Nei Tuoi Panni: un gruppo di ragazze dona una seconda vita agli abiti usati

Sensibilizzare al riuso, promuovere lo scambio di abiti usati, scoprire nuovi modi di vivere sostenibile, ma anche incontrarsi, confrontarsi e socializzare: sono questi gli obiettivi principali dell’iniziativa Nei Tuoi Panni, progetto romano che organizza iniziative di scambio di vestiti usati.

RomaLazio – Grazie al crescente interessamento da parte di una buona fetta della popolazione per i problemi ambientali e per il troppo spreco che sta affliggendo la nostra società, si stanno moltiplicando i progetti per la sensibilizzazione al riuso e all’acquisto consapevole. Uno di questi è Nei Tuoi Panni, la cui principale attività consiste nello scambio di abiti usati.

«Nei Tuoi Panni – afferma il gruppo Swap Party Roma | Nei Tuoi Panni – nasce con l’obiettivo non solo di dare seconda vita a ciò che abbiamo smesso di utilizzare, ma anche di sensibilizzare e formare in merito alle conseguenze negative delle produzioni di massa, a partire ad esempio dall’industria del fast-fashion, tra le più nocive sul Pianeta».

Gli eventi di scambio abiti vengono realizzati nella zona di Roma e dintorni, anche nel corso di iniziative di altre realtà di cui Nei Tuoi Panni condivide i principi. In cambio di una donazione a supporto del progetto, chi prende parte all’iniziativa può scambiare i vestiti che porta con sé con quelli presenti nello stand. È importante che i capi d’abbigliamento siano in buono stato. Inoltre, la donazione richiesta e il numero di capi che si possono scambiare non sono sempre gli stessi e variano in base all’evento. Questi ritrovi organizzati da Nei Tuoi Panni prendono il nome di Swap Party. Lo Swap Party è un evento in occasione del quale si scambia oggetti, solitamente di abbigliamento e accessori di diverso genere, ma anche libri, articoli per la casa, arredamento e altro. Possono essere ritrovi tra amici o, come in questo caso, possono assumere una forma più strutturata, coinvolgendo persone che non si conoscono. Non viene utilizzato denaro e gli scambi avvengono secondo varie modalità come il baratto, l’asta o utilizzando una particolare moneta.

«Negli eventi realizzati da Nei Tuoi Panni – racconta Alice Bellini, Coordinatrice dell’iniziativa, nell’intervista realizzata da Together – in cambio di una donazione puoi scambiare un numero variabile di abiti. Al check-in i tuoi vestiti verranno valutati e sulla base del loro valore riceverai un certo numero di mollette, gettone di scambio che serve per partecipare allo Swap Party».

«Quando arrivate allo Swap Party – racconta Claudia Esposito, altra Coordinatrice di Nei Tuoi Panni – avete già a disposizione un certo numero di vestiti già stati selezionati in precedenti eventi o dalle persone che sono venute prima di voi. Ogni abito è contrassegnato da un colore, un’etichetta che può essere verde, blu oppure bianca. A seconda del colore, i capi d’abbigliamento assumono diversi valori».

«Grazie a questo sistema di mollette e valori – riprende Alice –, è possibile arrivare a portare a casa fino a quindici se non addirittura venti capi. Lo facciamo perché le industrie del fashion e del tessile sono tra le più impattanti sia da un punto di vista ambientale che sociale. Basti pensare che per una maglietta servono più di 2700 litri d’acqua, ovvero l’equivalente per soddisfare il fabbisogno di una persona per ben due anni».

Perché dunque partecipare a questi Swap Party? Sicuramente per un aspetto ambientale, come già sottolineato, quindi per cercare di gravare meno su Madre Natura. In secondo luogo perché è un momento di incontro e socializzazione: durante i ritrovi organizzati da Nei Tuoi Panni le persone entrano in contatto e scambiano, oltre ai vestiti, anche idee, riflessioni e consigli su come vivere in modo più sostenibile. Altri motivi che possono spingere a prendere parte a questi Swap Party sono l’abbattimento degli sprechi, il desiderio di dare nuova vita ad abiti e accessori che rimarrebbero inutilizzati all’interno dell’armadio o anche il risparmio economico che è possibile ottenere dal non acquistare nuovi capi. Nei Tuoi Panni garantisce che il valore di quello che ci si porta a casa è ben più alto della donazione che viene richiesta per partecipare all’evento.

Gli Swap Party sono organizzati dal gruppo di volontarie attive di due associazioni, Inspire e TAO – Associazione Socio Culturale, con l’obiettivo di raccogliere fondi per i progetti di entrambe. Nei Tuoi Panni dunque è un’iniziativa nata dalla volontà di un piccolo gruppo di far conoscere e promuovere la bellezza del riuso, una pratica diffusa ma ancora da molti presa poco in considerazione. Attraverso ritrovi e nuovi incontri, questa realtà si sta facendo sempre più conoscere e sta portando verso le sue pratiche anti spreco sempre più persone.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/01/nei-tuoi-panni-abiti-usate/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

I tre pilastri dell’agricoltura di domani: autoconsumo, scambio e vendita delle eccedenze

Il cibo come merce, reso un “oggetto” di consumo a prescindere. Ma così non può essere e non può durare. E chi ancora non se n’è accorto, dovrà accorgersene presto. La vera agricoltura di domani (anche da porre in essere da oggi) deve basarsi su autoconsumo, scambio e vendita delle eccedenze.

La società per la quale l’unico metro di paragone e motivo di esistenza sono i soldi dimostra tutto il suo fallimento, soprattutto negli aspetti essenziali che ci sostengono.

Nell’agricoltura e alimentazione la mercificazione estrema ha avuto tragiche conseguenza. Come è possibile infatti mercificare quello che tutti dovrebbero avere in maniera gratuita perché base della sopravvivenza?

Si considera il cibo come merce in cambio di denaro, rendendolo un oggetto qualsiasi del quale viene persa qualsiasi importanza e sacralità. Che non abbia più sacralità lo dimostra anche lo spreco enorme che contraddistingue le nostre società opulente ma poverissime di anima. Così povere che si permettono di buttare tonnellate e tonnellate di cibo ogni giorno, in spregio a qualsiasi minima regola di coesistenza umana laddove i paesi più ricchi sono malati di obesità e nei paesi cosiddetti poveri circa un miliardo di persone soffre la fame. Ma ovviamente tutto ciò ai paladini della salute (del proprio conto in banca) non interessa nulla, né interessa la loro obesità che provoca malattie e morti al confronto dei quali il covid impallidisce, né della morte delle altre persone che il sistema dello spreco e sfruttamento determina.

L’agricoltura e l’alimentazione vanno quindi ripensate completamente ribaltando il paradgima per il quale sono considerate esclusivamente merce da vendere.

Quando si vuole vendere qualcosa e si deve competere ferocemente, spesso non si hanno limiti e scrupoli; infatti, per vendere sempre di più si avvelena tranquillamente qualsiasi cosa: aria, acqua e terra e il cibo  diventa così mezzo di malattie e morti di ogni tipo, minando dalle fondamenta la salute delle persone. Per ovviare a questo problema, per ritornare ad avere il controllo di quello che si mangia e smettere di inquinare l’impossibile, l’agricoltura del prossimo domani dovrà essere contraddistinta da tre aspetti: l’autoconsumo, lo scambio o baratto e la vendita delle eccedenze. 

In un’ottica di risparmio, contatto con la natura, aumento della qualità della vita e diminuzione dei costi, la produzione agricola per autoconsumo dovrà essere una prassi normale e diffusa fra tutte le persone. Non esiste nessuno che non sia in grado di autoprodursi gran parte del proprio cibo, a maggior ragione utilizzando le varie tecniche e derivazioni dell’agricoltura biologica connesse a sistemi di food forest ovvero foreste commestibili che, entrate a regime, hanno bisogno di poco lavoro e danno buoni risultati. Progetti come quello francese di Bec  Hellouin , e migliaia di altri simili, ci dimostrano che anche con piccoli appezzamenti si possono avere raccolti ottimi e abbondanti. E per avere terreno a disposizione non bisogna certo essere ricchi o disporre di ettari. Terre in affitto si trovano per cifre basse e partecipare a orti collettivi è ormai accessibile quasi in ogni città visto le esperienze che si diffondono dappertutto. Terre in abbandono poi ce ne sono ovunque e chiedere ai proprietari un comodato d’uso può essere una buona alternativa. Ci sono anche gli usi civici, quindi per chi vuole coltivare esistono varie possibilità. L’obiettivo principale deve essere l’autoconsumo, e per ciò che si produce in più si possono effettuare scambi con chi produce altre varietà e in ultima ipotesi si può prevedere la vendita delle eccedenze. In questo modo si riducono drasticamente le spese, si produce qualità, si ricostruiscono relazioni sociali comunitarie, si fa sana attività fisica, si lavora all’aria aperta, si apprezza e rispetta la natura che ci dà la vita, si elimina l’utilizzo di veleni vari; di conseguenza si migliora la salute nostra e del pianeta e si relega a un posto non prioritario l’aspetto mercantile, la cui predominanza assoluta ci sta portando alla catastrofe globale. Direi che è proprio il caso di andare speditamente in questa direzione e guardare all’agricoltura con occhi diversi da quelli ormai ciechi a cui siamo abituati.

Fonte: ilcambiamento.it

Luoghi di condivisione: “Zero”, la biblioteca delle cose a Palermo

Dobbiamo montare una mensola e non abbiamo il trapano. Riparare un guasto e ci manca la chiave inglese. Organizzare una festa e… l’impianto stereo? Val la pena comprarli, anche se ci serviranno solo in quell’occasione? E se ci fosse un altro modo? Sono partiti da domande così gli ideatori di “Zero”, la prima biblioteca delle cose, nata a Palermo.

Dobbiamo montare una mensola e non abbiamo il trapano. Riparare un guasto e ci manca la chiave inglese. Organizzare una festa e… l’impianto stereo? Val la pena comprarli, anche se ci serviranno solo in quell’occasione? E se ci fosse un altro modo? Sono partiti da domande così gli ideatori di “Zero”, la prima biblioteca delle cose, nata a Palermo.

Dobbiamo montare una mensola e non abbiamo il trapano. Riparare un guasto e ci manca la chiave inglese. Organizzare una festa e… l’impianto stereo? Un trapano, una chiave inglese, un impianto stereo. Val la pena comprarli, anche se ci serviranno solo in quell’occasione? E se invece ci fosse un altro modo per impiegare gli oggetti, sottraendoli al vortice consumistico dell’usa e getta?

Sono partiti da domande così gli ideatori di “Zero”, la prima biblioteca delle cose, nata a Palermo a febbraio del 2020 su iniziativa di “Neu [nòi] spazio al lavoro”, “Booq” e “Alab Palermo”. Che qui si raccontano attraverso la voce di Michelangelo Pavia, uno dei fondatori del progetto.

Cosa vi ha spinto ad aprire questa biblioteca? Vi siete ispirati a qualche modello?

«Il progetto “Zero” è frutto principalmente di esperienze dirette fatte da Neu [nòi] all’interno di Palazzo Castrofilippo, il condominio in cui si affaccia il coworking, e la storia di Booq. Parliamo di sette, otto anni fa. All’interno di Neu[nòi] per anni si è svolta in modo molto spontaneo un’attività di prestito di attrezzi ai condomini che, una volta avevano bisogno di una scala, un’altra di un trapano o di una prolunga, e così hanno preso il nostro luogo di lavoro come un possibile punto di riferimento dove trovare quanto necessario. Booq nasce proprio con lo scopo di  far nascere a Palermo una bibliofficina in cui condividere attrezzi e libri. Per un periodo di tempo una delle socie di Booq ha lavorato presso il nostro coworking e proprio in quel periodo è stato pubblicato il bando B-Circular da parte di Punto.sud. Il caso ha voluto che tutti i pezzi si siano messi al loro posto per dare vita a “ZERO – attrezzi condivisi”. Scrivendo il progetto abbiamo approfondito le esperienze di biblioteche delle cose in altre parti d’Italia e del mondo, dalle quali abbiamo preso spunto».

Come funziona?

«Il funzionamento è semplicissimo ed è proprio quello delle biblioteche, ossia si fa una tessera annuale che costa 10 euro e si prendono attrezzi gratuitamente. Se sei un utente base, puoi prendere due  attrezzi alla volta per una settimana. Se invece hai donato un attrezzo alla biblioteca, diventi un utente ZERO-PER e puoi prenderne cinque alla volta per due settimane. Sempre gratis. Spesso ci hanno mosso delle critiche per il  nome “biblioteca” perché non ci sono libri ma attrezzi. In realtà, il nome prende proprio spunto dal funzionamento immediato e semplice del prestito, mutuatodalle biblioteche pubbliche. Grazie a questo nome riusciamo a raccontare il progetto a chiunque in modo immediato. Poi in una delle due sedi (quella di Booq) una biblioteca di libri c’è davvero!».

Quali oggetti si possono prendere in prestito e quali sono quelli più richiesti?

«Oggi si possono prendere in prestito oggi più di cento  attrezzi suddivisi in dieci categorie diverse. C’è un database condiviso che permette di vedere sul sito gli attrezzi di tutte le sedi (attualmente due) e di prenotare on-line quello che serve: QUI. L’intenzione è quella di aprire altre sedi in altri quartieri e in altre città, sempre con un database condiviso in ogni città così da trovare anche attrezzi più particolari in una delle sedi o oggetti più comuni nel posto più vicino a te».        

La vostra iniziativa è legata solo allo scambio di oggetti?

«No, in realtà il progetto poggia su due pilastri: lo scambio di oggetti e la condivisione del sapere. Purtroppo abbiamo aperto la prima sede e dopo due settimane è scoppiata la pandemia, cosa che ha praticamente fermato tutta la dinamica dei corsi in presenza. Per non restare fermi, abbiamo messo in piedi un canale youtube in cui si possono vedere alcuni corsi per l’uso degli attrezzi di falegnameria, di ceramica, di sartoria, dei corsi di riciclo e di artigianato 3d. Questo soprattutto grazie al terzo partner di progetto: l’associazione ALAB Palermo che da anni promuove l’artigianato in tutte le sue forme. Insomma, bisogna saperli usare gli attrezzi!».

Come hanno risposto i vostri concittadini e cos’altro pensate di proporre in futuro?

«La risposta è stata davvero molto positiva per quanto riguarda i riconoscimenti, l’interesse verso il progetto e l’interesse mediatico. L’attività di prestito vero e proprio è iniziata più lentamente ma questo ci era stato detto da chi da più anni di noi ha attiva una biblioteca delle cose a Bologna (Leila-Bologna). Infatti, abbiamo ospitato uno dei loro fondatori all’inizio del nostro progetto per avere consigli e per confrontarci sul cosa fare, ed è stato molto utile. Oggi i prestiti sono molti di più ma ancora molti devono entrare in questa dinamica culturale. C’è sempre un po’ di diffidenza quando qualcuno ti regala qualcosa. Serve tempo e c’è di mezzo pure una pandemia che ha creato non poche difficoltà. Nei prossimi mesi speriamo di poter concretizzare l’apertura di altre sedi in altri quartieri e poter attivare corsi in presenza».

Pensate che la vostra iniziativa sia replicabile anche in altre città? Se sì, cosa serve?

«Assolutamente sì! Deve nascere una Biblioteca delle cose in ogni quartiere, anche più di una! Si tratta di un progetto agile e snello che può essere attivato in decine di modi diversi, più o meno strutturati. La cosa fondamentale perché il progetto funzioni sono le persone che lo gestiscono e animano la comunità. Di attrezzi è pieno il mondo e non è difficile raccogliere attrezzi donati o comprarne qualcuno importante. La parte dello spazio è anche risolvibile coinvolgendo chi un piccolo spazio già lo ha: non ne serve molto, una libreria o un angolo inutilizzato di uno spazio già attivo che comunque apre. Il terzo settore in questo può essere una valida risorsa o una biblioteca comunale, se si trova un’Amministrazione collaborativa».

Per saperne di più: zeropalermo.itwww.facebook.com/zeropalermo,YouTube

Foto di Giuseppe Mazzola

Fonte: ilcambiamento.it

Quando la permacultura diventa una filosofia di vita…

Sostenibilità, equilibrio, biodiversità, scambio e mutuo aiuto sono i principi fondamentali che muovono il progetto dell’associazione Permacultura La Castellana, nato a Castelfranco Veneto (TV) circa un anno fa.9468-10206

Con 29 persone coinvolte, un ettaro di terra presa in affitto dal Comune e un budget al minimo (3500 euro spesi in un anno) questo progetto di permacultura ha preso il volo iniziando dalla graduale riconversione di un terreno precedentemente sfruttato dall’agricoltura intensiva. L’obiettivo è recuperare risorse e valori fondamentali per il territorio e le persone, promuovere concretamente un’economia di sostentamento e scambio con le realtà virtuose vicine oltre che ridurre progressivamente il ricorso all’economia di mercato. In una società individualistica e basata quasi esclusivamente su valori fittizi dipendenti dal denaro e dal consumo senza limiti, principi fondamentali come la condivisione dei saperi e dei frutti della terra, la solidarietà e il rispetto della natura hanno un significato profondo e dirompente. Molti i progetti futuri dell’associazione: fare rete con altre realtà basate sulla cooperazione e lo scambio, realizzare attività di reciproca conoscenza e collaborazione con le scuole tradizionali di agricoltura, approfondire e allargare le possibilità di coltivazione. Incontriamo Daniele Zanetti, uno degli ideatori del progetto e co-fondatore dell’associazione Permacultura La Castellana.

Che cos’è il Progetto Permacultura La Castellana?

Permacultura La Castellana è un’associazione culturale senza fini di lucro che ha l’obiettivo di creare una comunità aperta di persone con l’intento di fare autoproduzione, avviare un’economia di sostentamento e vendere le eventuali eccedenze. Tuttavia, la cosa per noi più importante è iniziare a praticare un’economia di scambio con altre realtà del territorio come i GAS e gli orti solidali situati nelle vicinanze.castellana

Dove avete preso la terra?

Abbiamo preso in affitto un ettaro di terra dal comune di Castelfranco per 470 euro l’anno. C’è la possibilità in seguito di prendere altri appezzamenti adiacenti, circa 5000 metri quadri. Abbiamo una concessione per i prossimi 5 anni, rinnovabile per altri 5.

Chi è stato l’ideatore del progetto e come avete incontrato gli altri soci?

L’input iniziale è stato mio e di un altro socio, Alessandro Bettati. Sono dieci anni che sono nel campo dell’associazionismo, avevo già un giro di conoscenze in questo settore e quindi non siamo partiti da zero. Attraverso incontri e fiere ci siamo fatti conoscere e sono entrate a far parte del progetto altre persone.

Con quale budget avete iniziato?

La quota associativa costa 50 euro l’anno ma col tempo abbiamo intenzione di ridurla. Abbiamo, al momento, fissato questa cifra perché abbiamo dovuto sostenere le spese per la serra e gli attrezzi necessari per l’orto. C’era bisogno di un budget iniziale ma nel giro di 5 anni la quota associativa si dimezzerà. Ci sono nostri colleghi che sono partiti con terreni di proprietà e con una cooperativa con un budget di 300000 euro. Noi siamo partiti con un budget molto limitato e alla portata di tutti. Naturalmente loro, della cooperativa, sono interessati a vendere all’esterno, noi invece siamo interessati più all’economia di scambio. Con pochissimi soldi siamo riusciti a mettere su un progetto di permacultura.

Avete tutti un altro lavoro? In questo anno che cosa avete fatto? E in che modo hanno partecipato i soci?

Molti di noi hanno il proprio lavoro ma tra i soci ci sono anche disoccupati. Per portare avanti il progetto usiamo il nostro tempo libero. Per realizzarlo pienamente occorrono circa tre anni. Per ora non si sono delineati ruoli precisi perché al momento è bene organizzarci di mese in mese e cercare di fare tutti le stesse cose con una linea guida precisa. Quando il progetto andrà avanti il gruppo diventerà un vero e proprio team all’interno del quale ciascuno avrà un ruolo preciso e quindi ci sarà chi si specializzerà nell’orto, chi avrà più interesse nella trasformazione dei prodotti: essiccati, sottolio e simili. Per specializzarci, però, dobbiamo tutti conoscere profondamente il progetto. Abbiamo un altro anno e mezzo davanti prima di concludere.castellana3

Riuscite ad essere autosufficienti?

Ci sono stati periodi in cui lo siamo stati. Al momento non lo siamo. Nel giro di due o tre anni, però, credo sia possibile arrivare a un buon livello di autosufficienza per la verdura e la frutta. Per arrivare a questo non basta solo produrre ma è necessario chiudere la filiera. Oltre a coltivare è necessario saper raccogliere, cucinare, preparare e conservare. Sembra una sciocchezza ma è una cosa che non è affatto banale o scontata perché siamo abituati ad andare al supermercato dove compriamo già tutto pronto.

Che cosa è necessario fare?

E’ necessario cambiare stile di vita. Dobbiamo considerare che durante l’anno ci sono i periodi di magra. Quindi non è che quando non si produce si debba andare al supermercato. Ci si pensa quando c’è il periodo di larga produzione conservando la verdura e la frutta che sarà poi consumata in inverno. Da dicembre ad aprile, ad esempio, è un periodo in cui non c’è frutta. Con la frutta essiccata per tempo si può arrivare a una buona percentuale di sostentamento anche in inverno. Quello che fa la differenza è l’economia di scambio. Ci sono altri gruppi simili al nostro con i quali scambiare i prodotti.

Quali sono i principi cardine dell’associazione?

Creare una comunità aperta di persone. E’ fondamentale perché recupera valori comunitari che questa società del consumo ha già in buona parte perso.  Pensiamo al valore della condivisione, dell’aiutarsi l’un l’altro, della solidarietà. Concetti che in una società individualistica e basata sul valore del denaro sono quasi inesistenti. In campo prettamente economico, vogliamo promuovere una ripresa dell’economia di sostentamento e di scambio, riducendo progressivamente l’economia di mercato.

La vostra terra si trova vicina ai centri abitati?

Sì ma contemporaneamente non è vicina a una strada trafficata e quindi il terreno è un terreno relativamente pulito. Dico “relativamente” perché si tratta comunque di un terreno in conversione e per recuperarlo, utilizziamo varie tecniche, tipo il sovescio. E’ necessario tener presente che, purtroppo, viviamo in un mondo inquinato. Certamente anche il nostro, in una certa misura lo è, ma è parte integrante del nostro progetto proprio il fatto che attraverso un approccio diverso, sano e collaborativo nei confronti della terra, col tempo, i terreni possano essere recuperati. Ci sono altre realtà simili alla nostra in zona: apicoltori e funghicoltori. C’è un bosco vicino a noi creato da un gruppo di ragazzi che ne avevano bisogno per allevare le api

Qual è l’età media dei soci e qual è il futuro del vostro progetto?

Circa 45 anni. Io ho 33 anni e sono tra i più giovani. Questo mi dispiace molto. E’ anche colpa nostra perché dobbiamo renderci più visibili. Dobbiamo andare nelle scuole e far vedere ai ragazzi che esistiamo. E’ il prossimo step che dobbiamo fare e uno dei nostri obiettivi. Ad esempio, c’è l’istituto agrario di Castelfranco, a pochi chilometri da noi, all’interno del quale il professor Alessandro Leoni è riuscito ad introdurre il biologico. Al momento nelle scuole si parla quasi solo di agricoltura tradizionale quindi è chiaro che la permacultura come concetto e come vera e propria cultura del fare, ancora non c’è. Bisogna iniziare a collaborare. Il futuro del progetto e della nostra associazione è questo.

Che cosa rappresenta il vostro progetto all’interno della realtà in cui siete inseriti?

Noi stiamo creando un ecosistema. Con i vari elementi: l’orto, il frutteto, il pollaio, la food forest, le aromatiche, i cereali stiamo andando a creare un ecosistema sostenibile. Ogni elemento all’interno del progetto è legato in un contesto di economia circolare, aumentando la biodiversità e conseguentemente le interazioni tra le varie specie viventi. Si raggiunge un livello di complessità più alto e soprattutto un equilibrio con la natura. La sostenibilità la raggiungiamo in questo modo.

Coltivate anche i cereali?

Il terreno veniva da un’agricoltura intensiva e abbiamo seminato a spaglio il sovescio di varie piante leguminose e foraggere. Da quest’anno possiamo pensare di iniziare a seminare un cereale. Un gruppo che conosco e che si trova vicino a noi ha recuperato alcuni grani antichi (Saragolla e Senatore cappelli) ed è arrivato poi a produrre le farine. In zona abbiamo, tra l’altro, un vecchio mulino. Quando ci muoveremo noi dovremo pensare attentamente alla filiera e alla gestione di tutto il processo e lo faremo nel modo più sostenibile possibile, avendo una realtà di riferimento come la loro. Vogliamo recuperare un metodo antico che oggi non si usa più. Oggi si usa il mietitrebbia che taglia tutto. Una volta, invece, le trebbie tagliavano a un’altezza maggiore e contemporaneamente si seminava una leguminosa a mano quando il grano era alto. Quando si raccoglieva falciando il grano si aveva già il terreno con le piantine di leguminose che crescevano. Questo si faceva per mantenere il terreno fertile dando la rotazione tra il cereale e le leguminose.

E’ lo stesso sistema di Masanobu Fukuoka?

Sì, ma non solo lui, direi che è una pratica antica. Masanobu Fukuoka ci ha insegnato che il terreno deve essere sempre coperto. Utilizzava il trifoglio bianco come leguminosa seminato nei campi di riso e poi d’inverno copriva con la paglia in modo tale da proteggere il terreno dalle gelate. Le cose importanti per realizzare un progetto in equilibrio con la natura sono tre: la fertilità del suolo, la qualità del seme perché oggi abbiamo semi più produttivi  rispetto alle varietà antiche, ma sono anche più delicate e si ammalano più facilmente. Dobbiamo puntare sulle nostre piante rustiche e chiaramente non ibride, altrimenti il seme non è fertile. Infine, la biodiversità. Se non c’è biodiversità l’ecosistema non è in equilibrio.

Che ruolo hanno gli animali? Li allevate per la carne?

No. Gli animali sono parte integrante del progetto perché sono fondamentali. Sono animali che troveranno il cibo sul campo. Inoltre, hanno la funzione di concimare la terra. La nostra agricoltura non è intensiva ma comunque non siamo in grado di creare da soli un sistema che si tenga in equilibrio. Le galline ci aiutano in questo, ad esempio mangiando i parassiti che danneggiano le piante (nei mesi non produttivi dell’orto). L’ecosistema che abbiamo creato sostiene le galline stesse. Sono, all’interno di un circolo virtuoso, un elemento che serve a mantenere l’equilibrio. Questo è un altro dei nostri obiettivi.

Qual è la differenza rispetto ai progetti di agricoltura tradizionale?

Noi lavoriamo con la natura e non la pieghiamo ai nostri bisogni come fa l’agricoltura tradizionale e tutta la società moderna, in ogni campo). Tuttavia, siamo consapevoli della necessità di una collaborazione nei luoghi in cui l’agricoltura tradizionale viene insegnata. Lavorare in sintonia con queste realtà è il modo che abbiamo scelto per cercare di arrivare a un risultato positivo e virtuoso per tutti: le persone, la terra, la società.

Dove avete imparato la permacultura?

Uno dei soci è permacultore (Alessandro Bettati) e ha fatto il corso con Geoff Lawton. Personalmente non sono permacultore ma mi sono formato leggendo libri e cercando di migliorarmi nella pratica in questa direzione. Il nostro progetto prevede anche che alcuni di noi si formino con corsi specifici.

Perché progetti come il vostro?

La nostra è una società consumistica e individualistica che disintegra valori come la famiglia, il rispetto del prossimo, le varie comunità nel territorio, mantenendo come unico valore il denaro. In questa società, entrano in gioco effetti che nelle economie preindustriali erano molto limitati quali: accumulazione sempre più sfrenata di beni e merci, usura, l’interesse che per sua natura è uno strumento di mera speculazione. Una società fatta in questo modo e un’economia di mercato basata sul denaro come fine e non mezzo non potrà fare molta strada.

Come vedi il futuro?

Nella storia dell’uomo è sempre stato così: c’è sempre stata un’economia di sostentamento in primo luogo, poi di scambio e poi di mercato. Adesso invece l’economia di mercato è diventata primaria e l’unico modo di sostenersi è lavorare per avere il denaro con cui comprare quello che ci serve. Non è assolutamente possibile né realizzabile un mondo che continui a basarsi sull’individualismo puro e su un consumismo senza limiti. In futuro si tornerà alle nostre radici perché una società fondata sullo sfruttamento a oltranza di risorse che non sono infinite non può essere sostenibile e non potrà garantire un benessere economico come quello cui siamo abituati. Prima o poi siamo destinati a cambiare sistema. Non siamo solo noi a pensarlo ma ci sono altri movimenti come il Movimento per la Decrescita Felice, le Transition Town, il Movimento Zero di Massimo Fini, i vari progetti di ecovillaggi.

Qual è il vostro sogno?

Stiamo cercando di fare rete con tutti gli altri movimenti che si basano su valori come la cooperazione e lo scambio attraverso un’economia sana e non basata sullo sfruttamento e sul consumo.  Fare rete significa, di fatto, iniziare a creare i presupposti per una nuova società.

Che consiglio ti sentiresti di dare a chi volesse imitarvi?

Non me la sento ancora di dare consigli. Forse ci sentiremo di farlo tra cinque o sei anni, quando ne sapremo di più. Per il momento posso dire che la prima cosa è non fare il passo più lungo della gamba, fare poche cose ma fatte bene. Altra cosa fondamentale è insistere e non scoraggiarsi alle prime difficoltà.

Fonte: ilcambiamento.it

 

In Liguria il libero scambio di semi e cultura

Il 14 e 15 gennaio nei pressi di Genova abbiamo potuto assistere ad una “due giorni” davvero fuori dal comune, caratterizzata dal premio Parole di Terra e dal Mandillo dei Semi. Tra interviste, conferenze di Giorgio Diritti e Massimo Angelini, scambio di semi e riunioni del consorzio la Quarantina, abbiamo potuto assaporare assaggi di un mondo che ci piace, un mondo in cui natura, cultura, coltura e relazioni siano davvero i protagonisti indiscussi del nostro presente e del nostro futuro. Nel 2012, mentre esploravo l’Italia in camper, ebbi il privilegio di incontrare a Genova Massimo Angelini, ruralista, filosofo della terra, “padre” del Mandillo dei Semi, della Rete Semi Rurali, della casa editrice Pentàgora  e tra i protagonisti della battaglia che ha permesso dal 2007 all’Italia di essere uno dei pochi Paesi europei in cui non è vietato lo scambio di semi.img_5215

Sì, sembra assurdo, ma prima anche da noi era vietato donare, scambiare e vendere i propri semi.
Angelini mi introdusse quindi a questi straordinari mondi e mi permise di scoprire che una volta all’anno, dal 2001, centinaia di persone si ritrovano nei pressi di Genova per scambiare semi (prevalentemente locali), esperienze, amicizie.

Quando un altro uomo speciale nonché agente del cambiamento ligure Davide Capone, pochi mesi fa ci ha proposto di partecipare al raduno di inizio 2017 non ho esitato un attimo ad urlare il mio entusiasmo. Ed è così che pochi giorni fa ho potuto toccare con mano, finalmente di persona, questo semplice, quasi banale e quindi straordinario evento di “pace”.IMG_5156.jpg

Massimo Angelini

“Quando nacque il Mandillo – mi spiega Massimo Angelini – in Italia eravamo praticamente gli unici a scambiare semi. C’eravamo solo noi e quelli della Fierucola di Firenze. Ora ci sono decine di eventi come questi, eppure ogni anno le presenze al nostro incontro aumentano. Non so dire se sia un segnale di aumento di consapevolezza o una moda”.

In un caso o nell’altro io trovo fantastico che questo tipo di incontri e di azioni stia avendo una diffusione così virale. Il 15 gennaio a Ronco Scrivia sono transitate, tra i banchi degli scambiatori di semi, oltre 2000 persone! Ma non è tutto. All’interno di questi due giorni, ho potuto assistere anche al premio letterario organizzato dall’Associazione Parole di Terra, che vedeva come ospite speciale il regista Giorgio Diritti. Ho assistito alla sua conferenza, ho apprezzato la proiezione di un suo documentario e soprattutto ho potuto conversare con lui e ne sono uscito ulteriormente arricchito.giorgio-diritti.jpg

Giorgio Diritti

Nel video che vi proponiamo, trovate un assaggio di tutto questo.
Nelle prossime settimane, avremo modo di approfondire gli incontri più significativi.
Buona visione!

Intervista e riprese: Daniel Tarozzi
Montaggio: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2017/01/liguria-libero-scambio-semi-cultura/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Una nuova economia? Il segreto è nelle donne

Un’economia del Dono che sia un’economia di pace e abbondanza per tutti, in contrasto con un’economia dello scambio che fa del saccheggio la base per un’economia per pochi. Il femminile e il materno come pilastro di una nuova società, che sfugga al patriarcalismo dominante. Dialogo con Genevieve Vaughan, alla ricerca di un nuovo modo di vedere e interpretare l’economia.

Per cambiare la società, dobbiamo pensare in modo diverso. Quando si tratta di ripensare il nostro sistema economico, come stiamo vedendo in questi anni, tutto diventa più difficile, confuso, disordinato: da molto tempo, nel Mondo, i segnali di un profondo malcontento rispetto al funzionamento dei nostri schemi economici attuali si sta manifestando in molteplici modi, che spesso purtroppo sfociano nella rabbia, nella rassegnazione, nell’insofferenza fine a se stessa. E se, per cambiare la società, dovessimo riscoprirne i valori delle origini? Se nella cure della madre verso il proprio bimbo si annidi un modo diverso di vedere l’economia? Questo e altro sono le radici dell’Economia del Dono, che nella differenza tra scambio (patriarcale) e dono (matriarcale) pone la base della sua radicale critica nei confronti dell’economia di mercato.

Base fondante della tesi dell’Economia del Dono è che l’economia capitalista, per come la conosciamo oggi, basa la sua stessa logica sullo scambio, dove un bene è dato per ricevere il suo quantitativo equivalente, un bisogno è soddisfatto affinché soddisfi il proprio bisogno. Lo scambio di mercato non è naturale, non è reale e nemmeno necessario, ma semplicemente alimenta il nostro Ego, crea posizioni innaturali di conflitto che alimentano l’isolamento, la competizione, la guerra e il dominio. Questa logica patriarcale, basata sulla socializzazione maschile, va in conflitto con quella femminile, matriarcale, viaggia su un binario opposto rispetto alla madre che nutre. È per questo che l’economia del dono vuole portare al centro dello scambio economico il valore d’uso degli oggetti e delle azioni: “sono delle azioni che noi mettiamo già in pratica, solo che non ce ne rendiamo conto minimamente, rimangono inconsce” ci spiega Genevieve Vaughan, ricercatrice e femminista statunitense stabilitasi da anni a Roma e teorica dell’economia del dono. “Penso che al di sotto dell’economia di mercato e del capitalismo esista un altro tipo di economia, un’economia materna in cui tutti noi nasciamo ma che viene sfruttata dal mercato; tutti i doni a nostra disposizione, compresi quelli fornitici dalla Madre Terra, vengono risucchiati dal mercato e messi a disposizione di pochi. È una logica predatoria e patriarcale, tipica della nostra economia che ci sta portando alla catastrofe”.freswota-another-perfect-day-11

Il senso dell’Economia del Dono

Già con la creazione del denaro, si è andato configurando un modello di economia basato sul patriarcato. Il modello di scambio che ne è nato ha negato quello del dono già in vita presso alcune società precapitalistiche, come ad esempio quelle native americane: l’unico spazio che il mercato non ha risucchiato è stato quello della pratica materna, nel dono che una mamma da consapevolmente al proprio bambino, che nasce dipendente dalle cure materne e che le riceve senza che la madre pretenda nulla in cambio. Questo è l’esempio base per provare a capire dove si annidino le basi culturali dell’Economia del Dono: “Le logiche dello scambio e del donare costituiscono due paradigmi o visioni del mondo che competono e si complementano: la pratica materna e tutti i tipi di lavoro donati gratuitamente sono resi difficili o addirittura sacrificati dalla scarsità che è necessaria al funzionamento del mercato.” scrive Genevieve Vaughan nei suoi 36 passi verso l’economia del dono “ La scarsità viene creata artificialmente dall’appropriazione dei doni di molti da parte di pochi, dei doni dei paesi poveri a quelli ricchi, dei doni della natura, del passato e del futuro ai pochi per il loro profitto nel presente. I valori materni sono visti come non realistici e svalutati dai misogini. Essi sono visti come cause della sofferenza, mentre denunciare le sofferenze e la mancata soddisfazione delle necessità da parte delle donne è vista come vittimismo. Al contrario, sono la scarsità necessaria (funzionale) al mercato e la svalutazione del paradigma del dono che causano la sofferenza delle donne (e dei bambini e degli uomini).”  Il dare per ricevere (compreso il baratto) diventa così una logica altra rispetto al donare per soddisfare un bisogno: per cambiare il paradigma, diventa importante da adulti creare un’economia del dono unilaterale allargata e generalizzarla a tutti. Una sfida enorme, ma che noi inconsciamente pratichiamo già.popolo-degli-elfi

Alcuni esempi di Economia del dono, il dono del cambiamento sociale

“Prendiamo l’esempio delle persone che si uniscono e danno vita ad un ecovillaggio. Lo fanno spesso con poca disponibilità economica, senza baratto, senza scambio. Così come molti altri progetti legati al cambiamento sociale nascono con questa logica” ci spiega la Vaughan “spesso non ce ne rendiamo conto ma stiamo mettendo in pratica l’economia del dono, le creazioni di queste persone sono dei doni che vengono dati alla società, migliorano la vita di alcuni di noi, di coloro che vi si approcceranno, senza pretendere nulla in cambio!”.

Altro esempio tipico alla base del rapporto predatorio dello scambio sul dono, e che ci aiuta a capire meglio il senso profondo del dono stesso, è il plusvalore: questo rappresenterebbe un dono che potrebbe andare verso la società, ma il profitto (che fa parte della logica dello scambio) lo ha soppiantato e inglobato. È la logica dello scambio che sovrasta e ingloba un possibile dono per la società, un rapporto unilaterale che inevitabilmente risucchia e distrugge, senza seminare. Una “guerra” generalizzata contro la pratica del dono, ma che è inconscia e per questo non riusciamo più a riconoscerla. Nella stessa logica rientra, come ulteriore esempio, il lavoro casalingo: se fosse calcolato in termini monetari, darebbe un valore aggiunto enorme al Pil delle varie nazioni. È un esempio di economia del dono che viene già messo in pratica come strada di economia alternativa: non vale affatto come esempio assoluto valido per tutte e tutti (non dobbiamo fare solo le casalinghe per praticare l’economia del dono) ma ci aiuta a vedere la ricchezza nascosta insita del dono. “Recenti sviluppi, come ad esempio il brevettare forme di vita e geni, mostrano come il capitalismo patriarcale assuma il controllo e trasformi i doni in prodotti. Le forze della globalizzazione sfruttano sempre più doni a livello internazionale, dal Sud al Nord.”

È il dono della natura, che contiene un’enormità di doni che vengono sottratti ai molti per rimanere nella disponibilità di pochi. L’alternativa è proprio saper vedere l’economia del dono per quella che è: materna, femminile e naturale. “Il mercato galleggia su un’infinità di doni, lo stesso profitto è una parte di dono che il mercato si prende” conclude Genevieve Vaughan “credo da americana trapiantata in Italia che l’Italia su queste tematiche sia molto all’avanguardia e pronta. C’è una coscienza legata alla condivisione e indirizzata al dono molto forte qua. Non la vedete, così come sembra invisibile l’Economia del Dono.”

 

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2016/11/io-faccio-cosi-142-nuova-economia-segreto-donne/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=general

Dona, riusa, condividi! Il Formicaio, luogo comune di Lecce

Economia del dono, cultura dello scambio reciproco e condivisione. Non vi stiamo raccontando di un’antica civiltà scomparsa ma di un’esperienza attiva e laboriosa che opera nella città di Lecce.

Il Formicaio“, protagonista della storia di oggi, è un’Associazione di Promozione Sociale formata da un gruppo di giovani amici che si sono da sempre occupati in varie forme di tematiche socio-ambientali.

Hanno iniziato ad operare nel 2010 con progetti di educazione ambientale non formale, negli anni sono cresciuti allargando il campo di azione e lavorando a progetti che valorizzassero i concetti di socialità e incontro. “Tornare a vivere le piazze e le strade significa riappropriarsi degli spazi e dei luoghi comuni” sottolinea Umberto Cataldo, uno dei fondatori dell’Associazione “Il Formicaio”, “e la condivisione ha un ruolo importantissimo per lo sviluppo di progetti ambientali fondati su riciclo e riuso”. In questa stessa ottica sono stati pensati i laboratori di auto-produzione e saper fare: imparare insieme diventa occasione di incontro e conoscenza, lo scambio di sapere estende virtuosamente l’apprendimento e l’applicazione di buone pratiche. Proprio da queste radici nasce nel 2014 l’iniziativa più importante, “Il Bazar del dono”,uno spazio dedicato sia a chi vuole liberarsi di oggetti che non usa più (purché siano belli e in buone condizioni!), sia a chi è alla ricerca di pezzi di seconda mano utili per le proprie esigenze.8581957373_70d6df37f8_h-1024x682

Il denaro è escluso dall’economia del dono, la vendita lascia il posto al regalo in maniera incondizionata. “Ma chi ce lo fa fare?”, ci si potrebbe chiedere. Ma questo singolare bazar ha in realtà una valenza fondamentale, perché è uno spazio che realizza concretamente buone pratiche dal punto di vista etico, sociale e ambientale: dal riutilizzo degli oggetti all’abbattimento della produzione dei rifiuti, oltre che il contrasto del consumismo incondizionato e, soprattutto, contribuisce all’attivazione di una rete virtuosa tra i cittadini che usufruiscono di questi servizi e le associazioni attive sul territorio che si spendono per la causa. “Il nostro Bazar si è scoperto particolarmente utile soprattutto per il riuso di oggetti e accessori per bambini” spiega Umberto “che fanno parte della categoria di beni materiali più esposti a un consumo fugace”. Il target di persone che accede, sia donando sia prendendo, è però ancora molto settorializzato. I giovani attivisti de “il Formicaio” hanno notato che sono soprattutto ragazzi e ragazze tra i 25 e i 30 anni a partecipare alle loro iniziative. “Il nostro obiettivo sarebbe quello di farci conoscere il più possibile tra le persone più distanti dai temi a cui ci dedichiamo” confida Umberto “in futuro vorremmo coinvolgere nuovi quartieri per arrivare alla gente che non sa nemmeno chi siamo”.8581957073_c7540e63b7_h-1024x682

Accanto al “Bazar del dono” il Formicaio continua a promuovere altre iniziative, come la proiezione di film e documentari su temi a sfondo socio-ambientale, la circolazione della cultura attraverso il prestito gratuito di libri e, tra gli eventi più riusciti, l’organizzazione di aperitivi a base di prodotti biologici o a chilometro zero. Durante l’appuntamento eno-gastronomico sensibilizzano gli avventori sulla qualità e la sostenibilità dei prodotti ma anche sulle modalità del servizio. I piatti e le stoviglie utilizzate sono tutte rigorosamente in compost e nell’ultimo periodo hanno incentivato la riduzione dei rifiuti chiedendo ad ogni partecipante di donare piatti in ceramica e lavarli alla fine del pasto. “Il nostro successo ha spinto anche altre associazioni ad utilizzare questa formula e in alcuni casi abbiamo prestato i nostri piatti” racconta Umberto “per noi è stato il segnale del successo perché abbiamo sentito di contribuire alla diffusione di una pratica virtuosa”. D’altronde gli attivisti de “il Formicaio” hanno fatto rete con tutti gli altri attivisti presenti sul territorio a seconda delle varie tematiche che di volta in volta affrontano: se si parla di mobilità sostenibile si rivolgono alla ciclofficina, per il cibo biologico sono in contatto con i GAS(i Gruppi di Acquisto Solidale) e così per ogni argomento, dall’intercultura ai cambiamenti climatici.

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Molti dei ragazzi che fanno parte de “il Formicaio” si sono formati o hanno lavorato per un periodo all’estero ma hanno sempre voluto tornare perché sentono di voler dare il proprio contributo al loro territorio. “Vogliamo far crescere Lecce. La nostra sfida è quella di allargare il giro e smuovere tutta la popolazione, non solo chi è già sensibile a certi temi” conclude Umberto “perché in questo periodo di crisi della socialità, abbiamo notato che la maggior parte delle persone che non è disposta a muovere il primo passo ha solo bisogno di ricevere stimoli per reagire e iniziare a intraprendere il proprio percorso”.


fonte : italiachecambia.org

Xylella fastidiosa, niente scambio di rami d’ulivo e la Procura di Lecce indaga

Sperimentazione fallita, diffusione dolosa o importazione incontrollata di piante illegali? La Procura di Lecce indaga. Niente scambio dei ramoscelli d’ulivo nella domenica delle Palme.

L’invasione della Xylella fastidiosa è diventata un’emergenza per il Salento e per tutta la filiera dell’olivicoltura. Per la Commissione Ue la soluzione è una soltanto, “dolorosa” ma necessaria: abbattere tutti gli olivi del Salento colpiti dal batterio killer che nel 2014 ha messo in ginocchio la produzione locale facendo lievitare i prezzi dell’olio di oliva.

L’Ue si è detta preoccupata per la diffusione della malattia che minaccia anche viti e agrumi. Il commissario alla salute Vytenis Andriukaitis ha spiegato che tutti i problemi connessi alla diffusione della Xylella fastidiosa sono in discussione con le autorità italiane, ma che misure decisive “devono essere prese con urgenza immediata”. Anche se ha utilizzato il plurale, il commissario Ue non ha dato molte alternative affermando che “devono essere rimossi tutti gli alberi colpiti, questa è la cosa numero uno da fare”.

La prospettiva di un abbattimento generalizzato degli olivi ha seminato il panico fra gli olivicoltori che vorrebbero salvare l’immenso patrimonio di piante “costruito” in centinaia di anni. Il Cnr ha invitato a non farsi illusioni confermando come l’unica soluzione plausibile sia l’abbattimento:

Stiamo parlando di un organismo nuovo per noi ma già ben noto nel mondo, studiato da almeno 130 anni negli Usa e in tutti questi anni non hanno ancora trovato una terapia,

ha dichiarato Donato Boscia del Cnr-Istituto per la protezione sostenibile delle piante che ha sottolineato come il “sacrificio” degli ulivi salentini sia il “male minore”:

Non si tratta di essere d’accordo o meno con la Comunità loro atteggiamento è quanto meno comprensibile visto che il problema è ancora confinato in un lembo molto piccolo dell’intero continente europeo; a rischio in effetti, c’è tutto il bacino mediterraneo che al momento è pulito.

Al contempo Boscia sottolinea come l’eradicamento non sia la soluzione finale, ma una soluzione di contenimento del problema. Secondo Federolio e Assitol, il “dramma della Xylella” deve essere trasformato in un’opportunità per nuovi impianti più moderni e maggiormente produttivi. La situazione è talmente drammatica da far prendere una drastica contromisura per domenica 29 marzo, la tradizionale domenica delle Palme nella quale ci si scambia, per tradizione, i ramoscelli d’ulivo. Quest’anno l’usanza verrà vietata per scongiurare la diffusione della Xylella fastidiosa che proprio nel periodo pasquale dischiude le proprie uova. Intanto intorno alla diffusione della malattia stanno sorgono le tesi più disparate, da quelle complottiste a quelle seguite dalla magistratura. Ieri su Il Fatto Quotidiano Tiziana Colluto ha raccontato le due piste seguite dalla magistratura: quella dell’importazione incontrollata di piante ornamentali che avrebbe fatto da vettore e quella di una sperimentazione finita male. La Procura di Lecce sta indagando da un anno per capire a chi attribuire la responsabilità della diffusione della malattia. Secondo Gian Carlo Caselli, presidente del comitato scientifico dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura, la presenza e le modalità di diffusione dell’agente patogeno presentano “aspetti che potrebbero andare oltre la fatalità”. Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes che ha realizzato un report sulle agromafie insieme a Coldiretti, si spinge addirittura nei territori del complottismo:

È una vicenda unica. Per i suoi contorni e implicazioni, non ha eguali. Che Xylella sia stata importata è un fatto, come pure che in questa storia paiono esserci tutti i presupposti di una guerra chimica o batteriologica.

E spunta il nome della Monsanto, il colosso dell’agricoltura geneticamente modificata che da anni vuole standardizzare i mercati imponendo i propri prodotti e le proprie leggi. Nel 2002 il Dna della Xylella è stato sequenziato per la prima volta da Alellyx una società che studia le piante resistenti alla Xylella. Questa società nel 2008 è stata acquistata dal colosso delle sementi Monsanto e la Procura di Lecce vuole capire se vi sia un nesso di causalità fra le politiche espansionistiche della multinazionale e questa epidemia.159001256-586x389

© Foto Getty Images

Fonte: ecoblog.it

Transizione in festa dal 20 al 22 settembre

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Dal 20 al 22 settembre prossimo al centro Panta Rei di Passignano sul Trasimeno in Umbria si celebrerà la prima festa della Rete Italiana della Transizione. A distanza di cinque anni da quando la Transizione è approdata in Italia, i transizionisti e le transizioniste di tutta Italia si incontrano per conoscersi, conoscere, celebrare e raccontare quello che è successo questi anni. “Celebreremo quello che ha funzionato e quello che non ha funzionato (c’è sempre tanto da imparare e insieme si fa prima). Ne usciremo ispirati, energizzati, con nuovi contatti e tante idee e progetti da provare e sviluppare. Le attività – si legge sul sito di Transition Fest'(a) 2013 – saranno ad Agenda Aperta, questo permetterà a tutti di sperimentare nuove forme di incontro, di essere aperti alle proposte che verranno e per ognuno di focalizzarsi su quello che interessa seguendo l’energia che si sprigionerà nella Fest’”. Il programma della Fest’ verrà costruito su input dei partecipanti. Al momento abbiamo creato una griglia di massima. I promotori dell’evento desiderano infatti che la festa si svolga in accordo della volontà di tutti e tutte. L’idea di base è quella di permettere la conoscenza reciproca, lo scambio di saperi e buone pratiche, la riflessione sui modelli di leadership nelle iniziative italiane e tanto altro ancora.

Fonte: il cambiamento

Garage Sale Kids 2013, bambini e famiglie verso nuovi stili di vita

Si è svolta a Roma, lo scorso 5 maggio, le seconda edizione di Garage Sale Kids, un’iniziativa che mira a sensibilizzare e diffondere tra bambini e famiglie stili di vita alternativi e sostenibili, promuovendo la cultura dei riuso intelligente, del baratto e della solidarietà.garage_sale_kids1

Si è svolta a Roma, lo scorso 5 maggio, le seconda edizione dell’iniziativa Garage Sale Kids ideata per promuovere e diffondere la cultura del riuso e per stimolare famiglie e bambini ad avvicinarsi alla green education e a stili di vita differenti. Nuovi modelli di vivere e convivere che nascono e si sviluppano gradualmente spinti non solo dal contesto socio-economico attuale, ma anche dall’esigenza e dalla volontà di rapportarsi in maniera alternativa alla quotidianità, ponendo maggiore attenzione e rispetto verso gli altri e verso ciò che ci circonda, l’ambiente. Garage Sale Kids mira a tutto questo, ma non solo. È un’iniziativa che diventa in pochi momenti l’incontro tra l’utile, la socialità e il divertimento in una cornice colorata e carica di voglia d’interscambio ed d’interazione tra la gente. Si apre il sipario e gli schiamazzi dei bambini sono il lasciapassare per sciogliere e dissolvere i formalismi degli adulti; d’improvviso escono fuori i sorrisi, la distensione si marca sui visi ed ecco la formula vincente e attraente dell’evento. Uno straordinario mix di aree e di angolini in cui i bambini apprendono giocando e i grandi si mettono in relazione per condividere esperienze intorno a ciò che è utile e ciò che può servire nella propria quotidianità.

Garage Sale Kids è un luogo di scambio, è un altro modo di creare aggregazione, è un luogo che getta i semi per un nuovo tipo di dialogo tra gente accomunata dal desiderio di mettere qualcosa a fattor comune. È anche l’incontro della creatività e dell’originalità non fine a se stessa ma posta al servizio del risparmio, del riuso intelligente, del ritorno alla semplicità. Rappresenta una maniera di fare rete e allo stesso tempo di creare una comunità capace di facilitare le interazioni tra le persone e costruire modus videndi diversi.garage_sale_kids_

Un’iniziativa che diventa spazio di educazione, di didattica e di scoperta e così sporcandosi le mani con la terra e le piante di un vivaio o con la vernice ed i colori di un laboratorio si impara a conoscere meglio la natura, si impara a ri-creare e a ri-utilizzare intelligentemente e a barattare. A poco prezzo vengono fuori interessanti compravendite di vestiti, scarpe, passeggini, fasciatoii, giocatoli e giochi. Si condividono conoscenze culturali e artistiche, competenze tecniche e professionali con l’obiettivo di creare una piazza delle buone pratiche, quelle ecosostenibili, divenute necessarie per le persone e per l’ambiente della nostra era. Nel Garage Sale Kids si fa in fretta a fare amicizia, a comprendere ed imparare, a dare e a ricevere con l’obiettivo comune di generare consapevolezza, di consumare eticamente e di trarre beneficio, utilità concreta e immediata dallo scambio, dal confronto e dall’incontro. In questa agorà di socializzazione, c’è lo spazio per l’arte, per la cultura, per la solidarietà e per varie attività ricreative. Si crea quella coesione sociale che meriteremmo di praticare e di estendere più genericamente in ogni momento del nostro tempo moderno. C’è il tempo per sorridere e per respirare, c’e il tempo per avere tempo, per ricostituire la socialità, per comporre un angolo di mondo più umanizzato in cui delle energie armoniche e delle potenzialità individuali convergono verso il bene collettivo e diventano humus fruttuoso per un vivere migliore.

Fonte: il cambiamento

Vivere Semplice

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