Sette punti per rendere davvero etica la “finanza sostenibile” europea

Il 10 marzo è entrato il vigore il nuovo regolamento europeo sulla finanza sostenibile. Ma questo restyling normativo è davvero etico? Secondo Banca Etica, si tratta di un primo passo importante ma troppo timido: per rilanciare l’economia, proteggere il Pianeta e favorire la coesione sociale serve una finanza realmente etica. Il 10 marzo è entrato in vigore il primo regolamento europeo adottato nell’ambito dell’ambizioso Action Plan UE per la finanza sostenibile. L’Europa mira a rispondere ad alcune domande rese ancora più cruciali dalla necessità di progettare il modello economico per traghettare il Vecchio Continente fuori dalla crisi innescata dalla pandemia. Come si può riconoscere un’attività economico-finanziaria sostenibile? Quali caratteristiche deve avere un investimento per poter essere definito realmente “green”? E come difendersi da chi propone strumenti finanziari nei quali l’aspetto sostenibile risponde esclusivamente a logiche di marketing?

Oggi manca uno standard condiviso di che cosa s’intenda per “sostenibilità” negli investimenti finanziari, il che permette a ogni banca o gestore di darsi delle proprie definizioni, spesso piuttosto deboli e cucite su misura per le proprie esigenze. L’Europa si sta muovendo per definire una cornice di regole: la Sustainable Finance Agenda – il Piano d’azione per la finanza pubblicato a marzo del 2018 – da un lato riconosce l’insostenibilità di buona parte dell’attuale sistema finanziario, dall’altro prova a intervenire per inquadrare e sviluppare una possibile alternativa, ponendo tra i propri obiettivi il reindirizzamento dei flussi finanziari non solo pubblici ma anche privati verso la sostenibilità. Il Regolamento 2088 del 2019 entrato in vigore il 10 marzo 2021 prova a dare una definizione precisa di investimento sostenibile.

Finanza etica e finanza sostenibile non sono la stessa cosa

Le nuove normative europee sono di grande interesse per le reti internazionali della finanza etica (Gabv- Global Alliance for Banking on Values e Febea-Federazione Europea delle Banche etiche e alternative) che esprimono apprezzamento per gli sforzi dell’UE, ma non possono tralasciare di evidenziare alcune perplessità, a partire dalla controversa scelta della Commissione UE di affidare al colosso finanziario BlackRock il ruolo di advisor per la finanza sostenibile. La finanza etica – come intesa e praticata da decenni da molte istituzioni finanziarie in Europa e non solo – è infatti qualcosa di molto diverso dalla finanza sostenibile che l’Europa sta provando a regolamentare.

Ecco i sette principali punti di forza che è necessario evidenziare:

  • Massimizzazione del profitto vs massimizzazione dei benefici per la collettività – La prima differenza tra i due modelli risiede nei principi di base. Nelle definizioni di finanza sostenibile elaborate dalla UE la sostenibilità è, nel migliore dei casi, un obiettivo secondario alla massimizzazione dei profitti per pochi, un fattore competitivo da prendere in considerazione per rispondere alla crescente domanda di mercato o uno strumento di marketing per ridurre i propri rischi reputazionali e darsi un’immagine più pulita. L’approccio della finanza etica è radicalmente diverso: la realizzazione di utili economici è perseguita, ma è funzionale all’obiettivo di massimizzare i benefici per le persone, le comunità e il pianeta. È il passaggio dallo shareholders interest, e cioè agire nell’interesse esclusivo degli azionisti, allo stakeholders interest nella sua accezione più ampia, ovvero agire valutando gli impatti su tutti i portatori di valore.
  • Speculazione finanziaria vs focus sull’economia reale – La finanza mainstream oggi è caratterizzata da dinamiche quali l’uso spregiudicato di strumenti speculativi e dei paradisi fiscali, una continua creazione di bolle e instabilità; la stragrande maggioranza dei derivati sono utilizzati come pure scommesse speculative; oltre la metà delle operazioni sui mercati finanziari sono rappresentate dal trading ad alta frequenza; un sistema bancario ombra che sfugge a controlli e regolamentazione, etc. In questo contesto, la finanza sostenibile descritta nella nuova normativa europea non prevede alcun obbligo di “non nuocere alla collettività e all’economia reale” per gli operatori finanziari che vogliono dirsi sostenibili. La finanza etica, invece, ripudia la speculazione ed è orientata a sostenere l’economia reale capace di favorire il benessere della società. Tra i propri valori la finanza etica pone l’accento sull’accesso al credito e l’inclusione finanziaria dei soggetti più deboli. Un tema centrale in questa fase caratterizzata da un lato da un eccesso di liquidità ma dall’altro, nello stesso momento, da una crescente esclusione finanziaria di molte persone e imprese. Ad esempio: la bolla dei mutui subprime che ha innescato la terribile crisi finanziaria del 2008 potrebbe replicarsi anche con le nuove norme sulla finanza sostenibile, mentre non potrebbe verificarsi se, per ipotesi, tutti operassero secondo i criteri della finanza etica.
  • Modello “a scaffale” vs modello “olistico” – L’approccio alla finanza sostenibile promosso dall’UE si concentra quasi unicamente sullo specifico prodotto finanziario, non sull’insieme delle attività proposte da un gruppo bancario. Al momento, inoltre, l’ambito di applicazione riguarda unicamente le attività di gestione e investimento di prodotti finanziari, non l’erogazione del credito o altre attività bancarie. Gli istituti ispirati alla finanza etica, invece, si fondano sulla coerenza dell’insieme delle proprie attività. Per chi fa finanza etica non è ammissibile offrire alla propria clientela alcuni prodotti sostenibili e altri nocivi per il pianeta o le persone. Ad esempio offrendo fondi che investono sulle rinnovabili accanto ad altri che continuano a investire su fonti fossili. Gli enti che fanno finanza etica mettono al centro la trasparenza e l’equità e valutano ogni investimento sia sul piano dei possibili risultati economici sia su quello degli impatti sociali e ambientali.
  • Modelli di Governance: che ruolo per trasparenza e partecipazione? – La normativa europea non impone requisiti di governance a chi voglia vendere i propri prodotti finanziari come sostenibili. Secondo questa normativa un intermediario finanziario può essere opaco, gestito con il famoso sistema delle scatole cinesi, eludere le tasse e comunque pubblicizzare i propri prodotti come “sostenibili”. Gli operatori di finanza etica, invece, hanno governance e strutture societarie basate su trasparenza; partecipazione dei soci e dei clienti; forbice massima tra le remunerazioni, etc. Le nuove normative UE affrontano temi legati alla trasparenza, ma lo fanno in un’ottica di singolo prodotto e non guardano al comportamento complessivo del soggetto proponente.
  • Valutazione dei criteri ambientali, sociali e di governance (ESG): visione parziale vs visione d’insieme – Nell’approccio dell’UE, la sostenibilità è definita quasi esclusivamente guardando alla componente ambientale. La finanza etica, invece, prende in considerazione ogni aspetto ambientale, sociale e di governance nella tradizionale analisi ESG, e anche le loro rispettive interrelazioni. La finanza etica parte dalla definizione di alcuni settori economici che devono necessariamente essere esclusi dagli investimenti (armi, fonti fossili, pornografia, etc) e poi valuta le imprese operanti nei settori non esclusi in base a una visione complessiva dei loro impatti. Ad esempio in Europa c’è chi considera “sostenibili” investimenti in centrali a gas o in centrali idroelettriche realizzate costruendo dighe che devastano l’ambiente e mettono in pericolo le comunità che vivono in quei territori: per la finanza etica, invece, questi investimenti sono inaccettabili. O ancora, molti prodotti finanziari venduti come sostenibili investono nelle big tech, giudicate neutre sul piano delle emissioni di CO2 e quindi pulite. La finanza etica invece esclude questi investimenti perché le Big Tech non sono trasparenti sul piano fiscale e sono al centro di valutazioni circa i loro potenziali impatti negativi.
  • Lobby finanziaria vs educazione critica alla finanza – Un’altra differenza sostanziale è l’attività di lobby svolta dalla finanza mainstream che investe cifre consistenti per condizionare le scelte dei regolatori, arrivando persino a chiedere di includere il nucleare o alcuni investimenti nei combustibili fossili tra le attività da considerare come “sostenibili”. La finanza etica, pur dialogando con le istituzioni e i regolatori, si concentra più sull’attività di sensibilizzazione dal basso delle persone e delle comunità per rendere comprensibili gli impatti negativi di una finanza tutta orientata alla massimizzazione dei profitti nel brevissimo periodo. Le realtà della finanza etica – inoltre – sono in prima fila per chiedere normative capaci di arginare il casinò finanziario come ad esempio l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie; la separazione tra banche commerciali e banche d’investimento; un serio contrasto ai paradisi fiscali; un limite all’uso dei derivati, etc.
  • Conservazione dello status quo vs trasformazione sociale – La normativa UE non impedisce alle società che vendono prodotti di finanza sostenibile di fare ricorso ai paradisi fiscali, adottare politiche di gestione interna poco eque, etc. Gli intermediari finanziari “sostenibili” non sono incoraggiati dalla normativa a farsi promotori di modelli più responsabili e inclusivi di gestione delle aziende su cui investono. Tra gli obiettivi della finanza etica, invece, vi è quello di promuovere attraverso l’engagement e l’azionariato attivo comportamenti più etici da parte delle aziende al fine di produrre impatti ambientali e sociali positivi nel lungo periodo. Attraverso i fondi comuni di investimento etici o in partnership con organizzazioni non governative, la finanza etica si impegna per diventare interlocutrice attiva di grandi corporation, denunciando pubblicamente comportamenti nocivi per le persone e per l’ambiente.

La presidente di Banca Etica Anna Fasano

«Banca Etica con tutte le reti internazionali della finanza etica guarda con favore al lavoro dell’Unione Europea per regolamentare e incentivare la finanza sostenibile», commenta Anna Fasano, presidente di Banca Etica. «Ma non possiamo fare a meno di notare come questa normativa ad oggi sia molto complessa da applicare e soprattutto molto annacquata. Le differenze tra ciò che noi intendiamo per finanza etica e ciò che la UE certificherà come finanza sostenibile sono tante. È utile guardare alla “genealogia” e dunque alle dinamiche politiche che hanno generato la finanza etica da una parte e la finanza sostenibile (nella definizione che sta assumendo) dall’altra».

«La finanza etica aspira a un concetto di giustizia sociale e inclusione che va ben oltre la proposta dell’UE. Termini come profitto, speculazione, governance, impatto, incidenza, costruzione della cittadinanza acquisiscono un significato completamente diverso e configurano uno spazio coerente che non si limita a un’aggregazione di iniziative concrete, ma piuttosto ad una proposta completa sul modo in cui l’intermediazione finanziaria dovrebbe operare per generare giustizia sociale e bene comune».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/03/sette-punti-rendere-etica-finanza-sostenibile-europea/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Orti Generali: il bene comune rigenerato che diventa orto collettivo e impresa sociale.

Orti Generali è un progetto di rigenerazione urbana di un’area in stato di semi-abbandono nel quartiere Mirafiori, a Torino. Oggi è uno spazio che offre centosessanta orti con la possibilità di coltivare, in gruppo o in famiglia, come associazione o individualmente ed imparare, con corsi di formazione teorica e pratica, attività e laboratori, alcuni dei temi legati all’agricoltura biologica, all’orticoltura e ai lavori rurali. Abbiamo incontrati uno dei co-fondatori del progetto, Matteo Baldo, che ci ha raccontato tutti i dettagli del progetto. In questo preciso momento in cui vi scrivo, nella sede di Orti Generali in Strada Castello di Mirafiori a Torino, la temperatura è di -1°C, ma quella del terreno è di un 1°C. Non c’è bisogno di annaffiare, ma si potrebbe zappare. L’umidità del terreno è di circa il 21%. Va bene, lo ammetto: sto cercando un modo originale per iniziare il racconto della storia di Orti Generali, un progetto di rigenerazione urbana che ha permesso il recupero comunitario di un parco fluviale, sulle rive del torrente Sangone, precedentemente in stato di semi-abbandono. Oggi su questa superficie sono stati assegnati a persone e famiglie circa centosessanta orti, di diversa grandezza, destinati all’autoproduzione. All’interno di Orti generali esiste inoltre un orto collettivo, che viene coltivato insieme ai volontari del quartiere, i cosiddetti Ortolani Solidali.

Lo spazio non è riservato ai solo esperti di orticultura: lo staff di Orti Generali assiste e forma tutte e tutti coloro che vogliono cominciare ad autoprodursi il proprio cibo, senza l’utilizzo di sintesi chimica ed esclusivamente in biologico. È anche per questo che all’interno dell’area è presente un polo didattico dove seguire corsi di formazione, frequentati anche dalle scuole che visitano l’area, e dove vengono distribuiti materiali informativi di vario tipo per imparare tutte le conoscenze necessarie ad una buona coltivazione. Altro pilastro di Orti Generali, come avete letto all’inizio di questo pezzo, è l’innovazione tecnologica: a disposizione degli ortolani c’è una centralina che rileva diversi parametri come meteo, umidità, temperatura locali, e aziona all’occorrenza un impianto di irrigazione centralizzato per tutti gli orti. I dati sono pubblici e a disposizione di tutte e tutti: lo scopo è ridurre al minimo lo spreco di acqua per l’irrigazione.
Orti Generali è nato da un’idea dell’Associazione Coefficiente Clorofilla, oggi Orti Generale APS, ed è curato da Stefano Olivari e Matteo Baldo. È nato da un’idea di Isabella Devecchi e grazie al prezioso aiuto di Marco Bottignole.

Immagini di copertura di Umberto Costamagna e Federica Borgato

La rigenerazione: il recupero

Facciamo un passo indietro: siamo nel quartiere Mirafiori, periferia sud di Torino. Luogo simbolo del “boom economico” (dal 1951 al 1971 Mirafiori Nord passò da 18.700 a 141.000 abitanti), conosciuta perlopiù per la presenza degli stabilimenti Fiat, è attraversata dal Torrente Sangone e sta vivendo un graduale processo di trasformazione strutturale e sociale, proprio e soprattutto a causa dell’abbandono produttivo della casa automobilistica. Una costante di questo quartiere sono sempre stati gli orti spontanei: appezzamenti di terra che, più o meno legalmente, venivano coltivati dagli abitanti del quartiere. Orti Generali sorge infatti ispirandosi ad un precedente progetto di ricerca chiamato “Miraorti”, progetto di ricercazione e sperimentazione nato nell’Ottobre del 2010 allo scopo di “riflettere sulle future trasformazioni dell’area di Mirafiori sud, lungo il torrente Sangone, attraverso un percorso di progettazione partecipata del territorio” e nasce con l’obiettivo di costruire un modello di impresa sociale per la trasformazione e la gestione di aree agricole residuali cittadine. Il progetto di ricerca è così confluito in un modello più attuativo, quello di Orti Generali. La riflessione gira attorno ad un tema fondamentale e ce la spiega Matteo Baldo, uno dei co-fondatori di Orti Generali: «Molti degli orti di questa area erano abusivi e i terreni intorno versavano in condizioni di abbandono, con la presenza di numerosi rifiuti e oggetti abbandonati. Quando siamo arrivati qui, a Maggio del 2018, abbiamo avviato una bonifica perché erano presenti tonnellate di materiali impropri. Questo processo si è potuto attuare grazie al fondamentale aiuto dei volontari di quartiere, e questo processo ha poi favorito il dialogo con gli ortolani per l’utilizzo di materiali il più possibile naturali per la costruzione e la coltivazione degli orti».

La struttura: non solo orti

Oggi Orti Generali esiste anche grazie ad un bando di concessione della Città di Torino. I centosessanta orti sono stati assegnati a chiunque ne abbia fatto richiesta, ma una precedenza è stata data alle ragazze e ai ragazzi al di sotto dei trentacinque anni, «categoria che abbiamo protetto riservandogli trentacinque orti con un contributo agevolato, perché uno degli obiettivi di Orti Generali è diffondere alle nuove generazioni i principi dell’autoproduzione – spiega Matteo – ma non ci siamo dimenticati di quelle famiglie e le persone che sono in difficoltà economica, che noi chiamiamo gli Ortolani Solidali. A fronte di un contributo simbolico, queste persone sono il cuore pulsante di Orti generali perché diventano parte dello staff, gestendo insieme a noi il verde pubblico e tutte le necessità dello spazio. Aiutiamo e veniamo aiutati grazie al senso di responsabilità di ogni persona». 

Le assegnazioni degli orti sono state velocissime perché la partecipazione delle persone è stata sin da subito molto sentita, tanto che oggi Orti generali sta riflettendo per ampliare e adibire un’altra area del Parco per la costruzione di nuovi appezzamenti coltivabili. All’interno di Orti Generali, come potete vedere anche dal video sopra, è presente una vera e propria fattoria con pecore e galline, un orto collettivo le cui eccedenze vengono redistribuite grazie al progetto “Mirafiori Quartieri Solidali” alle famiglie in difficoltà. Inoltre possiamo trovare un bistrot con un chiosco per mangiare e un’area ludica: «Sono presenti alcune sdraio, nel quale le persone possono rilassarsi e godersi il paesaggio. Lo abbiamo voluto perché, nel passato, le persone che non potevano permettersi di partire per le vacanze al mare venivano qui, sul Torrente Sangone, a trascorrere alcune ore in relax. E’ un aspetto che non vogliamo perdere», racconta Matteo. 

La sostenibilità culturale e sociale

In Orti generali, oltre al tema dell’agricoltura sana e delle tecniche e tecnologie adatte a realizzarla, è centrale l’aspetto della comunità. Il primo orto nato dentro Orti Generali è un orto sinergico, nato dalla bonifica di un orto precedente. Spiega Matteo che «ciò è successo grazie alla collaborazione con il Servizio Dipendenze dell’Asl locale, che ha permesso l’arrivo qui di persone che sono state protagoniste di percorsi riabilitativi e di ortoterapia». Uno dei risultati è stato appunto “SOS Orto” (così chiamato dagli stessi partecipanti a questi percorsi), l’orto sinergico che è divenuto anche un’aula didattica per chi voglia capire come realizzarlo. «Siamo diventati anche un contenitore di tante iniziative e tanti progetti diversi – spiega Matteo – e con il Dipartimento di Biologia dell’Università di Torino abbiamo sviluppato un progetto sugli impollinatori, per divulgare la loro importanza e facilitare la convivenza fruttuosa tra insetti e uomini. Con il Dipartimento di Agraria abbiamo approfondito le tematiche legate agli Impollinatori e abbiamo inoltre sviluppato un filone di informazione legato all’inquinamento e al rapporto tra coltivazione e aree urbane. Abbiamo ottenuto dati scientifici per capire quali sono le barriere naturali per evitare che lo smog contamini le nostre colture».
All’interno di Orti Generali è presente anche un apiario, sviluppato insieme ad un’Associazione chiamata “Parco del Nobile”, che da anni fa didattica legata agli orti e che permette agli ortolani di Orti Generali di avvicinarsi al mondo dell’apicoltura e di produrre anche una piccola quantità di miele.

Ci allontaniamo e ci salutiamo con Matteo, dopo il nostro lungo incontro durato più di un’ora, con una riflessione generale sul senso del progetto: «Il minimo comune denominatore di tutte queste attività è poter partecipare ad un processo di costruzione e rigenerazione del bene comune, che metta al centro della propria azione la condivisione e la partecipazione. Tutti, indipendentemente dal livello di contributo, possono fare qualcosa per cambiare le sorti di un luogo».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/01/orti-generali-bene-comune-rigenerato-diventa-orto-collettivo-impresa-sociale/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Comunità energetiche, avanti tutta. Al via il progetto nel Pinerolese

Dopo l’approvazione della norma regionale che regola le comunità energetiche di condivisione e scambio dienergia prodotta da fonti alternative, al via il primo progetto nel Pinerolese.Verso le Oil Free Zones in Piemonte.

Scambio, unione e condivisione. È qui che spesso risiede la forza dei nuovi progetti e dei processi trasformativi dal basso che mirano ad una maggiore sostenibilità ambientale, economica e sociale. E proprio questi elementi possono guidare quella transizione energetica sempre più urgente. In questa direzione va la legge sulle comunità energetiche di cui, per prima in Italia, si è dotata la RegionePiemonte e alla quale ha fatto seguito il progetto pilota di rilancio sostenibile del territorio del Pinerolese che, presentato qualche settimana fa a Torino, prevede lo scambio dell’energia autoprodotta. La nuova norma regionale permette infatti a comunità di persone, enti e imprese di scambiare tra loro l’energia prodotta da fonti alternative. L’idea alla base è quella della cooperativa di produzione e consumo di energia per ottenere elettricità e calore da fonti rinnovabili disponibili localmente e forme di efficentamento e riduzione dei consumi.  Quella approvata a luglio in Piemonte è la prima norma che definisce nel dettaglio le modalità di implementazione dello scambio di energia autoprodotta da fonti rinnovabili in un contesto di comunità locale. Sebbene manchino ancora alcune definizioni attuative, il Pinerolese si sta intanto muovendo per porne le basi attraverso il Consorzio CPE nell’ambito del progetto di rilancio del territorio voluto da Acea Centro Sviluppo Innovazione. L’obiettivo è far sì che lo scambio di energia autoprodotta da fonti rinnovabili da Aziende, Comuni aderenti al CPEe da privati cittadini possa contribuire a rilanciare economicamente e in modo sostenibile il territorio.

Come ha spiegato Angelo Tartaglia, Senior Professor del Politecnico di Torino, “la chiave di un simile ente associativo è la possibilità di scambiare energia tra soggetti diversi, cosa che fino a qualche mese fa non era prevista dal nostro ordinamento, salvo che in un numero ben definito e limitato di casi. Oggi – ha aggiunto Tartaglia – si è aperto uno spiraglio normativo che, partendo dalle Oil Free Zones, ha portato la Regione Piemonte a varare una legge la quale consente esplicitamente la costituzione di comunità energetiche senza fini di lucro. Nel Pinerolese il Consorzio CPE e le aziende socie sono pronte a darvita ad un primo esempio di comunità energetica di scala vasta”.

 Peraltro, il Politecnico di Torino, socio del Consorzio CPE, sta anche portando avanti nel territorio piemontese un’azione di mappatura energetica del territorio per permettere alle Comunità Energetiche di organizzarsi al meglio. Verrà sfruttata in particolare l’energia fotovoltaica, già ampiamente utilizzata nella zona, e per il futuro si prevede che l’energia pulita ricavata dal sole possa soddisfare le necessità di tutta l’area. La costituzione delle comunità energetiche dovrebbe e potrebbe tradursi infatti nella creazione di cosiddette “Oil Free Zones” ovvero aree indipendenti totalmente per il loro fabbisogno energetico dalle fonti fossili. Anche di questo si parla proprio inquesti giorni a Rimini dove è in corso il Key Energy, il Salone dell’Energia edella Mobilità Sostenibile, che si tiene in contemporanea ad Ecomondo. Si è tenuta lo scorso martedì, in particolare, la conferenza di presentazione del primo impianto eolico collettivo, un progetto per l’indipendenza energeticalanciato da ènostra, fornitore cooperativo di energia elettricarinnovabile.Fonte:http://piemonte.checambia.org/articolo/comunita-energetiche-avanti-tutta-progetto-nel-pinerolese/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Non c’è sostenibilità possibile se non è ecologica e sociale allo stesso tempo

Non molti se ne rendono conto, purtroppo. Ma la natura offre all’uomo una serie di servizi che hanno un enorme valore, ma non di mercato. Ci sembrano gratuiti. E tali li considerano, ancora una volta purtroppo, anche gli economisti che aderiscono alla scuola classica.9879-10667

Ma gratuiti non lo sono affatto, perché quasi tutti i beni che la natura ci offre sono soggetti a depletion (esaurimento) e/o a pollution (inquinamento). Sentono l’impronta umana. È nostro interesse e, insieme, nostro dovere morale dare un valore ai beni della natura che sfuggono all’unico sistema di valutazione universalmente conosciuto o, almeno, concretamente applicato: il valore di mercato. Perché solo se ne riconosciamo il valore possiamo utilizzarli, quei beni della natura, in maniera sostenibile.  Di recente gli economisti ecologici hanno trovato un metodo – perfettibile, per carità – per dare un valore ai beni della natura al di là di quello di mercato: lo chiamano willingness to pay (WTP), che potremmo tradurre in “disponibilità a pagare”. Quanti quattrini sei disposto a tirar fuori per una spiaggia pulita e per un’aria tersa e per fermare l’erosione della biodiversità e per contrastare i cambiamenti climatici? Chi studia il rischio sa bene quanto conti la sua percezione. Se noi percepiamo che una spiaggia sporca o un’aria inquinata o la perdita di biodiversità o i cambiamenti del clima sono un rischio, allora siamo disponibili a impegnarci per minimizzarlo. Il willingness to pay altro non è che un modo di quantificare la percezione del rischio o anche, se volete, a valorizzare i capitali della natura che non hanno un valore di mercato. Ebbene, molte analisi, sia teoriche che empiriche, hanno dimostrato che la willingness to pay, la disponibilità a pagare per un bene naturale che non ha mercato cresce con il reddito. Con il reddito familiare, per una persona singola. Con il Prodotto interno lordo per una nazione. Più si è ricchi, più si è disposti a pagare. Ma la disponibilità a pagare e a riconoscere un valore ai beni della natura che non hanno un valore di mercato, dicono da tempo gli economisti ecologici, non cresce indefinitamente con il reddito. Al contrario, tende asintoticamente a un valore soglia. Non è sorprendente. A tutte le cose attribuiamo un valore massimo, che dipende sì dal nostro reddito, ma non solo da esso. Per una bella giornata al mare siamo disposti a pagare molto, ma non più di tanto. Per la sicurezza di un nostro figlio non c’è prezzo. È evidente che nell’attribuire un valore a beni – come una bella giornata al mare o a un figlio – intervengono altri fattori che non sono solo economici. Così è anche per la willingness to pay per i beni della natura. Quando attribuiamo (o non attribuiamo) loro un valore, entrano in gioco fattori economici ma anche fattori di altro tipo. Già, ma di che tipo?

Per quanto strano possa sembrare, pochi finora hanno tentato di rispondere a questa domanda. Alcuni, di recente, hanno tentato di farlo per via teorica. Ma solo ora abbiamo un’analisi che sia di tipo teorico che empirico: l’hanno resa pubblica nei giorni sulla rivista Ecological Economics il tedesco Moritz A. Drupp, dell’Università di Amburgo, e un gruppo di suoi collaboratori. Ed è una risposta inattesa, almeno in apparenza: oltre che dal reddito la willingness to pay dipende dal tasso di equità sociale del Paese in cui si vive. Il che significa che a parità di reddito, uno svedese o un tedesco (che vivono in paesi con alto tasso di uguaglianza sociale) è disponibile a pagare di più per un bene della natura di un americano o di un italiano, Paesi dove la disuguaglianza sociale è altissima. La risposta è solo in apparenza sorprendente, perché è chiaro che la percezione dei beni comuni è maggiore proprio lì dove la ricchezza individuale è meglio distribuita. È evidente, concludono Drupp e colleghi, che per diminuire l’impatto umano sull’ambiente e consumare meno e con maggiore oculatezza i capitali della natura dobbiamo lavorare anche per abbattere l’indice di Gini, ovvero il tasso di disuguaglianza di una società. Non è una proposta nuova, a ben vedere. In fondo lo sappiamo dai tempi del Rapporto Brundtland reso pubblico nel 1987 da una commissione indipendente proposta dalle Nazioni Unite che prendeva il nome dal suo presidente, la signora Gro Harlem Brundtland, primo ministro di Norvegia. Il rapporto sosteneva, né più e né meno, che non c’è sostenibilità possibile se non è, nel medesimo tempo, ecologica e sociale. E che il miglior modo per tutelare l’ambiente è costruire una società più giusta.

Pietro Greco

Laureato in chimica, giornalista scientifico e scrittore. È responsabile del Centro Studi di Città della Scienza e direttore della Rivista Scienza&Società. È autore di oltre venti monografie sulla scienza e sulla storia della scienza. È conduttore di Radio3Scienza. Collabora con le università Bicocca di Milano e Sapienza di Roma. Ha fondato, insieme ad altri, il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. È membro del consiglio scientifico di ISPRA. Collabora con la rivista Micron

 

Fonte: ilcambiamento.it

 

Lotta a qualsiasi tipo di sfruttamento ambientale, umano e sociale nel sistema produttivo agricolo dei nostri territori. Ecco la sfida di Slow Food Italia per il 2020

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A Montecatini Terme con l’elezione dei sette componenti del Comitato Esecutivo prende il via la nuova era di Slow Food Italia. Aboubakar Soumahoro: “5 milioni di migranti sono l’8% della popolazione italiana, lo stesso numero di giovani che vanno a lavorare all’estero. Oggi chiudono i porti per i migranti, e se domani chiudessero gli aeroporti per loro?

Stiamo vivendo una fase storica della nostra Associazione che segnerà la strada per un futuro straordinario, in Italia come nel mondo. La dichiarazione di Chengdu, Cina ottobre 2017, con le mozioni approvate a sostegno della nostra nuova via, rappresentano una linfa vitale che ha rinnovato molti entusiasmi nei territori in cui Slow Food è presente e dove la sua attività è stata al centro di iniziative importanti. Da quel momento, in tutte le nostre Condotte, in tutti i consessi regionali, all’interno del nostro Consiglio nazionale, le parole rinnovamento, inclusività, apertura, ascolto, sorriso, disponibilità, hanno acquisito nuova forza nei dialoghi e nei confronti e dovranno continuare a farlo per portare la nostra rete italiana a presentarsi degnamente al prossimo Congresso Internazionale del 2020”. È con queste parole che i sette componenti del nuovo Comitato Esecutivo di Slow Food Italia si sono presentati ai 650 delegati riuniti a Montecatini Terme per il IX Congresso nazionale.

Ci impegniamo a far nostri i temi delle mozioni, dei documenti e dei contributi che sono stati depositati da diverse parti d’Italia durante il Congresso sui temi delle migrazioni, della giustizia del cibo che consumiamo, del sostegno della rete dei giovani, dell’agricoltura sociale, della riqualificazione ambientale, della mobilità sostenibile così come della lotta a qualsiasi tipo di sfruttamento ambientale, umano e sociale nel sistema produttivo agricolo dei nostri territori. Il nostro modo di guardare alla biodiversità è stato e continua ad essere unico nel mondo, al confronto con la moltitudine di associazioni ed organizzazioni che lavorano sulla conservazione della biodiversità con le quali pure già collaboriamo e sempre più collaboreremo. Questa ricchezza dovrà essere al centro della nostra attività attraverso il nostro progetto dei presìdi, lo sviluppo dei mercati della terra, il consolidamento della rete dell’alleanza dei ristoratori. Ma anche attraverso il rafforzamento delle reti territoriali così come quelle tematiche che stanno svolgendo e possono svolgere un ruolo fondamentale nel nostro Paese, soprattutto in aree con specifiche fragilità. E questo impegno dovrà convergere in modo ancora più forte nell’ambito delle campagne internazionali come quella sugli orti in Africa che ci hanno già visto impegnati negli anni scorsi o quella sul cambiamento climatico che merita una strategia attenta a partire proprio dai nostri territori con la consapevolezza di come si svolge a livello globale”. (Clicca  per leggere il testo integrale dell’intervento).

Gaetano Pascale, presidente uscente di Slow Food Italia, ha formalizzato il passaggio di consegne al nuovo Comitato Esecutivo: “Miei cari, vi aspettano due anni impegnativi. Noi tutti soci dobbiamo ringraziare queste persone che avranno tante soddisfazioni, ma gli oneri e le responsabilità saranno superiori agli onori che gli tributiamo oggi e che riceveranno in futuro. Dobbiamo essere a loro disposizione, con cura e attenzione, perché il nostro impegno passa anche attraverso il loro sacrificio. In me troverete sempre una persona di supporto in qualsiasi cosa farete. Siete straordinari per aver assunto la responsabilità dell’associazione in un momento così importante. Faremo molto insieme, con tutte queste belle persone che ci sono oggi e anche chi non è potuto venire. Grazie e buon lavoro!”.
Chiamati a dirigere l’Associazione nel percorso di rinnovamento che porterà al Congresso del 2020, i sette componenti portano in dote la loro variegata esperienza nella rete Slow Food italiana:

Massimo Bernacchini, cinquant’anni, vive e lavora a Orbetello, dove è attivo nel mondo della cooperazione e della pesca. Dal 2006 è membro della Segreteria Regionale di Slow Food Toscana e consigliere nazionale;
Giorgia Canali, classe 1986, vive a Cesena dove lavora come giornalista. Nel 2010 viene eletta fiduciaria, contribuendo alla nascita della Rete giovani di Slow Food in Italia;

Antonio Cherchi, sassarese, 63 anni, commercialista, vive e lavora a Modena. Dal 2010 al 2014 è stato presidente di Slow Food Emilia-Romagna; dal 2015 ha ricoperto l’incarico di Tesoriere e consigliere nazionale;
Silvia De Paulis, agronoma, dal ’98 al Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. Dal 2009, dopo il terremoto che ha sconvolto L’Aquila, ha contribuito alla realizzazione prima del progetto 10 orti per 10 tendopoli e poi del Mercato Contadino;
Giuseppe Orefice, tecnologo alimentare, ha 42 anni e dal 2014 è formatore nell’ambito del progetto Orto in Condotta e docente Master of Food; è il presidente uscente di Slow Food Campania e Basilicata;

Francesco Sottile, agronomo, insegna Biodiversità e qualità delle colture agrarie all’Università di Palermo. In Slow Food ha cominciato vent’anni fa dal mondo dei Presìdi siciliani allargando sempre più la propria collaborazione sul piano tecnico e associativo anche all’estero. (Clicca qui per le biografie dei sette componenti del Comitato Esecutivo di Slow Food Italia).

Tra gli interventi della giornata conclusiva anche quello del sindacalista Usb Aboubakar Soumahoro che ha portato il saluto delle lavoratrici e dei lavoratori della piana di Gioia Tauro, della Puglia, dei braccianti cuneesi: “Chi continua a cercare lavoro, chi ha già un lavoro ma si sente schiavo e quelli a cui viene detto che non hanno diritto a un futuro migliore. Prima di parlare di futuro però serve anche la memoria: ascoltando i delegati ieri mi veniva in mente la mia infanzia, il villaggio in cui sono nato in Costa Avorio dove non andavamo a fare la spesa nei supermarket. C’era tutto: quello che si coltivava si mangiava, i semi erano nostro e non venivano imposti da nessuno, si conosceva la loro qualità. Primo Levi diceva che viviamo in una guerra costante con la memoria. Questa guerra dice che non abbiamo un passato e che il presente deve essere di odio verso il diverso, di un Paese in cui si chiudono i porti dei nostri mari per i migranti lasciando indisturbate le navi da guerra. Si continua a dire che siamo invasi dai migranti ma è solo una realtà falsificata. Abbiamo 5 milioni di persone partite dagli altri continenti che non esprimono una scelta divina, ma fuggono dai cambiamenti climatici, dalle guerre in corso. Ma non è tutto perso: ci sono tante persone, tanti giovani che non prendono il megafono dell’odio per attaccare i più poveri. La risposta deve essere restituire sovranità alimentare e giustizia sociale a chi è più sofferente. Il vero problema in Italia non sono i profughi: ci sono 7 milioni di poveri che non se la prendono con migranti. Il nostro presente è fatto di luce e speranza, di uomini e donne come voi e insieme possiamo portare la nave Italia a riva senza far affogare nessuno. Insieme!”.

Emozionante per la platea è stato anche l’intervento dello studente dell’Università di Scienze Gastronomiche Muhamed Abdikadir, detto Mudane: “Sono un ragazzo sfortunato e fortunato allo stesso tempo. Sfortunato perché da quando sono nato non ho mai visto pace nel mio paese, la Somalia, perché non conosco la mia data nascita, perché sono cresciuto nell’anarchia e nella fame. Ma sono fortunato perché da 1991 ho avuto un aiuto fondamentale da una Ong italiana che molti altri bambini non hanno avuto. Ho potuto studiare e ora frequento un Master all’università di Pollenzo, cosa che nessun altro somalo ha potuto fare. Sono stato fortunato anche perché ho vissuto un terzo della mia vita nel segno della filosofia di Slow Food”.

Il saluto ai mille tra delegati, osservatori e ospiti della Chiocciola alla cittadina Toscana è dato dall’assessore alle attività produttiva, Helga Bracali a nome di tutta l’amministrazione comunale di Montecatini Terme: “Grazie per aver colorato la nostra città. La presenza di Slow Food a Montecatini Terme è per noi un’opportunità incredibile. Spero portiate a casa tutti bel ricordo di noi e della città e spero che il connubio con il nostro territorio continui perché è davvero bello sentirvi dire che siamo una città a misura vostra. Per questo ci piacerebbe accogliere Slow Food Toscana nel territorio della Valdinievole. Vi aspettiamo il 13 ottobre per la presentazione e degustazione nazionale di Slow Wine. Porteremo ancora una volta la vostra Chiocciola sotto il nostro Tettuccio”.

Fonte: ecodallecitta.it

Torino, seconda edizione del bando “Cittadino albero. Spazio pubblico, verde e sociale”

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Stanziati 280 mila euro per il miglioramento della qualità urbana nel Comune di Torino e della prima e seconda cintura torinese. La Compagnia di San Paolo lancia la seconda edizione del bando “Cittadino Albero. Spazio pubblico, verde e sociale”: la Fondazione con questo strumento invita a presentare proposte per iniziative che riguardano la dotazione di nuovo patrimonio arboreo e la cura delle aree adiacenti negli spazi urbani. Obiettivo di questa azione, a favore della quale la Compagnia ha stanziato 280 mila euro, è intervenire sugli spazi urbani, sostenendo processi di partecipazione per la progettazione e la gestione delle aree verdi. Le iniziative dovranno prevedere, oltre alla piantumazione di alberi, anche delle azioni di sviluppo delle comunità locali, di animazione territoriale, di sensibilizzazione su tematiche legate alla biodiversità urbana, volte a promuovere e sostenere processi di cittadinanza attiva. Possono essere oggetto di contributo progetti localizzati nel Comune di Torino o in Comuni della prima e seconda cintura torinese (Comuni confinanti direttamente con Torino o Comuni confinanti con i primi.  La richiesta di contributo per ogni singolo progetto potrà essere compresa tra i 10.000 e i 50.000 euro e non potrà essere superiore al 75% dei costi totali del progetto.

Saranno prese in considerazione proposte che riguardano la messa a dimora di alberi e che promuovano e sostengano processi di cura dell’area di riferimento da parte di gruppi di cittadini e/o enti del terzo settore anche in collaborazione con le amministrazioni cittadine o altri enti pubblici. Le iniziative potranno riguardare uno o più spazi verdi urbani, già esistenti o di nuova creazione, ad uso pubblico, la cui dimensione sia compresa tra 500 e 20.000 mq2; qualora gli spazi siano di proprietà privata si richiede l’esistenza giuridicamente accertata di un vincolo di destinazione a uso pubblico per un periodo minimo di 10 anni a partire dalla realizzazione del progetto.

Le proposte potranno essere presentate entro il 10/6/2018 inviando una mail con oggetto “Bando Cittadino albero” all’indirizzo filantropiaterritorio@compagniadisanpaolo.it: l’esito definitivo delle richieste di contributo sarà comunicato entro il 15/10/2018.

Per maggiori informazioni e chiarimenti scrivere a: filantropiaterritorio@compagniadisanpaolo.it.

Fonte: ecodallecitta.it

 

I “Bambini delle Fate”: un nuovo modo di fare “sociale”

Di autismo si comincia, ormai, a parlare molto. Si sa poco, però. Si sa poco del problema, poco delle sue cause, delle sue molte forme e, soprattutto, pochissimo di come vivano le famiglie che si trovano ad affrontarlo. Perché in Italia le famiglie coinvolte sono sempre di più e si parla di un caso ogni 60 nuovi nati.9500-10255

Nella vita di Franco e Andrea Antonello l’autismo entra prepotentemente un giorno di qualche anno fa, quando Andrea ha due anni e mezzo, attraverso le parole di un medico. Autismo, la diagnosi. La famiglia viene travolta dalla forza di un terremoto, dice Franco. Un terremoto che non passa ma dura tutta la nostra vita e quella dei nostri figli, anche dopo di noi. Il colpo è fortissimo e la vita comincia a cambiare, a prendere una strada diversa, aprendo scenari e prospettive prima completamente sconosciuti. Franco inizia a rendersi conto di cosa sia l’universo del Sociale, dei suoi problemi, dei suoi punti deboli, cercando di elaborare nuove possibilità e soluzioni. Lui, imprenditore da sempre, non si capacità del fatto che si tratti di una realtà costretta a contare sulla carità della gente, sulle donazioni sporadiche quando ci sono, su modalità che, di fatto, non funzionano e non permettono di assicurare alle persone che ne hanno bisogno, il sostegno adeguato e continuativo necessario. Così, ha un’idea: coniugare la realtà di impresa a quella del Sociale per perseguire tre obiettivi fondamentali: aiutare l’inserimento delle persone autistiche, sostenere le loro famiglie attraverso progetti sul territorio, organizzare raccolte fondi per attivare i progetti di inclusione. Da questa intuizione, nel 2005 nasce a Castelfranco Veneto, la fondazione I Bambini delle Fate che aiuta, al momento, 44 tra Associazioni, Enti ed Ospedali in 12 Regioni: Veneto, Trentino Alto Adige, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Abruzzo, Lazio Puglia e Sicilia. Sono molti i progetti in Veneto: 4 in provincia di Treviso, 4 in provincia di Vicenza, 2 nel Padovano e 1 in provincia di Venezia. Nel solo 2016 sono stati distribuiti 1.930.000 euro. Le famiglie coinvolte ricevono i finanziamenti erogati dalla fondazione proprio attraverso quelle associazioni e strutture e, in questo modo, riescono ad avere accesso gratuito a terapie, trattamenti e percorsi riabilitativi che sarebbero altrimenti inaccessibili per via dei costi troppo alti. Franco e Andrea Antonello, che oggi ha 23 anni, hanno al loro attivo diversi libri scritti a quattro mani e viaggi in giro per il mondo

Incontriamo Franco Antonello

Che tipo di progetti finanzia l’Associazione I Bambini delle Fate?

Qualsiasi tipo di progetto che riguardi la disabilità infantile. Fino ad ora la maggior parte dei progetti sono relativi all’autismo ma semplicemente perché la fondazione nasce dall’esperienza di Andrea. Finanziamo qualsiasi progetto in questa direzione.

Perché è nata l’associazione?

E’ nata perché ho visto troppi gruppi e progetti, di solito formati dalle famiglie, non decollare per mancanza di fondi che non arrivano né dallo stato né dai comuni. Se arrivano lo fanno sotto forma di sms ma sono forme che non condivido. Noi lo  facciamo senza chiedere donazioni né versamenti una tantum.

In che modo l’associazione trova i finanziamenti?

La Fondazione realizza i suoi obiettivi attraverso il coinvolgimento delle imprese sul territorio dove si realizzano i progetti. Le aziende fanno versamenti costanti. In questo modo garantiscono sviluppo e continuità alle attività in corso oltre ad assumersi un fondamentale ruolo di responsabilità sociale, facendosi carico delle difficoltà del territorio in cui producono ricchezza.

Come è riuscito a coinvolgere gli imprenditori?

Tutte le persone sono disponibili ad aiutare. Il problema è che non si sa mai dove vadano a finire i contributi versati. Noi chiediamo agli imprenditori una quota mensile e ogni mese ci impegniamo a pubblicare, sui quotidiani che ci danno pagine a disposizione, tutte le informazioni relative all’uso di quei fondi. Ciascuno può verificare attraverso un numero di telefono in che modo sono stati impiegati i soldi. Rendiamo conto, quindi, di tutto ciò che ci viene dato, pubblicando i nomi dei ragazzi sostenuti, nomi e recapiti dei responsabili delle associazioni e degli enti che gestiscono i fondi erogati, una puntuale rendicontazione sull’utilizzo delle somme. Un Comitato Medico Scientifico, inoltre, supervisiona i progetti. Quindi, la trasparenza di ogni operazione è massima. Al momento le aziende che ci sostengono sono oltre 700 in tutta Italia, da Bolzano a Ragusa. Abbiamo in piedi 50 progetti. Sono un imprenditore da sempre e mi sono chiesto che cosa  vorrei sapere se donassi dei soldi. Quello che  vorrei è semplicemente trasparenza e serietà. E’ quello che chiede chiunque si impegni economicamente: sapere dove vanno a finire i propri soldi. Quello che sto facendo è cercare di portare la gestione di impresa nel Sociale. Ci sono fabbriche di qualsiasi genere di prodotto che fanno utili spaventosi mentre il Sociale ha bisogno di carità. Questo non va. Sono convinto che il nostro sia un modo efficace per sostenere le persone che ne hanno bisogno.

Se anche un privato volesse  aiutarvi?

Anche i privati possono dare il loro contributo attraverso l’iniziativa Sporcatevi Le Mani: la modalità è sempre attraverso donazioni mensili che aiutano bambini e ragazzi con autismo a crescere con percorsi personalizzati.

Quante famiglie vengono sostenute attraverso la Fondazione?

Al momento oltre 2000 famiglie in tutta Italia.

Come mai avete scelto questa modalità di “donazione continua”?

Il nostro obiettivo è realizzare insieme dei progetti che offrano soluzioni e benefici garantiti nel tempo. Qualche sporadica donazione non ci permetterebbe di mantenere questa promessa.

L’autismo è in aumento. Quali sono al momento i dati? E come mai, nonostante questo, se ne sa ancora così poco?

Ormai si parla di un caso ogni 60 nuovi nati. Il problema è che ci sono tante forme di autismo. Se ne parlerà sempre di più perché diventerà la piaga del secolo. Non se ne parla perché viviamo in una società che ci obbliga a guardare sempre avanti senza fermarci a guardare indietro e a chi si è perso. Fino a quando non ci tocca direttamente.

Qual è la difficoltà più grande che devono affrontare le famiglie?

Quando arriva un bambino con autismo in una famiglia è come se arrivasse un terremoto. Un terremoto che durerà tutta la tua vita e anche quella di tuo figlio quando non ci sarai più. Mi fa male vedere che chi ha le possibilità economiche si salva. Con le possibilità economiche, infatti, si possono migliorare molto le condizioni delle persone autistiche. Chi non ha i mezzi, invece, si trova ad affrontare problemi grandissimi. In Italia sono 400000 le famiglie che hanno a che fare con questo problema. La maggior parte di loro non ha le possibilità di accedere ai percorsi terapeutici e riabilitativi necessari.

Come si pensa al futuro?

Tutti i genitori pensano al “dopo di noi”. E mi fa profondamente male parlare di questo. Il “dopo di noi” significa centri o strutture, che una volta si chiamavano manicomi, in cui i ragazzi vengono sedati per calmarli o vengono usati metodi non sempre controllati per tenerli fermi. E’ inutile che si raccontino storie. Non voglio più parlare del futuro perché è una tragedia. Personalmente sono convinto che se ogni azienda donasse il suo contributo e se le persone donassero due ore alla settimana alle famiglie che ne hanno bisogno, la situazione sarebbe molto diversa. Si potrebbe iniziare a parlare, così, di un altro modo di pensare il futuro delle persone autistiche. Il “dopo di noi” deve cominciare da ognuno di noi perché non sarà certo lo Stato a pensarci. Deve cominciare dalla società dove ciascuno può fare qualcosa di concreto.

Che cos’è la Banca del Tempo Sociale?

E’ un progetto in cui mettiamo insieme, in un sistema molto organizzato, ragazzi delle scuole superiori con i ragazzi con disabilità. Troviamo per ogni ragazzo disabile tre amici che si impegnano con due ore settimanali a fargli compagnia. Partirà a marzo ma esiste già con la collaborazione di un centro per ragazzi disabili di Bolzano che si chiama Il Cerchio e con due scuole superiori. Tale esperienza fa si che gli alunni partecipanti possano ricevere crediti scolastici.

Lei e Andrea, nel 2010, avete fatto un lungo viaggio negli Stati Uniti e in America Latina a bordo di una moto. Perché? E che cosa è cambiato dopo?

Quello che è cambiato è la presa di coscienza di Andrea. Prima era chiuso nel suo mondo e non sapeva come uscirne. Adesso si è reso conto che anche lui può fare cose come viaggiare, incontrare tante persone e fare esperienze nuove. Adesso Andrea è completamente diverso rispetto a sette anni fa, quando abbiamo fatto il viaggio.  Nel film Forrest Gump si dice che la vita è come una scatola di cioccolatini e non puoi mai sapere quello che ti capita. Se ci tocca quello amaro è inutile restare troppo a piangere. Piangere va bene ma poi da lì si deve partire per andare avanti. Oltre a fare le cose che mi interessano e cioè i contratti con le aziende, ci prestiamo molto ai media perché non vogliamo parlare dell’autismo come problema. Non ci ascolterebbe nessuno se lo facessimo. Per questo ne stiamo parlando su una moto, facendo un viaggio, dal palco di una rockstar o cose simili.

Quali sono i prossimi progetti dell’Associazione I Bambini delle Fate?

Finanziare progetti come stiamo già facendo e portare in tutta Italia la Banca del Tempo. Altri progetti che riguardano la comunicazione sono, al momento, top secret. Abbiamo in previsione di girare un film tratto dal libro che uscirà nel 2018 con il fine di sensibilizzare le persone a capire il mondo dell’autismo.

Per chi volesse saperne di più:www.ibambinidellefate.it

Fonte: ilcambiamento.it

 

Linda e Giovanni: “Ecco la nostra famiglia a rifiuti zero!”

Moglie, marito e tre figli: vivono a zero rifiuti. Non hanno auto, televisione e non comprano vestiti. “Abbiamo scelto di vivere in modo ecologico e di dedicare più tempo alle relazioni, all’autoproduzione, alla cura del sociale e al volontariato piuttosto che alla carriera. Alcuni ci criticano, ma noi siamo felici così”.

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Linda Maggiori ha 34 anni. Vive con suo marito, Giovanni Angeli, di 36 anni, e tre figli, di 8, 5 e 3 anni in un trilocale in affitto a Faenza. Lei, volontaria in varie associazioni, ha fondato un gruppo di auto aiuto sull’allattamento, segue la pannolinoteca comunale per il prestito dei pannolini lavabili, gestisce laboratori di educazione ambientale nelle scuole ed è autrice di due libri ecologici per ragazzi “Anita e Nico dal delta del Po alle Foreste Casentinesi” e “Salviamo il mare”. Il marito è educatore in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Insieme formano una famiglia che si definisce a “rifiuti zero”.

Perchè? Presto detto.

Perché fino a poco tempo fa, Giovanni ha lavorato come operaio in una cooperativa sociale impegnata nelle discariche e nella raccolta dei rifiuti: “Poi l’appalto della cooperativa è passato a una grande multinazionale – racconta Linda – e, anche se la nuova azienda lo avrebbe riassunto, mio marito non voleva accettare di lavorare per una multinazionale poco etica. Così si è trovato disoccupato. Per fortuna nella stessa cooperativa sociale c’era bisogno di un educatore. E lui, laureato in psicologia, non se lo è fatto ripetere due volte!”. Ma l’esperienza nella raccolta dei rifiuti ha lasciato il segno: “Quando mio marito lavorava nelle discariche ogni giorno tornava a casa raccontandomi di scenari deprimenti – spiega Linda – abbiamo cominciato così a impegnarci nei comitati locali contro gli inceneritori e le discariche e a lottare per una raccolta porta a porta. All’epoca stavamo meno attenti al nostro impatto ambientale, eravamo meno organizzati e andavamo sempre al supermercato per fare spesa. Potrei dire che spendevamo molti più soldi e più tempo. Ricordo che ogni volta era un incubo buttare via l’immondizia, con quel bidone che si riempiva così velocemente. Noi differenziavamo, ma gli imballaggi erano ugualmente tantissimi. Plastica, carta e anche indifferenziata. Quando andavo a fare la spesa al supermercato mi deprimevo, con quella lista lunghissima di cose da comprare…”.
Poi un giorno, circa un anno fa, ecco la lampadina accendersi: “Se davvero vogliamo vivere in modo ecologico dobbiamo essere più coerenti anche nel campo rifiuti – si è detta Linda – è giunto il momento di mettersi alla prova!”. Con un monitoraggio attento dei rifiuti e una tabella in cui segnare chilogrammi e materiale di scarto Linda ha iniziato un attento monitoraggio dei rifiuti. “Mio marito all’inizio era piuttosto scettico anche perché io sono disorganizzata, casinista e impulsiva, insomma un mix catastrofico e per nulla promettente!” sorride Linda. “Infatti all’inizio è stata davvero dura – ammette – ma poi anche mio marito si è ricreduto! E ora dopo un anno, abbiamo ridotto drasticamente tutti i nostri rifiuti e abbiamo imparato a organizzarci, a recuperare, riusare, a  fare tante cose in casa, abbiamo risparmiato tanti soldi e il bidone della spazzatura non si riempie quasi mai, è una vera liberazione! Ormai buttiamo i rifiuti solo una volta ogni 2 mesi. Quindi davvero un impegno minimo”. Dopo un anno a casa di Linda l’ammontare dell’indifferenziata arriva a 0,6 kg annui a testa, contro una media cittadina di 160 kg. Numeri non da poco, “ma alla portata di tutti”, afferma lei. E per chi pensa sia impossibile, tutto è documentato sul loro blog:www.famiglie-rifiutizero.blogspot.it
“Quando tornare all’essenzialità non è una rinuncia ma una scelta consapevole e motivata si riacquista il proprio, una grande energia vitale e si istaurano rapporti più ricchi e vissuti – continua Linda – Tanta gente è presa dal circolo vizioso sempre più lavoro, sempre più bisogni, sempre meno tempo, sempre più consumo. Noi riusciamo a vivere con uno stipendio da educatore, ma non dobbiamo mantenerci l’auto, facciamo a meno di tanti prodotti (ce li autoproduciamo), non andiamo in palestra (andiamo sempre in bici o a piedi), i nostri figli non fanno mille attività e non facciamo costose vacanze. La gente pensa “che vitaccia” e invece il tempo passato coi nostri figli, giocando al parco o andando con loro in bici, è impagabile”.

Sì, perché Linda e Giovanni non solo vivono a rifiuti zero, ma anche a emissioni zero! “La rinuncia all’auto è stata una scelta dapprima forzata, poi sempre più motivata e consapevole – racconta Linda – cinque anni fa un’auto ha invaso la nostra carreggiata e ci è venuto addosso distruggendoci la macchina. Guidavo io, i bambini erano dietro, ben legati. Per fortuna ci siamo salvati tutti, ma da allora non ho più voluto guidare. Tutti cercavano di convincermi, ma io dicevo: ma se non mi serve perché devo usarla? Vivo in centro, vado ovunque in bici, piedi, treno, bus e se proprio serve, in rari casi, chiedo passaggi. Tra l’altro tutti dovremmo imparare a vivere con meno auto. In Italia ce ne sono più di una ogni 2 persone! – afferma – Anche mio marito non amava troppo l’auto. Abbiamo provato ad aspettare a ricomprarcela. Col passare del tempo abbiamo sempre più approfondito le ragioni per non avere l’auto, abbiamo conosciuto altre famiglie che non l’avevano, creato una rete. Da allora non l’abbiamo più ricomprata”.

Ma come si svolgono le giornate di una famiglia a impatto zero?

“Io e mio marito di solito ci alziamo all’alba per leggere, scrivere o meditare. I bambini si alzano alle sette, facciamo colazione con i biscotti, con il kefir, cereali, pane e crema spalmabile, o marmellata, tutti fatti in casa. Poi portiamo i bimbi a scuola in bici. Se serve facciamo compere al mercato portandoci sempre dietro sporte e contenitori da casa. Il più delle volte acquistiamo tramite gruppo d’acquisto solidale o nei piccoli negozi in città, che vendono sfuso o equosolidale. Mio marito va al lavoro in bici (lavora a 10 km in collina). Prima di pranzo andiamo a prendere i bambini a scuola. Se è bello facciamo un picnic al parco e restiamo là a giocare fino al pomeriggio. Poi si fanno i compiti, si prepara la cena e finito di mangiare si legge o si gioca insieme. Non abbiamo la televisione!”. nutella

Niente televisione e niente vestiti! “Non li compriamo quasi mai… ce ne sono così tanti da passarsi tra familiari, amici e conoscenti! – afferma Linda – A volte mia mamma ci regala scarpe ecologiche comprate nelle fabbriche marchigiane”. Insomma in cinque con un solo stipendio si vive bene comunque… “Certo! Ci bastano 300 euro al mese per gli alimenti, 450 euro per l’affitto, e altre 100/200 euro per tutto il resto. Se penso che in media una famiglia italiana spende più di 2000 euro al mese…”.

A chi dice che non avrebbe mai il tempo cosa rispondete? “Che anche noi con 3 figli, un lavoro, tanto volontariato e impegno sociale non abbiamo certo tempo da perdere! Spesso è solo una questione di organizzazione e abitudine. Ognuno fa quel che può, magari iniziando con piccoli passi. Sicuramente bisogna anche darsi delle priorità. Noi abbiamo scelto di dedicare più tempo all’autoproduzione, alla cura sociale e al volontariato piuttosto che alla carriera. Alcuni ci criticano, ma noi siamo felici così”.

E vedendoli è difficile pensare il contrario: sereni, sorridenti, tranquilli… come se non gli mancasse nulla! “Questo stile di vita ci ha permesso di guadagnare molto… nelle relazioni con i nostri figli, con la natura, con gli altri, con i bambini in difficoltà. Nanni Salio, del centro Studi Sereno Regis diceva: ‘Troppe automobili, troppo cemento, troppe case, troppi rifiuti, troppo cibo, troppi prodotti usa e getta non creano un mondo migliore, ma ci impediscono di avere relazioni più armoniose e distese tra noi e con gli altri esseri viventi’. Invece di arricchirci ci impoveriscono. Ecco allora la scelta della semplicità volontaria. E anche se come tutte le famiglie abbiamo i nostri momenti di stanchezza, conflitto e crisi di base abbiamo quella consapevolezza dell’immenso miracolo che ci è capitato e che ci circonda, che dobbiamo tutelare. Una volta mio figlio mi ha detto ‘che bello non avere l’auto, così possiamo sempre sentire il vento in faccia!’ Per ora questo mi basta”.

Link:

https://www.facebook.com/groups/famiglierifiutizero/

www.famiglie-rifiutizero.blogspot.itrifiutizero1

Fonte: ilcambiamento.it

Gli scambi solidali e il crowdfunding per sociale e cultura: Banca Etica fa comunità

Scambi solidali tra i soci in rete e la raccolta fondi dal basso per finanziare progetti sociali e culturali portati avanti da chi fa parte della comunità: Banca Etica fa il punto a due anni dall’avvio di questi due progetti.bancaetica_crowdfunding

Progetti che sempre più consentono di far comprendere come il denaro non sia e non debba essere un fine ma un mezzo per realizzare un obiettivo sostenibile e portatore di valori positivi. Soci in Rete (www.sociinrete.bancaetica.it) è stato sviluppato nel 2013 con l’obiettivo di rafforzare la mutualità interna nei confronti dei soci. «Il progetto è finalizzato a facilitare la relazione tra le persone e le organizzazioni sul territorio – spiegano da Banca Etica – attraverso l’apertura alla partecipazione attiva e la capacità di rispondere ai bisogni della comunità di riferimento. Si tratta in particolare di un mercato virtuale a cui possono partecipare solo i soci della Banca, in cui si incontra chi offre e chi acquista beni e servizi, materiali e relazionali. Il principio è, da un lato, quello di riservare un vantaggio a chi sostiene una visione economica e sociale nuova, dall’altro, privilegiare, nelle scelte di acquisto, soggetti economici coerenti con questa visione. Lo strumento è accessibile tramite un portale online, gestito da Banca Etica, che accetta esclusivamente le offerte di prodotti e servizi di persone o organizzazioni socie e che rispettano i valori espressi nel Codice Etico e nello Statuto della Banca. A fine 2014 al portale risultano iscritti 21 soci che hanno proposto complessivamente 48 offerte: il progetto consente l’iscrizione ad una newsletter, alla quale sono iscritte 1.400 persone. Banca Etica attualmente sta riflettendo in merito all’evoluzione dello strumento: in particolare si prevede di estendere le offerte commerciali a possibilità di lavoro e di volontariato. Riguardo al crowdfunding, la Banca ha iniziato un percorso importante con la prima piattaforma di settore, Produzioni dal Basso (www.produzionidalbasso.com), sviluppando al suo interno una specifica rete. Il network di Banca Etica all’interno di Produzioni dal Basso è attivo da giugno 2014 e ha visto l’inserimento progressivo di progetti nati dalla base sociale o che la base sociale ha deciso di sostenere con azioni proattive di affiancamento e di comunicazione. I progetti inseriti nel 2014 sono stati 12: tra questi 7 hanno raggiunto il budget indicato, concludendosi positivamente, 2 non hanno raggiunto il budget e si sono chiusi e 3 si sono conclusi nei primi mesi del 2015. Nei giorni scorsi è stato anche presentato il bilancio sociale: a fine 2014 il capitale sociale di Banca Etica ammontava a 49.769.055 euro, registrando un incremento di 3.167.062 euro rispetto a fine 2013 (+ 6,8%).

A fine 2014 i soci di Banca Etica sono 36.815:

  • 16,1% persone giuridiche
  • 83,9% persone fisiche.

Il capitale sociale è apportato per il 35,5% da persone giuridiche e per il 64,5% da persone fisiche.

Tra i soci ci sono 355 enti pubblici (284 Comuni, 43 Province, 8 Regioni), che rappresentano il 3,1% del capitale sociale (1.586.025 euro).

Fonte: ilcambiamento.it

Il Risparmiatore Etico e Solidale
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Agricoltura biologica, oltre 43 milioni di ettari nel mondo e due milioni di contadini

Le zone in cui e’ piu’ diffusa sono l’Oceania e l’Europa comn un volumen di affari globali oltre i 70 milioni di dollari.

L’agricoltura biologica continua a crescere: e’ appena uscito il rapporto 2015 a cura di FiBL e IFOAM, che certifica che in tutto il pianeta le coltivazioni e gli allevamenti biologici superano i 43 milioni di ettari. La regione di maggiore diffusione e’ l’ Oceania con ben 17 milioni di ettari, quasi tutti di pascoli naturali (1), seguita dall’ Europa con 11,5 milioni di ettari, In Italia si e’ arrivati a 1,3 milioni di ettari. In 11 nazioni la superficie bio supera il 10% del totale agricolo. A tutto cio’ va aggiunto anche il settore della cosiddetta raccolta selvatica, 30 milioni di ettari di foreste non inquinate dove vengono raccolti noci, funghi e bacche. Complessivamente il volume d’affari supera i 72 milioni di dollari, generati da circa due milioni di famiglie contadine. «Siamo particolarmente compiaciuti delle recente eccellente crescita in tutto il mondo» ha dichiarato Markus Arbenz, direttore esecutivo dell’ IFOAM. «Gli impatti positivi dal punto di vista ambientale, sociale ed economico del settore ne conferma l’importanza, paragonabile a quella di un faro.» L’agricoltura biologica consuma circa un terzo di energia in meno rispetto all’agricoltura chimico-industriale e cattura piu’ carbonio nel suolo, al punto che se fosse diffusa a livello planetario potrebbe assorbire tra il 20 e il 60% delle emissioni.Agricoltura-biologica

(1) Cioe’ pascoli non trattati con fertilizzanti chimici

Fonte: ecoblog.it