Duecento milioni di dollari
l’anno: è la cifra che le cinque maggiori compagnie petrolifere e del gas al
mondo spendono per esercitare pressioni in modo da ritardare, controllare o
bloccare le politiche di contrasto al cambiamento climatico.
Le cinque maggiori
compagnie petrolifere e del gas, quotate in Borsa, spendono quasi 200 milioni
di dollari all’anno per esercitare pressioni per ritardare, controllare o
bloccare le politiche volte ad affrontare il cambiamento climatico. Lo rileva il
report “How the oil
majors have spent $1Bn since Paris on narrative capture and lobbying on climate” pubblicato
da Influence Map.
Chevron, Bp ed
ExxonMobil sono indicate come le principali
aziende leader nel lobbying diretto contro una politica climatica che affronti
il riscaldamento globale e i social media la piazza migliore per questa
strategia. Lo scorso anno, i giganti mondiali dell’oil&gas hanno speso
circa 2 milioni di dollari su Facebook e Instagram con annunci mirati che
promuovevano i benefici di una maggiore produzione di combustibili fossili.
Separatamente, Bp ha donato 13 milioni di dollari a una campagna, sostenuta
anche da Chevron, che ha fermato con successo una carbon tax nello stato di
Washington (di cui 1 milione è stato speso in annunci sui social media, come
dimostra la ricerca). Il report sottolinea come queste campagne siano
fuorvianti per il pubblico: mentre le aziende supportano pubblicamente
l’urgenza di un’azione, stanno invece aumentando gli investimenti per aumentare
l’estrazione di petrolio e gas. In altre parole, c’è un evidente gap tra le
parole e le azioni. Secondo quanto ha riportato il Guardian, Shell e Chevron
hanno dichiarato di essere in disaccordo con le conclusioni del report
ribadendo il loro impegno nella lotta al climate change.
Una parte dell’attuale
governo ha deciso che è opportuno introdurre la valutazione del rapporto
costo-beneficio per decidere sulla realizzazione delle grandi opere. E meno
male, anche se si tratta solo di un piccolo passo…
Per capire se le
grandi opere, come la TAV in Val Susa, convengano o meno, una parte
dell’attuale governo ha deciso di effettuare la valutazione del rapporto
costi-benefici, cioè sostanzialmente di comprendere se effettivamente i soldi
che si investono in una determinata opera possano avere un ritorno adeguato
oppure no. Perlomeno è un piccolo passo avanti rispetto a prima, quando si
faceva tutto senza farsi alcuna domanda o calcolo di sorta se non quello di chi
si spartiva cosa, visto che le cosiddette grandi opere sono solo un
mazzettificio mascherato con le parole crescita, progresso e simili barzellette
assortite per fare intascare soldi ai soliti noti. Ma queste opere, in
primis la TAV, sono così assurde, inutili, costose, devastanti che i benefici
in termini economici sono praticamente impossibili, considerando gli enormi
esborsi a fronte di guadagni irrisori o inesistenti a opera compiuta, anche
perché i guadagni veri a cui puntano i progressisti non sono certo a opera
ultimata ma nella creazione dell’opera stessa. Per la crescita infatti non è
importante realizzare qualcosa che abbia un senso finanche economico ma
costruire, demolire, fare ponti, autostrade, cementificare tutto, fare buche.
Che poi queste buche si riempiano di nuovo come si faceva durante il servizio
militare o che sulle autostrade come la BreBeMi non passi nessuno, poco
importa; l’importante è fare, non importa come e cosa. E chiunque si opponga a
queste follie, oltre che essere tacciato come un potenziale terrorista, è
ovviamente qualcuno contro il progresso e l’avanzamento delle umane genti verso
lo scintillante futuro. Quindi la stessa TAV, dai difensori degli
interessi di chi ci farà i soldi, è stata fatta diventare la lotta fra chi
vuole che il paese vada avanti e chi invece che rimanga fermo. Ironia della
sorte, proprio da un punto di vista ferroviario più di metà dell’Italia è
immobile grazie al continuo buttare soldi in opere inutili come la TAV,
appunto. Quindi più il paese investe in progetti simili e più si ferma davvero.
E’ bene quindi quantomeno capire se queste inutili mega opere convengano; ma il
rapporto costi-benefici per le prossime generazioni in termini soprattutto
ambientali chi lo calcola? Dovrebbe infatti essere introdotta obbligatoriamente
una valutazione di impatto ambientale diversa da quella attuale (che anche quando
viene fatta è allegramente aggirata, svilita, resa inefficace). Occorrerebbe
capire quali e quante opportunità di vita stiamo togliendo a chi verrà dopo di
noi. Bisognerebbe in effetti calcolare esattamente quanto inquinamento verrà
prodotto, di che tipo, con quali conseguenze, quante risorse verranno distrutte
e non più recuperabili, quali opere verranno costruite e quanto servirebbe per
eliminarle qualora non servissero più, quale è il loro impatto su natura e
territorio e cosa significa nelle specifico per almeno i prossimi cento anni.
Che senso ha ad esempio realizzare una qualsiasi opera se poi si inquinano le
falde acquifere irrimediabilmente o le si rende non più accessibili? Senza
un’autostrada o una ferrovia viviamo tutti tranquillamente, senza acqua no. Quindi
se le suddette grandi opere non superano il vaglio del rapporto costi-benefici
per le prossime generazioni, non si fanno, anche dovessero essere convenienti
economicamente, perché mica è detto che qualcosa che conviene economicamente
poi conviene anche a livello ambientale. Basti pensare all’esempio della
plastica: è conveniente, versatile, eccezionale ma guarda caso sta soffocando
terre e mari. Forse un grosso affare non lo è stato.
E’ quindi doveroso
per una società che vuole veramente avere un futuro, iniziare a dire che il
rapporto costi-benefici da calcolare deve vertere su aspetti economici,
ambientali e di vantaggio per le generazione a venire, e i secondi due aspetti
devono essere dominanti sul primo. Quindi se un’opera non rispetta rigidi
parametri ambientali e di rispetto delle prossime generazioni, non si fa. Con
buona pace dei progressisti il cui mondo è una landa desolata e morta piena di
rifiuti in cui non sfrecciano più nemmeno i loro sfavillanti treni perché non
c’è rimasta più vita alcuna.
Maltempo devastante, foreste abbattute,
smottamenti, paesi feriti, morti; poi ci sono piante e animali selvatici, anche
per loro va malissimo. Eppure, ciò di cui importa sono solo i danni economici.
Se si rientra del danno con un po’ di soldini, il gioco è fatto. E chi se ne
frega degli alberi e tutto il resto…
Con i
disastri provocati dalle tempeste di vento e pioggia di questo autunno stiamo
avendo un assaggio delle conseguenze del riscaldamento globale del pianeta.
Naturalmente, chi “assaggia” di più sono gli abitanti delle campagne e dei
piccoli paesi, che rimangono a lungo senza strade e senza corrente elettrica.
Quanto a lungo dipende da quanto è ricca la zona dove abitano, cioè da quanti
ricchi ci abitano e ci speculano e guadagnano con alberghi, resort, porti,
turismo ecc. Ma non divaghiamo. Più ancora degli abitanti umani “assaggiano”
piante e animali selvatici ma questo non importa. L’importante sono i danni
economici, l’importante è lo “sviluppo”, la “crescita”. E infatti i disastri
crescono, il marasma climatico si sviluppa.
Qualche problema
c’è e non si può nasconderlo, per questo le voci in coro dei media di servizio
(“servizio” a chi? Lascio ai lettori la decisione) parlano ad alta voce di
frane e allagamenti, di panfili sbatacchiati nel golfo del Tigullio, di
Portofino isolata (evviva! Finalmente gli abitanti di Portofino avranno un po’
di pace). Ma dopotutto anche questo sarà tutto “sviluppo”. Si dovranno rifare
le strade, riparare le case; con la scusa della sicurezza si potranno mettere
le briglie (di cemento) ai fiumi, come fossero cavalli imbizzarriti, e…
tagliare gli alberi. Tutto cippato che cola nelle centrali a biomasse fatte
con le sovvenzioni dell’Unione Europea alle energie rinnovabili (!?).
Ma poco si parla
delle centinaia di ettari di foreste rasi al suolo dalla furia dei venti, dei
magnifici abeti del Cadore, della Carnia, delle Dolomiti Friulane abbattuti a
centinaia di migliaia sulle nostre Alpi. Le strade, i porti, il turismo, i
soldi. Anche le vittime umane passano in secondo piano di fronte ai “danni
economici”. Figuriamoci le vittime vegetali. Ma chi se ne frega degli alberi…
Certo, sono ancheloro esseri viventi. Però di seconda qualità. Tutt’al più sono “risorse”,economiche naturalmente. E di queste risorse qualcuno si preoccupa: l’Ordinedegli Agronomi Forestali, i cui padroni vivono e prosperano e si arricchisconocon queste risorse. Infatti si preoccupano degli alberi in quanto legna,economia, turismo. “Ne sono stati abbattuti 8 milioni di metri cubi”, perchél’albero è metri cubi di legna, ogni metro cubo rende tot, le aziende forestaliperderanno tot soldi perché non tutta quella legna si potrà recuperare equindi… allarme allarme per il danno economico, dateci soldi o almeno permessi per abbattere altri alberi che sono rimasti in piedi, per sfoltire le foreste così quando gli alberi cadono non spingono giù altri alberi, pertagliare gli alberi grandi (e già lo fanno ma non basta mai) così se tutti glialberi sono piccoli non cadono e, se cadono… li ripianteremo a spese vostre. Evedrai come cresce il PIL, come si sviluppa l’economia.
Un’umanità affetta
da amnesia grave (e la malattia
degli “scordoni” colpisce in maniera anche più grave quelli che per professione
dovrebbero informare) dimentica qualche piccolo particolare.
Primo: noi umani respiriamo solo grazie agli alberi, dato che senza ossigeno non possiamosopravvivere e sono loro che lo producono, e questo dovrebbe bastare a farceliamare e proteggere con tutte le nostre forze. O no?
Secondo: sono gli alberi che permettono alla pioggia di filtrare nel suolo e di riempire le falde, invece di scorrere via erodendo terre e allagando valli.
Terzo: sono leradici degli alberi che trattengono la terra sui pendii di colline e montagne esponde dei fiumi; terra che altrimenti verrebbe erosa o franerebbe. Sipotrebbe andare avanti elencando la produzione di humus, l’equilibrioecologico, il riparo e il cibo per la fauna selvatica e tanto altro ancora. Macome si può pretendere che queste cose importino a chi non si preoccupa dell’avvenire dei propri figli?
I consumi aumentano
e sono sempre più inquinanti ed ecoillogici, sempre più distruttivi. Commesse
ed operai risparmiano per andare in crociera, architetti e medici mettono via i
soldi per comprarsi il panfilo (detto elegantemente “barca”), che poi una bella
tempesta “estrema”, che non sarà più estrema, triturerà contro la banchina del
porto. Gli apericena sono tanto di moda e così carini, con quelle tonnellate di
piatti e posate e bicchieri di plastica usa e getta che comportano (e che
sviluppano l’economia); così come è di moda mangiare all’aperto d’inverno nei
ristoranti che scaldano il cielo con le loro stufe elettriche o a gas da “aria
aperta” (viva il consumo energetico); tanto di moda è anche correre con grosse
moto sulle strade il più tortuose possibili, un vero sport di massa che
sicuramente sviluppa il PIL con consumo di moto, benzina e, ultimo ma non in
ordine di importanza, di bare e uffici funebri. E tutti camminano con lo
sguardo incollato allo smartphone dritti verso il precipizio che non vedono. Ma
vedono la pubblicità che a velocità supersonica colpisce senza tregua i loro
cervelli. La distruzione delle foreste, provocata dalle ormai non più rare
tempeste di vento, è l’esempio lampante di come l’aumento dell’effetto serra, a
un certo punto, cominci a creare fenomeni che rischiano di alimentarlo
ulteriormente.
Cosa aspettiamo ancora a svegliarci dal sogno ingannevole, dal torpore colpevole, dalla colpevole ignoranza in cui viviamo immersi,a decidere di cambiare senza indugi la rotta. Cambiare consumi, stili di vita,passare dall’incoscienza alla coscienza.
A meno che non
pensiamo che i panfili siano più importanti dell’aria che respiriamo.
Uno degli aspetti sui quali si è più sensibili in Italia è quello dei soldi, ma ne viene sprecata una quantità enorme oppure vengono regalati consapevolmente ad approfittatori di ogni specie. Eccovi solo alcuni dei mille esempi su come la nostra relazione con il denaro è quanto mai schizofrenica.
Non ci sarebbe alcun bisogno di andare così spesso nei bar ad acquistare ciò che per lo più si ha già in casa; nonostante ciò, i bar sono pieni di gente che lascia interi stipendi in sciocchezze. Mai nella mia vita, nonostante abbia viaggiato spessissimo in treno, ho comprato qualcosa da mangiare o bere sul treno stesso, poiché, oltre alla dubbia qualità del cibo, si sa che costa tutto il doppio o il triplo del normale; stessa cosa negli autogrill. Eppure si continua imperterriti a comprare in questi posti. Se fossimo davvero in difficoltà economiche o semplicemente ci tenessimo ai nostri soldi, come tutti dicono, ci faremmo panini, o simili, da casa per il viaggio così come si faceva una volta quando eravamo “arretrati”; oggi che siamo super moderni, pare che nessuno ne abbia tempo o voglia e i soldi si spendono allegramente. Dai telefoni cellulari vengono fatte una quantità esorbitante di chiamate assolutamente evitabili che comunque un costo lo hanno sempre, ma non ci si pensa; tranne poi arrabbiarsi con le varie compagnie telefoniche che ci spillano soldi in tutti i modi. Siamo tutti squattrinati ma poi il nostro frigorifero e la nostra dispensa sono pieni di alimenti che in parte verranno sprecati o andranno a male. Che bisogno c’è poi di comprare una auto nuova se quella che si ha va ancora bene? Ma vuoi mettere il brivido di un’auto immacolata. E i soldi per pagarla, anche a rate, li si trova in qualche modo e in giro si vendono sempre più auto nuove dalle dimensioni di navi e caratteristiche da carro armato. Soprattutto i centri delle città sono strapieni di negozi di vestiti e abbiamo guardaroba traboccanti. Vestiti dai prezzi altissimi semplicemente perché hanno una firma prestigiosa, ma chi li realizza fisicamente è pagato centesimi e sarà fortunato se non muore in qualche incendio della fabbrica lager dove lavora. E che dire di mobili nuovi, quando in qualsiasi isola ecologica o mercato dell’usato se ne trovano infiniti? E dei bagni firmati o delle ristrutturazioni estetiche assai costose di cui spesso non ci sarebbe assolutamente bisogno? Però poi se si parla di installare sistemi rinnovabili, si chiede preoccupati in quanto tempo si ammortizzano i costi. In Italia pare che ci siano milioni di poveri (assai presunti), ma poi l’attenzione al risparmio in genere, ed energetico in particolare, è assai bassa da parte di cittadini e istituzioni.
Non c’è reale volontà di intervenire, non c’è formazione seria, non si punta su questi aspetti e costantemente si buttano soldi senza senso per poi pagare bollette altissime. Il tutto ovviamente continuandosi a lamentare, dai sindaci fino ai cittadini, affermando che di soldi non ce ne sono. Che gli interventi di risparmio energetico si ripagano da sé e che siano il futuro del lavoro, ormai lo sanno anche i sassi; molto meno lo sanno i nostri amministratori, fermi ancora ai fossili e allo spreco costante e imperterrito. Proseguendo la casistica di come buttare i propri soldi, tante persone investono in prodotti finanziari consigliati da bancari o consulenti vari, nella speranza di arricchirsi senza muovere un dito che non sia su una tastiera di computer o su smartphone. L’aspetto di guadagnare senza fare nulla è di per sé già assai singolare e ben poco ci si sofferma su cosa ci sia dietro ad investimenti “sicuri” e rendimenti x o y. Quanto questa sia, oltre che una discutibile pratica, anche una mera illusione, lo dimostrano i continui scandali delle banche che ingannano i clienti che però sono complici consapevoli del proprio raggiro. Così come sono costanti le truffe dei Madoff internazionali più o meno conosciuti che ovunque imbrogliano persone di ogni tipo più o meno acculturate che gli affidano assai stupidamente i loro risparmi. Altro spreco ancora più consapevole sono tutti i giochi di azzardo, dalle scommesse online che hanno reso semplicissimo spendere soldi velocemente, fino ai fiumi di “gratta e vinci” che riempiono ogni edicola o tabaccheria e hanno costi incredibili: 5, 10 e più euro, e vengono costantemente comprati da tantissime persone. Quei tantissimi che mai darebbero un centesimo per una iniziativa meritevole, per gente disinteressata che si batte anche per i loro diritti e il loro ambiente. Guardinghi e sospettosi con gli onesti e allocchi con gli approfittatori. Infatti quello che mi ha sempre stupito è notare come per iniziative valide, meritorie, sensate ci sia spesso sospetto, si facciano le pulci, si spacchi il capello in quattro ma poi non si abbia nessun problema a farsi turlupinare quotidianamente da gente pagata fior di quattrini per ingannarci. Ingannarci attraverso la pubblicità che ci fa comprare cose del tutto superflue senza le quali vivremmo molto meglio. Si dà spesso colpa ai politici di tutti i mali, ma immaginate se si iniziasse a non sprecare i propri soldi e li si investisse per migliorare la società e proteggere l’ambiente, come la situazione cambierebbe in un attimo senza aspettare le ere geologiche della politica. I cambiamenti veri, concreti, sono sempre alla portata di mano, basterebbe metterli in pratica.
Un aumento di 81 miliardi di dollari negli investimenti per le armi nucleari sta alimentando l’escalation del loro utilizzo: 20 aziende e i loro investitori finanziari si preparano a raccogliere i frutti della nuova corsa agli armamenti. La denuncia di Rete per il Disarmo.
La Campagna Premio Nobel per la pace ICAN (Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari) e la Ong olandese PAX hanno pubblicato il Rapporto 2018 “Don’t bank on the bomb” (‘Non investire nella bomba’) che ha registrato un aumento di 81 miliardi di dollari in nuovi investimenti a favore della produzione di armi nucleari nel 2017, rispetto al 2016. Il Rapporto mostra come siano 20 le aziende che beneficiano maggiormente dell’aumento delle minacce nucleari e viene rilanciato in Italia dalla Rete Italiana per il Disarmo (membro di ICAN) insieme alla Fondazione Finanza Etica.
Stando ai dati pubblicati:
Un totale di 525 miliardi di dollari (un aumento di 81 miliardi di dollari) è stato messo a disposizione delle aziende produttrici di armi nucleari; tra questi 110 miliardi di dollari provenivano da sole tre società: BlackRock, Vanguard e Capital Group.
Inoltre, 329 banche, compagnie di assicurazione, fondi pensione e gestori patrimoniali di 24 paesi investono in modo significativo in armi nucleari
Le 20 maggiori compagnie produttrici di armi nucleari, la maggior parte delle quali ha a propria disposizione significative risorse di lobbying a Washington, trarranno beneficio dalla crescente minaccia nucleare
Una nota positiva: dopo l’adozione del Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari, 30 società hanno cessato di investire in armi nucleari.
Due dei cinque maggiori fondi pensione al mondo stanno disinvestendo dalle armi nucleari
“Se vi state chiedendo chi benefici delle minacce di guerra nucleare continuamente rilanciate da Donald Trump, in questo Rapporto troverete la risposta”, ha detto la Direttrice esecutiva di ICAN Beatrice Fihn. “Queste sono le aziende che traggono profitto dall’omicidio di massa indiscriminato di civili. Aumenta la nostra insicurezza mentre loro guadagnano sul caos, investendo nella distruzione finale in stile Armageddon”.
“Una nuova corsa agli armamenti nucleari ha avvicinato l’orologio del giorno del Giudizio – il cosiddetto Doomsday Clock – a un vero Armageddon, ma ha anche avviato una nuova corsa all’oro nucleare per coloro che vogliono trarre profitto da ipotesi di distruzione di massa” ha concluso la Fihn.
«Nel Rapporto si riscontra un massiccio aumento degli investimenti nella distruzione di massa, ma vengono anche individuate 63 istituzioni finanziarie con politiche che limitano o proibiscono gli investimenti in qualsiasi tipo di produttore di armi nucleari – spiega la Rete per il Disarmo – Per l’Italia sono Banca Etica (inserita nella “Hall of Fame”) e Intesa-Sanpaolo con Unicredit (inserite tra i “Runners-up” anche se solo con una “stella” sulle quattro possibili e che rimangono comunque anche nell “Hall of shame” per investimenti negli anni precedenti)».
“I nostri soldi non sono neutri. Una volta depositati in banca o affidati a un gestore finanziario possono alimentare economie con impatti positivi o al contrario estremamente negativi. Il Rapporto permette di informarsi su quali sono le banche coinvolte nel finanziamento delle armi nucleari. È quindi uno strumento per formarsi e riflettere sull’uso dei nostri soldi, e per agire di conseguenza” è il commento di Andrea Baranes, presidente di Fondazione Finanza Etica.
Susi Snyder, della Ong PAX e co-autrice del Rapporto, ha evidenziato i risultati positivi: “Il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari ha rilanciato il disinvestimento dalle armi nucleari, evidenziato dal 10% in meno di investitori, ed un incremento nelle istituzioni finanziarie che proibiscono qualsiasi forma di investimento. L’impiego dei propri fondi non qualcosa di neutrale, e questi attori finanziari devono quindi essere lodati per essersi posti dalla parte dell’umanità”.
Anche la pressione sulle istituzioni finanziarie sarà uno degli strumenti a disposizione delle mobilitazioni della società civile che chiedono un mondo finalmente libero dalle armi nucleari. “La richiesta principale per quanto riguarda le campagne italiane è quella che anche il nostro Paese inizi il percorso di adesione e ratifica al Trattato” sottolinea Francesco Vignarca coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo. “Per questo abbiamo lanciato insieme a Senzatomica la mobilitazione ‘Italia, ripensaci’ che andremo a sottoporre ai nuovi parlamentari appena eletti. Forti delle cartoline di sostegno che stiamo raccogliendo in tutta Italia e degli ordini del giorno votati da numerosi comuni in tutto il Paese. Anche i dati sul sostegno finanziario alle armi nucleari saranno in questo senso preziosi”.
La delibera stanzia 20 milioni di euro, suddivisi equamente tra il 2018 e il 2019, per promuovere e agevolare la realizzazione di interventi di miglioramento dell’efficienza energetica di interi edifici e si rivolge ai proprietari, ai condomini, a società, a enti privati o a partecipazione pubblica.
Uno stanziamento di 20 milioni di euro per interventi di riqualificazione energetica su edifici di proprietà privata. Questo il provvedimento approvato oggi dall’esecutivo di Palazzo Marino a conferma della volontà dell’Amministrazione di ridurre le emissioni inquinanti anche attraverso aiuti concreti ai cittadini. Lo stanziamento segna il percorso verso il 1° ottobre 2023, data in cui entrerà in vigore il divieto delle caldaie a gasolio in ogni stabile della città. Nel dettaglio la delibera stanzia 20 milioni di euro, suddivisi equamente tra il 2018 e il 2019, per promuovere e agevolare la realizzazione di interventi di miglioramento dell’efficienza energetica di interi edifici e si rivolge ai proprietari, ai condomini, a società, a enti privati o a partecipazione pubblica. Lo stanziamento costituisce un contributo sufficiente alla sostituzione di tutti i 3.500 impianti a gasolio privati tutt’ora presenti a Milano.
Gli interventi ammessi saranno quelli che riguardano direttamente gli impianti termici che potranno essere migliorati o sostituiti, andando così a ridurre l’emissione di inquinanti; ma anche interventi destinati all’efficientamento energetico dell’edificio. Fra le opere per cui è possibile ottenere il contributo, la sostituzione di impianti di riscaldamento a gasolio con caldaie a metano, pompe di calore o altri sistemi meno inquinanti, l’installazione di pannelli solari o fotovoltaici e di isolamenti termici che riguardano la struttura dell’edificio, le finestre e gli infissi e quindi avere un risparmio di consumo energetico e il miglioramento della qualità dell’aria in città. Il contributo è a fondo perduto e oscilla tra il 5 e il 20% del costo di realizzazione dell’intervento, a seconda della tipologia adottata. Attraverso la partecipazione al bando i privati non dovranno anticipare nessun costo di realizzazione e fin dal primo anno sarà possibile risparmiare tra il 10 e il 20% e successivamente fino al 60% grazie anche alla possibilità che i cittadini hanno di accedere contemporaneamente al sostegno che il Governo mette a disposizione per i medesimi interventi e che consiste in detrazioni fiscali dilazionabili in dieci anni per un valore massimo del 65% del costo dell’intervento. Inoltre la delibera detta anche le linee di indirizzo per l’Avviso pubblico che sarà pubblicato nelle prossime settimane e che ha l’obiettivo di individuare istituti bancari e intermediari finanziari che, attraverso appositi finanziamenti a tasso agevolato, sosterranno fin dall’inizio gli investimenti sostenuti dai cittadini o dagli enti che avranno avuto accesso ai fondi comunali. Gli impianti di riscaldamento rappresentano in termini emissivi più del 50% delle emissioni climalteranti a livello di territorio comunale e contribuiscono alla formazione del Pm10 nell’aria per il 26% contro i veicoli che sono al 44%; inoltre il gasolio da riscaldamento costituisce una fonte importante di inquinamento a elevata emissione di CO2. Questo importante contributo si inserisce all’interno di un programma di investimenti sulla qualità dell’aria e la vivibilità che l’Amministrazione ha da tempo messo in campo. I privati hanno già potuto accedere al contributo del ‘bando caldaie’ finanziato dal Comune con 1,6 milioni di euro per incentivare il rinnovamento degli impianti degli immobili privati nel biennio attualmente in corso. Inoltre nei mesi scorsi era stato stanziato un contributo di 2,6 milioni di euro per chi ha installato il filtro antiparticolato sul proprio veicolo alimentato a diesel. Per le modalità di accesso al “bando caldaie” in corso e per informazioni più dettagliate è possibile fare riferimento allo “Sportello Energia” del Comune, in corso Buenos Aires angolo via Giovanni Omboni (scala che porta al seminterrato di fronte al civico 22) aperto dal lunedì al giovedì dalle ore 10:00 alle ore 12:00 o al numero telefonico 02 884 68300 dal lunedì al giovedì dalle ore 10:00 alle ore 13:00.
Se in Germania si avanza la proposta di una settimana lavorativa di 28 ore, perché qui in Italia siamo ancora lontani anni luce da questa prospettiva? Sì, una ragione c’è. Ma non è detto che non si possa cambiare…
Abituati a pensare ai tedeschi come lavoratori indefessi che lavorano 20 ore al giorno, ci potrebbe stupire conoscere perché è stato recentemente approvato un accordo nel settore metalmeccanico, ad iniziare dalla regione del Baden Wuerttemberg, per avere la possibilità di lavorare 28 ore a settimana. Ma come è possibile che i tedeschi, campioni di tutto, possano lavorare così poco? Chi conosce i tedeschi e la Germania avrà notato che più che lavorare tanto, sono bene organizzati ed efficienti. E quando si è bene organizzati ed efficienti, un’ora di lavoro vale il doppio o anche di più. Ma questi sono concetti troppo sopraffini e complessi per essere compresi da economisti e manager nostrani, forniti di eccelsi studi e master di ogni tipo. Bastano esempi banali per capirlo: se siamo in un ufficio o in un cantiere dove regna il caos, si perderanno interi giorni all’anno solo per cercare quello che non si trova. Se le riunioni di lavoro sono organizzate come una convention di persone dedite all’uso massiccio di marjuana, difficilmente otterremo risultati efficaci. Se è assolutamente normale dare un orario e poi iniziare la riunione almeno mezz’ora dopo, aspettando gli arrivi delle persone alla spicciolata, è evidente che perderemo complessivamente in un anno molti giorni di lavoro. Quando in Italia si cerca di essere seri, organizzati, precisi, puntuali, soprattutto nel settore pubblico o nel terzo settore, si viene quasi sempre tacciati di eccessiva rigidità, di essere tedeschi appunto. Quindi per non essere “tedeschi”, gli italiani lavorano molto di più e male dei tedeschi. Lo confermano i dati dell’OCSE del 2017 che ci dicono che i tedeschi lavorano trecentocinquanta ore all’anno meno dei Pulcinella. L’accordo fatto sulle 28 ore in Germania è stato raggiunto anche per dare la possibilità ai genitori di stare maggiormente con i figlie gli anziani. Incredibile, ci si sta accorgendo che molto più dei soldi è importante il tempo. Cosa ci fai infatti con i soldi se non hai nemmeno il tempo di stare con i tuoi cari, di leggere un libro, di fare una passeggiata, di coltivare una passione? Come lavorerai leggero, felice e concentrato se sai che quello che stai facendo ti sta portando via il tempo per quello che ami di più?
Quando nel 1992 iniziai a lavorare proprio in Germania al Centro per l’energia e l’ambiente di Springe nei pressi di Hannover, c’era la formula lavorativa per la quale si poteva scegliere di lavorare anche solo 25 ore settimanali e ciò era stato pensato proprio per dare la possibilità a chi aveva figli e famiglia di poterla seguire adeguatamente senza dover pagare baby sitter e senza rischiare di vedere poco e male i figli o i propri cari. E nonostante il salario fosse comunque mediamente inferiore a quello che si percepiva esternamente al Centro, le persone, dato che facevano parte di un modo di vivere sobrio e che trovavano la loro soddisfazione non nell’acquisto di merci superflue ma nel fare una attività che gli piaceva e che aveva senso, vivevano tutti dignitosissimamente e senza che gli mancasse nulla. Per la cronaca, il Centro lavora dal 1981 ed è tutt’ora vivo, vegeto e in piena forma e la formula delle 25 ore lavorative era stata pensata a metà/fine anni ottanta, quindi trenta anni prima del recente accordo in Baden Wuerttemberg, ma meglio tardi che mai….
Ed ecco quello che accadrà sempre di più prossimamente, le persone credendo sempre meno alle esigenze del falso mondo della pubblicità e degli assurdi status symbol, ritorneranno a prediligere quello che li fa stare bene, la relazione con i figli, con i propri cari, con gli amici, con la natura e lavoreranno il giusto. Rideranno di quando pensavano che fare le rate per comprarsi una auto nuova, sembrava fosse indispensabile e invece era solo una delle tante follie architettate da chi le macchine o ogni tipo di superflua cianfrusaglia ce le voleva assolutamente vendere in cambio della nostra libertà e della nostra felicità.
Per il treno deragliato alcuni giorni fa a Pioltello ci sono già i primi indagati. Si tratta dei vertici di Trenord e Rfi: Maurizio Gentile, ad di Rete Ferroviaria Italiana, Umberto Lebruto, direttore di produzione di Rfi, Cinzia Farisè, ad di Trenord, e Alberto Minoia, direttore operativo di Trenord. Bene che la magistratura cerchi i responsabili, ma qui occorre porsi molte altre domande e cercare molte altre risposte.
I servizi essenziali che dovrebbero essere garantiti in Italia sono allo sfascio perché i soldi vengono rubati da orde di politici e loro compari. I soldi che rimangono dal ladrocinio generalizzato vengono utilizzati male perchè l’avidità umana è concentrata sul profitto e su quello che rende. Quindi se si tratta di scegliere fra qualcosa che almeno a prima vista rende di più e qualcosa che rende di meno, ovviamente si sceglie quello che rende di più. Che poi da qualche parte fra leggi e la Costituzione ci sia scritto che i cittadini devono vivere in sicurezza o gli devono essere garantiti servizi di base (pagati con tasse su tasse), è un dettaglio che si può certo trascurare. E dove sono tutti quelli che parlano di sicurezza laddove si intende solo difendersi da gente dalla pelle scura e non certo quella sicurezza che si dovrebbe pretendere per un treno che deraglia e uccide le persone?
Secondo i manager rampanti o coloro che hanno studiato economia in prestigiose università, gli utili mica si accrescono puntando sulle tratte per i pendolari. Gli utili si fanno con l’alta velocità e i pendolari possono fare la carne da macello nel senso letterale del termine. Negli ultimi anni sono stati chiusi oltre 1.100 chilometri di linee locali con relative stazioni, il personale è ridotto all’osso, servizi pessimi, sporcizia, ritardi continui, soppressioni di treni, guasti tecnici a ripetizione. Ma di cosa stupirsi se già da quando si compra un biglietto on line o alle biglietterie automatiche, c’è la fregatura architettata in maniera diabolica nel fornire primariamente le tratte che convengono alle compagnie e non al cliente.
Nel recente incidente ferroviario di Pioltello dove sono morte tre persone e ci sono stati quarantasei feriti, è decisamente rivoltante sentire le ragioni delle ferrovie quando dicono che come incidenti siamo in linea con gli altri paesi, che rispettiamo parametri teorici di sicurezza. Basta viaggiare nelle tratte dei pendolari o nelle linee periferiche per capire che la sicurezza è un optional, non certo la regola e se anche una sola persona fosse rimasta ferita o uccisa per scarsa manutenzione, per fondi non investiti, la colpa è senza appello, statistiche o meno. Vadano a spiegare ai parenti delle vittime che siamo dentro le statistiche. La situazione è sotto gli occhi di tutti: soldi buttati nella TAV in Val Susa per un opera orrendamente e criminalmente inutile oltre che devastante e poi non si fa manutenzione adeguata ai binari dove passano migliaia di pendolari ogni giorno. Ma i capitalisti del danno collaterale sono anche assai impreparati nel loro business. I soldi si farebbero lo stesso, proprio rafforzando le ferrovie dappertutto, non solo concentrandosi sull’alta velocità e il resto lasciarlo allo sbando. Le persone infatti prenderebbero molto di più il treno se avessero un servizio efficace, pulito, puntuale, comodo, frequente, sicuro, lasciando volentieri la macchina a casa, magari non la comprerebbero nemmeno. Se ci fossero veri manager e non poveri speculatori, capirebbero che attraverso un pianificazione intelligente potrebbero finalmente fare un lavoro che ha un senso, che aiuta veramente le persone a muoversi in sicurezza impattando meno sull’ambiente. La mobilità del futuro sarà proprio quella pubblica e capillare che le ferrovie italiane stanno in tutti i modi cercando di smantellare. Soldi da investire per realizzare questo obiettivo ce ne sono di sicuro visto che vengono continuamente sprecati e rubati. Anche il potenziale di richiesta di mobilità su ferrovia c’è, bisognerebbe solo agire. Ma questi manager che guadagnano cifre vergognose e che prendono buone uscite milionarie per poi andare a fare danno da qualche altra parte, non hanno nessun ritegno se anche di fronte ai morti continuano imperterriti nella loro follia dove il profitto viene sempre prima delle persone considerate solo un effetto collaterale sulla strada del guadagno.
Lo stabilisce un decreto attuativo del Collegato Ambientale. La meta’ delle somme va ad un fondo del ministero dell’Ambiente per l’attuazione di campagne di informazione su scala nazionale, l’altra meta’ e’ destinata ai Comuni sempre per finalità di sensibilizzazione.
I soldi derivanti dalle multe per chi getta a terra o in acqua rifiuti di piccolissime dimensioni, come sigarette ma anche gomme da masticare e scontrini, saranno destinati a campagne di sensibilizzazione sui danni per l’ambiente che derivano da questa pratica. Lo stabilisce un decreto attuativo del Collegato Ambientale, firmato dal ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, che individua l’utilizzo dei proventi delle multe, previste dal provvedimento fino a 300 euro, per chi getta a terra, in acqua, negli scarichi e nelle caditoie prodotti da fumo, gomme, scontrini e fazzoletti.
La meta’ delle somme derivanti dalle sanzioni amministrative – spiega il decreto – e’ riassegnato a un fondo istituito presso il ministero dell’Ambiente per l’attuazione di campagne di informazione su scala nazionale, l’altra meta’ e’ destinata ai Comuni nel cui territorio sono state accertate le violazioni e utilizzata sempre per finalità di sensibilizzazione. Più nello specifico, i Comuni devono versare ogni sei mesi (30 giugno e 31 dicembre di ogni anno), il 50% delle sanzioni così irrogate proprio per alimentare detto fondo. L’altro 50% delle multe lo potranno trattenere. Sempre con i proventi delle multe le amministrazioni locali devono installare nuovi raccoglitori per la raccolta dei mozziconi, gomme da masticare, cartacce, scontrini e altri rifiuti di piccole dimensioni.
“Credo che la cultura ambientale entri prima e meglio in un tessuto sociale – afferma Galletti – quando a una sanzione si accompagna la conoscenza del problema. Una sigaretta che finisce a terra si degrada naturalmente in due anni, mentre in mare ne servono cinque e altrettanti per le gomme da masticare”.
“E’ evidente dunque che un gesto del genere, che ancora spesso capita di vedere, sia una cattiva abitudine da cancellare. Il miglior modo per riuscirci – conclude il ministro – e’ far applicare la legge e insieme far conoscere i rischi”.
La disposizione prevede inoltre che i produttori di articoli da fumo attuino, in collaborazione col ministero o con altri enti, campagne ad hoc per i consumatori, mentre i Comuni possono prevedere specifici eventi e incontri con la cittadinanza su questo tema, con la produzione di materiale informativo.
Più soldi un medico riceve dalle aziende farmaceutiche più farmaci brand (di marca) prescrive, anche un solo pasto offerto può fare la differenza. Così recita il sottotitolo di un recentissimo documento di ProPublica.(1) Eppure, malgrado il problema sia assodato, le cose non cambiano.
L’analisi è (2) uno studio comparativo dei dati relativi ai pagamenti in denaro o altro (pasti) e l’attività prescrittiva dei medici beneficiari. La conclusione è che ricevere compensi a vario titolo comporta una maggiore quantità di prescrizione di farmaci o presidi medicali e soprattutto di prodotti più costosi in quanto sotto copertura di brevetto, i cosiddetti branded. I medici che non avevano ricevuto nulla dalle case farmaceutiche avevano invece una prescrizione più modesta e con meno farmaci griffati. ProPublica è un’organizzazione di giornalisti investigativi indipendenti che lavora indagando sui rapporti fra industria del farmaco e medici negli Stati Uniti.(3) Nel 2010 uscì allo scoperto con la campagna Dollars for Docs,(4) nella quale erano stati messi in rete i nomi di alcuni medici USA con i relativi pagamenti da parte delle case farmaceutiche, per dare modo al pubblico di conoscere le informazioni rese note durante dibattimenti processuali. Con quell’inchiesta uno dei suoi giornalisti vinse il premio Pulitzer. Era un primo tentativo empirico per dimostrare che si prescrivono più farmaci e presidi medicali quando si è stati pagati dall’industria. Nel 2013 ProPublica introduceva il cosiddetto Prescriber Checkup, uno strumento per controllare quanto prescriveva il proprio medico attraverso le assicurazioni statali (Medicare). Nel 2014, da gennaio a dicembre, sono stati pubblicati i dati completi dei pagamenti di tutte le aziende produttrici di farmaci o presidi medicali a tutti i medici USA. Questo è stato possibile tramite il provvedimento denominato Affordable Care Act, altrimenti noto come Sunshine Act. Con questo strumento è stato possibile stabilire con certezza che chi riceve finanziamenti prescrive di più, e viceversa. È stato anche accertato come l’attività prescrittiva dei nuovi prodotti si riferisce spesso a farmaci non innovativi, copia di prodotti già esistenti, nati al solo scopo di erodere quote di mercato. I giornalisti di ProPublica hanno monitorato circa 150mila medici tra quelli che avevano ricevuto più di 1000$ di pagamenti, suddivisi per 5 specialità: medici di famiglia, internisti, cardiologi, psichiatri e oculisti. Tra questi, gli oculisti sono risultati quelli che prescrivono più farmaci branded, seguiti da internisti e medici di famiglia, in coda cardiologi e psichiatri. Attraverso un calcolo statistico si è arrivati a stabilire una correlazione altamente significativa tra medici che ricevono o non ricevono pagamenti e la loro prescrizione di farmaci branded. I medici sono stati divisi in più categorie a seconda dei finanziamenti ricevuti, da uno a più di 5000$. In quest’ultima classe le differenze si sono rivelate più sostanziali. Chi ha ricevuto più di 5000$ in un anno aveva dal 18% al 64% di probabilità in più di prescrivere farmaci branded rispettoalla media. Sono stati definiti very high brand-name prescribers i medici con percentuale di prescrizioni maggiore di almeno due deviazioni standard rispetto alla media per la loro specialità. I medici che avevano ricevuto compensi in danaro avevano da due a tre volte più probabilità di rientrare in questa categoria. L’analisi ha compreso anche l’influenza per diverse forme di pagamento. Ricevere danaro per parlare in pubblico o avere pranzi e colazioni pagati aveva comportato una maggiore attività prescrittiva rispetto al ricevere somme di danaro. Nelle considerazioni finali, ProPublica dichiara onestamente di non conoscere (né aver cercato di stabilire) se vi sia necessariamente una relazione di causa/effetto tra iper prescrizione e finanziamenti ricevuti. In linea teorica è possibile che vi sia soltanto una maggiore fiducia nei farmaci branded da parte di alcuni soggetti e che le case farmaceutiche finanzino di più i medici che già di per sé hanno una maggiore propensione prescrittiva. È possibile che in alcuni casi il medico non sappia che il pranzo gli è stato offerto da un’industria farmaceutica e che sia già un prescrittore di farmaci griffati. Alla fine però una cosa è certa: i medici che hanno ricevuto pagamenti prescrivono da due a tre volte più farmaci costosi e coperti da brevetto, prodotti che non offrono nulla di più dei loro concorrenti. Esistono numerosi studi che attestano come la validità dei farmaci generici sia uguale a quella dei farmaci branded, uno per tutti la ricerca sistematica di Aaron Kesselheim pubblicata nel 2008 su JAMA.(5) I farmaci branded sono pubblicizzati con maggiore forza dei generici e anche se alcuni non hanno una versione generica equivalente, c’è sempre un prodotto non griffato che ha caratteristiche simili. Anche il paziente non percepisce la differenza in quanto a soddisfazione, come una specifica indagine di ProPublica ha testimoniato di recente.(6) L’indagine è stata condotta su 4 statine branded e i loro equivalenti generici e su alcuni farmaci antidepressivi tra i più prescritti. Difficile dunque sostenere che il farmaco branded possieda qualcosa in più del suo equivalente generico. Per Big Pharma, invece, il rapporto fra quantità/qualità delle prescrizioni e danaro ricevuto non esiste. Nel marzo del 2011, in un’indagine condotta da PHRMA (la federazione USA delle ditte farmaceutiche) su 508 medici di tutte le specialità, la maggioranza degli intervistati dichiarava che le prescrizioni sono condizionate solo dalle conoscenze scientifiche e dall’esperienza. Chi prescrive di più lo fa per maggiore attenzione verso i propri assistiti.(7) Al contrario, la ricerca di ProPublica cita numerosi esempi che contraddicono quanto sostenuto da BigPharma. Un medico di famiglia del New Jersey, che aveva ricevuto 66.800$ nel 2014 dalle case farmaceutiche, ha prescritto nel contempo il doppio di farmaci griffati. Più onestamente, un altro medico di famiglia alle soglie dellapensione, che aveva ricevuto 11.700$, ha dichiarato che il suo stipendio sarebbe stato insufficiente senza il contributo dell’ industria. Un terzo medico intervistato, che aveva ricevuto 53.400$, ha minacciato azioni legali affermando che quel contributo professionale era del tutto consentito dalla legge. L’indagine sull’attività prescrittiva dei medici segnala differenze significative da stato a stato, com’era da aspettarsi, ma la consuetudine dei pagamenti è risultata omogeneamente diffusa. Nella ricerca di ProPublica non sono stati inclusi i pagamenti per motivi di ricerca (fanno parte di un’altra indagine), ma solo quelli per dibattiti promozionali, consulenze, viaggi, pasti, regali e altro. Uno dei commenti finali più significativi sottolinea come i pagamenti ai medici producano un circolo vizioso. Più danaro ricevuto, maggiore prescrizione di farmaci costosi da parte di quei medici che riceveranno in futuro più attenzione dalle case farmaceutiche.
Libera traduzione e adattamento di Giovanni Peronato per il gruppo NoGraziePagoIo