Sadhguru a Roma: “Senza un suolo sano non c’è sopravvivenza”

Sabato scorso il tour attraverso Europa e Asia del leader ambientalista indiano Sadhguru si è fermato a Roma. Supportato da personaggi del mondo della musica e dello spettacolo, il guru ha lanciato con forza il messaggio su cui si fonda Conscious Planet, il progetto da lui stesso creato: «In questo momento l’aspetto più importante della conservazione della natura è il suolo». La nostra inviata Brunella Bonetti ci racconta com’è andata.

RomaLazio – C’è grande trepidazione nell’aria. Fermento. Centinaia di persone nel piazzale ovale antistante l’Auditorium in attesa di Sadhguru, il guru indiano fondatore di Conscious Planet, il movimento che si batte per la salvaguardia del suolo. Lui viaggia in moto, in solitaria. Sta attraversando 27 paesi in 100 giorni riunendo esperti, leader e persone di tutto il mondo per affrontare una crisi imminente. Piove tutto il giorno su Roma. Poi smette e, all’improvviso, esce il sole, proprio quando ha inizio l’evento gratuito che ha come ospite d’onore Sadhguru, il cui messaggio viene cantato da artisti come Malika Ayane, Elisa, Noemi, Brunori Sas, Giovanni Caccamo e personaggi tra cui Fabio Volo. «In tutto il mondo – dicono –, il degrado del suolo sta raggiungendo livelli che minacciano la produzione di cibo, la stabilità del clima e la vita stessa di questo Pianeta».

Sadhguru ha iniziato il suo viaggio di 30.000 chilometri attraverso l’Europa e l’Asia, per accelerare gli interventi di politiche per la protezione del suolo, sostenuto da leader mondiali, celebrità e istituzioni di rilievo. Ed oggi è a Roma, accompagnato da grandi artisti, pronti a testimoniare il cambiamento attraverso canzoni e performance a sfondo e tema naturale. Sulle note di Cambiamento, il guru ci ricorda che «le Nazioni Unite affermano che tra sessant’anni non avremo più terreno coltivabile. Il 52% dei suoli agricoli del mondo sono degradati e, a questo ritmo, una disastrosa crisi alimentare globale sarà inevitabile nel prossimo futuro».

«La verità è che cambiare fa paura e che non sappiamo rinunciare a quelle quattro o cinque cose a cui non si crede neanche più», suona Brunori Sas, vate della situazione presente. Tuttavia è ancora possibile produrre un cambiamento in senso positivo e sostenibile. Poi canta Elisa, partner dell’ONU, in partenza per un tour all’insegna e a sostegno della sostenibilità ambientale.

Se non fermiamo il degrado del suolo, il Pianeta non sarà più un luogo favorevole alla vita degli esseri umani

Sadhguru non è il solito guru. Non porta il turbante ma occhiali da sole, maglietta dai colori sgargianti e gira in moto con un sorriso contagioso e accogliente, proprio come la terra che si batte per difendere. A dialogare con lui, sale sul palco Manoj Juneja, direttore esecutivo e capo finanziere del World Food Programme (WFP) delle Nazioni Unite.

Juneja spiega l’importanza di tutelare il suolo, oggi più che mai, per la salvaguardia della biodiversità e della nostra stessa esistenza. Poi ringrazia il guru per la sua missione e per l’importante messaggio che porta in giro per il mondo a milioni di persone: «Save soil. Let’s un make it happen!».

Quando sale sul palco Sadhguru è una standing ovation: occhiali da sole e lunga barba, bianca, come la scoppola che porta in testa «Namastè», saluta emozionato. Poi intona un mantra che fa vibrare tutti i presenti, uniti in un canto per la terra. «È importante capire che senza un suolo sano non c’è sopravvivenza. Non c’è vita. Dobbiamo agire subito per le future generazioni, per garantire loro un futuro più sostenibile».

Possiamo fare molto nel nostro quotidiano per andare nella giusta direzione, come «renderci conto, innanzitutto, dei disastri e dei danni che stiamo arrecando alla terra e poi compiere piccole ma efficaci azioni in senso opposto, come piantare alberi. Milioni di alberi. Ci aspetta un lungo percorso, tante battaglie e milioni di persone sono da mobilitare». Ma tutto ciò è possibile, fa capire il guru con la sua stessa presenza e con il suo incredibile viaggio: «Si può sognare. Fate in modo che i vostri sogni diventino realtà».

«Avrò cura di te», recita la canzone di Battiato. E lo stesso dovremmo fare noi per la nostra Madre Terra: averne cura. Lo fanno già il Dalai Lama, il cantautore Maluma, l’attore Omar Sy, la direttrice della FAO Maria Helena, il pilota automobilistico Nico Rosberg, il giocatore di football Tom Brady, il DJ Pete Tong e decine di altro sostenitori di Conscious Planet, che mira ad attivare il sostegno di oltre 3,5 miliardi di persone e a promuovere un cambiamento nelle politiche di tutte le nazioni democratiche per la rivitalizzazione del suolo aumentando il suo contenuto organico.

Sadguru lo fa già e offre l’opportunità di unirsi a un movimento che ha proprio questo come scopo. «In questo momento l’aspetto più importante della conservazione della natura è il suolo. Se non fermiamo il degrado del suolo, il Pianeta non sarà più un luogo favorevole alla vita degli esseri umani». Il cambiamento è possibile. Facciamolo accadere!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/04/sadhguru-roma-suolo/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Tecniche di sopravvivenza

Sopravvivere significa riuscire a non morire. Non significa vivere, dunque. Significa mettere in atto tutte le nostre capacità, le nostre abilità non ancora scoperte, comportamenti inspiegabili, inaspettati, foss’anche discutibili. E’ per sopravvivere. E’ per continuare a vivere. Che sia in un modo o nell’altro non è in fondo poi quello il problema.inquinamento_cittadino

Sopravvivere significa riuscire a schivare il pericolo, riconoscerlo, inquadrarlo, isolarlo. Poi attuare una strategia per affrontarlo. Nelle nostre città piene di macchine (154 morti a Roma per incidenti stradali nel 2014, mi dice il cartello elettronico all’incrocio sulla Salaria, 1800 feriti, 45 pedoni cancellati dalla loro vita) i pericoli maggiori non sono neanche dovuti alla velocità dei veicoli che falciano sempre più persone. Caro ci costa, a pensarci bene. E i bordi delle strade si ingrossano di avanzi di vite mentre il nostro andare prosegue incurante, a fermarsi in qualche istante di sincero dispiacere, quasi un collaterali  che accettiamo volentieri in nome del progresso e del brivido dello spararci veloci da un capo all’altro dei nostri confini. Fuori e dentro di noi. L’aria della sorta di bolla in cui viviamo è velenosa. Lo sappiamo. Ci rifugiamo nei parchi appena possiamo, fuggiamo lontani appena ne abbiamo la possibilità. Eppure se le nostre città fossero luoghi per vivere non avremmo bisogno di rifugiarci lontano, da qualche parte al primo ponte disponibile, al primo week end atteso come pane di libertà e di respiro. Ma non è neppure questo il pericolo più grande. I nostri passi sono respinti dalla durezza dell’asfalto, dai cementi ingrigiti e inaccoglienti, indifferenti alle nostre impronte, inalterati dalla nostra esistenza. Le nostre strade sono per le macchine, non più per le persone, i nostri cieli sono stati concepiti per i palazzi del tutto ignari alle stelle, non per i nostri occhi che non arrivano più a guardare, per i nostri sguardi diventati troppo corti, come tagliati, come privati delle loro ali, trattenuti a terra. E invece creati per migrare lontano, per raggiungere le linee delle albe e dei tramonti a scrutare i colori fusi degli orizzonti. Guardiamo le nostre vite sempre dalla parte opposta a dove siamo. Quasi avessimo bisogno del sogno che ci culla, che ci rende possibile il nostro dolore, che ci assicura per le nostre paure a vita, che ci lascia spettatori a guardare chi ce la fa, chi torna indietro, chi ha il coraggio di tentare. E diventiamo i loro peggiori giudici, a difesa delle nostre fortezze di pietra. Siamo stritolati dal tempo cui abbiamo dato scettri e corone. Gli abbiamo regalato le nostre vite, sacrificato le nostre relazioni, ceduto la nostra scena, i nostri anni inscatolati. Ma non è il tempo né la solitudine o la velocità. Non è l’aria irrespirabile né lo spazio che ci manca che possono metterci in pericolo. Non le relazioni inesistenti, usa e getta. Non la rabbia violenta che si scatena l’un l’altro al meno di niente. Non più di tanto. Il soggetto più pericoloso è la nostra Empatia.  L’abbiamo presa e l’abbiamo etichettata come portatrice del rischio più estremo, per il nostro precario equilibrio di cuore e di mente. Un amico mi parla delle sue tecniche riservate al primo essere umano che vede al mattino sotto casa e che gli chiede qualcosa per strada: non sopporto la sua mano tesa, vorrei non vederlo, detesto come mi fa sentire. Passo anch’io di fretta, abbasso gli occhi, sbiascico qualche parola di circostanza ad accompagnare la mia gentilissima impassibilità. Abbiamo fretta da guadagnare, prigioni da raggiungere puntuali, soldi da raccattare per poterli ragionevolmente puntare sui tavoli da gioco delle nostre sicurezze. Che la nostra Empatia non ci raggiunga fin dove siamo. Che la nostra naturale indole di aiuto e compassione venga respinta e contenuta pena l’insostenibile sguardo che dovremmo riservare a noi stessi e a quello che siamo diventati. Totalmente immemori che ogni persona privata del suo sostentamento, del cibo che gli spetta come figlia della terra, dell’aria e della vita cui ha diritto, siamo noi. Siamo la stessa, identica cosa. Abbiamo tagliato i fili di ogni sentire comune, abbiamo perso il senso della nostra sorgente, ci siamo differenziati fino a morirne e fino a lasciar morire. Sono tante, sono troppe le persone intorno a noi che ci chiedono aiuto. Persino trai nostri amici e tra le persone che conosciamo bene. Persino quelle che stimiamo davvero e che amiamo profondamente. O crediamo di amare profondamente. Non possiamo che chiedere sostegno alla nostra imperturbabile noncuranza. Non possiamo che continuare a correre, concentrati sui nostri nulla, inconsapevoli dei frutti amari che cresceranno, soffocati dalla nostra sempre giustificabile aridità e di cui prima o poi saremo costretti a nutrirci. Del resto che cosa possiamo fare nelle nostre città di pietra? Dove il cemento ci è entrato dentro, fin nelle vene, rendendoci immobili nonostante tutte le apparenze. Siamo i nostri peggiori nemici, al cospetto delle nostre Signore Rispettabilità e Riservatezza. In ginocchio davanti ai nostri Signori Tempo e Lavoro. I vestiti migliori della nostra Indifferenza.

Fonte: ilcambiamento.it

La foto di una donnola sul dorso di un picchio e la lotta per la sopravvivenza

In Inghilterra impazza una fotografia che ritrae una donnola sul dorso di un picchio, ma è tutto il contrario di ciò che può sembrare. La foto scattata da Martin Le-May nell’Hornchurch Country Park di Londra, rilanciata su Twitter dal bird-watcher londinese Jason Ward, sta letteralmente impazzando in Inghilterra. Le-May stava passeggiando nel parco insieme alla moglie quando un volatile con un mammifero in spalla è passato vicino alla coppia ed è poi è atterrato sul prato. I due sono stati attratti da quelli che sono sembrati versi di un animale in difficoltà e, in effetti, le cose per il volatile si stavano mettendo male: la donnola (il predatore) infatti era saltata al volo sul dorso del picchio (la preda). Questo il racconto fatto dallo stesso Le-May a BuzzFeed:

“Mentre stavamo camminando abbiamo sentito il verso angosciato di un volatile e ho visto per un attimo un lampo color verde. Ho subito fatto notare ad Ann che l’uccello era atterrato dietro un paio di piccole betulle d’argento. Abbiamo subito preso i nostri binocoli ed abbiamo osservato che il picchio sembrava muoversi come se poggiasse le zampe su una superficie rovente; […] quando è ripassato vicino a noi avevo già tirato fuori la macchina fotografica e ho notato che aveva un piccolo mammifero arrampicato sulla schiena: si trattava di una battaglia per la sopravvivenza. Il picchio è atterrato di fronte a noi, a circa 25m di distanza, e allora ho temuto il peggio. La nostra presenza però deve aver distratto la donnola e così il picchio se ne è approfittato ed è volato via su alcuni cespugli alla nostra sinistra.”

Insomma, il picchio si è tenuto la vita e la donnola (purtroppo per lei) la fame. Una classica questione si sopravvivenza, anche se in questo caso era mascherata da amicizia.enhanced-buzz-wide-27584-1425334086-8-620x350

Fonte: ecoblog.it

Parassiti resistenti agli OGM, un nuovo studio lo conferma

I parassiti resistono agli OGM e un nuovo studio pubblicato su Nature Biotechnology lo conferma.143168700-594x350

I parassiti si adeguano agli OGM, è la dura legge della sopravvivenza e uno studio lo conferma. Già lo studio della University of Arizona aveva dimostrato la capacità degli insetti di adattarsi e sopravvivere Gli autori della ricerca hanno passato in rassegna 77 studi condotti nei 5 continenti a partire dai dati disponibili in merito alle coltivazioni OGM di cotone. Le piante sono state geneticamente modificate per sviluppare tossine velenose per i parassiti derivate dal batterio bacillus thuringiensis. Dei tredici tipi di parassiti studiati cinque specie sono diventate resistenti nel 2011, contro una sola nel 2005. I parassiti sono considerati resistenti quando oltr il 50% degli insetti in un campo sono sopravvissuti e sui 5 insetti resistenti 3 hanno attaccato un campo di cotone e 2 un campo di mais. Tre dei cinque casi di resistenza sono stati identificati negli Stati Uniti, patria di metà delle superfici geneticamente modificate che producono la proteina Bt, gli altri due in Sud Africa e India. Un altro caso di resistenza è stato identificato negli Stati Uniti, ma meno del 50% degli insetti del campo era diventato resistente. In questo contesto, gli scienziati hanno dimostrato che con il tempo i parassiti sviluppano una forma di resistenza e che nel peggiore dei casi queste forme sono comparse dopo due o tre anni, mentre in altri casi le piante geneticamente modificate erano ancora efficaci contro i parassiti anche dopo quindici anni. Gli autori dello studio ritengono che l’adattamento dei parassiti alla tossina Bt sia inevitabile ma che organizzando delle zone franche all’interno dei campi, ossia zone senza piante OGM sia possibile rallentare il processo.

Fonte:  Le Monde