In una visione sistemica ed ecologica, una relazione diversa con la terra richiede una diversa relazione con le persone. È il presupposto da cui prende vita la Permacultura umana che comprende metodi e tecniche di progettazione utilizzabili sia in ambito personale che collettivo. In Italia sta per arrivare una scuola dedicata a questo approccio: un percorso per imparare a prendersi cura delle persone, dei gruppi, delle comunità, partendo dalla cura di sé e prendendo ispirazione dai sistemi naturali. Stiamo vivendo in un periodo molto particolare della storia e della cultura umana. Negli ultimi secoli ed in particolare negli ultimi decenni, la nostra civiltà è stata in grado di raggiungere risultati straordinari dal punto di vista tecnologico e materiale. Eppure ci sono tanti segnali, sempre più evidenti, che qualcosa non sta andando per il verso giusto. L’ultimo è stato quello dell’epidemia di Covid-19, che ha messo in ginocchio il sistema sanitario di tanti paesi e sta provocando enormi problemi economici a milioni di persone in tutto il mondo. In realtà questa epidemia è solo uno dei “nodi” che stanno venendo al pettine e nemmeno il più grave: l’aumento di insoddisfazione e di infelicità nelle persone dei paesi industrializzati (come testimonia il crescente utilizzo di psicofarmaci e di sostanze stupefacenti), gli effetti drammatici del cambiamento climatico, l’erosione delle risorse energetiche e minerarie, la perdita di biodiversità, l’inquinamento pervasivo in ogni angolo del Pianeta, l’economia condannata a crescere all’infinito per non crollare, e l’elenco potrebbe continuare. Ma c’è una buona notizia: la maggior parte di questi problemi sono il frutto della nostra cultura, delle nostre convinzioni e, di conseguenza, delle nostre scelte e delle nostre azioni. Siamo ancora immersi in una cultura che tende a dividere in compartimenti stagni tutti gli ambiti e le discipline, che privilegia un approccio riduzionista nell’analisi dei problemi, che ricerca soluzioni lineari e veloci. Fortunatamente tanti germogli di una nuova cultura sistemica ed ecologica si stanno già sviluppando in parallelo al crollo delle certezze della nostra società consumistica, riduzionista ed iper-tecnologica.
Uno dei germogli più rigogliosi e promettenti è quello della Permacultura. Nata negli anni ‘70 grazie al lavoro pionieristico di Bill Mollison e di David Holmgren, si è diffusa in tutto il mondo grazie al suo approccio che integra sistemi di progettazione e di gestione di insediamenti umani in un modo efficace e sostenibile. Lo scopo della Permacultura non è quello di sfruttare al massimo la terra grazie a mezzi meccanici ed a prodotti chimici, ma quello di imitare la natura, creando ecosistemi che producano cibo in abbondanza e che siano al tempo stesso sostenibili e resilienti. Fin dal principio i pionieri di questo approccio si sono resi conto che avere una relazione diversa con la terra, richiede anche una relazione diversa con le persone. Per questo tra le etiche fondamentali della Permacultura non c’è solo la “Cura della Terra”, ma anche la “Cura delle persone” e l’”Equa condivisione delle risorse”.
La Permacultura Umana esplora si focalizza proprio sulla Cura delle persone e nasce dalla consapevolezza che, in un approccio sistemico ed ecologico come questo, la separazione tra esseri umani e natura, che è implicita nella nostra cultura, tende a dissolversi e ci porta verso un’evoluzione integrale del nostro modo di vivere personale e sociale.
Uno dei primi ad applicare i Principi della permacultura in ambito sociale è stato Rob Hopkins, quando ha ideato il modello delle “Transition Towns” (Città di Transizione) per rendere più resilienti le nostre comunità locali di fronte ai grandi problemi globali del Picco del petrolio e del Cambiamento climatico. Le pioniere della Permacultura Umana sono soprattutto delle donne. Looby Macnamara, Robin Clayfield e Starhawk hanno traslato i principi appresi dal contatto con gli ecosistemi naturali e li hanno applicati con coraggio nell’ambito delle relazioni umane. Il libro più significativo in questo campo è “People & Permaculture” di Looby Macnamara, dove l’autrice ha delineato la meravigliosa cornice sistemica della Permacultura Umana in cui si inseriscono metodi e tecniche di progettazione utilizzabili sia in ambito personale che collettivo. Uno degli aspetti più innovativi ed appassionanti della Permacultura Umana, consiste nell’integrazione di aspetti che nella nostra cultura spesso teniamo separati: la crescita personale e il contatto con la natura, l’evoluzione personale e quella sociale, i modelli di comportamento umano e quelli degli ecosistemi naturali. Questa integrazione è una sorta di meta-messaggio che ha un effetto sul nostro modo di pensare, di sentire e sulla percezione delle relazioni con i diversi contesti della vita ancora prima di utilizzare metodi di progettazione.Fino ad ora in Italia la Cura delle persone utilizzando i Principi della Permacultura non aveva avuto molto spazio, ma adesso questo vuoto è stato colmato dalla nascita della Scuola di Permacultura Umana. Una scuola nata dalla collaborazione fra l’Associazione Culturale Albero della Vita e Permacultura e Transizione, che in settembre 2020 comincerà le sue attività con il primo “Corso Annuale Online di permacultura personale e sociale”. Un’iniziativa che ci auguriamo possa rendere ancora più ricco l’ecosistema del cambiamento culturale italiano.
La Transizione può salvare il mondo dalla
distruzione annunciata? È la domanda che è stata rivolta a Rob Hopkins,
insegnante di permacultura e fondatore del movimento delle Transition Towns,
nell’ambito di un’intervista che vi proponiamo. L’insegnante in permacultura Rob Hopkinsè conosciuto per
aver fondato nel 2006 a Totnes, Inghilterra, il “Transition network” o
Movimento di transizione. Partendo dalla costatazione dell’inevitabile
esaurimento delle energie fossili e del loro impatto ambientale negativo, tale
movimento sostiene la transizione verso un modo di vita più resiliente, che
impari a fare a meno del petrolio, rilocalizzare le attività, sviluppare la
auto-organizzazione e che promuova la giustizia sociale. Il movimento da allora
si è espanso e le città di una cinquantina di paesi diversi sono entrate nella
rete di Transizione. Di passaggio a Parigi, Rob Hopkins, ha tenuto una
conferenza alla Recyclerie il 21 Novembre. Ne abbiamo approfittato per
domandargli se la Transizione potrebbe salvare il mondo dalla sua
distruzione annunciata.
A 12 anni dalla sua
fondazione, quanto si è diffuso il Movimento di Transizione? Si parla di più di
1500 gruppi in Transizione iscritti…
Non è facile
quantificarli, in quanto esistono molti gruppi che non sono iscritti al nostro
sito. Ad esempio in Giappone abbiamo quattro gruppi iscritti sul nostro sito,
mentre ce ne sono 70 iscritti in quello giapponese. Abbiamo gruppi in una
cinquantina di Paesi. Tutti i Paesi europei hanno gruppi di transizione. I più
attivi sono forse in Belgio, Germania, Giappone, Svezia… Si stanno sviluppando
anche delle organizzazioni nazionali, come Transition Italia. Ma grosso modo l’ordine di grandezza è quello. Cinque
o sei anni fa il numero di gruppi cresceva in modo esponenziale. Il film Domani ha fatto accelerare la nascita di gruppi in Belgio,
dove si stavano sviluppando diverse iniziative. Oggi nascono meno gruppi ma
quelli già esistenti approfondiscono ancora di più la loro transizione, sono
sempre più attivi. Vediamo emergere delle reti di città in transizione, che
esplorano modi di lavorare insieme.
Avete parlato del
film Domani: nel seguito di questo documentario, Dopo Domani, Laure Noualhat e
Cyril Dion fanno un bilancio della Transizione e concludono che per far sì che
funzioni, devono essere coinvolti tutti gli attori: cittadini, amministratori,
imprese…
In un mondo ideale
certamente sì: la finanza, la politica e la comunità che si mobilitano insieme
permettono di avanzare. Ma anche se non ci sono tutti gli ingredienti si può
comunque cucinare un piatto delizioso arrangiandosi con le risorse disponibili.
A volte incontro dei sindaci o degli amministratori locali, che mi dicono: “Ci
piacerebbe molto avviare una Transizione ma non ci sono gruppi esistenti in
città”. In altri posti sono i gruppi in Transizione che si lamentano del
mancato sostegno della municipalità. Ma vorrei consigliare alle persone
motivate di mobilitarsi comunque. Nella mia città, Totnes, la maggior parte di
quello che abbiamo fatto è nato con pochissimo sostegno da parte del consiglio
municipale. Crescendo come comunità siamo riusciti a generare l’energia
necessaria per realizzare i nostri progetti.
“Le idee e le
possibilità fioriscono grazie al lavoro democratico realizzato a monte”
Il miglior luogo al
mondo per osservare una Transizione come io me la immagino, penso sia
Barcellona. Là il movimento municipale reinventa la città e la democrazia.
Hanno creato un’impresa energetica per la città al 100% da fonti rinnovabili
che appartiene ai cittadini e sviluppano dei meccanismi che permettono alle
persone di investire e di finanziare in comunità dei progetti. Inventano
moltissime iniziative di quartiere, le idee e le possibilità fioriscono grazie
al lavoro democratico realizzato a monte. Amo anche molto quello che succede a
Liège, il loro modo di reinventare il sistema alimentare con il forte sostegno
della municipalità.
Totnes, la città
inglese culla del movimento di Transizione
La Transizione non
è una preoccupazione da privilegiati? Bisogna che anche i disagiati abbiamo il
tempo e i mezzi per potersi impegnare su questi temi.
Credo che su questo
pianeta molte delle cose straordinarie emergano di fatto in zone povere. Nel
sud povero degli Stati Uniti, come a Jackson, nel Missisippi, dove esiste
l’incredibile progetto “Cooperation Jackson”, o a Cleveland, nell’Ohio. In
queste città molto povere, a maggioranza nera e dove il tessuto industriale è
scomparso, le persone si sono auto-organizzate in cooperative. Si sono ispirati
al movimento di Transizione, con una dimensione di giustizia sociale espressa
più che esplicitamente. Quello che può succedere in comunità con poco denaro è
stupefacente. Certamente, i gruppi di Transizione sorgono quando ci sono tempo,
spazio, energia e fiducia. Non sempre esistono tutti questi elementi ma alcuni
riescono a trasformare gli inconvenienti in vantaggi. In Scozia, per esempio,
un movimento di Transizione si è formato all’Università malgrado la grande
mobilità della popolazione. Con un terzo delle persone che si rinnovano ogni
anno ciò avrebbe potuto essere uno svantaggio ma è stato utilizzato come una
forza.
Credete che si
possa cambiare di scala in tempo? Malgrado tutte queste iniziative il movimento
resta marginale e sembra molto lontano dal rispondere all’appello urgente degli
scienziati. L’inquinamento aumento, la biodiversità sparisce, il clima si
dirige verso un riscaldamento di 4/5°C da qui alla fine del secolo…
Sì, assolutamente.
Bisogna individuare i buoni esempi e imparare da loro per salire di scala.
Abbiamo una finestra di azione molto ridotta descritta dal Giec, qualche
settimana fa (il rapporto speciale del gruppo di esperti intergovernamentale
sull’evoluzione del clima pubblicato l’8 Ottobre stima che dovremmo
abbassare le nostre emissioni di CO2 del 45% entro il 2030, ndr).
“Fantastico!
Abbiamo l’occasione eccitante di reinventare tutto”
La grande sfida,
per me, consiste nel comprendere perché non reagiamo collettivamente,
dicendoci: “Fantastico! Abbiamo l’occasione eccitante di reinventare tutto”.
L’immaginazione gioca un ruolo essenziale per guidare le nostre reazioni.
Abbiamo gli esempi sotto gli occhi, come Jackson, Barcellona, Bristol e
Manchester hanno dichiarato l’urgenza climatica e stanno riesaminando l’insieme
delle loro politiche municipali nell’ottica di questa urgenza. Se mettiamo
insieme tutti i pezzi del puzzle, abbiamo una discreta visione di quale
dovrebbe essere la risposta giusta.
Parlate del ruolo
dell’immaginazione e predicate instancabilmente un messaggio di ottimismo. Cosa
rispondete a chi sottolinea il rischio che un simile messaggio favorisca coloro
che negano la portata del pericolo e attenui la consapevolezza dell’urgenza?
Bisogna essere
prudenti in questo. Le parole che utilizziamo hanno un impatto importante. Se
parliamo di disperazione, di crollo e diciamo che è troppo tardi, paralizziamo
completamente la conversazione e diventa molto difficile essere creativi e
fantasiosi. C’è molta disperazione oggi, ed è giustificata. È difficile non
disperarsi leggendo le informazioni sul clima… Ma se è troppo tardi questo
significa che non ci resta che gestire il lento degrado di tutto. E il modo
migliore di governarlo è essere creativi. C’è sempre una opportunità per
evitare il peggio. Il Giec ci dice che bisogna reinventare tutto: questo
necessita di uno sforzo collettivo di immaginazione.
“Il capitalismo
distrugge la vita sul pianeta. Dunque, piuttosto che di innovazione preferisco
parlare di bisogno di immaginazione”.
Il governo dice in
continuazione che è una questione di innovazione. Ma non è così. L’innovazione
si fa quando il modello fondamentale su cui questa si basa è funzionante.
Potete innovare con nuovi ingredienti la vostra pizza se avete una buona pasta,
poiché il modello fondamentale funziona. Ma la base al giorno d’oggi, il
capitalismo, non funziona, distrugge la vita sul pianeta. Dunque, piuttosto che
di innovazione preferisco parlare di bisogno di immaginazione.
L’immaginario del
capitalismo è oggi molto potente, con la promessa fortemente radicata di un
consumo esponenziale di beni e di servizi. Come stimolare un nuovo immaginario?
Le persone sono
stanche, spaventate e prive di ispirazione. La mia analisi è che viviamo una
crisi dell’immaginazione. Il nostro sistema educativo non produce persone che abbiano
fantasia. Forse è stato così un tempo ma non è più così adesso. L’economia
mondiale è in guerra contro l’immaginazione, crea solitudine, ansia e stress
nelle persone, che pensano solo in quanto consumatori. Passiamo sempre meno
tempo nella natura. L’impatto degli smartphone e dei social è molto forte.
“Cantate, scrivete
delle poesie, disegnate, girate dei film, rendete tutto questo vivo”.
Troppo spesso le
persone che si battono per questo mettono l’accento sulla distopia. Ma a cosa
serve? Aiutatemi piuttosto ad immaginare come potrebbe essere un mondo diverso.
Quando i politici dicono: bisogna ridurre le nostre emissioni fossili dell’80%
entro il 2040, come posso immaginare in che modo potrebbe essere? Raccontatemi
delle canzoni su questo, scrivetene delle poesie, disegnatemelo, fatene dei
film, rendete tutto questo vivo. Ho recentemente incontrato dei ricercatori che
lavorano sulle dipendenze. Hanno lavorato con delle persone in sovrappeso che
consumano troppo cibo mal sano, aiutarli dicendo a loro di mangiare di meno,
non funziona assolutamente. I ricercatori hanno invece lavorato sulla loro
immaginazione stimolando tutti i loro sensi. I pazienti si sono visualizzati
che correvano, ascoltavano il canto degli uccelli, sentivano i loro corpi e i
muscoli svilupparsi e reagire positivamente, hanno immaginato di rientrare a
casa soddisfatti del loro sforzo… Presentare a loro un quadro d’insieme a ciò
che potrebbe assomigliare ad una alternativa, ha stimolato maggiormente i
pazienti a rinunciare al gelato al cioccolato. I movimenti ecologisti fanno
spesso l’errore di non raccontare una storia che sia veramente affascinante ed
entusiasmante. A descrizione di ciò che potremmo essere, potrebbe capovolgere
la situazione.
Piante commestibili
nelle aiuole sparse in ogni angolo della città di Totnes: è questo il progetto
“Incredible Edible”
Un simile cambio di
paradigma può fare a meno della politica? Il vostro messaggio vuole unire e non
dividere ma l’immaginario che volete rovesciare oppone una resistenza attiva…
Effettivamente
alcuni pensano che la transizione non sia sufficientemente attivista e rumorosa
e non si occupi abbastanza della politica. Io rispondo che la transizione è
molto politica in quanto è dimostrazione e sperimentazione di cose che
marciano. Questo weekend a Londra c’è stata una grande giornata di azione del
movimento Extinction Rebellion (sabato 17 novembre migliaia di manifestanti
hanno bloccato cinque ponti londinesi come richiamo al governo ad agire d’urgenza
per il clima, ndlr). Mia moglie era lì e ha fatto parte delle persone
arrestate. Molte delle persone coinvolte nella Transizione, fanno anche parte
di questo movimento.
“Abbiamo persone
appartenenti a tutto lo spettro politico che sono implicate”
Ma se la
transizione diventa vendicativa e contestatrice, perdiamo molte persone. La
Transizione non è che un mezzo, concepito per funzionare in una comunità e per
funzionare al di sotto dei radar della politica, per attirare più persone
possibile. Alcuni vi trovano degli elementi “verdi”, altri una contestazione di
sinistra, abbiamo persone di tutto lo spettro politico che sono implicate per
far cambiare qualcosa di veramente importante per loro. Dunque quando si
critica la Transizione per la sua mancanza di radicalità o di politica, è come
rimproverare ad un cucchiaio di tagliare male il pane. Abbiamo attrezzi
differenti per ogni cosa…
Per certi
ecologisti radicali, chiedere degli sforzi alla popolazione fa il gioco del
capitalismo esentando le grandi imprese, maggiori responsabili
dell’inquinamento, dalle loro responsabilità. Rivendicate una maggiore
efficacia appellandovi sia all’immaginazione che al pragmatismo?
Mi si dice spesso
che il pragmatismo non funzioni mai a meno che non affrontiamo dapprima il
capitalismo. Credo che sia una scusa per non fare nulla. Come faccio per
distruggere o cambiare il capitalismo in casa mia, nella mia città? Se prendete
quest’obiettivo complesso e lo dividete in tanti piccoli pezzi, ci sono molte
cose che si possono fare localmente. Forse possiamo creare la nostra banca,
forse possiamo spingere la nostra economia locale e indipendente, fare
ingrandire le fattorie della comunità, fare in modo che il denaro resti quì e
non vada verso delle multinazionali che lo depositeranno nei paradisi fiscali. Credo
che si possa iniziare ad abbattere il capitalismo se gli si oppone una
meravigliosa alternativa, qualcosa di più di quello che lui offre. Il
capitalismo produce solitudine, isolamento sociale, miseria ed ansia. Al suo
posto si possono creare dei progetti che uniscono le persone, che creano nuovi
impieghi, che permettano di investire il vostro denaro altrove, che diano
accesso ad una migliore nutrizione che le persone possano pagarsi. È questa per
me la risposta al capitalismo.
I collapsologi
difendono le vostre stesse soluzioni ma con un messaggio diverso: il crollo
della nostra civilizzazione è molto probabile i nostri sforzi di adattamento
devono servire soprattutto alla resilienza del “dopo”. Voi insistete sul
messaggio ottimista ma, in fondo, condividete la loro idea?
Dipende da cosa
intendiamo per crollo. Se vivete a Porto Rico o in Siria, il crollo ha già
avuto luogo… Anche in alcune comunità della banlieue parigina è in corso. In un
certo senso parlare di crollo è un privilegio di coloro che possono permettersi
di osservarlo. Se andate a Detroit, a Jackson, questi posti si sono sgretolati
e le persone si sono chieste che fare. Radunarsi e liberare le immaginazioni ha
permesso loro di reagire e di avere degli approcci molto creativi. Non sono
sicuro che la collapsologia possa suscitare la stessa reazione. Se comincio una
transizione nella mia città dicendo: “Presto tutto crollerà, venite tutti ad
impegnarvi”, attirerò una piccola parte della popolazione. E se nel giro di tre
anni il crollo non avviene, ci diranno che avevamo torto. A mio avviso, quello
che mobilita le persone è una descrizione sul futuro che ancora è possibile
creare. Questo futuro può comportare una parte di crollo, ma bisogna parlarne
in modo positivo, eccitante: bisogna dare alle persone delle cose di cui
abbiano voglia.
George Ferguson è il sindaco di Bristol, una grossa città del sud dell’Inghilterra di quasi mezzo milione di abitanti, e il suo salario annuale ammonta a circa 50mila sterline. Al momento della sua elezione, nel novembre del 2012, Ferguson ha annunciato che questa somma gli sarebbe stata corrisposta in Bristol Pounds, la moneta alternativa di Bristol. Il Bristol Pound è la moneta locale più diffusa in Inghilterra, ma non certo l’unica. Ne esistono anche a Totnes, Brixton, Lewes, Stroud. E sapete cos’hanno in comune queste località britanniche? Sono tutte Città in Transizione.
Transizione… Ma verso che cosa? E con quali modalità, coinvolgendo chi? Sono queste le prime domande che, ormai quasi dieci anni fa, un giovane insegnante di permacultura della provincia inglese ha rivolto a se stesso, consapevole della necessità di avviare un grande processo per modificare la società e traghettarla verso il cambiamento a cui il mondo sta ineluttabilmente andando incontro. Il nome di questo insegnante è Rob Hopkins, co-fondatore del movimento delle Transition Towns. Il punto di partenza è un ragionamento tanto semplice quanto cruciale: la società attuale dipende quasi interamente dai combustibili fossili, in particolare dal petrolio. Come teorizzò ormai quasi cinquant’anni fa il geofisico Marion King Hubbert, il picco del petrolio è già stato raggiunto e questo vuol dire che le riserve dell’oro nero stanno cominciando a esaurirsi e d’ora in poi sarà sempre più difficile e costoso estrarlo. A questo, si accompagna un degrado dell’ecosistema che ha raggiunto livelli allarmanti, come testimoniano i pesanti cambiamenti climatici in corso. Che fare quindi? Le conclusioni sono quasi obbligate: è necessario avviare la costruzione di una nuova società che non sia più oil addicted, ma che faccia ricorso alle numerose soluzioni alternative ed ecologiche di approvvigionamento energetico e di reperimento delle materie prime.
Ma da buon permacultore, Rob sapeva che non si può modificare una comunità concentrandosi su un solo obiettivo, appartenente a un singolo ambito. Ecco quindi che una città resiliente deve anche ripensare la propria politica finanziaria, dotandosi di uno strumento monetario che, come ha detto uno degli ideatori del Bristol Pound, sia «creato dai cittadini per i cittadini». Anche il comparto produttivo e commerciale deve essere oggetto di intervento, creando filiere locali che consentano alla ricchezza generata di rimanere sul territorio. Non si può poi prescindere dall’educazione: scuole e università devono preparare i ragazzi alle buone pratiche, senza limitarsi alla teoria e insegnando anche il “saper fare”. E che dire dell’urbanistica, dell’edilizia, dei trasporti, dell’informazione, dell’accesso ai dati, delle relazioni sociali… «La chiamiamo transizione perché parliamo di un passaggio», ci ha spiegato Rob Hopkins quando lo abbiamo incontrato a Bologna lo scorso ottobre, durante la sua visita in Italia organizzata da Transition Italia. «Un passaggio dal modello attuale, che ci conduce al suicidio climatico, a un modello compatibile, che ci porta verso una vita serena e sana su questo pianeta». Ma questo non è che il punto di partenza: «Per me la transizione ha a che fare con la costruzione di un sistema culturale ricco, abbondante, locale, resiliente. E soprattutto col vedere le sfide di questi tempi come opportunità per stimolare la nostra creatività e la nostra originalità».
In occasione del suo viaggio a Bologna, Rob ha incontrato studenti dei licei e dell’università, i maggiori rappresentanti istituzionali del Comune e dell’Alma Mater, mass media, attivisti e semplici cittadini. Come un vento rinfrescante, con l’ironia e la semplicità che lo contraddistinguono, ha portato a tutti ottimismo ed entusiasmo attraverso la forza dell’esempio. I suoi incontri infatti, sono sempre stati caratterizzati non solo da spiegazioni teoriche dei nuovi modelli che la transizione cerca di costruire e insediare, ma anche da testimonianze, case history, con tanto di foto e filmati, di ciò che i transizionisti stanno facendo in giro per il mondo. Così, davanti alle espressioni curiose e interessate del sindaco Virginio Merola e del prorettore Dario Braga, il papà della Transizione ha raccontato delle edible bus stops di una linea di Londra, ovvero le fermate del bus “commestibili”, cioè corredate di piccoli orti con verdure piantate e coltivate dai residenti della zona a disposizione degli utenti dell’autobus. Oppure del Bristol Pound di cui abbiamo parlato all’inizio, la moneta complementare di Bristol, che dopo aver avuto l’approvazione della Bank of England, viene ora accettata da più di 650 negozi e ha un sistema di pagamento elettronico e on-line. O ancora, il Local Entrepreneur Forum, un tavolo che favorisce l’incontri di investitori e imprenditori che vogliono avviare attività sociali, sostenibili, resilienti e finalizzate a creare benessere nel territorio. Sono queste iniziative che possono essere ricondotte all’idea della REconomy. «Verso il 2010 – racconta Rob in proposito –, è emerso questo concetto. Abbiamo capito che la transizione era una cosa seria e ambiziosa, perché ci chiede di reinventare il modo con cui ci alimentiamo, produciamo energia, viviamo. Per questo motivo, era necessario creare anche un nuovo modo di fare economia: generare nuovi posti di lavoro, avviare nuove attività di imprenditoria sociale, trovare nuove modalità di investimento del denaro. C’era bisogno di canalizzare le risorse al fine di rendere possibile nel mondo reale questo cambiamento».
Parallelamente, si è sviluppato l’aspetto della transizione interiore: «La transizione non è solo pannelli solari e carote biologiche! C’è bisogno di creare una cultura resiliente e sana del lavoro di gruppo, allo scopo di risolvere gli storici problemi legati all’attivismo, che è soggetto a un alto rischio di bruciarsi dopo la spinta iniziale. Per questo motivo abbiamo cominciato a chiederci come potevamo progettare la nostra attività in modo da sostenerci a vicenda e questa idea della transizione interiore è stata per molti aspetti il punto di svolta. Spesso, quando viaggio e incontro le persone, mi sento dire: “la transizione è fantastica, bravo Rob, hai fatto una cosa splendida!”. Ma non li ho fatti io tutti quei progetti, in Brasile, a Brixton, a Bologna, in Giappone. Ovunque la risposta che vedo è che la transizione si adatta al territorio e alle passioni delle persone che lo abitano. Io sono un po’ come un’ape che se ne va in giro a raccontare storie. E adesso ne avrò una in più di cui parlare e riguarderà ciò che state facendo voi a Bologna, in Italia». Già, l’Italia… «Qui l’economia è un disastro e continua a peggiorare. Però la vedo come un’opportunità, una possibilità da parte del vostro paese di posizionarsi come prima economia post-crescita. Se solo fossimo capaci di abbandonare l’obiettivo della crescita, la pretesa tornare a un’epoca impossibile. Qui c’è una cultura del cibo straordinaria, ci sono enormi potenzialità per le energie rinnovabili, grandi capacità manuali e pratiche. Basta guardare dalla giusta prospettiva e l’Italia potrebbe diventare la Silicon Valley di una nuova economia». Questo è un invito. Di più, è un’esortazione, quasi una sfida che ci viene posta. Gli strumenti ci sono, le potenzialità e le risorse anche. Adesso spetta solo a noi.
Rob ci lascia con una conclusione che tradisce lo squisito british humor con cui ha conquistato tutti in giro per il mondo, ma che cela anche una grande verità. «Non c’è garanzia che il lavoro che stiamo facendo abbia l’effetto che vogliamo. Del resto, se ci fosse la certezza che andrà tutto bene sarebbe noioso e non ci sarebbe motivo di farlo. È qualcosa che sentiamo di dover fare anche, soprattutto, perché non sappiamo come andrà a finire».