sono apparsi con un ritardo considerevole rispetto all’attuale livello di pressione socioeconomica. L’impatto negativo delle attività umane sull’ecosistema di oggi si manifesterà chiaramente solo nei decenni futuri… Molte specie oggi minacciate potrebbero già essere destinate all’estinzione. In Europa tra il 1900 e il 2000 la densità di popolazione è cresciuta del 75%, l’appropriazione di risorse naturali del 30% e il PIL del 580%. Quale devastazione creerà questo impatto tra cinquant’anni? Nella foto: alcune tra le centinaia di specie di animali estinti nel corso del 20° secolo: rospo dorato (1989), la tartaruga dell’isola Pinta (2012) e il passero di mare della Florida (1990).

Fonte: ecoblog