Too Good to Waste: ecco come gli “scarti” combattono lo spreco di cibo

Una giovane azienda emiliana impegnata nell’elaborare soluzioni per ridurre gli sprechi e favorire l’economia circolare ha lanciato un progetto chiamato Too Good to Waste, che attraverso l’impiego di scarti alimentari ha messo a punto una tecnologia in grado di allungare la vita dei prodotti freschi. Nel mondo si spreca molto cibo, troppo. Secondo recenti stime della FAO, ben un terzo di tutto il cibo prodotto viene perso o sprecato lungo la filiera agroalimentare, dalla produzione al consumo. E le cose stanno peggiorando: secondo autorevoli stime, lo spreco alimentare è in crescita, e nel 2030 toccherà ben il 40% del cibo prodotto a livello globale. Una situazione chiaramente insostenibile, sia in termini ambientali – produrre cibo comporta l’uso di risorse naturali, come ad esempio acqua e suolo, e provoca l’emissione di CO2 – sia economici e industriali, poiché una filiera così inefficiente genera costi a carico di aziende e consumatori. Ancora, lo spreco alimentare è inaccettabile da un punto di vista morale, considerando che nel mondo le persone denutrite sono quasi 700 milioni.

Packtin dà il suo contributo a invertire il trend, attraverso Too Good to Waste, progetto finanziato dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. Packtin è una piattaforma tecno-scientifica per la valorizzazione a 360° dei sottoprodotti agroindustriali, è stata fondata da un team di ricercatori specializzati in microbiologia dell’UNIMORE e ha sede a Reggio Emilia. Packtin sta sviluppando in Emilia-Romagna un impianto-pilota per scomporre i sottoprodotti agro-industriali – cioè quelli che erroneamente vengono definiti scarti agroalimentari, come le bucce di pomodoro o il pastazzo di arancia –, rendendoli disponibili come nuove materie prime per il mercato e per la creazione di prodotti naturali di qualità da usare nell’industria alimentare.

«Spesso le bucce di pomodoro, di carota o il pastazzo di arancia vengono definiti “scarti” dai non-addetti ai lavori», spiega Andrea Quartieri, COO e co-fondatore di Packtin. «In realtà questi sottoprodotti hanno un enorme potenziale a beneficio delle persone, perché contengono vitamine, fibre e antiossidanti preziosi per la salute umana, e dai molteplici impieghi».

E uno dei campi di applicazione più interessanti per le nuove materie prime recuperate da Packtin è la creazione di rivestimenti commestibili e biodegradabili per frutta e verdura fresche allo scopo di migliorarne quella che gli addetti ai lavori chiamano shelf-life (vita di scaffale), agendo sulla maturazione o sulla protezione dalle infezioni microbiche. L’obiettivo del progetto Too Good to Waste è ottimizzare la composizione di rivestimenti per il trattamento di due prodotti d’eccellenza del settore ortofrutticolo italiano: i pomodori e le arance. Partendo dalle fibre e dagli estratti naturali ottenuti con il già citato impianto-pilota, Packtin sta sviluppando, rivestimenti biodegradabili, commestibili e facilmente lavabili che possano costituire un’alternativa ai trattamenti oggi utilizzati, come la ceratura per gli agrumi, che peraltro rende la buccia non edibile. La combinazione di fibre naturali ed estratti vegetali con funzioni antiossidanti e antimicrobiche può diminuire la percentuale di prodotti scartati rallentando la maturazione e proteggendo dagli agenti infettivi, con un ovvio calo degli sprechi a beneficio del pianeta, dei consumatori e delle aziende.

«Questi rivestimenti migliorano la vita post-raccolta degli alimenti ortofrutticoli, che di solito “durano” pochi giorni», spiega Quartieri. «Com’è noto, il settore ortofrutticolo subisce grosse perdite lungo la filiera, dal campo alla tavola. Attraverso il progetto Too Good to Waste la nostra tecnologia, “allungando la vita” a frutta e verdura, permette di migliorare la gestione del prodotto fresco in modo da ridurre gli sprechi durante le fasi di lavorazione, stoccaggio, trasporto, vendita e infine consumo».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/09/too-good-to-waste/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Orizzontale: gli architetti che rigenerano lo spazio pubblico e creano comunità.

La rigenerazione urbana degli spazi pubblici è un processo che si costruisce insieme, con la sperimentazione sul campo e la partecipazione attiva degli abitanti. È questa la filosofia che guida il lavoro di Orizzontale, collettivo di architetti che a Roma porta avanti progetti innovativi di riqualificazione cittadina che mettono al centro la condivisione e le relazioni umane, grazie anche all’utilizzo di laboratori di autocostruzione e di partecipazione attiva. Quella che vi raccontiamo oggi è la storia di Orizzontale, collettivo (pluripremiato) di architetti nato a Roma nel 2010 e che ha fatto dell’architettura, e della progettazione partecipata sul campo, strumenti di indagine transdisciplinare che accorciano le distanze tra il professionista (l’architetto) e le persone che vivono la città e i luoghi. Transdisciplinare perché gli interventi di Orizzontale non si limitano alla progettazione architettonica: l’essenza del collettivo è la collaborazione con altre realtà lavorative e professionali, come ad esempio artisti, comunicatori, fotografi, sociologi e psicologi, allo scopo di riattivare gli spazi comuni e contribuire a processi di rigenerazione urbana che mettano al centro l’abitante dei luoghi.

Il team di Orizzontale

Insieme a Marika Moscatelli, mia carissima amica romana architetto (e molto più ferrata di me su questi temi), li abbiamo incontrati nella loro sede al Quartiere Pigneto, che è anche la zona dove hanno mosso i loro primi passi ancora studenti, attraverso i primi progetti sperimentali di architettura temporanea sul territorio. Il collettivo (ricordiamo i nomi: Jacopo Ammendola, Juan Lopez Cano, Giuseppe Grant, Margherita Manfra, Nasrin Mohiti Asli, Roberto Pantaleoni, Stefano Ragazzo) sin dai tempi dell’Università è accomunato da alcuni principi che qui proveremo a tracciare. Per cominciare la progettazione degli spazi pubblici, vero centro d’interesse e motore conoscitivo di Orizzontale, non può essere calata dall’alto ma deve trasformarsi in un processo condiviso, in cui coinvolgere direttamente e pro-attivamente i cittadini che vivono quei luoghi, per riavvicinarli ad essi. Lo riassume bene Margherita Manfra: «Il tema centrale per noi è trovare nuovi modi di abitare lo spazio pubblico e nuovi sistemi di collaborazione, per cercare di ricreare legami di comunità e reinventare delle modalità nuove per stare insieme negli spazi collettivi, accorciando le distanze tra il professionista e i cittadini che vivono lo spazio». Come si fa? Ce lo spiegano nel video che racconta la loro storia.

L’aiuto più importante lo fornisce l’architettura temporanea, lo strumento di indagine e di azione utilizzato nei vari progetti di Orizzontale: all’interno di un determinato spazio pubblico, che può essere una piazza o qualsiasi altro luogo, si testano insieme alle persone coinvolte i possibili usi e destinazioni future dell’ambiente, costruendo insieme oggetti, opere o costruzioni appunto temporanee o non per forza definitive, che si adattano di volta in volta alle esigenze di chi abita il luogo. «L’uso temporaneo ci aiuta a capire come le persone faranno uso di una piazza, ad esempio – ci spiega Margherita – e di conseguenza se questa piazza può avere un indirizzo di ulteriore funzionalizzazione, lo facciamo con una sperimentazione sul campo. La partecipazione significa abitare questo spazio per vedere che tipo di utilizzo dargli».

Se ci si pensa bene, è una forma di progettazione che ribalta i canoni tradizionali cui siamo abituati: con Orizzontale la progettazione di uno spazio non viene calata dall’alto, all’insaputa di chi poi vive quel luogo, ma diventa un vero e proprio bene comune da sperimentare e costruire insieme. «Le architetture leggere ci permettono così di rispondere in maniera anche repentina a dei cambiamenti durante il processo realizzativo dell’opera – spiega Roberto Pantaleoni – ma soprattutto vogliono sperimentare possibili usi dei luoghi in cui interveniamo, in modo tale da poter programmare anche modificabilità future del progetto».

La dinamica di coinvolgimento dei cittadini ricalca modalità che abbiamo spesso visto in giro per l’Italia documentando diversi progetti innovativi e originali: una forma di diffidenza iniziale «che quasi sempre si trasforma in grande entusiasmo quando si cominciano a vedere i primi risultati. Le persone che inizialmente dubitavano del progetto le ritrovi a darti una mano, anche solo nel portarti una merenda o in altre dinamiche umane di relazione diretta con le persone che poi abitano i luoghi dove vai ad intervenire. Che sono la committenza reale a cui ci ispiriamo».

I laboratori e l’autocostruzione

Già, ma come si coinvolgono le persone in questo processo? Uno degli strumenti sono i laboratori di autocostruzione, parte integrante dei vari interventi di Orizzontale. Le persone partecipano all’idea, ma ci mettono anche la faccia e le mani lavorando attivamente alla costruzione dei luoghi.

«Noi solitamente differenziamo i cantieri di costruzione in due differenti modalità – ci spiega Giuseppe Grant – che chiamo “Cantiere di Costruzione” e “Cantiere Didattico di Costruzione”. Solitamente nel primo tipo di cantiere sono richieste competenze più approfondite rispetto al materiale o agli attrezzi che usiamo, mentre nei Cantieri Didattici prevediamo una maggiore sperimentalità».

Allo scopo di avvicinare le persone alla costruzione, che nel caso di Orizzontale si attua soprattutto grazie al legno, Orizzontale organizza dei corsi di formazione che prevedono un graduale inserimento all’utilizzo degli attrezzi, per portare poi tutti i partecipanti, alla fine del laboratorio, a possedere una minima competenza di utilizzo di tutte le attrezzature. «Per noi questa modalità di collaborazione diventa anche lo strumento per apprendere più che per insegnare – ci racconta Roberto Pantaleoni – dato che in alcuni progetti ci è capitato di collaborare con alcuni cittadini che avevano delle professionalità specifiche nella costruzione, da cui abbiamo imparato molto».

Gli scarti

Elemento fondamentale dell’esperienza di Orizzontale è anche il rapporto con lo scarto, non solo materiale e urbano ma anche legato all’immaginario. Sin dall’inizio della sperimentazione del collettivo, i luoghi spesso dimenticati dalle grandi trasformazioni e dalle pianificazioni centralizzate («non dimentichiamoci che noi siamo cresciuti umanamente e professionalmente durante gli anni dell’edificazione di giganteschi centri commerciali e di quartieri ad essi collegati», ci ricorda Roberto), i “rifiuti urbani” rappresentati da spazi residuali mai utilizzati, sono il cuore dei vari interventi.

«Il tema del rifiuto ce lo portiamo dentro fin dai nostri esordi – ci spiega Giuseppe Grant – Abbiamo fatto confluire le risorse che la città ci dava, in termini di residui e di scarti. Queste risorse sono diventate fondamentali per impostare il nostro lavoro, che poi si basa principalmente sul dare una risposta architettonica che partiva da pratiche più vicine alla performance, all’arte pubblica, con piccoli interventi di natura temporanea che però ci permettevano di mettere in sinergia queste risorse che la città ci dava in termini di scarti materiali, materiali di riciclo, spazi abbandonati, usi dimenticati della città. Tutto questo ci ha dato la possibilità di reinterpretare il luogo che abitiamo, sia come abitanti che come professionisti».

Concludo questo articolo con il suggerimento di guardare con i vostri occhi alcuni dei lavori di Orizzontale, che vengono mostrati anche nel video e che ben condensano la visione che guida questo progetto.

Iceberg

L’Argo – Perestrello 4.0

Costruire Largo Milano, all’interno del Progetto ZAC

Per ascoltare l’intervista integrale clicca qui.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/10/orizzontale-architetti-rigenerano-spazio-pubblico-creano-comunita-io-faccio-cosi-304/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Funghi Espresso: come coltivare funghi dai fondi del caffè

Un progetto imprenditoriale, un esempio di economia circolare, un modello educativo e un messaggio contro lo spreco: questo e altro è Funghi Espresso, realtà toscana che a partire dal fondo di caffè produce tre tipologie di funghi. Deliziosi da assaggiare e ricchi di nutrienti. Sapete quanti fondi di caffè vengono prodotti in Italia in un anno? Trecentomila tonnellate, risultato del lavoro di circa centoventimila bar presenti nel nostro Paese. Non sono tantissime invece le persone che sanno che il fondo di caffè, da scarto, può diventare una preziosa risorsa; ad esempio, per coltivare funghi.

L’originale trovata è la base della storia di Funghi Espresso che vi raccontiamo oggi, una dimostrazione pratica di imprenditoria “a chilometri zero” che sposa perfettamente i principi dell’Economia circolare: Funghi Espresso coltiva funghi commestibili e dal buon sapore a partire dai fondi di caffè recuperati dai bar locali, che vengono poi venduti tramite i mercati locali ed anche in dei kit dove le persone possono provare a continuare la coltivazione dei funghi in casa.

Il progetto vede le sue basi nel 2013, quando il coordinatore del Centro di Ricerca Rifiuti Zero (con sede a Capannori in provincia di Lucca) Rossano Ercolini avvia uno studio sui possibili riutilizzi del fondo di caffè in agricoltura, affiancato già allora dal co-fondatore di Funghi Espresso ed agronomo Antonio di Giovanni. Successivamente, dall’incontro tra Antonio di Giovanni e l’architetto Vincenzo Sangiovanni, nasce l’avventura di Funghi Espresso. Inizialmente avviata a Capannori, oggi Funghi Espresso ha la sua sede produttiva all’interno delle Scuderie Leopoldine di Firenze, all’interno di un Istituto tecnico agrario che ha deciso di ospitare l’esperienza e di portarla avanti in collaborazione, perché il progetto vuole essere innanzitutto educativo e si pone l’obiettivo di coinvolgere sempre più studenti nella ricerca di nuovi potenziali scarti organici, sempre per la produzione di funghi.17884680_1359421047458436_3006771240319826447_n

Dal fondo di caffè ai funghi

Da quando il progetto ha preso vita a Capannori, Antonio di Giovanni ci racconta che è stata recuperata la media di circa una tonnellata e mezza di fondi di caffè al mese, per un totale finora di circa sessanta tonnellate di fondi di caffè, che provengono dai bar limitrofi: “In media il bar più lontano dal quale recuperiamo i fondi è a circa due chilometri di distanza”, ci spiega Antonio. Il fondo di caffè si è dimostrato lo “scarto” ideale per poter coltivare i funghi, grazie alla sua ricchezza di minerali e sostanze nutritive adatte alla loro crescita. Una volta recuperati i fondi del caffè, con un processo ben delineato, Funghi Espresso coltiva tre tipologie di funghi: il Pleurotus Ostreatus, il Pleurotus Djamor e il Pleurotus Cornucopiae: “Funghi buonissimi e gustosi da mangiare, ricchi di sostanze nutrienti, che poi noi vendiamo ai vari mercatini locali sia tramite i classici canali di vendita come i gruppi di acquisto solidale che tramite i mercati contadini”. Nel corso del tempo Funghi Espresso ha anche ideato un kit apposito per la vendita dei funghi, con un substrato già pronto, che permette a chi vorrebbe coltivare i funghi direttamente a casa di poterlo fare.17634817_1349022631831611_2817465097780462966_n

“Quando il fondo di caffè raccolto dai bar arriva fresco all’interno della nostra fungaia viene pulito, setacciato e inoculato lo stesso giorno della raccolta. Questo è importante per favorire la buona riuscita di tutto il processo: il sacchetto appena prodotto con il fondo di caffè viene messo all’interno di una camera di incubazione al buio, per circa venticinque giorni. Dopodiché, quando il sacchettino diviene bianco e il fungo comincia a svilupparsi, il sacchetto viene aperto, inciso e trasferito nella seconda camera, chiamata camera di fruttificazione: qui l’ambiente è molto umido e luminoso, dopo circa una decina di giorni otteniamo il primo raccolto, per poi completare il ciclo dopo circa trenti giorni”.

Ma non finisce qui, perché anche in questo caso lo scarto diventa risorsa: “Lo scarto derivato dalla coltivazione dei funghi viene utilizzato sia per il compostaggio ma soprattutto per la lombricoltura: il risultato finale è che, dal nostro scarto, riusciamo ad ottenere humus di lombrico e lombrichi, che possiamo riutilizzare in diversi modi e sul quale stiamo studiando diversi progetti”.

Intervista e riprese: Daniel Tarozzi e Daniela Bartolini
Montaggio: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/04/io-faccio-cosi-206-funghi-espresso-coltivare-funghi-fondi-caffe/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Pulire l’acqua con gli scarti di agrumi e i rifiuti petroliferi

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Acqua depurata sostenibilmente, utilizzando i residui del trattamento degli agrumi e i rifiuti dell’industria petrolifera, è questo lo straordinario risultato raggiunto da un gruppo di ricercatori della Flinders University di Adelaide, Australia. I risultati dello studio condotto dai ricercatori australiani insieme a quelli dell’Università statunitense di Tulsa, dell’Institute of Molecular Medicine, dell’università di Lisbona e di quella di Cambridge sono stati pubblicati sulla rivista Angewandte Chemie e sono a dir poco sorprendenti. Grazie alle bucce d’arancia e ai rifiuti petroliferi si può infatti creare un polimero in grado di pulire le acque dall’inquinamento da mercurio. Ogni anno gli impianti petroliferi producono 70 milioni di tonnellate di zolfo residuo, mentre la lavorazione degli agrumi produce 50 milioni di tonnellate di limonene: dall’unione di questi due composti reperibili in abbondanza si può ottenere il zolfo-limonene che funge da collante con il mercurio, impedendone la diffusione in acqua e suolo. Obiettivo dei ricercatori è arrivare a utilizzare il polimero come rivestimento per tubi o filtri idrici, in modo da depurare le acque dai metalli dannosi per la salute.

Fonte:  Angewandte Chemie

A Torino c’è un laboratorio creativo che dà nuova vita a scarti e “rifiuti”

Hyaena Design è un’attività che da qualche mese ha sede nel cuore di San Salvario, dove lavora Sarha Nervo, designer torinese che crea abbigliamento e accessori usando solo materiale di recupero. Il suo è un piccolo ma prezioso contributo alla riduzione dei rifiuti, ma soprattutto un impegno costante nel mettere in discussione il concetto stesso di rifiutoImmagine

“Come la natura è madre di un ciclo autopoietico così l’uomo ha compito e dovere di collaborare a questo ciclo. Crediamo in un grande sistema aperto i cui componenti hanno infinite vie di trasformazione, utilizzo e riconciliazione con l’uomo e l’ambiente nel ciclo della loro vita”. Si presenta con queste parole Hyaena Design, alias Sarha Nervo, designer torinese che crea abbigliamento, borse e accessori utilizzando solamente materiali di recupero. Un’attività iniziata circa dieci anni fa e che dal 2011 ha sede in un laboratorio nel cuore di San Salvario, in via Bernardino Galliari, dove Sarha lavora, espone e vende le sue creazioni. Il suo è un piccolo ma prezioso contributo alla riduzione dei rifiuti, ma soprattutto un impegno costante nel mettere in discussione il concetto stesso di rifiuto.
Hyaena Design infatti è qualcosa di più di un semplice, ancorchè pregevole, laboratorio creativo. È un progetto ampio che si divide tra la sensibilizzazione dei più giovani al riuso della materia e degli oggetti, con dei momenti formativi dedicati a ragazze a ragazzi dagli 8 ai 16 anni, e la creazione di nuove relazioni sociali basate sulla condivisione di questa pratica, oltre che su un approfondito studio del comparto artigiano, “delle sue debolezze, le sue infinite virtù e i suoi punti di forza”. Il risultato è la realizzazione di una rete con attività artigiane, industrie e privati del territorio, per il riutilizzo del materiale dismesso. Ci siamo fatti spiegare da Sarha com’è nata la sua attività e le peculiarità del suo lavoro.

Come e quando è nato il progetto? 

La mia esperienza comincia nel 2004, anno in cui ho iniziato a creare abiti per mantenermi gli studi universitari. Questo lavoro mi ha permesso di viaggiare molto e continuare con la mia formazione allo stesso tempo. Provenendo da una famiglia modesta, ho iniziato a cercare materiale “gratis” per produrre più facilmente.
Il passaggio definitivo è avvenuto nel 2009, quando in Messico, nelle comunità zapatiste, ho conosciuto un artigiano che realizzava scarpe con suole di pneumatici. I Paesi del cosiddetto “terzo Mondo” hanno molto da insegnarci sul recupero del materiale, poiché lì è una pratica assodata, un apsetto stesso della cultura del posto.
Da lì mi sono spostata a New York, dove con un pugno di dollari in tasca, nel vero senso della parola, ho iniziato a camminare ogni giorno km e km alla ricerca di materiale per fare una collezione “in loco” con scarti del territorio. La linea Innertube venduta direttamente dal laboratorio WhiteSaffron di Nolita e premiata tra gli accessori più in voga per la primavera 2010 Newyorkese ne è il risultato. Camere d’aria di bicicletta intrecciate in ogni modo possibile confezionati in bicchieroni del caffè e una serie di collane in stoffa recuperata tra qualche bidone… una bella esperienza. Al ritorno in Italia la rete si è formata definitivamente e allargata mentre finivo gli studi in Ecodesign presso il Politecnico di Torino.
Realizzate creazioni solamente, o quasi, con oggetti, materiali che altrimenti verrebbero buttati via giusto?
Negli anni abbiamo costruito una rete, il cui compito è quello di metterci in comunicazione con privati, ditte, artigiani, a cui chiediamo il loro materiale, sia scarto di lavorazione che rifiuti per i privati.
Siamo in contatto con: ditte che si occupano di sicurezza e ci forniscono manichette antincendio, visto che c’è l’obbligo di sostituirle dopo circa 2 anni; una manifattura di Napoli che fa divani ci manda lo scarto di pelle delle lavorazioni; diversi gommisti ci mandano camere d’aria; ditte che si occupano di allestimenti fieristici ci mandano linoleum e banner pubblicitari; ditte produttrici di guarnizioni ci regalano le guarnizioni scadute; la plastica ha un timer in quanto deperibile…
I privati invece ci contattano specialmente per abiti che non usano più, materiali particolari, cravatte, tovaglie, pizzi, scampoli, vecchi tessuti. C’ è chi dona liberamente pur di non buttare, chi chiede qualcosa in cambio tipo “baratto”, chi desidera avere in cambio un pezzo prodotto con il suo materiale e altri infiniti casi. Abbiamo molto materiale e questo fa sì che, a nostra volta, non si possa utilizzare tutto. Per questo motivo ciò che non riusciamo a trasformare in tempi brevi lo doniamo a nostra volta a chi ne ha bisogno per motivi “creativi” in alcuni casi o per “condizioni di vita” diciamo. Cioè chi avrebbe bisogno di una borsa, una cintura, un maglione o una coperta. Con il passaparola la rete sta diventando sempre più ampia e fitta.

Preferite alcuni materiali in particolare? 

Non abbiamo preferenze di materiale. Il bello di questo lavoro è che non è vincolante dal punto di vista creativo, ma ogni rifiuto diventa una nuova sfida. Sicuramente prediligiamo materiali che si possono trasformare in borse, accessori o abiti perchè fa parte della nostra maestranza. Poi dipende anche da cosa arriva, per differenziare correttamente ciò che è bene recuperare e ciò che è meglio riciclare. Vetro, alluminio, carta, PET sono solo alcuni esempi di materiali il cui ciclo di vita passando per il riciclo è decisamente migliore. Bisogna stare attenti a non “pasticciare” aggiungendo colle, adesivi o prodotti chimici che ne rendono più difficile un corretto smaltimento. Idem per i nostri prodotti. Non sempre sono monomaterici ma ricordiamo che sono facilmente divisibili poiché non vi è utilizzo di collanti. 
Il recupero/riuso è una pratica o un modo di vivere che si sta diffondendo secondo la vostra opinione?

Il recupero/riuso sta finalmente tornando importante dopo un sonno di 50 anni. La pratica non è nuova, è stata solo dimenticata nel periodo del boom consumista. Le generazioni precedenti, a partire da quella dei nostri nonni, sono sempre state abituate ad avere poco materiale e a destinarlo e trasformalo continuamente. Per qualche generazione questa abitudine si è persa, così come si sono perse le capacità manuali e un po’ di immaginazione. Siamo abituati ad avere il prodotto finito. Sono però dell’idea che questa sana e buona abitudine riprenderà con forza.
Quali sono le principali difficoltà che affrontate nel vostro lavoro?

Nella mia tesi di laurea ho proposto una serie di cambiamenti che aiuterebbero molto sia i cittadini che chi, come noi, lavora con prodotti di “secondo ciclo”. Tra queste degli incentivi di detassazione a chi correttamente differenzia e produce meno rifiuti: l’agire virtuosamente va premiato, altrimenti perchè io, artigiano, devo “sbattermi” a differenziare e pagare come quello che butta tutto nel calderone? Ad oggi la tassa sull’immondizia si paga in base alla metratura. Questo è assolutamente scorretto e insensato. Altro punto. Noi usiamo materiali di “secondo ciclo” giusto? Bene, come artigiani abbiamo l’Iva al 22% da caricare sul prodotto del cliente. Non pagando il materiale in entrata la nostra Iva ha difficoltà ad andare in compensazione, poiché esiste Iva in uscita, il venduto, ma pochissima iva in entrata, il materiale da lavorare. A livello burocratico bisognerebbe trovare una soluzione per questo materiale.
Infine, dagli ecocentri non è possibile portar via nulla. Se noi come altre persone, potessimo andare a comprare del materiale utile, faremmo diventare il “rifiuto” una risorsa per i comuni e non necessariamente un peso da infliggere sulle spalle di cittadini. Nel caso voleste delucidazioni su questo progetto e sui vari punti, è tutto spiegato nella mia tesi di laurea.
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Fonte: ecodallecitta.it

Plastica dagli scarti dei pomodori: Ford e Heinz lavorano a componenti per auto

Ford e Heinz si uniscono nel progetto di riuso degli scarti di pomodori per la produzione di bioplastiche da usare nelle vetture

Gli scarti dei pomodori sono una risorsa preziosa e lo avevano già capito i nostri ricercatori del CNR qualche anno fa quando avevano iniziato a testare la trasformazione in bioplastiche. Oggi a puntare sullo scarto del pomodoro reso plastica sono due colossi americani: Ford e Heinz per evidenti motivi opposti ma il cui obiettivo è comune. Heinz produce il famoso ketchup su scala globale e ogni anno deve affrontare enormi spese per lo smaltimento degli scarti del pomodoro che utilizza; Ford è una casa automobilista su scala globale che necessita di ridurre la quantità di materiali petrolchimici senza compromettere qualità e sicurezza: mai matrimonio, dunque fu più azzeccato. Heinz porta in dote lo scarto del pomodoro che consiste in bucce, gambi e semi di oltre 2 milioni di tonnellate usate ogni anno per produrre il ketchup; Ford porta il know-how e ecco che i ricercatori di Ford e Heinz sono al lavoro per ricavare plastica da questi scarti e trasformarli nelle staffe per il supporto dei cavi dell’impianto elettrico o in quei piccoli vani portaoggetti che si trovano su portelli, sedili o cruscotto, ad esempio.

Ellen Lee, specialista tecnico di ricerca per le materie plastiche, di Ford ha spiegato:

Stiamo portando avanti la ricerca per stabilire quanto i sottoprodotti dei procedimenti industriali per il trattamento del cibo possano trovare applicazione nel mondo dell’auto. Il nostro obiettivo è sviluppare un materiale resistente ma leggero, che abbia un impatto ambientale ridotto e rispetti i nostri standard di produzione.

Ma per passare dagli esperimenti in laboratorio alla messa a punto di una plastica che risponda a tutti gli standard di sicurezza serve ancora un po’ di tempo e di qualche rodaggio ulteriore come spiega Vidhu Nagpal, direttore associato ricerca e sviluppo packaging di Heinz:

Anche se siamo ancora in una fase preliminare, con ancora molte domande cui dare risposta, siamo entusiasti delle opportunità che questa ricerca può rappresentare per Ford e Heinz nel portare avanti lo sviluppo di plastiche vegetali al 100% sostenibili.

A oggi Ford usa già materiali di origine vegetale come la fibra di cellulosa che forma il rinforzo per le console degli abitacoli; o plastiche dal riso grezzo che diventano staffe in plastica, la fibra di cocco e soia per i tessuti. Tutto ciò fa di Ford una casa automobilistica sostenibile? Diciamo che la strada è ancora lunga e che Ford ha appena iniziato a percorrerla.bioplastiche-dagli-scarti-dei-pomodori-620x349

Fonte: ecoblog.it

10 ortaggi da comprare una sola volta e coltivare per sempre

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Coltivare a partire dagli scarti. Ecco un’ottima idea per avere a disposizione nuovi ortaggi praticamente a costo zero. Vi basterà conservare le parti di scarto adatte di lattuga, cipolle e porri, oppure alcune foglie di basilico, o ancora la base di un gambo di sedano per dare inizio al vostro orto, anche in vaso, in modo semplice e conveniente, come insegna la permacultura.

Ecco alcuni esperimenti da provare subito.

1) Lattuga

Dopo aver acquistato un cespo di lattuga, potrete provare a coltivarlo a partire dagli scarti. Dovrete tenere da parte il fondo del cespo, posizionarlo in una ciotola con acqua vicino alla finestra per 15 giorni. Dopo l’inizio dello sviluppo del cespo, potrete trasferire la nuova lattuga in vaso o nell’orto, dove proseguirà la sua crescita.

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2) Cipollotti

Dal nostro Forum ecco una fantastica idea per coltivare i cipollotti in un barattolo, a partire dagli scarti. Il tutto è molto semplice. E’ sufficiente conservare i gambi dei cipollotti, posizionarli in un vaso con dell’acqua e attendere che ricrescano. Così avrete a disposizione dei cipollotti sempre nuovi a costo zero.

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3) Sedano

Un altro ortaggio molto utilizzato in cucina che è possibile coltivare a partire dagli scarti è il sedano. Il sedano è in grado di ricrescere facilmente dal proprio gambo. Vi basterà conservare la base di un gambo di sedano, anziché scartarla. Quindi dovrete posizionarlo in un piattino con dell’acqua e attendere l’inizio dello sviluppo del nuovo ortaggio prima di trasferirlo nel’orto.

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4) Cipolle

Anche le cipolle sono molto semplici da coltivare a partire dagli scarti. Vi basterà conservare la base dalla cipolla, oppure il cuore centrale dell’ortaggio, quando inizia a germogliare e ad assumere una colorazione verde. Come nei casi precedenti, potrete riporre le parti di scarto prima in un piattino con dell’acqua, e poi direttamente nel terreno.

Leggi anche: Cipolle: 5 modi per piantarle e coltivarlecoltivare_cipolle_2

5) Aglio

Ancora più intuitiva è la coltivazione dell’aglio. Vi basterà tenere da parte alcuni degli spicchi di una normale testa d’aglio, a seconda del numero delle piantine che vorrete ottenere e interrarli in vaso o nell’orto. I nuovi bulbi d’aglio si svilupperanno nel terreno e nel giro di poco tempo potrete raccoglierne di nuovi. Il consiglio è di piantare gli spicchi d’aglio nell’orto, accanto alle piante più delicate, per proteggerle dai parassiti.

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6) Zenzero

Coltivare lo zenzero in vaso, magari proprio sul balcone. è semplicissimo. Se avete acquistato dello zenzero, che con il passare del tempo ha iniziato a germogliare, vi basterà interrarlo in vaso, con la parte germogliata rivolta verso l’alto. A poco a poco vedrete nascere una piantina, che svilupperà le proprie foglie verso l’esterno e il nuovo zenzero sottoterra. Lo potrete raccogliere quando la piantina si sarà seccata, come nel caso delle patate.

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7) Patate

Dal nostro Forum ecco un esperimento che ci ricorda che coltivare le patate nell’orto o in vaso è semplicissimo. Se dalle patate che avete acquistato o raccolto sono spuntati dei germogli, non vi resta che suddividerle in varie parti e interrarle nell’orto o in vaso. In poche settimane inizieranno a spuntare delle nuove piantine. Quando le foglie si saranno essiccate, potrete raccogliere le patate.

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8) Basilico

Dal nostro Forum, ecco una fantastica idea per coltivare il basilico a partire dalle foglie e non dai rametti, come invece avverrebbe nel caso della talea vera e propria. E’ sufficiente posizionare alcune foglie di basilico in un bicchiere d’acqua e attendere una settimana. Alcune metteranno radici e saranno pronte per dare vita a una nuova piantina.

Leggi anche: Nuove piantine partendo dalle foglie di basilicoSAM_2030

9) Porri

Ancora un’idea per coltivare a partire dagli scarti. Lo potrete fare anche con i porri, posizionando le loro basi in un vasetto o in un bicchiere d’acqua. Si tratta di un importante insegnamento per i più piccoli della famiglia, che impareranno che le parti di scarto delle verdure sono in realtà il punto di partenza per la nascita di nuove piantine e ortaggi.porri

10) Avocado

Avete acquistato e gustato un ottimo avocado? Non dimenticate di conservare il seme e di iniziare a coltivare il vostro alberello di avocado in vaso. Questa varietà si adatta soprattutto alle regioni più calde. In Italia la coltivazione dell’avocado avviene in prevalenza in Sicilia. La coltivazione casalinga dell’avocado permette di non contribuire all’operato della criminalità nelle piantagioni del Messico.

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                                                                                                                                                                                                  Marta Albè

Fonte:greenme.it

I disperati “ciclisti del carbone” dell’India

Circa 50000 persone delle classi più povere nello stato del Jharkhand trasportano ogni giorno tonnellate di carbone per uso domestico, raccolto dagli scarti o rubato alle miniere, costretti dalla mancanza di terra da coltivare. Così però contribuiscono ad inquinare e a ridurre la speranza di vita.Immagine

L’unico aspetto sostenibile di questa vicenda è l’uso della bicicletta. Per il resto è assolutamente assurdo che gli indiani più poveri, senza terra da coltivare siano costretti a raccogliere o rubare gli scarti del carbone, per trasportarlo su lunghe distanze fino a città e villaggi, caricando le biciclette con oltre 250 kg di materiale. Sono chiamati wallahs e nello stato nord orientale del Jharkhand sono quasi 50000. Ogni giorno trasportano oltre 7 tonnellate di carbone, che viene venduto per uso di cucina. Dopo aver percorso decine di km, riescono a guadagnare 100-150 rupie al giorno, cioè circa 1-2 euro. E’ una miseria anche per gli standard indiani, dal momento che il reddito medio è pari a circa 2,5 euro al giorno (1). Le miniere di carbone hanno occupato terra agricola, senza assorbire tutta la manodopera che vi lavorava.  La sovrappopolazione rende d’altra parte difficile un’equa distribuzione della terra, anche a prescindere dai problemi di natura sociale e politica, visto che gli indiani hanno in media 0,15 ettari di terra agricola a testa (dati FAO), ovvero 0,75 ettari a famiglia (2), appena sufficienti a fornire 2300 kcal al giorno pro capite. Usare il carbone per cucinare è un serio problema per la salute. Un’indagine epidemiologica nella vicina Cina mostra che nelle zone con maggiore uso domestico del carbone, la speranza di vita scende anche di cinque anni. A quando una diffusione massiccia di cucine solari? Quelle prodotte in occidente sono care per gli standard indiani, ma una volta avviata una filiera locale, sarebbero abbordabili dalla maggior parte, fornendo un lavoro migliore del tenere in equilibrio il carbone su due ruote.

(1) Il reddito medio a parità di potere d’acquisto (che tiene conto del fatto che il costo della vita è più basso e che alcuni beni sono autoprodotti è invece pari a circa 7,5 €/giorno.

(2) La media è di 4,8 persone a famiglia per tuta l’India e di 5,4 nello Jharkhand

Fonte: ecoblog

Cibo recuperato…dai cassonetti. Una testimonianza da Barcellona

Per molti supermercati un prodotto invenduto, se riciclato, viene vissuto come una doppia perdita: l’avanzo giornaliero, e il mancato acquisto di nuovi prodotti nei giorni successivi”. La testimonianza di un ragazzo che vive a Barcellona e che, assieme ad altri, ha cominciato a recuperare cibo ancora sano gettato nei cassonetti375939

“L’idea di riciclare il cibo dai contenitori di rifiuti organici non è stata la mia. Non saprei dire il perché: forse perché, per fortuna, non mi sono mai trovato in condizioni tali da dovermi cercare qualcosa da mangiare nei rifiuti, forse per la vergogna, magari entrambe le cose. Tuttavia, quando mi è stata proposto, ho accettato subito di partecipare. A Barcellona è abbastanza usuale incontrare persone in cerca di cibo nei contenitori dell’organico, in particolare al di fuori delle zone turistiche e commerciali. Si trova di tutto: uomini e donne, più o meno giovani, alcuni in giacca e camicia e purtroppo anche anziani, forse pensionati che faticano ad arrivare a fine mese. Alcuni sono ben organizzati, carrelli e carrellini vari non mancano mai, anche ai più sprovveduti, alcuni addirittura hanno bastoni con ganci che usano come arpioni, conoscono orari e luoghi dove cercare, dove la probabilità di trovare qualcosa è maggiore. Ma torniamo a noi. Il mio obiettivo iniziale era risparmiare qualcosa sulla spesa settimanale. Consumando poca carne e pesce, non bevendo latte e derivati, i conti mi tornavano abbastanza perché la maggior parte dell’organico è praticamente composto da sola frutta e verdura. Al centro sociale ci siamo organizzati in questo modo: ci trovavamo ogni lunedì intorno alle 21. Il lunedì è il giorno in cui arrivano le merci ed più facile alla sera trovare gli scarti gettati nei contenitori. In totale eravamo un gruppo di circa 10-12 persone suddivise in 3 o 4 gruppi. Ogni gruppo disponeva di almeno un carrello e, inizialmente di una mappa; una mappa semplice del quartiere, facilmente recuperabile da Google maps, dove ogni gruppo tracciava il suo percorso. Il resto varia a discrezione: alcuni portano guanti e luci, altri un carrello in più, etc.. La scelta del percorso invece è fondamentale. Se non si sceglie un percorso adeguato non si trova niente. Il percorso deve essere valutato in funzione dei negozi di alimentari, delle panetterie, dei frutta e verdura e in generale di qualsiasi attività che tratta cibo. Tuttavia bar e ristoranti, così come anche rosticcerie e pizzerie, non sono soliti avanzare o comunque gettare cibo. Inutile provare nei contenitori vicino a case e palazzine, perché nell’organico non si trova praticamente niente (almeno a Barcelona è così). Iniziato il giro, il tempo di percorrenza varia da un’ora a un’ora e mezza: la lunghezza da percorrere non è rilevante, molto dipende dalla quantità di contenitori che si incontrano e dalla quantità di rifiuti che ciascuno contiene. Per un contenitore vuoto basta uno sguardo, mentre per un contenitore pieno occorre controllare tutti i sacchi uno per uno. Quello che si trova dipende molto dalla vicinanza o meno di una determinata attività come detto sopra. Vicino alle panetterie, in particolare per le grandi catene, è facile trovare quantità considerevoli di pane, sandwich dolci e salati, a volte anche brioches e simili: tutta merce non venduta e che non si vende il giorno seguente. Definire una quantità precisa non è facile, mediamente però si trova sempre un sacco nero pieno. Il cibo in questo caso è pulito, i sacchi sono sempre chiusi e tutto è buono e assolutamente commestibile. Il discorso cambia per frutta e verdura: spesso non si trovano in buone condizioni ma la grande quantità che si incontra compensa la cosa. Frutta verdura variano a seconda della stagione e, a meno di ammaccature varie e un aspetto non “brillante” come il prodotto in esposizione, è sempre buona e in grande quantità. Riciclando una volta alla settimana per esempio, riuscivo a coprire il necessario di frutta e verdura per 3 giorni. L’unico inconveniente, una volta superata l’eventuale vergogna di frugare nella spazzatura e la paura di sporcarsi le mani, è rappresentato dalla necessità di consumare e/o cucinare il tutto in tempi brevi. Questo è abbastanza ovvio: il cibo che si trova è buono ma comunque in deperimento e non in condizione di freschezza tali da poterlo conservare ulteriormente. Per la frutta nelle peggiori condizioni ad esempio, è utile preparare marmellate; è una soluzione questa che ho adottato qualche volta quando trovavo chili e chili di mele o pere che non potevo conservare e che avrei finito per buttare di nuovo. Per la verdura stesso discorso: se si mangia cruda è necessario subito lavarla e conservarla in frigo, altrimenti la si cuoce e via. Il pane si presta di più al riciclo: se ne può racimolare in grandi quantità e poi basta dividerlo in porzioni e congelarlo. Mi capita spesso di recuperare pane per 7-10 giorni che scongelato 5 minuti nel forno a gas è come fresco. Tutto sommato l’idea del riciclo così descritta penso non sia niente male; si recupera cibo, si risparmiano soldi e in compagnia si fa gruppo e tutto assume un aspetto anche divertente. Per concludere: senza dubbio la quantità di cibo che si incontra, almeno qui a Barcelona, nei contenitori di organico, è notevole. Basti pensare per esempio che alcune panetterie regalano direttamente casse piene di pane e altro, a centri di accoglienza ed edifici occupati (di cui Barcelona è piena, vittima della speculazione edilizia franchista). C’è anche da aggiungere un’altra triste realtà, testimoniata da un amico che lavorava come cameriere in un bar/pasticceria, che spesso alla fine del turno condivideva buste di brioches e panini invenduti: molte catene commerciali di pane e dolci, conservano quantità notevoli di avanzi giornalieri per buttarli solo dopo alcuni giorni, quando ormai il pane è secco e le marmellate e le creme delle brioches andate a male. E’ una prassi alquanto sgradevole che ha l’intento di favorire comunque la vendita nonostante la produzione sia in esubero. In pratica il prodotto non venduto, se riciclato, viene visto come una doppia perdita: una associata all’avanzo giornaliero, l’altra alla non necessità d’acquisto dei giorni successivi“.

 

fonte: eco dalle città