Minerali clandestini, stretta in Europa. Ma funzionerà?

Il Consiglio d’Europa ha adottato ufficialmente il regolamento, già approvato a marzo dal Parlamento Europeo, che rende più stringenti il monitoraggio dei cosiddetti “minerali insanguinati”, cioè le materie prime provenienti da zone di conflitto o dove avvengono gravi violazioni dei diritti umani.9542-10300

Le nuove norme diventeranno vincolanti solo dal 2021, ma intanto produttori e importatori dovranno organizzarsi per non arrivare impreparati. La normativa, adottata dal Consiglio d’Europa lo scorso 3 aprile, rende più stringenti i controlli sulle importazioni dei minerali dei conflitti o estratti nei paesi dove si verifica una grave violazione dei diritti umani e rende obbligatoria la tracciabilità dell’intera catena. Minerali come coltan, stagno, tungsteno e oro sono estratti in particolare nella regione dei Grandi Laghi in Africa e nella Repubblica Democratica del Congo (dove si stima vengano sfruttati almeno 40mila bambini). Tali minerali sono parte integrante della nostra vita in quanto componenti fondamentali di cellulari, computer, persino lavatrici. L’Unione Europea richiederà la tracciabilità per i minerali dei conflitti, quale che sia il paese di origine, senza limitarsi ad alcune regioni dell’Africa. Non mancano però le critiche. Infatti vengono stabiliti quantitativi minimi di importazioni, al di sotto dei quali non vige l’obbligo di tracciabilità. In questo modo i piccoli importatori potranno continuare a non rendere conto delle provenienza dei minerali. Inoltre, il vincolo non riguarda tutti quegli elementi che vengono oggi considerati minerali dei conflitti. Ad esempio restano fuori dall’accordo smeraldi e carbone provenienti dalla Colombia, o rame, giada e rubini estratti a Myanmar. Ma mentre l’Unione Europa intraprende questa strada, negli Stati Uniti sembra invece che ci potranno essere passi indietro. Infatti, con l’annunciata riforma di Wall Street del presidente Trump, potrebbero essere cancellati tutti i controlli sui minerali dei conflitti. Nello specifico, si tratta della cancellazione del Dodd-Frank Act, la legge voluta nel 2010 da Obama che, tra le altre cose, obbliga anche le compagnie statunitensi a tracciare meticolosamente quei minerali rari che stanno alla base di molti conflitti nell’Africa centrale. L’articolo specifico del Dodd-Frank Act era comunque, di fatto, rimasto quasi lettera morta. Un rapporto congiunto di Amnesty International e Global Witness rivelava nel 2015 che quasi l’80% delle società Usa che fanno uso di minerali come coltan, tungsteno, diamanti, oro non è in grado di determinare se i prodotti che vendono contengono minerali provenienti da zone di conflitto in Africa centrale. A condurre una grande campagna di sensibilizzazione contro l’utilizzo dei minerali “insanguinati” è stata l’associazione “Chiama l’Africa”, il cui presidente Eugenio Melandri sta anche allestendo in Italia una mostra itinerante fotografica dal titolo “Minerali clandestini”, ideata e realizzata da Mario Ghiretti, in collaborazione con Solidarietà-Muungano onlus, Rete Pace per il Congo, Maendeleo Italia, Fondazione Nigrizia, Cipsi, Emmaus Italia, Missione Oggi, con il contributo poetico di Erri De Luca. Possono fare richiesta della mostra scuole, associazioni, enti locali, organizzazioni no profit e anche comuni cittadini, in modo che venga allestita nelle varie città.

Chi è interessato a noleggiare la mostra, può scrivere a chiamafrica@gmail.com oppure chiamare al 0521.314263

Fonte: ilcambiamento.it

Non si sfugge alla pubblicità

Lo sapevate che a Seul tutte le volte che un autobus passa davanti a un Caffè Dunkin’ Donuts parte un aromatizzatore che spruzza profumo di ciambelle tra i passeggeri? E l’uomo che l’ha inventato ha anche preso un premio. È uno degli esempi di indottrinamento e manipolazione pubblicitaria descritti nel libro di Matthew Crawford, The World Beyond Your Head.5

Crawford, nel suo libro The World Beyond Your Head, alla fine arriva a concludere che si tratta di un problema politico. Non c’è in ballo soltanto il dover imparare ad auto-disciplinarsi nell’uso di una tecnologia che ci offre miliardi di stimoli contemporaneamente; il fatto è che dai produttori di smartphone ai creatori di social network, dai media alle multinazionali, tutti approfittano della nostra sempre più limitata capacità di difenderci da tutti questi stimoli e lo fanno per ammaliarci e trarne profitto da questo. Crawford suggerisce di considerare l’attenzione una sorta di “bene comune”, come si fa con l’aria che respiriamo o l’acqua che beviamo; sono un patrimonio collettivo e sono beni “fragili”, che vanno protetti. Perchè dunque non pensare che anche l’attenzione lo sia? Una risorsa collettiva dalla quale dipende tutto il resto. Molto lucida in proposito l’analisi sul libro di Crawford che il giornalista inglese Oliver Burkeman ha fatto sul Guardian. Appuntatevi bene questo ragionamento: quando gli interessi commerciali sfruttano la nostra attenzione su scala industriale, ciò che accade è essenzialmente il trasferimento di un bene dal pubblico al privato, non meno di quando vengono immessi contaminanti ambientali in una riserva naturale che è stata fatta oggetto di trivellazioni o sfruttamento da parte di privati. Ci si può difendere dalle incursioni, certo, ma a che prezzo? Rifugiandosi su una montagna o indossando cuffie a prova di sonoro tutti i giorni? Chiudendosi in casa o evitando i luoghi pubblici? Dobbiamo auto-relegarci e auto-limitarci per sottrarci a un’usurpazione? Dove sono finite le situazioni in cui lo sguardo spaziava senza meta, magari cadeva su un conoscente, ti ci fermavi a fare due chiacchiere, poi proseguivi il giro e magari te ne stavi anche in silenzio a pensare? Oggi, per esempio negli aeroporti, hai il silenzio solo se lo paghi. Vai nella sala d’attesa della business class e non hai la televisione che va costantemente o i display pubblicitari che ti stordiscono. In un mondo in cui l’attenzione è stata monetizzata, bisogna pagare se vuoi essere messo nelle condizioni di ascoltare i tuoi pensieri. E a cosa pensano le persone che attendono in business class? Probabilmente pensano a come monetizzare l’attenzione di altre persone. È lì, nelle alte sfere, che vengono prese le decisioni che determinano ciò che accadrà ai peones. Quindi, dice Crawford, dobbiamo cominciare a vedere tutto ciò sotto una luce “politica”. Proviamo a pensare alle implicazioni che questo ha sulla libertà degli esseri umani. Un assunto centrale del liberismo è che siamo liberi di ignorare i messaggi che non ci piacciono, sottolinea ancora Burkeman con grande acume; ecco perchè la libertà di parola concepisce il diritto a offendere ma non ad essere offesi. Ma l’attenzione non funziona così. Il nostro cervello viene “comandato” da ciò che vede in tv più che limitarsi a recepire un suggerimento. Come spiega bene Natasha Dow Schull nel suo studio sul gioco d’azzardo, Addiction By Design, quell’industria si giustifica e si lava la coscienza dicendo che la gente è libera di giocare o no, mentre invece tutto il sistema è fatto in modo da scippare alla gente l’effettiva opportunità di scelta. Quello che fa Crawford, realisticamente, non è invocare misure draconiane contro la pubblicità. Ma lancia un appello affinché i professionisti non si prestino a fiancheggiare queste manipolazioni. Quindi niente pubblicità vocali ad ogni angolo dei centri commerciali; no ad infarcire di pubblicità ogni singolo secondo di stop negli incontri sportivi; sia concesso ai poveri peones di sottrarsi alla televisione almeno sui bus o nei taxi; eccetera, eccetera. Provate anche voi: analizzate che cosa ingoia la vostra attenzione da quando vi svegliate la mattina a quando vi addormentate la sera. Poi provate ad allenarvi a distoglierla da lì.
Grazie di cuore a Oliver Burkeman (mente lucida, di quelle che portano un po’ di conforto) e a Matthew Crawford per il suo lavoro.
Fonte: ilcambiamento.it

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Per evitare i disastri climatici bisogna lasciare petrolio e gas sottoterra

Un nuovo, ampio studio ha confermato ciò che gli ambientalisti vanno dicendo da tempo: per evitare i disastri climatici, i combustibili fossili vanno lasciati sottoterra, bisogna dire stop all’estrazione e allo sfruttamento.carbone_giacimenti

Lasciate gas e petrolio nel sottosuolo: è questo il monito che viene dai ricercatori che hanno concluso come, per evitare che i cambiamenti climatici continuino ad aggravarsi, la maggioranza dei giacimenti di combustibili fossili debba essere lasciata sottoterra, compresi la quasi totalità del carbone negli Usa e nel Medio Oriente, tutto il gas e il petrolio dell’Artico, il 90% del carbone australiano, la stragrande maggioranza delle sabbie bituminose del Canada, il 78% del carbone europeo e gran parte del gas sempre del Medio Oriente. Lo studio è stato pubblicato su Nature ed è stato condotto da Christophe McGlade e Paul Ekins, della University College London. McGlade ed Ekins ricordano come siano stati gli stessi «decisori politici a determinare che l’aumento della temperatura globale causato dai gas serra non deve andare oltre i 2° sopra la media delle temperature globali dell’era pre-industriale». Ebbene, per rimanre sotto questa soglia, i ricercatori affermano che «a livello globale, un terzo delle riserve di petrolio, metà delle riserve di gas e oltre l’80% delle attuali riserve di carbone devono restare inutilizzate dal 2010 al 2050». Questo non è certo il primo studio che sottolinea come l’abuso di combustibili fossili risulti pericolosi, ma è l’unico che ha specificato quali siano e dove siano i giacimenti che non andrebbero toccati.

Fonte: ilcambiamento.it

Olio di palma, la Malesia denunciata dagli Usa per sfruttamento del lavoro minorile

L’industria malese dell’olio di palma è stata denunciata dal Dipartimento del lavoro egli Stati Uniti per l’utilizzo di lavoro minorile e lavoro forzato dopo i dossier sui settori dell’elettronica e abbigliamento. La Malesia è al centro delle indagini dello ILAB, l’ufficio del lavoro per gli affari internazionali degli Stati Uniti che ha provveduto a rilasciare la relazione semestrale List of Goods Produced by Child Labor or Forced Labor in cui viene denunciato che l’olio di palma è ottenuto dallo sfruttamento del lavoro minorile. A essere indagata dunque anche l’industria alimentare malese dopo i settori dell’elettronica e abbigliamento accusati di sfruttare il lavoro minorile e di usare lavoro forzato. Il report presentato dallo Bureau of International Labour Affairs (ILAB) è alla sua sesta edizione e richiesto dalla legge americana Trafficking Victims Protection Reauthorisation Act (TVPRA) del 2005, nata per monitorare e fornire informazioni sul traffico di esseri umani e lavoro forzato. Parliamo di circa 168 milioni di bambini e di 21 milioni di lavoratori forzati che portano sul mercato globale prodotti di consumo quotidiano. L’inclusione della Malesia (l’Indonesia era già presente) segue di pochi mesi la pubblicazione del documento Tier 3, il report annuale statunitense sul traffico di esseri umani. In questo documento già si faceva riferimento alla situazione di lavoro forzato a cui erano sottoposti gli stranieri in cerca di lavoro in Malesia.MALAYSIA-SIMEDARBY-COMPANY-EARNINGS

I minori sfruttati sono tutti bambini al di sotto dei 18 anni perciò definito lavoro minorile mentre il lavoro svolto sotto i 15 anni viene definito schiavitù per fini illeciti e che minaccia la salute, la sicurezza e la morale dei bambini; per lavoro forzato si intende il lavoro che si fa sotto coercizione, forza o frode e include l’uso di minacce o danni fisici reali e abuso di legge. L’elenco è stato realizzato utilizzando i dati di disponibili pubblicamente e fonti primarie e secondarie tra cui anche dati forniti dall’Organizzazione internazionale del lavoro, visite in loco da parte ILAB e personale del governo americano, così come le informazioni elaborate da istituzioni accademiche e organizzazioni non governative. Accanto all’olio di palma troviamo anche altri prodotti realizzati con lo sfruttamento del lavoro minorile quali l’abbigliamento dal Bangladesh, cotone e canna da zucchero dall’ India, la vaniglia del Madagascar, il pesce dal Kenya e Yemen e bevande alcoliche, carne, tessile e legname dalla Cambogia.

Ha detto Carol Pier vice sottosegretario del Lavoro per gli affari internazionali:

Il lavoro minorile e il lavoro forzato sono violazioni dei diritti umani fondamentali, e sono anche pratiche commerciali scorrette che soffocano lo sviluppo economico.

In Malesia ci sono ancora due settori in cui i diritti umani sono violati e sono l’elettronica e il tessile/abbigliamento. Con questa relazione la Malaysia rischia di essere messa su una lista nera arrivando a subire pesanti restrizioni economiche.

Fonte:  Today Online

Il riscatto degli schiavi moderni, ossia come possiamo sfuggire allo sfruttamento economico

«Gli esseri umani sono esseri sociali e come diventano dipende profondamente dalle circostanze sociali culturali e istituzionali della loro vita». Noam Chomsky, filosofo e linguista, ci mette in guardia dai condizionamenti e ci mostra tutta l’ipocrisia di quelle verità lapalissiane di cui tanti si riempiono la bocca ma che nella pratica quasi nessuno segue.schiavi_moderni

Illuminate e illuminanti le parole di Noam Chomsky, durante la conferenza tenuta di recente alla Columbia University davanti ad una vasta platea di attenti ascoltatori. Chomsky ha la capacità di mettere a nudo le ipocrisie di tutti noi, dell’uomo comune come del grande uomo, evidenziando con schiettezza quelle contraddizioni e quelle scomode verità che, nel macro e nel micro, spesso cerchiamo di non vedere. Quelle che Chomsky definisce le verità virtuali, sono quelle verità «che tutti professano, universalmente, ma che poi, altrettanto universalmente, tutti nella pratica rifiutano» dice. Pensiamo solo a quella «verità lapalissiana secondo cui dovremmo applicare a noi stessi gli stessi standard che applichiamo agli altri, dedicandoci alla promozione della democrazia e dei diritti umani, proclamati a livello universale, anche dai peggiori mostri, mentre poi il panorama generale non mostra altro che crudeltà». Non a caso Chomsly adotta come esempio gli scritti di John Stuart Mill, nella fattispecie Saggio sulla libertà, dove si fa riferimento alla «assoluta ed essenziale importanza dello sviluppo umano nella sua più ricca diversità». Le parole vengono citate da Wilhelm von Humboldt, fondatore del liberalismo classico, ha ricordato Chomsky. «Ne consegue che le istituzioni che ostacolano tale sviluppo sono illegittime, a meno che non riescano in qualche modo a giustificarsi». E quando Adam Smith accenna a una delle massime più seguite dall’essere umano, cioè “tutto per noi e niente per gli altri”, aggiunge anche che, secondo lui, «le passioni originarie, più positive, della natura umana sapranno comunque compensare questo pensiero patologico». Insomma, Chomsky spiega e rende evidente con le sue parole l’ipocrisia che sta dietro alle aspirazioni umanistiche dei fondatori del capitalismo. Poi fa sua l’affermazione di un pensatore e attivista anarchico del secolo scorso, Rudolf Rocker, laddove sostiene che «il problema che si pone ai giorni nostri è quello di liberare l’uomo dal gioco dello sfruttamento economico e dalla schiavitù sociale». Perché lo fa? Per smascherare un’altra ipocrisia, quella degli equivoci che si giocano sulle parole e che vorrebbero forse ancora far credere che il brand americano del libertarianismo abbia qualcosa di analogo al pensiero libertario. «Il primo – spiega Chomsky – accetta e anzi invoca la subordinazione dei lavoratori ai padroni dell’economia e la soggezione di tutti alla disciplina restrittiva e ai tratti distruttivi dei mercati». Il secondo, cioè il pensiero anarchico, «si oppone notoriamente allo Stato e invoca una amministrazione organizzata delle cose nell’interesse della comunità, come dalle parole di Rocker, oltre ad ampie federazioni di comunità e luoghi di lavoro che si autogovernano».  «Oggi però – prosegue Chomsky – il pensiero anarchico può spesso arrivare anche a sostenere il potere dello Stato al fine di proteggere i più deboli, la società e il pianeta dai saccheggi del capitale privato. Non c’è contraddizione, la gente vive e soffre e va avanti in questa società e gli strumenti a disposizione dovrebbero essere utilizzati a salvaguardia e beneficio di essa, anche se un obiettivo a lungo termine è quello di costruire alternative preferibili». Oggi la condizione in cui viviamo è quello di una plutocrazia, dice ancora Chomsky: «Circa il 70% della popolazione, nello scalino più basso della scala sociale, non ha influenza sulla politica; salendo la scala sociale, l’influenza lentamente aumenta. Ai vertici ci sono quelli che determinano la politica. Il risultato non è una democrazia, ma è, appunto, una plutocrazia». C’è chi ha già confezionato un termine per “travestire” di rosa la plutocrazia, definendola una neo-democrazia, socia del neoliberismo; attenzione all’apparente innocuità del termine, si tratta di un sistema in cui la libertà è privilegio di pochi e la comprensione del pieno senso delle cose è accessibile solo ad una elite, eppure tutto inserito in un contesto di diritti generalizzati benchè solo formali e non sostanziali. Ma non è questa la vera democrazia, come anche Rocker ha sostenuto. «La vera democrazia ha le caratteristiche di un’alleanza fra gruppi liberi di uomini e donne basata sul lavoro in cooperazione e su una pianificata amministrazione dei beni per l’interesse della comunità». Chomsky ha poi continuato nella sua affascinante disamina dei pensieri a confronto. «Nessuno prenderebbe mai il filosofo americano John Dewey per un anarchico. Eppure considerate le sue idee. Egli riconosce che il potere oggi risiede nel controllo dei mezzi di produzione, degli scambi, della pubblicità, dei trasporti e della comunicazione. Chi li possiede, regola la vita del paese, anche se resta la forma democratica. E i politici resteranno la casta ombra nella società dei grandi affari, come si vede già oggi. Questo riconduce a una visione della società basata sul controllo dei lavoratori, com’era nel diciannovesimo secolo». Insomma, una “democrazia” di questo tipo ha geneticamente in sé molti rischi e molti limiti, già peraltro ben noti fin dall’antichità, cioè da quando Aristotele riconobbe nella democrazia la “meno peggio” forma di governo, ravvisandone un solo “difetto” (oggi annullato da chi ha il potere di imporre anche nomi e volti per i quali votare): la massa dei poveri potrebbe usare il proprio voto per prendersi le proprietà dei ricchi, che ne sarebbero molto dispiaciuti!  E di fronte a questo “rischio”, c’è chi, come Aristotele, consigliava di ridurre le disuguaglianze e chi, come molti altri anche oggi, consigliano invece di ridurre la democrazia!
La tradizione libertaria si può dunque ricondurre fino ad Aristotele? Si è conservata ed evoluta nei secoli, pur rimanendo sotto la superficie?Chi ne è l’erede oggi? E cosa vogliamo farne? Potrà aiutare le comunità di persone ad uscire da questa crisi strutturale? Vale la pena rifletterci.

Fonte: il cambiamento

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Eolico, la “ribellione” di Matera

L’eolico in Basilicata è, secondo le denunce di molti, una vera e propria El Dorado per le lobby energetiche: ma i materani, forse, non ci stanno159479783-432x287

Pensare di creare un parco eolico di media grandezza(44 turbine) su un territorio comunale dichiarato patrimonio Unesco non può non far scatenare un dibattito pubblico approfondito, a tratti feroce, su come produrre energia pulita tutelando contemporaneamente le bellezze orografiche della murgia materana: Matera ha incantato gli ispettori Unesco a tal punto da decidere di tutelare non solo il suo centro storico, i Sassi, ma anche la sua splendida cornice, i meravigliosi campi di grano che, d’oro giallo, sono stati celebrati dalla letteratura, dal cinema, dalla poesia. Il progetto, denunciato già a dicembre del 2011, prevedeva la costruzione di 14 turbine eoliche da 135m d’altezza (35Mw la produzione energetica) da installare in località Masseria Verzellina, Matera, e sarebbero state visibili sia dal capoluogo di provincia lucano sia da Gravina, cui si sarebbe dovuto aggiungere un secondo progetto (stessa azienda, Marcopolo Engineering Spa) da 9 turbine a Montalbano Jonico (Mt): in totale (tra Matera e Montalbano) i 57.7Mw di energia che verranno prodotti dal vento copriranno il fabbisogno delle 15mila famiglie materane e di tutta l’area industriale della città dei Sassi. Sacrificio del paesaggio per esigenze energetiche, qualcosa che già si vede in altre parti del sud Italia: dal Salento all’area del Vulture, dalla val di Noto al casertano, l’eolico è diventato un business degno di tutto rispetto: una gestione verticistica delle fonti energetiche rinnovabili (i cui incentivi e ricavi vanno a beneficio unico delle società energetiche) che ha creato grandi parchi eolici in territori da 600.000 abitanti (come in Basilicata, 2000 torri entro la fine del 2013): la logica è gettare al vento l’energia prodotta dal vento, intascando più gli incentivi (le aziende) che non i benefici energetici, ambientali e, perchè no, economici (per l’utilizzatore finale). Un progetto cresciuto, levitato come il pane (che a Matera è qualcosa di sacro): la Regione ha già approvato la costruzione di ben 44 torri eoliche, tutte nel territorio del Comune di Matera; quando i lucani si sollevano, significa che è davvero troppo (Matera fu la prima città italiana a sollevarsi contro il regime fascista). Comune, associazioni varie, albergatori, Ordini di architetti, ingegneri, agronomi, cittadini, persino l’Università della Basilicata, tutti uniti in un fronte comune per dire basta allo sfruttamento indiscriminato di un territorio che deve le sue fortune proprio al paesaggio, alla bellezza, alle meraviglie che qui si possono osservare, respirare, mangiare, vivere.

“Lavoriamo perché si possa produrre energia da fonti rinnovabili e ci piace sapere che quando accendiamo una lampadina la sua luce è prodotta dal sole, dal vento, dall’acqua. Per costruire un “futuro migliore ” però è necessaria una consapevolezza collettiva e seria, che abbia come obiettivo il perseguimento del bene comune, come ad esempio la tutela e la valorizzazione di un patrimonio dell’umanità quali sono i Sassi e il Parco archeologico storico naturale delle chiese rupestri.”

ha dichiarato Angelo Bianchi dell’associazione Diritti di Cittadinanza di Matera: già la Soprintendenza ai Beni paesaggistici ha dichiarato illegittima la procedura con cui la Giunta regionale ha approvato il progetto in località Matine, che compromette l’integrità del paesaggio a ridosso dell’altopiano murgiano: la Giunta avrebbe disinvoltamente ignorato i presupposti normativi che impediscono la localizzazione di strutture industriali di quella portata in quel territorio. Forse questa è la prima volta che lo sviluppo dell’eolico viene messo in discussione non unicamente da istrionici personaggi come Vittorio Sgarbi(che sull’eolico da anni paventa il rischio mafie, urlando l’indecenza di tali opere che “disintegrano” il territorio) o da associazioni di piccolo calibro: in questo caso si tratta di una presa di coscienza collettiva che mangia, vive del proprio territorio (niente di più vero, a Matera). Un dibattito pubblico che dovrebbe essere affrontato più spesso.

 

Fonte: ecoblog

Cambiamenti climatici: “record storico di CO2”

La CO2 in atmosfera ha superato la soglia ‘psicologica’ di 400 ppm di concentrazione, un valore che non era stato toccato negli ultimi tre milioni di anni. “Un livello altissimo che rappresenta l’ennesimo campanello d’allarme rispetto ai cambiamenti climatici in corso nel Pianeta”.emissioni_2

La concentrazione dell’anidride carbonica in atmosfera ha superato oggi le 400 parti per milione (ppm), un livello altissimo che rappresenta l’ennesimo campanello d’allarme rispetto ai cambiamenti climatici in corso nel Pianeta. “La nostra dipendenza dalle fonti fossili ci ha condotti oltre l’ennesima soglia di distruzione del clima” ha dichiarato Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia. “Ciò che siamo purtroppo riusciti a fare in poco più di un secolo aveva richiesto alla natura, in altre ere, migliaia di anni. Tuttavia gli imprenditori delle fonti fossili e i governi che garantiscono le loro fortune economiche, continuano a progettare un futuro di energie sporche, spingendo il cambiamento climatico verso un punto di non ritorno. E questo nonostante l’alternativa per una vera rivoluzione energetica esista, oggi, e sia concreta e praticabile: è nelle fonti rinnovabili e nell’efficienza energetica”. Lo scenario Energy [R]evolution 2012 di Greenpeace mostra come proteggere il clima superando il ricorso alle fonti fossili, riducendo le emissioni di CO2 e preservando, al contempo, la sicurezza energetica. Un profondo cambiamento nelle modalità di produzione e consumo dell’energia consentirebbe la creazione – nei soli comparti del riscaldamento e dell’elettricità – di sei milioni di posti di lavoro. In poco più di un secolo la nostra dipendenza dalle fonti fossili ha modificato le condizioni climatiche e ambientali che hanno garantito l’intera civilizzazione umana. I cambiamenti del clima si stanno determinando a una velocità tale da sfidare ogni eventuale capacità di adattamento umano. Già molte popolazioni sono in sofferenza, in diverse regioni del Pianeta, per gli impatti del cambiamento climatico. Purtroppo, come Greenpeace ha documentato in un recente rapporto, sia le compagnie che fanno business con le fonti fossili che i governi che autorizzano i loro progetti sono all’opera per aumentare i livelli di sfruttamento dei giacimenti di carbone, petrolio, sabbie bituminose e gas. Si tratta di progetti attivi in tutte le regioni del globo, dalla Cina al Canada, dall’Australia all’Artico, che rischiano di consegnarci a un futuro in cui il caos climatico sarà la regola quotidiana e non più l’eccezione. Gli scienziati stimano che gli attuali livelli di concentrazione di CO2 in atmosfera furono raggiunti tra i 3,2 e i 5 milioni di anni fa: quando le temperature medie erano tra i 3 e i 4 gradi centigradi più alte di adesso e le regioni polari più calde di 10 gradi centigradi rispetto a oggi. L’estensione dei ghiacci era molto limitata, rispetto a quella attuale, e il livello dei mari tra i 5 e i 40 metri più alto. Il tasso di crescita della concentrazione di CO2 in atmosfera è senza precedenti. Se le emissioni di gas serra continueranno con questo ritmo il pianeta raggiungerà le 1.000 ppm nel giro di 100 anni, laddove – invece – aumenti di concentrazione di solo 10 ppm richiedevano, nelle ere passate di più intensi cambiamenti climatici, 1000 o più anni.

Fonte: il cambiamento