Ufficio di scollocamento: cambiare vita e lavoro, istruzioni per l’uso

«Decrescita non è parola da associarsi a privazione, così come non è privazione lo scollocamento, bensì sfida e opportunità»: Paolo Ermani, presidente dell’associazione Paea, ha incontrato a Torino una vasta platea di persone che vuole cambiare vita e paradigma. Non è affatto impossibile.cambiare_vita_scollocamento

Una vasta platea di persone intenzionata a cambiare non solo prospettiva, ma anche stile di vita e ritmo di lavoro, ha ascoltato a Torino Paolo Ermani, presidente dell’associazione Paea, che ha tenuto una conferenza sulle opportunità offerte dai cosiddetti “uffici di scollocamento”. L’iniziativa era organizzata dall’Associazione RIP, Riprendiamoci Il Pianeta. «Generalmente siamo portati ad interpretare il concetto di decrescita come qualcosa di negativo perché lo associamo alla perdita, alla preoccupazione, alla paura e di contro interpretiamo la parola crescita come qualcosa di positivo – ha spiegato Ermani – Forse questo stesso pregiudizio lo applichiamo al mondo del lavoro, infatti il collocamento viene visto come un’opportunità, come qualcosa di desiderabile, di positivo e lo scollocamento come perdita, come qualcosa di negativo. Invece il concetto di scollocamento ha un’accezione positiva di sfida e opportunità. Infatti l’essere umano ha grandi potenzialità e capacità immense con cui deve ritornare in contatto riscoprendo la propria creatività tornando anche ai lavori manuali».

Secondo Ermani, il sistema economico vigente:

•    Ha generato una crescita infinita in un mondo finito;

•    Ha generato violenza nei confronti dell’ambiente che è stato derubato delle sue risorse, sono state distrutte le biodiversità ed è aumentato l’inquinamento e la quantità di rifiuti;

•    Ha generato ingiustizie sociali specie nei paesi più a sud del mondo non tenendo conto dei diritti umani di base;

•    Ha generato una perdita di senso generale che si manifesta in termini di cronica mancanza di tempo, di insoddisfazione, di degenerazione dei rapporti.

«Il sistema ha potuto tutto ciò perché ha trovato in noi dei complici – ha proseguito il presidente di Paea – Ed è da questo sistema che dobbiamo scollocarci! Si deve rimettere al centro: la persona (relazioni, spiritualità e lavoro); l’ambiente; la finanza e l’imprenditoria etica. L’uomo deve smettere di delegare, deve iniziare ad assumersi le proprie responsabilità, deve riappropriarsi del potere insito nella sua stessa natura e tutto questo deve essere orientato alla realizzazione di un modello alternativo di vita». E questo modello alternativo ha precise caratteristiche:
•    Si riduce il tempo di lavoro, il consumo di energia, gli sprechi e i rifiuti;

•    Si rivaluta il proprio modo di vita a favore di un ritmo più lento e umano;

•    Si ripristina un’agricoltura sostenibile;

•    Si ricostruisce e riaggiusta ciò che già c’è;

•    Si riutilizza;

•    Si ricicla;

•    Si rinuncia al superfluo;

•    Si riconquistano il tempo e lo spazio per stare con se stessi e con gli altri;

•    Si reinveste su se stessi.

«Da questa riorganizzazione della società scaturiscono nuove opportunità lavorative in diversi ambiti – è ancora Ermani – come per esempio energie rinnovabili, bioedilizia, risparmio energetico,  risparmio idrico, settore artigianale (riparazioni), agricoltura biologica, informazione ambientale, medicina e alimentazione naturale. In realtà le attività utilizzabili ai fini del sostentamento e dell’espressione della creatività umana, secondo Ermani, sono tante quanti sono gli individui e forse addirittura quante sono le doti che ciascuna persona ha nel suo bagaglio culturale e psicofisico. L’uomo dovrebbe aprirsi alla sperimentazione lavorativa e scoprire i suoi talenti seguendo le proprie aspirazioni più vere e non indotte. Quando il lavoro diventa la materializzazione della propria aspirazione ecco che automaticamente viene meno il senso di fatica, di travaglio, di sforzo e alienazione. E questo accade ancor più se il lavoro è svolto in un gruppo o in una comunità dove si sta costruendo un presente e un futuro migliori per se e per gli altri».
Per un approfondimento sull’argomento utile la lettura del libro“Ufficio di scollocamento” scritto da Paolo Ermani e Simone Perotti e del libro “Pensare come le montagne” di Paolo Ermani e Valerio Pignatta.
Lunedì 31 marzo 2014, sempre presso il polo culturale Lombroso 16, in via Cesare Lombroso 16 a Torino alle ore 21 ci sarà la prossima conferenza dal titolo “Crescere in umanità:risveglio interiore e cambiamento sociale”. Il relatore sarà Roberto Mancini. Nel pensare di cambiare il mondo ciascuno di noi dovrebbe sviluppare una dose sufficiente di innocuità e dovrebbe essere disposto ad assumersi le proprie responsabilità e maturare la visione del bene comune.
Consulta il sito di Paea per conoscere i prossimi appuntamenti sull’Ufficio di scollocamento e i corsi al Parco dell’Energia Rinnovabile in Umbria.

fonte: il cambiamento.it

Pensare come le Montagne

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Ufficio di Scollocamento - Libro

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Vivere felicemente nella semplicità: Etain Addey e il bioregionalismo

Vivere felicemente nella semplicità. Etain Addey è l’incarnazione di uno stile di vita che segue solo i ritmi della natura e di un tempo ancestrale regolato dai luoghi e non dall’uomo.

Oggi molte persone – soprattutto giovani – stanno immaginando, progettando e realizzando un ritorno alla campagna e alla vita contadina. Etain Addey questo ricongiungimento lo ha realizzato nei lontani anni ’80 quando, dopo aver vissuto a Roma per molto tempo, ha cominciato ad avere la sensazione di “vivere in un mondo”, come spiega lei stessa, “in cui tutto si può comprare”. Quando Etain ha deciso di cambiare vita e seguire l’obiettivo di un sostentamento autosufficiente, non sapeva ancora nulla del mondo contadino. “All’inizio non riconoscevo un’erbaccia da un pomodoro” – scherza – ma questo fa parte della vita, il processo è lungo, ci vuole pazienza”. Non si può avere fretta, per vivere in armonia con il luogo  è necessario prendere coscienza del luogo stesso, diventare “nativi”. Per noi oggi è molto più difficile riscoprire le logiche di questo tipo di vita, perché siamo bombardati dalla cultura del consumo che ci ha abituato a pensare che tutto ci è dovuto.8473388543_b64c29dcc9_b

“Quando vivi un luogo in maniera profonda” – spiega Etain – “cominci a renderti conto che non sei l’unico essere vivente e che tutti gli altri intorno a te hanno bisogno delle stesse cose di cui ha bisogno tu”. Questa consapevolezza ti porta a rispettare il laghetto più vicino alla tua abitazione, perché non è solo il tuo orto ad avere bisogno di acqua ma tutto l’ecosistema che vive grazie a quel lago. Oggi abbiamo perso la cultura del limite, non sappiamo riconoscere i contorni che prima eravamo in grado di sentire istintivamente. Anche gli animali le hanno insegnato molto, come la capretta che ogni giorno riusciva a trovare un buco nel recinto per scappare e andare a pascolare quando e dove voleva lei. “Era molto ironica. Ci faceva capire che non avevamo nessun autorità per tenerla chiusa lì dentro”.8474476704_c51f44ee04_b

I primi anni in cui Etain Addey aveva cominciato a seguire questo stile di vita non sapeva cosa fosse il bioregionalismo (vedi box a destra), ma superata la fase iniziale in cui poteva dedicarsi solo ad imparare i principi dei lavori manuali che sono alla base dell’agricoltura e dell’allevamento, si è potuta concedere le letture per conoscere la filosofia che è alla base di tutto questo. Ha incontrato Giuseppe Moretti, uno dei padri del bioregionalismo italiano, e ha comprato tutti i libri di Gary Snyder. In quel periodo si è resa conto che molti in Italia, come lei, seguivano la strada del bioregionalismo senza saperlo. Per questo ha sia iniziato a tradurre in italiano i testi stranieri sia a scrivere lei stessa delle teorie bioregionali.8474478288_8df05e2101_b

Lo spazio di Etain è però più ristretto rispetto a quello tradizionalmente contenuto all’interno di una bioregione. “Mi sposto solo quando è davvero necessario ma non vado molto lontano”. A parte le visite ai suoi figli e nipoti in Inghilterra, ad Etain non piace allontanarsi dalla “sua” terra. Sia perché non può lasciare molto a lungo il lavoro nei campi e gli animali, sia perché non le piace invadere uno spazio che non conosce e in cui quindi potrebbe provocare turbamenti. Il turismo crea molti danni all’equilibrio di un luogo, non solo per l’inquinamento provocato dai mezzi di trasporto ma anche per gli shock culturali che provochiamo abitualmente a molte popolazioni che non hanno nulla a che vedere con i nostri modelli e stili di vita. Il viaggio ha senso se lo si fa per un motivo.8473386819_705a1f675b_h

Per questo Etain accoglie nella sua casa di legno le tante persone che si recano da lei per i motivi più svariati. Porta l’esempio di una sua amica che doveva operarsi di cancro e aveva bisogno di allontanarsi dalla sua famiglia per stare sola con sé stessa ed essere in grado di superare una prova tanto difficile. “Il viaggio acquista importanza se diventa un motore di incontro e di scambio”, spiega. Confessa che è normale scendere a compromessi, ma l’importante è fare delle scelte secondo coscienza. Anche il rifiuto della tecnologia trova i suoi limiti. Etain vive senza lavatrice né lavastoviglie ma da qualche tempo si è concessa una vecchia automobile per riuscire a risalire dal fiume quando si incontra con i suoi amici. Anche internet le ha risolto parecchi problemi “soprattutto perché mi è capitato” – racconta – “di andare in un ufficio postale che non aveva francobolli”. Vivere secondo coscienza, la propria, significa insomma mettere in dubbio le proprie abitudini e saper scegliere senza perdere la componente spirituale che permette di percepire il limite, mantenendo la consapevolezza che è il luogo a contenere l’uomo e non viceversa.

Elena Risi

Fonte: italiachecambia.org

Perdonare per crescere

La tecnica di Tipping permette di migliorare la propria vita22

Ci sono libri che cambiano la vita di chi li legge: Il perdono assoluto di Colin C. Tipping è uno di questi. Con il suo messaggio chiaro e il metodo alla portata di tutti il manuale ha contribuito a migliorare la vita di migliaia di persone in tutto il mondo. Il tema affrontato da Tipping è appunto quello del perdono che però è qualcosa di completamente diverso da quello che viene chiamato perdono in senso tradizionale. Il perdono assoluto proposto nel libro è un processo che permette di trasformare la sofferenza che viviamo oggigiorno, complice una società sempre più pregna di violenza, come testimonia anche la tv, in qualcosa di assolutamente diverso, che ci permetta di svincolarci dall’archetipo di vittime che incarniamo inconsciamente. Lo strumento che ci permette di attuare questo cambiamento profondo e radicale è appunto il perdono inteso come “assoluto”. Si tratta di un processo benefico, che regala padronanza e migliore controllo della propria vita, più energia e salute e relazioni più sincere. E come spiega Tipping è un processo del quale non possiamo fare a meno: «Siamo entrati nel nuovo millennio e nella nostra evoluzione spirituale ci accingiamo a compiere un grande balzo in avanti. È quindi essenziale che adottiamo uno stile di vita basato sul vero perdono, sull’amore incondizionato e sulla pace, anziché sulla paura, sul controllo e l’abuso di potere. È ciò che intendo con l’aggettivo assoluto: qualcosa che ci porti a un cambiamento radicale, e ci permetta di compiere la trasformazione che ci aspetta».23

Attraverso questo processo, abbiamo la possibilità di crescere spiritualmente: il perdono assoluto è infatti un sentiero spirituale che conferisce uno straordinario potenziale di trasformazione della coscienza

Perdonare è uno stile di vita

Rispetto al perdono tradizionale, il perdono assoluto è molto più semplice, accessibile e immediato: non richiede la lunga applicazione e l’eroismo del primo tipo di perdono. Per poterlo mettere in atto bisogna tornare alle situazioni in cui ci siamo sentiti vittime e trasformare quell’energia negativa in un’energia positiva e costruttiva. Attraverso questo processo, abbiamo la possibilità di crescere spiritualmente: il perdono assoluto è infatti un sentiero spirituale che conferisce uno straordinario potenziale di trasformazione della coscienza. Tipping parte dal punto di vista secondo il quale qualunque problema ci capiti non va visto come una disgrazia di cui sentirci vittime, ma piuttosto come un dono e un’opportunità per far evolvere la nostra anima e avvicinarci così al nostro essere divino. Nulla di quello che ci succede è casuale. Siamo noi stessi ad attirarlo, per offrirci una grande possibilità di crescita interiore. Ma come si fa a trasformare l’energia di situazioni che molto spesso creano stallo o shock nella nostra vita? Attraverso l’amore, che deve continuare a fluire anche quando viviamo situazioni avverse. Piano piano chi sperimenta il perdono assoluto ne fa un’abitudine, trasformando questa semplice tecnica in uno stile di vita, che regala ogni giorno felicità, armonia e pace. Proprio Tipping si era accorto, nel suo lavoro di ipnoterapeuta clinico che molti dei suoi pazienti erano afflitti da malattie provocate dalla mancanza di perdono. Per questo insieme a sua moglie ha messo a punto la tecnica descritta nel libro edito da Essere Felici, che permette di evolversi su più livelli dell’esistenza. Tipping è consapevole di esporre tematiche che possono risultare difficili da accettare, ma esorta comunque il lettore a tentare la strada del perdono assoluto: «Il perdono assoluto è una sfida, un invito a trasformare radicalmente la nostra percezione del mondo e la nostra interpretazione di  quanto ci succede nella vita, di modo che possiamo smettere di fare le vittime. Il mio unico scopo è quello di aiutarvi in questo cambiamento. Mi rendo perfettamente conto che per qualcuno le idee proposte in queste pagine potranno risultare quasi inaccettabili, soprattutto per chi ha subìto grandi violenze e si sente ancora pieno di dolore. Vorrei che, qualunque sia la vostra condizione personale, provaste a leggerlo con mente aperta, disposti a verificare se il suo contenuto vi aiuta a sentirvi meglio». La lunga esperienza decennale di corsi durante i quali è stata usata la tecnica del perdono assoluto e le persone che testimoniano di avere cambiato radicalmente la loro vita in meglio dopo il perdono, sono il miglior biglietto da visita per Tipping, che è fiducioso di fare parte di un progetto più alto e divino: «L’incredibile risposta dei lettori mi fa sentire ancor di più un piccolo strumento nelle mani di qualcosa di grande; non c’è voluto molto prima che mi rendessi conto di essere usato dallo Spirito per far circolare questo messaggio, di modo che potessimo tutti quanti guarire, innalzare la nostra vibrazione e tornare alla nostra vera dimora. Sono grato di aver potuto rendere un tale servizio».

Fonte: redazione viviconsapevole


Uno stile di vita a sprechi zero. Intervista a Bea Johnson

Alcuni giorni fa abbiamo raccontato la storia di Bea Johnson, esperta in modi di vita a “spreco zero” nonché eco-blogger ed autrice del libro “Zero Waste Home”. L’abbiamo contattarla per avere una sua diretta testimonianza, da mettere a fattore comune, come racconto concreto, caso di successo che può creare chissà un invidiabile precedente sociale.beajohnson

La tua storia comincia a fare il giro del mondo, puoi raccontarcela?

Nel 2006, abbiamo deciso di trasferirci da una casa grande in un quartiere periferico. Ciò ci costringeva a spostarci in auto continuamente per qualsiasi cosa, andare al centro, al cinema, in biblioteca, al ristorante, al teatro, ecc. Nell’attesa di trovare una casa ideale per le nostre esigenze, abbiamo preso in affitto un piccolo appartamento per un anno. Così abbiamo fatto un trasloco con poca roba, con il minimo indispensabile ed abbiamo messo in magazzino tutto il resto. Da quel momento ci siamo resi conto che che vivere con meno ci permetteva di vivere di più. D’improvviso avevamo più tempo disponibile da passare in famiglia, più tempo per passeggiare, andare in spiaggia, fare dei pic-nic, ecc. L’anno successivo abbiamo infine comprato una casa due volte più piccola rispetto a quella precedente e ci siamo così sbarazzati dell’80% di beni materiali. Contestualmente continuavamo ad informarci sui problemi dell’ambiente. Abbiamo letto tanto e visto dei documentari su questa tematica. Ciò che di volta in volta scoprivamo ci rendeva triste anche pensando al futuro dei nostri figli. Tutto ciò ci ha motivato a cambiare la nostra maniera di vivere

Bea, hai una famiglia, come sei riuscita a convincerla nel lanciarsi verso questo grande cambiamento?

Mio marito Scott, se ne è convinto non appena ha constatato i grandi risparmi monetari che si determinano da questo stile di vita. Per quanto riguarda i miei figli, da tempo lavoravo sulla riduzione della nostra immondizia e su quella degli imballaggi. E comunque i bambini hanno dei bisogni semplici e se questi vengono soddisfatti sono già contenti; con una buona colazione al mattino e con una buona merendina che li attende nel pomeriggio al rientro da scuola, sono già felici. Ad oggi, i miei bambini hanno vissuto la grande parte della propria vita con lo stile di vita a spreco zero e tale maniera di vivere fa ormai completamente parte del nostro quotidiano. E’ semplice ed è automatico. Se non ne parlassi per via della mia professione o per i media che incontriamo in casa, non ci penseremmo neppure. D’altro canto, i miei amici e il resto della mia famiglia rispettano il nostro modo di vita così come noi rispettiamo il loro. Non cerco di convincerli così come non cerco di convincere nessuno ad adottare lo stile di vita spreco zero. Ciascuno deve vivere come desidera. Detto questo, ci tengo molto a condividerne gli aspetti positivi che ne vengono fuori e a rompere gli a priori che vi sono spesso associati.

Puoi raccontarci qualche aneddoto di vita quotidiana di questi ultimi anni?

Abbiamo testato delle cose estreme prima di riuscire a trovare un equilibrio in termini di alternative per vivere spreco zero durevole. Per esempio, ho capito che lavarsi i capelli con il bicarbonato e sciacquarli con l’aceto di sidro non era una cosa che gradivo molto; dopo sei mesi i miei capelli sono divenuti stopposi e peraltro, mio marito mi ha confessato che non poteva più sopportare il mio odore di aceto a letto. Così ho optato per il sapone di Aleppo sciolto in pezzi

A fine anno producete l’equivalente di un litro di immondizia, cosa c’è dentro e soprattutto cosa ne rimane fuori?

Ciò che si trova in quel litro è ciò che non siamo riusciti ad eliminare applicando le cinque regole che citerò successivamente. Ciò che non entra mai quindi sono i prodotti che possiamo rifiutare, ridurre o riutilizzare. A titolo di esempio, ecco alcuni dei prodotti che fanno parte in genere delle dispense di una qualsiasi casa e che noi invece non compriamo più, sia perché non ne sentiamo la necessita sia perché li abbiamo sostituiti con degli altri riutilizzabili: i rotoli da cucina, la carta in alluminio, le spugne, i sacchi della spazzatura, i sacchi per congelare, i fazzolettini, gli spazzolini, gli stuzzicadenti, le lacche, o altri fissatori, gli smalti per unghia, i dissolventi, i piatti e le posate, i bicchieri gettabili, i prodotti d’igiene femminile, i rasoi gettabili, gli shampoo ed i saponi per le mani, gli spray di ogni sorta, la carta de regalo, le riviste, i giornali, lo scotch, ecc. Questi prodotti, le cui alternative sono proposte nel mio libro, non ci mancano affatto, anzi. Preferiamo utilizzare soluzioni frutto delle nostre idee e inoltre apprezziamo non poco i risparmi finanziari che da esse vengono generati.

In breve, come vi organizzate per fare la spesa, gli acquisti di prodotti cosmetici o elettronici?

Ci serviamo del kit Spreco Zero. Delle sporte, ma anche dei sacchi in tessuto e dei barattoli in vetro. Produco io stessa i prodotti cosmetici con ingredienti che compro sfusi nei reparti alimenti invece relativamente ai prodotti elettronici, così come per tanto altro materiale, li compriamo usati.

Lo stile di vita “spreco zero” comporta anche di risparmiare un bel po’ di denaro. Puoi darci delle cifre in merito al risparmio generato annualmente?

Come già detto, mio marito Scott non era inizialmente convinto da questo stile di vita. L’ho incoraggiato a confrontare gli estratti conto bancari risultanti dal nostro precedente modo di vivere con quello attuale. Si è reso conto che risparmiamo il 40%. Ciò è legato al fatto che consumiamo meno di prima, che sostituiamo il gettabile con il riuso, che compriamo usato quando vi è la necessita di sostituire qualcosa e che compriamo il cibo sfuso. Sapete che per ogni prodotto imballato che si compra il 15% del suo prezzo è determinato dal costo dell’imballaggio? Ciò significa che eliminando gli imballaggi si risparmia immediatamente il 15%. Il denaro risparmiato ci ha permesso per esempio di costruire dei pannelli solari sul nostro tetto

C’è qualcosa che rimpiangi della vita précédente?

Si. Rimpiango semplicemente di non avere cominciato più presto con questo stile di vita

Sei l’autrice del libro “Zero Waste Home”, recentemente uscito anche in versione francese sotto il titolo « Zero Dechet », cosa ti senti di dire alla gente che dubita di questa scelta o che trova impossibile realizzarla nel concreto? Che consigli ti sentiresti di dare per provare a farla approcciare alla cultura «spreco zéro»?

Non sono qui per dire a qualcuno come vivere la propria vita. Tutto quello che posso offrire è raccontare la mia esperienza. Il Zero Waste lifestyle si è rivelato per noi tutto il contrario di quello avevamo immaginato: non costa più caro, non prende più tempo ed anzi la semplicità fa guadagnare tempo. Ci sembra bello e sano vivere in questa maniera. Occorre applicare 5 regole in questo ordine d’importanza:

1- Rifiutare il superfluo

2- Ridurre il necessario

3- Riutilizzare sostituendo ogni prodotto gettabile con uno equivalente riutilizzabile e comprando usato

4- Riciclare ciò che non è possibile rifiutare, ridurre o riutilizzare

5- Fare dei compost con tutto il resto

Noi abbiamo cominciato per la causa ambientale ma oggi tutto va ben al di là. Agiamo per il nostro bene, per quello della nostra famiglia e non solo per quello dell’ambiente

Zero waste è la strada per fare la differenza nella società civilizzata attuale?

Lo Zero Waste ha migliorato la mia vita, è evidente per me che anche un’intera società potrebbe trarne beneficio.

Fonte: il cambiamento

Uno stile di vita a sprechi zero. Dagli Usa la Storia di Bea Johnson

Un chilo di spazzatura all’anno contro i 450 chili che in media produce una famiglia americana. Giovane francese trapiantata negli Stati Uniti, Bea Johnson ha deciso di adottare uno stile di vita a “spreco zero” partendo, in primo luogo, dal rifiuto del superfluo.usa

Sprecare fa parte dello stile di vita di chi vive nella società moderna industrializzata. Sprechi alimentari, sprechi di consumi energetici, sprechi di materie prime, sprechi di risorse naturali sono il frutto di comportamenti e modi di vivere ormai talmente consolidati, specialmente nel mondo occidentale sviluppato, che diviene quasi impossibile pensare e credere che si possa agire e vivere diversamente. Ma di fronte ai dati sugli sprechi, soprattutto quelli recentissimi sugli sprechi alimentari e in un contesto di crisi planetaria senza precedenti, quale quella attuale, occorre seriamente chiedersi come potere contribuire individualmente, senza demandare ad altri, nell’ideazione e nella costruzione di nuovi stili di vita collettivi più consapevoli, più coscienziosi, meno onerosi e meno dannosi per la nostra esistenza e per la salute del pianeta. Occorre educare e sensibilizzare il cittadino-consumatore ad una differente maniera di stare e convivere nella società ma sembra altresì necessario mediatizzare maggiormente le numerose esperienze positive già esistenti che possono nel concreto divenire modello e speranza ai fine di tracciare un solco-separatore tra il falso benessere di cui ci siamo decorati e un reale ben vivere sociale. Ma lo spreco zero è realistico? Probabilmente neppure i più fervidi sostenitori della decrescita felice, quelli del ricorso al riuso, al riciclo e alla riduzione dei consumi credono in una società a “spreco zero”. Si tratta effettivamente di un obiettivo, di un target difficilmente raggiungibile per grandi collettività, forse un’utopia nell’epoca moderna, per lo meno nel mondo cosiddetto civilizzato. Se su larga scala lo spreco zero sembra un obiettivo chimerico, a livello individuale esistono delle eccezioni sorprendenti che lasciano speranza e segnano un cammino. Così proprio dalla società che ha la nomea di essere consumistica per eccellenza, quella statunitense, arriva l’affascinante storia di Bea Johnson. Bea, giovane francese trapiantata negli States, ha deciso di adottare lo stile di vita “spreco zero” e così che la sua famiglia con due bambini riesce a produrre solamente un chilo di spazzatura all’anno mentre in media una famiglia americana ne produce circa 450 chili. Bea, eco-blogger e autrice del libro Zero Waste Home, è prodiga di consigli ed entusiasta per quello stile di vita che conduce da ormai oltre un lustro e che trova i suoi pilastri e motori in primis nel rifiuto (delle cose inutili) e poi nel ridurre, nel riuso e nel riciclo.

Spinta inizialmente dalla causa ambientalista, Bea ha pian pianino apprezzato i vantaggi che offre lo “Zero Waste Lifestyle” e che principalmente scaturiscono dalla semplicità e dalla qualità di quel modo di vivere. Come sostenuto in una recente intervista, quella scelta di vita si traduce nel beneficiare di grande disponibilità di tempo libero per lei e per tutta la famiglia ma anche, cosa non meno importante, nel rilevante risparmio finanziario legato alla riduzione dei consumi e a quelle best practice quotidiane che permettono inutili spese e evitano aggravi di uscite monetarie. La famiglia Johnson conserva il cibo in barattoli di vetro, utilizza buste in tessuto per fare la spesa, rifiuta il packaging per quei prodotti inevitabili che acquista nei negozi, auto-produce prodotti di cosmesi e d’igiene, vive del necessario chiedendosi e valutando giornalmente cosa sia realmente e strettamente utile da ciò che è puramente voglia. Inevitabilmente lo stile di vita dei Johnson ha un impatto su quello del vicinato, degli amici, dei compagni di scuola dei figli, dei negozianti che vengono “educati” ad accettare lo stile di shopping di Bea e famiglia.

Uno stile di vita, per molti estremo, ma realizzabile, al quale è comunque possibile tendere che modifica i nostri limiti intellettuali, culturali e visivi, quelli di animali da consumo, consentendo di porci in un’altra prospettiva, quella di cittadini consapevoli, attivi e partecipi di differenti modi di intendere il nostro esistere. Chissà se coniugare l’estremismo del nostro modus vivendi con quello, almeno apparente, dello “spreco zero” non possa infine permettere di fondere positivamente l’idea di economia moderna sviluppatasi nei secoli e che ci ha reso esclusivamente consumatori, con quella dell’ecologia e del rispetto a 360° che, forse, racchiude in se il concetto di vera qualità del vivere nell’era moderna.

Fonte: il cambiamento

WWOOF, agricoltura in condivisione. Intervista a Claudio Pozzi

Sostenere l’agricoltura naturale e condividere la quotidianità rurale alla ricerca di stili di vita in armonia con la natura. Questa l’idea da cui nasce l’organizzazione WWOOF. Per saperne di più abbiamo intervistato Claudio Pozzi, presidente di WWOOF Italia.orto_agricoltura

Condividere la quotidianità rurale alla ricerca di stili di vita in armonia con la natura. È questa l’idea da cui nasce l’organizzazione WWOOF. Per saperne di più abbiamo intervistato Claudio Pozzi, presidente di WWOOF Italia.

Vuoi presentarti? Quali sono state le tue esperienze e come sei arrivato a fare il presidente di WWOOF?

C’è un collegamento anche con la vostra storia. Risalendo all’indietro… nel 1993 sono diventato socio di MAG6, la cooperativa finanziaria di Reggio Emilia e poco tempo dopo in un momento in cui stavo collaborando con l’associazione ‘Piccole città dell’Italia centrale’ ho conosciuto Paolo Ermani e ho partecipato al primo corso su risparmio energetico ed energie rinnovabili del centro tedesco con cui lui collaborava a quei tempi ed abbiamo iniziato a collaborare sul progetto della casa mobile più che altro, che è stato il focus dell’attività di Paolo in Italia per diversi anni. Quindi collaboravo con MAG, con Paea che ancora non si chiamava Paea e sentivo l’esigenza di mettere in pratica uno stile di vita legato all’autosufficienza. Pur abitando in campagna non avevo a disposizione una terra neanche per fare un orto e quindi ero alla ricerca di un posto dove mettere in pratica questa passione. Fino a che non sono finito nel ’96 a collaborare in un podere qui nella provincia di Pisa dove si faceva già allora permacultura e fitodepurazione, insomma era un podere abbastanza sperimentale. In questo podere era nata una delle prime liste italiane di WWOOF che era un movimento internazionale. Le aziende ed i viaggiatori italiani che volevano partecipare facevano riferimento alle liste di altri paesi, quindi WWOOF Australia, WWOOF Germania, Inghilterra. Quindi Casolare Acqua chiara e parallelamente un’altra fattoria in Umbria all’insaputa l’uno dell’altro hanno iniziato a stilare una lista di piccole fattorie italiane. Erano liste veramente piccole: la lista di Casolare Acqua Chiara quando l’ho conosciuta contava 21-22 aziende, era addirittura scritta a mano perché i ragazzi che la gestivano erano contrario all’utilizzo dei mezzi elettronici. Uno dei miei ruoli all’interno del casolare Acqua Chiara oltre a curare l’orto ed ospitare i WWOOFers era quello di curare la crescita e la formalizzazione di questa associazione anche perché potesse dare lavoro a chi se ne occupava. Quindi l’ho curata e fatta crescere per due/tre anni fino a che grazie alla legge sul volontariato non sono riuscito a scrivere uno statuto e a formalizzarla. Nasce con un profondo spirito Mag tanto che tra i firmatari dell’atto costitutivo c’erano tre soci MAG che avevo coinvolto nel sottoscrivere l’atto costitutivo proprio perché mi dessero una specie di viatico da un punto di vista etico/formale. Chiaramente è stata una scommessa un po’ dura perché proprio per le esperienze associative che avevo vissuto fino a quel momento sapevo che fondare un’associazione fra persone che non si conoscevano fra di loro e che sono molto distanti fisicamente non sarebbe stato facile, tanto è vero che oggi dopo 16 anni devo dire che la maggior parte dei nostri soci ci percepiscono più come una società di servizi che non come un’associazione.wwoof_italia

A quando risale quindi l’atto costitutivo di WWOOF Italia?

L’atto costitutivo risale al ’98-’99, quando l’associazione aveva raggiunto un numero sufficiente a giustificare una polizza assicurativa, poi nel frattempo un altro passaggio è stato quello di conoscere le persone che stavano portando avanti il progetto CAES (Consorzio Assicurativo Etico e Solidale) ed affiancarle, contribuire in qualche modo al loro progetto presentandoli in MAG, cercando insomma di costruire rete intorno a loro perché poi comunque la polizza assicurativa era una cosa fondamentale per un’associazione come la nostra. Siamo ‘gemellini’ di Caes anche se non ci frequentiamo molto, ma non saremmo esistiti uno senza l’altro.

Quindi WWOOF Italia nasce ufficialmente nel 2000 e parte dal Casolare Acqua Chiara

Diciamo che nel 2000 l’esperienza del casolare Acqua Chiara era già finita, cioè la proprietaria ha deciso di venderlo, io ero già senza fissa dimora. Quindi diciamo che il movimento WWOOF Italia nasce anche dal Casolare Acqua Chiara ma poi nel 2000 il Casolare non esisteva giù più. In certi anni le cose si svolgono in maniera molto veloce. L’esperienza del casolare Acqua Chiara è durata due anni ma è stata intensissima per esempio.

Puoi darci qualche numero su WWOOF Italia? Quanti sono i soci? C’è stato un trend di crescita in questi anni?

Nei primi due anni, prima della formalizzazione, c’è stata un po’ ‘una forzatura’ nel cercare adesioni per raggiungere il numero che permettesse la nascita di un’associazione. In seguito abbiamo sempre cercato di crescere per passaparola: oltre il 90% delle nostre adesioni derivano da persone che hanno già fatto l’esperienza. Tendiamo a non promuoverci troppo: non è la crescita che ci interessa, siamo più orientati a crescere in consapevolezza, in qualità delle relazioni interne più che a crescere numericamente. L’importante è riuscire a pagare lo stipendio a chi gestisce l’ufficio e coprire le spese dell’associazione. Non siamo un’impresa che deve produrre sempre di più e non a caso abbiamo aderito anche al movimento per la decrescita. Quando abbiamo avuto qualche sbalzo di adesioni (può capitare un anno di crescere più del solito) a noi ha sempre creato qualche problema. Insomma devi sempre riadeguarti: da una gestione familiare stiamo cercando via di professionalizzarci, ma senza che questa professionalizzazione voglia dire estraniamento perché la nostra è un’associazione fondata sulla relazione umana. È chiaro che si parla di agricoltura e di questioni sempre pratiche, ma se non funziona la relazione tra le persone non funziona tutto il resto. Il nostro più grosso problema è quello di essere letti in maniera molto sintetica “io lavoro quanto pastasciutta mi dai” o viceversa “se io ti do un letto allora quanto mi dai”. Non è una forma di reciproco pagamento quello dell’ospitalità e del lavoro e questo è un messaggio difficile da far capire perché l’orecchio della gente va sul messaggio che circola più facilmente che è “c’è la possibilità di scambiare l’ospitalità con il lavoro”. Sì è vero, non potrebbe esistere l’esperienza se non fosse così però mangiare insieme, dormire sotto lo stesso tetto fa parte di una condivisione più ampia.wwoof_italia2

Nel momento in cui io sono una fattoria ospitante mi metto nella condizione di condividere il più possibile del mio stile di vita cercando di trasmettere agli altri le mie competenze, cercando di spiegare il perché ho fatto certe scelte piuttosto che altre, perché sono venuto a star qui, perché ho deciso di coltivare questo piuttosto che altro… Cerco di mettere a disposizione il mio luogo, le mie scelte, le mie competenze e perché no anche parte del mio tempo libero, per cui si può anche andare a bere una birra insieme in un posticino simpatico, andare a fare un bagno nel torrente, andare a visitare i dintorni. D’altra parte chi viaggia e va a visitare un’azienda non va lì per avere un tetto e del cibo che paga con il lavoro, non è quello il senso. Il senso è andare ad immergersi nel ritmo, nello stile di vita di una famiglia, di una comunità, di un’azienda perché curiosi di quello che succede lì e per la voglia di condividere e di conoscere e, perché no, di portare anche le proprie di conoscenze. Girano anche dei WWOOFers che hanno competenze, magari le hanno acquisite anche facendo i wwoofers.

Questo è lo spirito dell’associazione sia all’Italia che all’estero o ci sono delle differenze tra il circuito italiano e quello internazionale?

Noi ci concentriamo di più su questo aspetto educativo e di convivialità e non a caso abbiamo aderito a Reti semirurali, abbiamo aderito al movimento della decrescita anche se questa è un’adesione un po’ sulla carta, siamo soci di Mag6 e siamo soci di Banca Etica, cioè cerchiamo di trasmettere dei valori e delle opportunità ai nostri soci perché possano alzare lo sguardo e fare rete sul loro territorio.

Quali sono le caratteristiche richieste a chi vuole entrare a far parte dell’associazione?

Per quanto riguarda i viaggiatori (WWOOFers) la voglia di partecipare ai ritmi e allo stile di vita di chi ti ospita in campagna. Non sono richieste professionalità ed esperienze pregresse e non c’è un filtro su chi aderisce per viaggiare. Chiunque una volta compiuta la maggior età può aderire. Sulle aziende invece facciamo un po’ più di filtro per ovvi motivi perché vogliamo conoscerli, sapere bene qual è la loro motivazione. Abbiamo la possibilità di conoscere le aziende un po’ meglio mentre sarebbe impossibile poter conoscere 5000 viaggiatori che arrivano da tutte le parti del mondo prima di accettare l’adesione. È importante che leggano il regolamento e lo sottoscrivono.

E le aziende? Quali requisiti devono avere?

Di aziende ne abbiamo un po’ di tutti i tipi. Il movimento soprattutto quando era informale era formato in particolare da aziende che non erano aziende: aziende è un termine che noi usiamo forse perché non siamo riusciti ad inventarcene un altro, ma non è detto che chi aderisce sia effettivamente un’azienda agricola. Può essere anche qualcuno che ha un’abitazione nella quale tende ad autoprodursi l’olio, le verdure o altro senza farne un’attività professionale. A noi interessa capire quali sono le motivazioni che li spingano: se dicono ad esempio “ho bisogno di qualcuno che mi aiuta a raccogliere le olive” tendiamo a rispondere che forse WWOOF non è il posto adatto e che ci sono altri sistemi e altri modi. Cioè se la tendenza è quella a trovare manodopera a basso costo non ci interessa. Noi vogliamo trovare realtà aziendali o non aziendali, la certificazione ci interessa poco, ci interessa che la pratica sia di agricoltura naturale ma poi vogliamo che le persone abbiano voglia di ospitare e di vivere in convivialità con le persone che ospitano.wwoof_italia_4

Non pensi che il sistema adottato da WWOOF rischia di favorire lo sfruttamento del lavoro gratuito?

Noi stiamo molto attenti che questo non succeda, poi sono i viaggiatori che dovrebbero darci un feedback: se si trovano a disagio sono invitati a segnalarcelo. È successo che qualche azienda che non aveva dei comportamenti corretti è stata sospesa.

Tra i singoli iscritti ci sono delle tendenze? Ad esempio più uomini o più donne, più ventenni o quarantenni?

In linea di massima chiaramente la fascia più rappresentata è quella giovanile, dall’università in poi fino a 30 anni, ma girano anche pensionati o persone che usufruiscono del loro periodo libero per fare questo tipo di esperienza perché magari vogliono capire se la vita agricola fa per loro, o magari vogliono semplicemente entrare in contatto con questo aspetto della produzione agricola. A volte girano interi nuclei familiari, soprattutto all’estero dove è più facile che una famiglia riesca a prendersi un anno sabatico e poi quando rientra a casa non ha problemi a trovare un lavoro. Credo che ci siano più donne che uomini, non una prevalenza enorme comunque.

Cosa bisogna fare per aderire?

Per i viaggiatori: si va sul sito, si legge lo statuto, si paga la propria quota e in genere si entra. Per un’azienda si viene messi in contatto dove è possibile con il coordinatore di zona che visita l’azienda per capire se esistono i requisiti per l’adesione. Laddove il coordinatore non esiste ci penso io tramite interviste telefoniche.

Tu hai mai fatto il WWOOFer?

Non dentro la rete del WWOOF, l’ho fatto prima di conoscere il WWOOF. Il mio avvicinamento alla vita in campagna è stato da una parte facendo l’operaio in un’azienda agricola e nel tempo libero andando a collaborare con amici che avevano aziende biologiche nella zona dove risiedevo allora (andavo e aiutavo a potare, raccogliere, etc.). Da quando conosco il WWOOF ho avuto delle esperienze come ospitante quando ero in un’azienda agricola ma non avendone mai avuto una mia sono sempre state esperienze che sono durate due anni, due anni e mezzo.

Esistono dei circuiti analoghi al WWOOF?

Ci sono altre associazioni che non si occupano specificatamente di ospitalità in agricoltura, ad esempio c’è Workaway. Esistono dei circuiti internazionali ma vengono gestiti più come business. Noi stessi, a volte, quando ci sembra che un’azienda non sia molto adatta al WWOOF consigliamo di guardarsi intorno e di aderire ad altre associazioni che hanno un atteggiamento un po’ più libero.

Credi che il WWOOFing potrebbe essere applicato ad altri campi o è strettamente legato al settore agricolo?

La nostra organizzazione è nata per sostenere l’agricoltura naturale. A volte abbiamo pensato di aprire qualche situazione (magari non urbana) che più che agricoltura possa fare artigianato ma è rimasta poi un’idea sulla carta, non abbiamo spinto in questo senso. Da un certo punto di vista facciamo fatica a stare dietro alla nostra crescita perché dobbiamo trovare nuove persone che si impegnino e che ne condividano lo spirito, che imparino a lavorare in squadra, stare insieme. Non è semplicissimo.wwoof_italia9

Quante persone lavorano a WWOOF Italia?

Per WWOOF Italia lavorano: 1 lavoratore dipendente, 3 collaboratori a partita IVA, 3 consulenti amministrativi, 1 consulente legale ed 1 facilitatrice (per le riunioni). Inoltre vi sono i coordinatori locali, che come me sono volontari. Sicuramente il passaggio dal volontariato alla produzione sociale (avvenuto nel 2005) dunque per noi è stato essenziale perché ci ha permesso di stipendiare anche qualche socio.

Che tipo di visibilità mediatica sta avendo WWOOF Italia?

Si parla di WWOOF, ma noi non cerchiamo la visibilità.

Avete progetti in vista per il futuro?

Abbiamo deciso all’ultima assemblea di aumentare la quota partecipativa proprio per permetterci di sviluppare progettualità condivise. Ora ci sono dei progetti in corso che sosteniamo e riguardano da una parte la diffusione e formazione sulla questione della trazione animale in agricoltura, poi abbiamo contribuito alla campagna ‘Basta veleni’ portata avanti da una coppia di apicoltori piemontesi. Stiamo facendo inoltre un corso di formazione agli agricoltori sulla questione della riproduzione delle sementi di cereali e cercheremo di portare avanti sempre di più questi progetti. È chiaro che devono essere progetti di interesse collettivo e non del singolo.

Nel momento di crisi che stiamo attraversando molte persone e soprattutto molti giovani si stanno avvicinando all’agricoltura e stanno trovando impiego nel settore agricolo. Secondo te perché è importante che le persone si avvicinino all’agricoltura? Cosa ne pensi?

Io ritengo che questo sistema di sviluppo economico e di relazioni sociali sta implodendo. Se vogliamo raggiungere la sostenibilità dobbiamo per forza ritrovare un contatto con la terra.

Fonte: il cambiamento

Vegani vs Carnivori: chi frequenta chi?

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l numero di vegetariani e vegani nel mondo è in costante aumento. Ma cosa succede se un sostenitore della dieta cruelty-free incontra un partner carnivoro?

Ce lo rivela un sondaggio di Today.com pubblicato da Forbes, il quale evidenzia in modo piuttosto netto come oltre il 30% degli onnivori dichiarerebbe di non voler frequentare un vegetariano o vegano se ne avesse la possibilità.

Intervistando un campione di oltre 4.000 persone, sia maschi che femmine e di età compresa tra i 18 e i 75 anniil 96% dei vegetariani e vegani sostiene, invece, di non aver problemi all’idea di intraprendere una relazione amorosa con un carnivoro.

I perché di una tale ‘discriminazione’ ai danni del mondo veg potrebbero essere molteplici, primo tra tutti la paura dei carnivori di sentirsi additati e continuamente sottoposti a giudizio per le proprie abitudini alimentari. Molti infatti hanno dichiarato che gli amici vegetariani e vegani li sottopongono continuamente a pressioni psicologiche sulla loro dieta e stile di vita, che non hanno nulla del confronto intelligente tra due opposti punti di vista.

D’altra parte sembrerebbe che i vegetariani e vegani ambiscano a frequentare chi non la pensa come loro proprio perché sono fortemente attratti dalla possibilità di convertire il partner al proprio modo di vedere.

Noi pensiamo che in medio stat virtus: in fondo una maggiore apertura reciproca potrebbe consentire di trovare un punto di incontro per evitare discriminazioni amorose di sorta.

Insomma ci auspichiamo che i vegani siano meno pronti a puntare il dito ed ergersi sul piedistallo della virtù ed i carnivori siano più disposti a comprendere una prospettiva diversa dalla propria.

Fonte: tuttogreen