La petizione: «Salviamo i boschi dal saccheggio»

Sono cittadini ed esperti i promotori del gruppo che ha lanciato una petizione per chiedere che la gestione del patrimonio boschivo passi dal Ministero per le attività produttive al Ministero dell’ambiente e che si fermi «il saccheggio» che sta mettendo a rischio ecosistemi e territori. Li abbiamo intervistati.

La petizione: «Salviamo i boschi dal saccheggio»

Sono cittadini ed esperti i promotori del gruppo che ha lanciato una petizione per chiedere che la gestione del patrimonio boschivo passi dal Ministero per le attività produttive al Ministero dell’ambiente e che si fermi «il saccheggio» che sta mettendo a rischio ecosistemi e territori. Abbiamo intervistato Diego Infante, uno dei promotori dell’iniziativa.

«Troppo spesso e per troppo tempo i boschi sono stati visti per troppo tempo come materia inerte, non come preziosi serbatoi di biodiversità da tramandare alle future generazioni. Ed è questo il “peccato originale” che ha fatto sì che un unico dicastero si occupasse di foreste e di agricoltura insieme. Il denominatore comune, infatti, è lo stesso: il produttivismo» spiega Infante.

«Le minacce che incombono sui boschi italiani sono ampie e molteplici: prima fra tutte l’industria delle centrali a biomasse (lautamente sovvenzionate da contributi pubblici in quanto “fonti rinnovabili” secondo la direttiva UE “RED II”). Come si asserisce dall’Accademia dei Lincei, nate per bruciare scarti di potatura, adesso ingoiano intere foreste – prosegue Infante – E vi è il nuovo Testo Unico in materia di Foreste e Filiere forestali (TUFF) approvato dal governo Gentiloni, in virtù del quale si introduce una «gestione attiva» volta, di fatto, all’incremento dei tagli, senza alcuna distinzione tra boschi da destinare alla produzione e quelli da lasciare all’evoluzione spontanea, con l’ulteriore aggravante che Regioni e Province autonome possono sostituirsi ai legittimi proprietari di «terreni incolti, abbandonati o silenti» per ripristinarne la “gestione produttiva”, addirittura coatta nel caso in cui non si raggiungano accordi coi suddetti possessori. Al fondo di questo interventismo gestionale è la discutibile idea (eufemismo) che i boschi non “puliti” o in alcuni casi non convertiti a ceduo, potrebbero provocare incendi e dissesto idrogeologico».

«Per non parlare poi dei modi in cui sono eseguiti i tagli: ormai sempre più spesso intervengono ditte senza scrupoli che sfruttano manovalanza straniera a basso costo (la pratica della ceduazione, già discutibile di suo, troppo spesso diventa “di rapina”, senza contare l’utilizzo di macchinari sempre più grandi che aprono nuove piste con conseguenti ulteriori rischi idrogeologici) – aggiunge il promotore della petizione – Da segnalare altresì una delle ultime strategie adottate dalle amministrazioni comunali: la vendita di porzioni di bosco al solo scopo di fare cassa (esemplare la vicenda del Comune di Paola, in provincia di Cosenza, dove 22 ettari di faggeta stavano per scomparire, operazione poi bloccata da proteste e petizioni). L’apparato sanzionatorio, poi, risulta risibile: basti pensare, a titolo d’esempio, che l’abbattimento abusivo in una fustaia piemontese di un salice o di un pioppo di dimensioni “eccezionali” (da 82,5 cm di diametro in su, purché non monumentale) viene sanzionato – sempre nel caso in cui si trovi il responsabile – con una multa di soli 60 euro».

«Malgrado il silenzio assordante della politica e della stampa, i ragguardevoli risultati raggiunti da questa petizione si devono all’impegno profuso da un gruppo nato su Facebook: “Liberi pensatori a difesa della natura”, che mi onoro di aver fondato: in questa sede ho potuto portare il mio contributo di studioso di filosofia indiana e antropologia culturale, con l’obiettivo di traslare il pensiero olistico nel regno del riduzionismo – prosegue Infante – In effetti si può ben dire che con il solo ausilio dei social network e di alcune testate che ci hanno sostenuto, come Terra Nuova e Il Cambiamento, nonché del comitato dei promotori che riunisce in una ricca compagine le migliori professionalità del mondo accademico, scientifico e ambientalista, siamo riusciti a scardinare il monopolio culturale di un mondo forestale interventista sempre più autoreferenziale e ripiegato sui dogmi della quantificazione numerica. Riteniamo infatti che ciascuno, con il proprio bagaglio di competenze – siano esse scientifiche o umanistiche – possa offrire il proprio contributo alla soluzione di problemi, che per complessità e interconnessioni reciproche, necessitano di superare l’ormai assurda e datata partizione dei saperi. Se questo obiettivo può dirsi raggiunto, non possiamo dire altrettanto per ciò che ci prefiggiamo con la petizione: finora sia i “decisori” che la politica in generale sono rimasti in completo silenzio. E questo è molto grave, perché è dalla mancanza di risposte che nascono complottismi vari e fake news».   

«In parole molto semplici, chiediamo a gran voce l’abbandono di una anacronistica gestione dei boschi tarata sul produttivismo, a vantaggio di una improntata a criteri prettamente conservativi. Ora, dal momento che il Ministero dell’Ambiente ha come scopo precipuo la tutela del territorio, riteniamo sia questo il dicastero deputato a gestire in maniera conservativa il nostro patrimonio forestale. Ma la petizione si fa portavoce di una proposta di più ampio respiro, che incide sull’architettura costituzionale: riportare la competenza sui boschi pubblici e privati dagli enti locali allo Stato centrale (possibilità sancita dall’art. 138 della Costituzione). Buona parte degli scempi (vedasi Toscana), infatti, viene deliberata proprio in seno alle medesime regioni».

«Di più facile portata, invece, l’obiettivo di acquisire al demanio dello Stato i boschi di maggior pregio e quelli “di protezione” – prosegue Infante – che difendono il territorio da valanghe e dissesto idrogeologico. Altresì riteniamo che occorra implementare la messa a dimora di alberi in aree agricole non utilizzate (come del resto già accade con la pioppicoltura), per ricavarne legna da destinare agli usi umani. Del resto, avendo ormai perso la sacralità della natura, non possiamo che affidarci alla legge positiva per tentare di ricreare il contrappunto laico del bosco sacro che ancora oggi (r)esiste in Oriente. Eppure, le notizie che giungono dai parchi nazionali non lasciano presagire nulla di buono: 20 milioni di euro per nuovi impianti sciistici nel cuore del Parco Nazionale della Majella, 30 per espandere il comprensorio di Campitello Matese (CB), in quello che è il neonato Parco Nazionale del Matese. Sui parchi pende peraltro un’inquietante ipoteca rappresentata da un Protocollo d’intesa siglato in data 12 giugno 2019 tra Federparchi e FederlegnoArredo, che apre a cavalli di Troia quali “valorizzazione” e “sviluppo sostenibile”, ormai assurti a veri e propri specchietti per le allodole».

«Altresì facciamo nostra la proposta del Prof. Bartolomeo Schirone dell’Università degli Studi della Tuscia: il 50% delle foreste italiane va lasciato all’evoluzione spontanea, il restante deve essere destinato a utilizzazioni meno impattanti. In tal senso, un esempio è offerto dalla cosiddetta “silvicoltura sistemica” approntata dal Prof. Orazio Ciancio – prosegue nelle sue dichiarazioni Infante – Purtroppo devo dire che al di là delle decine di migliaia di firmatari della petizione, siamo stati completamente ignorati dalla stampa, dalla politica e dalle associazioni ambientaliste. Con ogni probabilità, gli spin doctor suggeriscono di non impegnarsi su temi che hanno scarsa presa sull’opinione pubblica, perché giudicati troppo complessi: molto più semplice rifarsi una verginità con operazioni del tipo “piantiamo un alberello”, laddove è ovvio che un albero maturo non potrà mai offrire gli stessi benefici ecosistemici di una giovane pianta. Su questo disinteresse generalizzato è possibile produrre innumerevoli considerazioni: al fondo vi è una generale indifferenza degli italiani nei confronti dell’ambiente (soprattutto se raffrontata con la sensibilità vigente nei Paesi germanofoni: a mancare è il mito del primigenio, della wilderness, della foresta primordiale – Urwald – né possiamo dire d’avere alle spalle la caratura “ambientale”del romanticismo tedesco). Alle nostre latitudini prevale invece l’idea di “bosco pulito”, privo di quel caos creativo che ne sancisce la magnificenza. Colgo l’occasione per precisare come il disastro occorso nel Nord-Est a seguito della tempesta “Vaia” è solo in parte da attribuirsi all’eccezionalità dell’evento meteorologico: foreste miste e disetanee resistono meglio delle monocolture artificiali (ma forse i turisti perderebbero le loro rassicuranti cartoline…). Eppure, nonostante lo sconfortante panorama complessivo, una delle poche sponde l’abbiamo infine trovata nel Dipartimento Dafne dell’Università della Tuscia: il 10 dicembre 2019 si è infatti svolto a Viterbo un importante convegno nel segno dell’interdisciplinarità denominato “Perché conservare le foreste”, che ha visto la partecipazione del sottoscritto in qualità di relatore. È grazie al team di quella Università, sotto la guida esperta del Prof. Gianluca Piovesan, che possiamo ammirare gli alberi più antichi d’Italia e d’Europa (tra i più noti: il pino nero abbarbicato su un costone della Majella, accreditato di 900 anni; il pino loricato “Italus”, che con i suoi 1230 anni risulta essere l’albero più antico d’Europa che sia stato sottoposto ad analisi scientifiche; infine due faggi, denominati “Norman” e “Michele” di 620 anni, scoperti sempre sul massiccio del Pollino. Lo stesso team è inoltre responsabile della scoperta di una decine di faggete vetuste, poi inserite nel Patrimonio Mondiale dell’UNESCO».

«In un Paese distratto e assente, ripiegato nel culto autoreferenziale delle proprie mitologie umanistiche e urbanocentriche, aver scoperto lembi di foreste antiche ha dell’eccezionale e connota l’attività del Dafne come un vero e proprio atto d’eroismo – conclude Infante – In fondo, quel che vogliamo dire con la nostra petizione è che noi dipendiamo dalle foreste, ma oggi sono esse che dipendono da noi: impegniamoci a dare loro voce».

QUI per firmare la petizione

Fonte: ilcambiamento.it

Boschi al macello: è saccheggio totale

Il mondo vegetale sta vivendo una fase di saccheggio totale, in Italia, in Europa e nel mondo. E chi sa che solo in Italia il 45% delle erosioni è dovuto proprio al taglio dei boschi? Eppure non solo non si fanno nulla per arginare il fenomeno, ma si permette alle cose di peggiorare.

Mentre il pianeta collassa per i cambiamenti climatici e una parte dell’umanità si mobilità per cercare di fermare, o se non altro rallentare, questo fenomeno umano, appare al contrario come lo sfruttamento economico sulle risorse naturali non conosca freni nè frontiere. A farne le spese sono proprio i nostri salvatori, gli organismi che per eccellenza offrono una delle soluzioni più rapide ed indolori ai cambiamenti climatici: gli alberi.

Il mondo vegetale sta vivendo una fase di saccheggio totale, le foreste sono bruciate dall’America Latina all’Africa per creare coltivazioni intensive di proprietà delle multinazionali, i cui prodotti sono poi consumati senza alcun ritegno o rimorso proprio da noi consumatori. In Russia e Canada grandi distese di foreste sono trasformate in carta e legna da ardere, le miniere radono al suolo colline e pianure. Lo sviluppo urbanistico sostituisce alle foreste dell’Asia palazzi, strade, parcheggi e centri commerciali ma anche in Europa si aprono sempre più vasti fronti di disboscamento, dalla Polonia ai Balcani dalla Germania alla Francia migliaia di tronchi crollano sotto i colpi mortali di motoseghe ed escavatori. Le foreste sono tra i principali serbatoi di carbonio del pianeta. Esse immagazzinano circa 289 gigatonnellate (Gt) di carbonio negli alberi e nella vegetazione. Il carbonio immagazzinato nella biomassa forestale, nel legno secco, nello strame messi insieme è maggiore di tutto il carbonio nell’atmosfera.  A livello globale, lo stock di carbonio nella biomassa forestale si stima che tra il 2000 ed il 2010 sia diminuito di circa 0.5 GT all’anno, principalmente a causa della riduzione del totale della superficie forestale (fonte FAO). In Italia viene sbandierato l’aumento della superficie boscata, con dichiarazioni di politici e amministratori che si dicono pronti a voler recuperare la superficie un tempo coltivata strizzando l’occhio alle agroindustrie e agli speculatore del legname, mentre dispensano sorrisi forzati e abbracci falsi per i movimenti ambientalisti che ora iniziano a far sentire la loro voce. Il fatto è che in gran parte del nostro territorio nazionale i boschi e le foreste sono visti e utilizzati quasi esclusivamente come risorsa economica. Se è vero che la superficie boscata è aumentata nel corso degli anni, è altrettanto vero che la qualità di tali ambienti lascia a desiderare. Ovunque, su Prealpi ed Appennini si praticano tagli cedui utilizzando macchinari enormi. Proprio recentemente è apparsa la reclame di una di queste mostruosità distruggi-vita che non lasciano in piedi un arbusto, alterano il suolo in modo devastante (occorrono parecchi decenni per rigenerare un solo compromesso dal passaggio di alcuni di questi mega trattori) riempiono l’aria di gas serra e procedono con velocità sempre maggiori nello sterminio della vegetazione. Il taglio ceduo poi lascia dietro di sé pochi e stenti alberi, leggi permissive e scarso controllo contribuiscono a produrre il resto del danno.

Fianchi interi di colline nel Chianti e nel Mugello, dalle Langhe alla Liguria sono compromessi, nessun castagno, quercia, carpino è al sicuro. Mentre la Regione Toscana dichiara l’emergenza climatica, fiumi rigogliosi di vegetazione riparia sono trasformati in deserti, leccete secolari e perfino territori demaniali protetti sono trasformati in biomasse che alimentano le tanto sdoganate centrali, che per funzionare divorano migliaia di metri cubi di legna in tutta la regione. in Italia i boschi che vengono sottoposti a tagli cedui sono il 43% del totale ma se guardiamo esclusivamente ai boschi di latifoglie, ovvero tutti i boschi tranne quelli di conifere il taglio ceduo è operato sul 70% della superficie. Si tratta di un dato apocalittico e basta pensare che dagli studi emerge come il 45% delle erosioni nel nostro paese è dovuto al taglio del bosco. Tutto ciò si traduce in due semplici parole: dissesto idrogeologico. Ovvero la possibilità concreta di alluvioni, smottamenti e frane. È curioso constatare che gli stessi tecnici e politici che spingono verso un maggiore sfruttamento boschivo, sono gli stessi che chiedono più soldi per opere di contrasto al dissesto idrogeologico e che spingono alla cementificazione e all’artificializzazione dei corsi d’acqua e dei versanti. Gli alberi che comunicano tra loro usando i funghi come ponte, gli alberi che sorreggono il suolo del nostre montagne e le sponde dei nostri fiumi, gli alberi che abbassano anche di 6°C la temperatura delle città durante l’estate, gli alberi che danno rifugio a centinaia di specie diverse, dagli insetti agli uccelli passando per rettili e mammiferi, gli alberi antichi che hanno vissuto dal tempo dei dei crociati potrebbero non sopravvivere ai crociati moderni, i predoni delle agromafie, delle multinazionali (che poi sono la stessa cosa). Le foreste potrebbero sparire a causa di scaltri o incompetenti politici per finire in qualche centrale elettrica a biomasse, nel pellet e nella legna delle pizzerie, nei camini. Per formare tutto questo ognuno di noi ha voce in capitolo, piantare nuovi alberi è un azione straordinaria di amore verso la natura e di rispetto per le generazioni future ma non basta. Infatti è necessario prima di tutto ed immediatamente fermare il disboscamento e la deforestazione. Se non se non agiremo in tal senso sarà come curare un raffreddore camminando in costume da bagno nella neve, ma convinti che una tisana calda sistemerà il malanno. Gli alberi sono vittime nel nostro presente, gli alberi e le foreste dovranno essere i protagonisti del nostro futuro.

Fonte: ilcambiamento.it

Il saccheggio della Toscana

La Regione Toscana lancia il suo affondo finale nei confronti della protezione ambientale e della tutela del paesaggio, e lo fa in grande stile. Dopo un crescendo di attacchi politici e legislativi che si protrae da anni, ora la giunta regionale sembra arrivata a una frenesia di distruzione.9629-10399

Ma andiamo a vedere nel dettaglio di cosa si tratta e quali sono le drammatiche e disruttive scelte che la Regione ha preso e le pratiche ecodistruttive che promuove.

Partiamo dalla questione lupi, che è stata in gran parte fomentata proprio dalla becera politica regionale sia di maggioranza sia di alcune parti dell’opposizione. I lupi, si sa, sono molti in Toscana, e così i problemi che si riscontrano a causa del predatore con la pastorizia in Appennino, ma anche molte sono le soluzioni, già utilizzate altrove e anche da molti allevatori toscani, e di comprovata efficienza, come i cani da guardianìa, i recinti elettrici e disturbi di vario tipo.

Ma la Regione è la capofila a chiedere a gran voce l’abbattimento dei lupi, e prosegue ciecamente in questa direzione nonostante gli stop che da più parti, anche da istituzioni nazionali, vengono imposti per salvaguardare una specie simbolo della biodiversità e della lotta all’estinzione dei grandi carnivori. Superlative nella loro rozzezza le dichiarazioni di taluni amministratori, come quelle dell’assessore all’agricoltura Remaschi, che sbraita contro l’Europa affinché venga finalmente aperta la caccia ai lupi.

Passiamo ad un altro argomento assai spinoso. L’annullamento delle Province fa sì che la Regione Toscana decida un accorpamento delle competenze sulle riserve naturali un tempo provinciali. Queste riserve sono distribuite in tutto il territorio e in molti casi tutelano degli autentici gioielli ambientali, come la Riserva Naturale dell’Alto Merse, in provincia di Siena, che ospita paesaggi intatti, torrenti ricchi di biodiversità in cui fino a pochi anni fa viveva una piccola popolazione di lontre; come la Riserva Naturale di Castelvecchio, dove si annidano su uno sperone di roccia e in mezzo a foreste di lecci e cerri le magnifiche rovine di una città medievale. Sono solo due esempi di decine di luoghi importanti e preziosi, che avrebbero potuto rappresentare la vera essenza del territorio toscano. Ma queste riserve naturali, già in parte abbandonate a sé stesse dalle amministrazioni locali, una volta passate in mano alla Regione sembra che non valgano proprio nulla, dato che nella nuova legge regionale 30/2012 e nel quadro di bilancio per le aree protette il finanziamento destinato al loro mantenimento e salvaguardia è pressoché nullo, e si parla con insistenza della necessità di privatizzazioni.

Molte aree protette verranno invece date direttamente in gestione alle amministrazioni locali, assolutamente prive di risorse e di capacità tecniche per creare una gestione lungimirante e continuativa.

Ma non basta, a questo bisogna aggiungere che la vigilanza volontaria (le guardie volontarie ambientali e zoofile di associazioni come WWF, LIPU, ENPA ecc.), importante e gratuito baluardo contro i reati ambientali, e sostegno utilissimo di forze dell’ordine e magistratura, nel passare sotto il controllo della Regione vedono il loro ruolo notevolmente ridimensionato, la loro capacità operativa annullata in molti casi, l’aiuto finanziario per le spese vive (divise ecc.) volatilizzato. In coerenza con una politica nazionale in cui il Corpo Forestale dello Stato viene trasferito, o è meglio dire accartocciato in una informe realtà con compiti anche molto diversi da quelli della tutela e del controllo ambientale.

E non è ancora finita. La Regione, presidente Rossi in testa, annuncia: “Mai più fiumi a briglia sciolta” e stanzia 40 milioni di euro (in gran parte provenienti dall’Unione Europea e destinati a ben altro uso) per fare cosa? La cementificazione dei fiumi. Proprio così: creare dighe su fiumi e torrenti.

Questo denaro sarebbe in realtà fatto rientrare in maniera incongrua tra le spese per il Piano di Sviluppo Rurale 2014-2020 nell’ambito del “Sostegno alla prevenzione di danni arrecati alle foreste da incendi, calamità naturali ed eventi catastrofici”.  E cosa c’entra? Gli eventi catastrofici sono proprio quest’ultimo assalto ai pochi fiumi e torrenti rimasti intatti, un assalto supportato anche da alcuni consorzi di bonifica che da anni stanno distruggendo la vegetazione e la naturalità di questi ambienti, nonostante le critiche piovute dal mondo accademico, da associazioni ambientaliste e da comitati di cittadini. La Regione promuove l’industria del cemento in nome di considerazioni idrauliche false e obsolete ma non promuove la salvaguardia dei fiumi da inquinamento ed erosione. Basti pensare che interi quartieri di Firenze non hanno depuratore delle acque fognarie e che interi bacini fluviali sono sottoposti ad un’erosione selvaggia a causa di pratiche agricole e di taglio forestale fuori controllo, scarsamente regolamentate e completamente ignorate, quando non incentivate, dagli enti regionali.

E, per finire, la ciliegina sulla torta. La Regione Toscana modifica la legge regionale 48/1994 e consente così lo svolgimento di gare e “manifestazioni sportive” di motocross, auto fuoristrada e altri mezzi motorizzati anche fuori dalle strade carrozzabili e da qualsiasi strada (cioè per intenderci nei boschi e simili) e… anche all’interno delle aree protette.

Questo è il colpo finale alla tutela ambientale, la legittimazione di attività vandaliche in completo contrasto con un minimo rispetto dell’ambiente e della natura, con la funzione delle aree protette e con la  loro fruizione da parte dei cittadini che pensano di trovarvi quiete, aria sana, bellezza. Una provocazione trasformata in legge a favore di meschini interessi economici in contrasto con il benessere di tutti e anche in contrasto con lo sviluppo di un turismo ecologico e ambientale. Una provocazione trasformata in legge, una vergogna che ha fatto indignare tutte le associazioni ambientaliste, il CAI che ha emesso un duro comunicato, una parte delle opposizioni che si sono battute con forza contro decisioni arbitrarie e prive di ogni logica. WWF e Legambiente punteranno ad una invalidazione della legge.

Resta evidente però un disegno preciso di destabilizzazione totale della difesa dell’ambiente, una sorta di “Sacco di Roma” legalizzato, che punta a concedere tutto a speculatori, cementificatori, inquinatori.

Da più parte però si registra una forte volontà di creare un fronte comune a difesa di quelli che sono dei baluardi ambientali nella terra degli Etruschi, e che fanno della Toscana un luogo di fascino e di attrazione turistica. Ma fino a quando?

Fonte: ilcambiamento.it

Grecia. Il saccheggio che non ci raccontano

I media ci tengono informati su gran parte di quel che accade in Grecia, ma non ci raccontano il silenzioso saccheggio di coste, laghi, boschi e sorgenti che si sta compiendo lontano dalle telecamere, scrive dalla Spagna Gustavo Duch nell’articolo che segue. Una questione drammaticamente importante, di cui avevamo già parlato a marzo, e che meriterebbe le prime pagine di tutta la stampa internazionale.saccheggio_grecia

I media ci tengono informati su gran parte di quello che accade in Grecia, è essenziale se teniamo conto che questo paese funziona da laboratorio di politiche di salvataggio finanziario più che preoccupanti. Sappiamo che, dall’inizio della crisi, ciascun lavoratore e ciascuna lavoratrice greca hanno perso in media il 40 per cento del loro salario, mentre l’aumento del prezzo dei prodotti di base, come il latte, e quello delle tasse portano a un bilancio familiare insostenibile e insopportabile. Come nel nostro paese (la Spagna), cresce il tasso di disoccupazione, spariscono i sussidi, si tagliano i servizi di base, come la sanità, e si definiscono politiche del lavoro che ci trasformano in paesi “low cost”. Ma vi è un’altra realtà meno conosciuta, o meglio nascosta, di questi esperimenti di salvataggio che dobbiamo conoscere e analizzare, perché i risultati di simili esperimenti in Spagna stanno diventando progressivamente sempre più visibili. Mi riferisco ad un’altra delle imposizioni della troika per ridurre il debito greco: mettere in vendita tutte le risorse naturali o sfruttarle senza limiti. In Grecia i meccanismi utilizzati comportano la modifica di disposizioni di legge che, come dice Roxanne Mitralias, militante ambientalista, “bene o male chiudevano la strada al supersfruttamento delle risorse naturali”. Con le nuove normative, si arriva a mettere in discussione la Costituzione, che impediva lo sfruttamento privato della costa e delle foreste, spiega Roxanne. Per esempio alla fine di gennaio 2013, il lago di Casiopea, nell’isola di Corfù, è stato venduto a NCH Capital e, dalla primavera del 2012, le spiagge si possono dare in concessione per 50 anni, il che presumibilmente scatenerà un’ondata di privatizzazioni che sfocerà nella costruzione di villaggi turistici (assai poco rispettosi della natura) ed esclusivi per la clientela più danarosa. D’altronde, lo sfruttamento delle risorse minerarie sta rendendo la mappa della Grecia caratterizzata da molti luoghi di conflitto. Si parla di sacche di petrolio in mare, che, se saranno rinvenute, non porteranno benefici a nessuno tranne che alle imprese straniere che sfruttano i giacimenti. Nel nord del paese, nella regione di Skouires, da oltre un anno è in corso una grande mobilitazione sociale, repressa costantemente dai corpi speciali della polizia, per difendere i boschi da un progetto (di due imprese, una greca e un’altra canadese) per l’estrazione di oro da una miniera. Una lunga lista, fin troppo simile, la troviamo anche in Spagna, dove vengono ripetute le stesse chimere: petrolio nelle Canarie, miniere a cielo aperto per estrarre oro in Galizia, uranio in Catalogna, fracking in molti punti del nord della penisola. Come in Grecia, bisogna denunciare le due norme che il governo centrale utilizza per servire il territorio su un piatto d’argento e totalmente sventrato a chi vuole approfittarne, per permettere il saccheggio dei nostri beni comuni. Da un lato abbiamo la legge di protezione e uso sostenibile della costa, che sostituisce la legge sulle coste del 1988 e che viola fondamentali principi costituzionali. Ai sensi di questa legge, beni pubblici potrebbero passare nelle mani di investitori privati, resterebbero prive di tutela zone di alto valore come terreni paludosi o paludi marine, e potrebbero essere prosciugate le spiagge per essere inserite in progetti di urbanizzazione. Dall’altro lato, la legge sulla razionalizzazione e la sostenibilità dell’amministrazione locale, la legge Montoro, che, millantando attenzione al raggiungimento di una supposta efficienza, punta a smantellare i sistemi di governo dei piccoli municipi e dei distretti per poter mettere in vendita le montagne e i suoli pubblici che questi comuni o i consigli dei residenti hanno gestito collettivamente nel corso di centinaia di anni. Di nuovo, una legge che dimentica che parliamo di beni di proprietà pubblica, proprietà che, secondo la Costituzione, sono inalienabili, imprescrittibili e insequestrabili. Possiamo consentire la vendita della natura per pagare salvataggi bancari o favorire i guadagni di una manciata di speculatori? Se pensiamo al pianeta come ad un sistema di cui siamo parte, un sistema con boschi e suoli come polmoni e montagne e fiumi come arterie, un sistema in cui conviviamo con una fantastica diversità di esseri viventi e che è l’unica garanzia per la vita dei nostri discendenti, porre l’interesse privato al di sopra di quello pubblico è un fatto di una miopia e una mediocrità tremende. Si profila un’aggressione che forse ai nostri governanti potrà sembrare di scarsa importanza. Con quello che sta accadendo, a nessuno interesserà che vendiamo o bruciamo svariati boschi o arenili, staranno certamente pensando coloro che sono alla testa di questo saccheggio silenzioso. E invece, anche in questo caso, la loro visione delle cose è vecchia e superata. La società ha preso coscienza dell’importanza del più umile degli alberi, come abbiamo visto ad Instanbul, a piazza Taksim, o in mille altri posti.

Fonte: Palabre-ando (Articolo pubblicato anche dal Periodico de Catalunya il 19 luglio 2013.)

Traduzione di Massimo Angrisano: Comune-info