La rete di comuni che combatte lo spreco istituendo un nuovo Centro del Riuso

Allungare il ciclo di vita dei beni con vantaggi per l’economia e per l’ambiente: nel cuneese è nato il Centro del Riuso, un servizio pubblico gratuito e accessibile a tutti che coinvolge una cinquantina di Comuni attraverso una rete diffusa. In questo modo chi possiede oggetti inutilizzati dona e chi ha bisogno preleva, rendendo il recupero una cultura sempre più condivisa. Pensiamo alle decine di oggetti che popolano le nostre case e che finiamo per buttare nonostante siano ancora utilizzabili e in buono stato. In molti casi li sostituiamo con prodotti nuovi, liberandocene con soddisfazione e facendo terminare la loro vita in una discarica, senza pensare al reale utilizzo che potrebbero continuare ad avere. Questi oggetti “vecchi” però non hanno nulla da invidiare ai loro nuovi sostituti e rappresenterebbero invece un’occasione (e di certo una soluzione) per persone e famiglie che ne hanno bisogno e nelle cui mani potrebbero rinascere. Da questa riflessione a Cuneo è nato il Centro del Riuso, un nuovo servizio per i cittadini di tutti i paesi che fanno parte del Consorzio Ecologico Cuneese: una cinquantina di Comuni che hanno preso parte a un progetto collettivo per contribuire insieme a una nuova cultura che vede nel riutilizzo di un oggetto, un processo da lineare a circolare.

Foto di Anastase Maragos tratta da Unsplash

Qui possono ritirare uno o più beni tutti i cittadini, a prescindere dal Comune in cui risiedono: così il centro diventa un luogo dove si possono consegnare e ritirare gratuitamente tutti quei beni usati che sono in buone condizioni di conservazione e che, scartati da alcuni, possono essere ancora utili per altri. «Si tratta di un progetto che coniuga la solidarietà sociale e il rispetto per l’ambiente. Promuovendo la cultura del riuso e rendendo più semplici e regolamentate le occasioni di scambio di oggetti usati fra i cittadini si allunga il ciclo di vita dei beni durevoli evitando che, ancora funzionanti ma magari inutilizzati, diventino rifiuti».

Al centro si accettano piccoli elettrodomestici, stoviglie, elementi di arredo, attrezzature sportive, giochi e oggetti per lo svago, apparecchi elettrici e da ufficio, accessori per l’infanzia e tanto altro ancora. La raccolta prevede il ritiro di massimo di 5 pezzi alla volta, con una frequenza non superiore a 4 prelievi al mese.

Foto di Kevin Andre tratta da Unsplash

Ma come funziona? Coloro che hanno in casa un bene usato, ma che è ancora in buono stato e riutilizzabile, possono consegnarlo agli operatori del Centro, che ne verificheranno le condizioni e lo destineranno al riuso. I beni consegnati verranno poi messi a disposizione di altri cittadini che potranno visionarli anche consultando la vetrina virtuale disponibile sul sito del CEC. Le finalità del Centro del Riuso sono anche la creazione di una struttura di sostegno per fasce sensibili della popolazione e di nuove opportunità di lavoro per persone disoccupate, disabili o svantaggiate. La sua istituzione è pensata, inoltre, per promuovere sul territorio una maggior sinergia tra i centri del riuso e i centri di raccolta dei rifiuti urbani, integrando e rafforzando la dimensione di circular economy. Il progetto mostra così il suo forte impatto grazie alla costruzione di una rete che propone una soluzione economica alternativa e che, a livello di sistema, può concretamente diffondere una sensibilità ambientale. Così il Centro del Riuso di Cuneo diventa un esempio tangibile di economia non soltanto circolare, ma bensì solidale, innescando una strategia win-win dove, tra riuso e solidarietà, vinco io e vinci tu.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/06/rete-comuni-centro-del-riuso/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Abito: scambiare gli indumenti per ricreare vestiti e comunità

A Torino è attivo il progetto “Abito” che, come suggerisce il nome, nasce per “abitare” un vestito ma anche la città: attraverso lo scambio e la trasformazione di vestiti di seconda mano, si occupa di contrastare la povertà e favorire l’integrazione di persone bisognose che, in cambio, mettono a disposizione tempo e competenze a favore della comunità. Più di 1 tonnellata di vestiti raccolti al mese e circa 700 persone sostenute all’anno: sono questi i dati dello storico servizio di distribuzione di abiti donati dai cittadini a Torino, che, dopo più di trent’anni, si è arricchito per trasformarsi in un progetto di inclusione sociale, dove il sostegno materiale è anche relazionale. “Abito” è sì un progetto di scambio di vestiti e attività ma soprattutto è un progetto di inclusione per contrastare la povertà e favorire l’integrazione. È pensato per coinvolge volontari ma anche sostenitori e beneficiari ed enti del territorio per creare una relazione circolare dove ognuno contribuisce con le proprie risorse.

Protagonista di questo progetto è l’associazione San Vincenzo de Paoli, in collaborazione con la Squadra Giovani della Croce Verde di Torino e cofinanziato dall’Unione europea – Fondo Sociale Europeo, nell’ambito del Programma Operativo Città Metropolitane 2014-2020. Il funzionamento è semplice: i cittadini donano i propri vestiti non più utilizzati al progetto Abito, che vengono ridistribuiti a coloro che ne hanno bisogno e che, in cambio dell’aiuto offerto, si metteranno al servizio della comunità, utilizzando parte del loro tempo e delle loro competenze. «Tutto ha inizio dalla donazione di vestiti di seconda mano e in buono stato da parte dei cittadini. Abito raccoglie i capi, li seleziona e li espone nella Social Factory, un vero showroom dove i beneficiari possono sceglierli, provarli e prenderli gratuitamente grazie a un’apposita tessera a punti».

Per ridurre gli sprechi, una parte dei vestiti viene successivamente rigenerata all’interno della sua sartoria popolare. «I capi di abbigliamento scartati, perché danneggiati o non ridistribuiti, vengono riparati o utilizzati come materia prima dalla sartoria realizzata ad hoc negli spazi di Abito» per dar vita a nuove creazioni di moda etica sostenibile. La sartoria popolare è infatti un laboratorio di promozione del saper fare sartoriale che include nuove formazioni professionali. Infine, il progetto prevede lo svolgimento di open days ed eventi di raccolta fondi per sensibilizzare sul tema della moda etica. Attraverso questi momenti i partecipanti possono scegliere tra i vestiti selezionati e contribuire i questo modo a dare sostenibilità economica al progetto. Attraverso un sistema che mira alla sostenibilità sociale, ambientale ed economica, il progetto nasce per stimolare nuove dinamiche partecipative, aiutare le persone bisognose che stanno vivendo situazioni di difficoltà e dar loro maggior dignità. Creando “welfare di comunità”, ogni cittadino contribuisce con le proprie risorse al benessere proprio e delle persone che lo circondano, il tutto superando le dinamiche assistenzialiste e riattivando nuove reti relazionali.

«Gli eventi di raccolta fondi contribuiscono all’autosufficienza del progetto e sensibilizzano i cittadini verso i valori del riuso, dell’upcycling e dell’impegno sociale». E proprio in questo modo, attraverso Abito, si riducono fortemente gli sprechi: attraverso il riuso, la rigenerazione e lo scambio dei capi di abbigliamento usati e di seconda mano, per creare una filiera totalmente a km0.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/09/abito-scambiare-indumenti-ricreare-vestiti-comunita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Il progetto Life HORTISED

DESCRIZIONE

Dimostrazione dell’idoneità di sedimenti dragati bonificati per una produzione vivaistica e frutticola sicura e sostenibile ha permesso di dimostrare l’idoneità dei sedimenti portuali dragati e bonificati ad essere utilizzati come alternativa nella preparazione di substrati di coltivazione nel vivaismo ed in frutticoltura. I sedimenti dragati fitorimediati del porto di Livorno sono stati utilizzati per la coltivazione di fragole, melograno e lattuga, scelte come piante modello e rappresentative per l’ambiente mediterraneo. L’utilizzo di questi substrati decontaminati potrebbe essere esteso anche ad altre specie orto-frutticole. Le piante e i frutti ottenuti, sono stati analizzati seguendo un campionamento accurato e una metodologia analitica idonea ad individuare una vasta gamma di contaminanti e ottenere risultati certi e affidabili per garantire la sicurezza alimentare. Le stesse specie, come controllo, sono state coltivate anche sui tradizionali substrati di crescita a base di torba o simile per permettere una valutazione di questi substrati di coltivazione innovativi.

ATTIVITA’

HORTISED è nato per rispondere alla necessità di ricercare valide e più sostenibili alternative all’utilizzo della torba come substrato per la coltivazione in contenitore di specie alimentari. Lo sfruttamento della torba negli ultimi 25 anni ha causato gravi problemi nelle aree di approvvigionamento. Diversi Paesi hanno stabilito piani ambiziosi per ridurne l’uso in orticoltura fino al 90%,nel periodo2010-2020. Tuttavia i materiali alternativi oggi disponibili (es. corteccia di albero, fibre di legno, fanghi compostati e scarti verdi), non sono sempre soddisfacenti. L’idea alla base del progetto permette inoltre di risolvere il problema dell’accumulo di sedimenti dragati che,se non inseriti in un processo di economia circolare attraverso il fitorimedio, rappresentano un rifiuto con un elevato impatto ambientale. HORTISED ha utilizzatola tecnologia sviluppata nei progetti AGRIPORT (Agricultural Reuse of Polluted dredged Sediments)e CLEANSED(Innovative integrated methodology for the use of decontaminated river sediments in plant nursing and roadbuilding)per la produzione di piante da frutto. Nella tecnica di fitorimediazione AGRIPORT, l’applicazione di piante (specie arbustive ed erbacee) insieme al compost, in due anni ha permesso di ridurre i contaminanti e migliorare le proprietà chimico-nutrizionali e biologiche dei sedimenti marini; inoltre nel progetto CLEANSED si è ottenuto un miglioramento delle caratteristiche dei sedimenti mediante due mesi di landfarming, che ha reso i sedimenti adatti all’attività vivaistica. Sulla base di queste esperienze precedenti, nel progetto HORTISED i sedimenti marini decontaminati mediante tecnologia “AGRIPORT”, sono stati sottoposti a tre mesi di landfarming al fine di omogeneizzare e ottenere caratteristiche migliori (struttura, capacità di ritenzione idrica, aerazione e attività biologica).Durante il processo di landfarming i sedimenti sono stati rimescolati con un escavatore fino a una profondità di 60 cm e aerati settimanalmente per 3 mesi. Il sedimento è stato coperto in caso di pioggia con film plastico onde evitare condizioni di eccessiva anossia e difficoltà nella sua lavorazione. La riduzione della contaminazione organica è stata possibile grazie all’arieggiamento indotto dal processo di landfarming, che ha reso possibile raggiungere una condizione di ossidazione favorevole per la biodegradazione dei contaminanti ad opera dei microrganismi.I sedimenti bonificati sono stati usati come substratonel vivaismo frutticolo (talee di melograno) e come substrato per la coltivazione di piante da frutto e produzione di frutta (fragole e melograno). Le piantine di entrambe le specie sono state piantate in contenitori da 35 litri pieni di tre diversi substrati (sedimento al 100%, sedimento miscelato al 50% con torba tradizionale e torba al 100%)

Successivamente è stata fatta una valutazione delle performances di crescita delle piante allevate sui diversi substrati e una misurazione della eventuale presenza di contaminanti organici e inorganici sulle piante e sulle foglie.

RISULTATI/IMPATTI

I risultati ad oggi raccolti dal progetto confermano l’idoneità del sedimento bonificato miscelato con substrati commerciali tradizionali (dal 50 al 75 % in volume) sia per la produzione vivaistica di talee radicate di melograno che per la produzione di fragole e melagrane, per le quali sono state anche campionate parti di piante (foglie e frutti) per valutare il potenziale livello di contaminazione e il contenuto nutraceutico. Prove analoghe condotte su lattuga hanno messo in luce la difficoltà di utilizzare il sedimento rimediato al 100 % sia per la produzione di semenzali che per l’ottenimento di cespi ai fini alimentari, la miscelazione al 50% in volume ha dato invece risultati molto soddisfacenti. Nell’ambito del progetto sono stati compilati più di 500 questionari e l’82% degli intervistati ha dichiarato che i prodotti “HORTISED sarebbero stati consumati. La compilazione dei questionari ha riguardato anche la valutazione delle piantine di melograno ottenuti dalla coltivazione con substrati a base di sedimenti e il 40% dei clienti intervistati li ha considerati simili al prodotto tradizionale. Tutti i risultati del progetto hanno rappresentato uno strumento utile per fornire le linee guida per l’uso dei sedimenti corretti nella coltivazione e nella propagazione delle colture alimentari. HORTISED ha quindi contribuito, attraverso le sue azioni finalizzate al riutilizzo di uno scarto in orto-frutticoltura,a sviluppare conoscenze mirate all’impiego di sedimenti rimediati per lattuga, fragola e melograno.

Il riuso di sedimenti rimediati porterà ad una riduzione dell’impronta di CO2nel vivaismo e nella produzione orto-frutticola. Il progetto, inoltre,potrebbe contribuire alla revisione delle politiche regionali, nazionali ed europee sull’ambiente (degradazione del suolo ed emissioni di CO2) sull’agricoltura e sulla salute umana (sicurezza alimentare, qualità dei prodotti).

Fonte: www.sinanet.isprambiente.it

Sant’Agabio: il quartiere resiliente che riscopre la bellezza del vicinato

Sant’Agabio è un quartiere della periferia di Novara, conosciuto per le sue numerose problematiche sociali ed economiche. Oggi si è reinventato grazie all’impegno di tutti i suoi abitanti, gli enti e le associazioni che qui vivono e che hanno fatto di Sant’Agabio un vero e proprio quartiere resiliente, dove si valorizza la diversità, si aiuta chi ha bisogno e si mette in pratica l’autoproduzione, stimolando le persone a rimanere e a credere che “insieme si può fare”.

«Viviamo in una società in cui conosciamo centinaia di persone lontane ma abbiamo perso la bellezza del contatto con i nostri vicini di casa». Queste parole rispecchiano un pensiero comune che ci viene spesso testimoniato dalla moltitudine di persone che abbiamo incontrato nei nostri viaggi in giro per l’Italia. Una frase che rivendica il potere della vicinanza, la semplicità del quotidiano e il contatto con chi ci circonda, che ci appaiono ormai come un ricordo d’altri tempi. E proprio oggi, per mezzo della tecnologia, dei social e dei viaggi, siamo sempre alla ricerca di qualcosa più lontano da noi, dimenticandoci che al di là della porta di casa esiste un mondo fatto di persone in carne e ossa che ci circondano e sono tutte da scoprire. Oggi vi raccontiamo la storia di un quartiere che sta ribaltando questo modo di vivere e dove è nata una comunità resiliente che si aiuta e si sostiene, mostrando proprio a quei vicini di casa che prima non si conoscevano la bellezza di incontrarsi fuori dal proprio uscio.

È proprio questo è il caso di una grande storia che nasce come soluzione a un grande problema. Ci troviamo nel quartiere popolare di Sant’Agabio, nella periferia di Novara. Un quartiere caratterizzato da un’alta percentuale di immigrati che rende la convivenza una grande sfida, dai molti giovani che finiti gli studi non riescono a trovare lavoro, dalla solitudine degli anziani, dalla vicinanza con uno dei poli chimici più grandi di Italia che contribuisce alla percezione generalizzata di degrado. Insomma, una quantità così grande di problemi che sembrano non lasciare speranza eppure tre anni fa è successa una magia che sta totalmente rivoluzionando il modo di vivere del quartiere. I protagonisti di questa storia sono Franco Bontadini e Stefania D’Addeo che in questa magia hanno creduto, facendo risvegliare un quartiere ormai assopito. «Il nostro sogno era quello di trasformare questo quartiere in un luogo dove le persone si possono incontrare, dove riscoprire il senso di vicinato, dove passare il tempo insieme e poter trovare un aiuto quotidiano. Quando siamo venuti a conoscenza di un Bando di Fondazione Cariplo che si chiama “Costruiamo comunità resilienti” ci siamo detti, “perché no”?».

Così nasce Sant’Agabio Resiliente grazie all’associazione Savore (associazione Sant’Agabio Volontari Resilienti), creata appositamente per riunire le diverse associazioni locali e far rivivere un quartiere che aveva perso ogni speranza. Ma come si crea una comunità resiliente? Ce lo hanno raccontato Franco e Stefania spiegandoci che «una comunità resiliente è una comunità fatta di persone che diventano autonome e capaci di affrontare insieme i cambiamenti e le difficoltà». Tutte le iniziative e i progetti nascono per uno scopo, quello di essere autosufficienti, cercando e trovando tutte le risposte all’interno del quartiere.

Come ci spiega Franco nel video, «non ci facciamo le nostre cose ma le facciamo insieme agli altri».  Ci sono dei negozi sfitti da anni? Allora l’associazione ha acquistato alcuni locali dove ha organizzato laboratori, feste e momenti di incontro tra gli abitanti. C’è una carenza educativa? Il quartiere ha creato una biblioteca che ha chiamato “babiloteca” dove si custodiscono libri di tantissime lingue diverse a cui possono accedere persone di tutte le nazionalità.

Si è dimenticata la cultura del fai da te? In risposta l’associazione ha organizzato corsi di autoproduzione, di panificazione, di creazione artigianale di conserve. Come ci raccontano, «Pensiamo che tra le caratteristiche di una popolazione resiliente vi sia la capacità di alimentarsi in modo indipendente, sano e sapendo riconoscere i prodotti di qualità. All’esterno abbiamo un grande prato dove gli anziani del quartiere coltivano frutta e verdura nei nostri orti urbani, facciamo grigliate, castagnate e qui i più giovani possono praticare sport a contatto con la natura».

Mancano occasioni di incontro tra le persone? Il quartiere ha puntato sulla condivisione della cultura e del saper fare. Così sono nati laboratori per tutte le fasce di età come corsi di arabo per i bambini che a scuola imparano l’italiano ma che non hanno perso l’abitudine di parlare la propria lingua per poter comunicare con i propri familiari lontani. Sono nati anche corsi di cucito insieme alle studentesse di un istituto di Moda di Novara che qui svolgono lezioni per ottenere crediti formativi. Sono stati attivati corsi di riuso e riciclo creativo, laboratori di cucina, di arti pittoriche grazie alla partecipazione di insegnanti in pensione. Si svolgono attività con i ragazzi e le ragazze down che qui possono destreggiarsi in lavori manuali. Come riportato nel video, una volta al mese c’è il “mercatino resiliente” a cui partecipano hobbisti e creativi del quartiere che hanno perso il lavoro e che vendono le proprie creazioni realizzate con materiali di recupero come gioielli in plastica o cialde del caffè e realizzano borse e grembiuli attraverso il recupero di stoffe e vecchi jeans. «Abbiamo pensato a un mercatino resiliente perchè in questa zona il livello economico e la povertà si percepiscono con mano e lo scambio e il riuso diventano pratiche che possono fare davvero la differenza». Infatti, nel quartiere, si valorizza anche il riuso come nel caso di giocattoli per bambini che vengono donati di famiglia in famiglia o lo scambio di oggetti e vestiti che sono di troppo negli armadi.

In questi anni, grazie al progetto “Costruiamo comunità resilienti” sono sempre più numerosi gli abitanti che hanno deciso di non “fuggire” dal quartiere ma di rimanere. Come ci viene spiegato da Franco e Stefania, «Il bello è che a Sant’Agabio si è creata una cultura mista di persone che è molto tollerante. Qua si può organizzare una festa musulmana all’oratorio o una festa cattolica nel circolo. Ognuno fa le cose che ritiene di valore per la propria comunità di origine e questo bisogno è accolto positivamente da tutti. Per il futuro del quartiere vorremmo far crescere questo senso di comunità. Far scoprire agli abitanti che le opportunità sono proprio sotto casa e non c’è bisogno di guardare più lontano per trovare nuove occasioni». Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/05/sant-agabio-quartiere-resiliente-riscopre-bellezza-vicinato/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Rusko: riparare gli oggetti rotti può aggiustare il mondo

Promuovere l’economia circolare attraverso una serie di attività, con un focus specifico sulle riparazioni di oggetti guasti altrimenti destinati a divenire rifiuti. È questo l’obiettivo di Rusko, associazione nata a Bologna e ispirata all’esperienza internazionale dei Repair Cafè: un’iniziativa virtuosa e dall’alto valore sociale ed ecologico che sempre più sta prendendo piede anche in Italia.

“Eravamo quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo…”. Inizio ad ascoltare l’intervista raccolta dai miei colleghi e subito mi viene in mente la celebre strofa della canzone di Gino Paoli che, a pensarci bene, descrive perfettamente l’avvio di una miriade di progetti virtuosi, innovativi e vincenti nati per l’appunto da una chiacchierata informale tra persone affini, una buona intenzione ed un’idea semplice, ma efficace. Ed è proprio così che circa un anno e mezzo fa a Bologna ha preso vita l’associazione Rusko (Riparo Uso Scambio Comunitario), ispirata anche all’esperienza estera dei Repair Cafè: momenti di incontro in cui si riparano oggetti rotti che altrimenti verrebbero gettati via.

“Insieme ad alcuni amici, davanti ad una pizza e una birra, abbiamo iniziato a domandarci cosa avremmo potuto fare concretamente per contribuire al miglioramento di una società che non ci convinceva. Abbiamo buttato giù un’idea, la abbiamo studiata e abbiamo raccolto informazioni su altre esperienze avviate in altri Paesi, in particolare nel nord Europa”, ci racconta Raffaele Timpano, presidente di Rusko. “Abbiamo preso contatti con la Repair Foundation di Amsterdam, promotrice di un modello, quello dei Repair Cafè, che coniuga due valori per noi importanti: partecipazione sociale e rifiuto dello spreco. Tutto quello che serviva per iniziare era un gruppo di persone ben affiatate e luoghi dove svolgere le nostre attività: riparazioni, prima di tutto, ma anche una serie di altre iniziative volte a promuovere l’economia circolare e la sostenibilità”. 

Nasce così Rusko, che significa Riparo Uso Scambio Comunitario ma che in bolognese vuol dire anche spazzatura. “Abbiamo voluto giocare proprio su questa ambivalenza: una cosa considerata inutile può avere una nuova vita ed un valore sociale ed ecologico. Un nome che qui a Bologna ha riscosso subito molto successo”.

Raffaele Timpano ci spiega la filosofia che sta alla base della loro esperienza. “Ci siamo interrogati sui cicli di vita sempre più brevi dei prodotti industriali e sul legame che esiste tra le persone e gli oggetti, ovvero sulla totale dissociazione che si è venuta a creare con l’avvento del consumo di massa: oggi le persone non si chiedono più da dove vengono gli oggetti e come vengono realizzati. I prodotti vengono acquistati, usati e poi buttati nella spazzatura. Un sistema insostenibile, insomma, che noi vogliamo contribuire a superare”. Partendo, appunto, dalla promozione dei Repair Cafè, iniziativa nata qualche anno fa in Olanda e che ora si sta diffondendo anche in Italia. Si tratta di incontri tra persone che vogliono riparare oggetti malfunzionanti. “Alcune persone partecipano ai Repair cafè che organizziamo per curiosità, altre per passare del tempo in compagnia, altre ancora perché animate da uno spirito ecologista – ci spiega Raffaele – Inoltre nei quartieri più popolari abbiamo visto anche famiglie che ricorrono alle riparazioni per necessità. È molto diverso l’approccio tra centro e periferia, nelle zone periferiche spesso abbiamo conosciuto immigrati che si sorprendono per la nuova diffusione della pratica della riparazione nel nostro Paese e ci raccontano gli usi dei loro territori. Si creano così degli scambi molto interessanti”.

Rusko, che conta ora circa una trentina di volontari, al momento non ha una sede fisica. “Andiamo dove ci invitano – dice Raffaele – Un luogo fisico non è fondamentale ma è più funzionale per l’attrezzatura. Ecco perché il nostro prossimo obiettivo è trovare un posto dove stabilirci”.

Ma come funziona? “Qualche giorno prima dell’evento mandiamo una mail agli interessati indicando luogo e ora dell’appuntamento – continua Raffaele – Alcuni ci chiedono prima informazioni circa la possibilità di riparare un oggetto o meno. L’unica condizione che noi poniamo è la partecipazione attiva della persona alla riparazione. La persona si presenta quindi nel giorno stabilito con il prodotto malfunzionante e partecipa al tavolo della riparazione al quale solitamente siedono alcuni volontari particolarmente abili, a volte anche professionisti (di elettronica, sartoria, biciclette). Nel 2018 sono stati portati da noi soprattutto piccoli apparecchi elettrici come frullatori o asciugacapelli. Solitamente i guasti sono abbastanza banali e quindi risolvibili. A volte però vengono portati anche apparecchi più complessi la cui riparazione richiede più tempo. In base al tipo di prodotto la persona si siede accanto al ‘tutor’, si analizza il problema dell’apparecchio in questione e si prova a risolverlo insieme. Si crea così un’interazione normalmente assente nei rapporti di mercato che solitamente sono così strutturati: ‘Io ti pago per risolvermi un problema, quello che fai non mi interessa’.

Ovviamente il grado di partecipazione può essere maggiore o minore rispetto al grado di abilità di chi porta gli oggetti. Soprattutto in questa zona, che ha un tessuto industriale ancora vivo, ci sono anche tanti pensionati molto esperti. È così che abbiamo trovato molti volontari, ex lavoratori appassionati di riparazioni. Noi lavoriamo con la comunità e per la comunità e lo facciamo incondizionatamente. Non chiediamo niente a chi partecipa ai Repair Cafè ma chi vuole può lasciare un contributo per sostenere le attività della nostra associazione. Se le istituzioni vogliono collaborare o sostenerci sono ovviamente le benvenute”. 

Raffaele è infatti convinto che se le istituzioni riconoscessero il valore sociale di queste iniziative e le sostenessero si potrebbero fare moltissime cose: ad esempio corsi di formazione per la manutenzione, per l’alfabetizzazione informatica, per l’efficientamento energetico delle case, corsi di artigianato o per l’inserimento sociale di persone svantaggiate. “Le prospettive sono molto ampie”.

Raffaele ci parla anche di un aspetto che ci sembra molto interessante: il diritto alla riparabilità. “Negli anni ’60 se compravi un oggetto ricevevi anche un manuale per la riparazione. Oggi al contrario quando acquistiamo qualcosa leggiamo sulla confezione: ‘non smontare’, ‘non aprire’, ‘non sostituire la batteria’. Dobbiamo rivendicare il diritto alla riparabilità dei nostri oggetti. È necessario cambiare il modo in cui vengono progettati gli oggetti: bisogna progettare in modo modulare per far sì che i pezzi siano sostituibili e dovrebbe essere introdotto l’obbligo di rendere disponibili i pezzi per le sostituzioni. Serve, insomma, una progettazione pensata per avere un impatto zero”.  

“Noi crediamo molto nell’urgenza di un cambio del paradigma culturale e dei meccanismi del sistema. Una frase che rappresenta molto la nostra filosofia è quella pronunciata da Einstein: ‘Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose’. Ecco perché dobbiamo ridurre il nostro livello di consumo, interrogarci sulla quantità di rifiuti che produciamo, cominciare a mettere noi stessi in discussione. Questo si può fare, magari, partendo proprio dalla riparazione, un punto che tocca alcuni tasti psicologici molto interessanti. Ultimamente sta prendendo forza l’idea che i rifiuti siano una ricchezza: io credo invece che dovremmo cercare in primis di ridurli, anche attraverso la riparazione che, peraltro, serve anche a prendere coscienza delle proprie capacità. La soddisfazione psicologica che deriva dal riuscire a riparare qualcosa è grande, è quasi terapeutica!”. 

Intervista: Francesco Bevilacqua e Paolo Cignini

Realizzazione video: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/01/rusko-riparare-oggetti-rotti-puo-aggiustare-mondo-io-faccio-cosi-237/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Ri-Generation: l’impresa che riporta in vita gli elettrodomestici dismessi

Riusare, Rigenerare, Ridurre. Sono le parole chiavi di Ri-Generation, impresa che rigenera elettrodomestici destinati alla discarica e li rivende a prezzi più economici rispetto al prodotto nuovo, contribuendo a combattere lo spreco di risorse ambientali e umane. Grazie alla collaborazione con il Sermig, Ri-Generation sta creando anche nuovi posti di lavoro, rivolgendosi a persone che il lavoro lo avevano perso durante la crisi. Un progetto di Economia Circolare a tutto tondo.

L’economia circolare applicata agli elettrodomestici, con l’obiettivo di creare lavoro: la Storia di oggi è sul progetto Ri-Generation, ideato da Astelav in collaborazione con il Sermig, il Servizio Missionario Giovani, che “attraverso la rigenerazione degli elettrodomestici cerca di costruire una mentalità in contrasto con lo spreco di risorse umane e ambientali”.

Rigeneration nasce da un’idea di Astelav, un’azienda storica italiana con sede a Vinovo, in provincia di Torino, che dal 1963 è uno dei principali distributori europei di accessori e ricambi per elettrodomestici. Ernesto Bertolino, che è il managing director di Astelav, aveva una visione già da prima della nascita di Ri-Generation: “Vendendo ricambi, da sempre abbiamo avuto una propensione ad incentivare la riparazione e la rigenerazione. Inoltre, abbiamo capito un fenomeno ancora più importante: riparare oggi è un’esigenza ambientale, umana, sociale, un’opportunità di lavoro: in poche parole, un’occasione per l’uomo e per migliorare il nostro Pianeta”. Dall’esperienza di Astelav parte così il progetto Ri-Generation.

Come funziona Ri-generation

In sostanza, Ri-Generation ripara e rivende elettrodomestici danneggiati, altrimenti condannati a divenire rifiuti, rispecchiando così in pieno i principi dell’economia circolare.

Tutti gli elettrodomestici, una volta che finiscono di funzionare, diventano genericamente dei RAEE, Rifiuti di Apparecchi Elettrici ed Elettronici, e vanno smaltiti secondo precise normative europee. Recenti normative hanno introdotto una novità per i distributori di elettrodomestici: al momento della vendita di un elettrodomestico nuovo, il distributore è obbligato a ritirare i vecchi elettrodomestici: “Qui ci inseriamo noi – ci spiega Enrico Bertolino – perché nel momento in cui il vecchio elettrodomestico viene ritirato, diviene automaticamente un RAEE. A quel punto, prima che vada in triturazione negli impianti appositi, viene da noi acquistato, testato e riparato in laboratori appositi formati dal nostro team, e dopo rimessi in commercio. Un processo a tutti gli effetti produttivo, che lo differenzia dalla riparazione semplice effettuata da un tecnico in casa”.

I prezzi di rivendita dei vari elettrodomestici sono estremamente concorrenziali rispetto al mercato: “Possiamo stimare che il prezzo dell’elettrodomestico è inferiore della metà rispetto al prodotto nuovo: per fare un esempio, una lavatrice di alta gamma, una 9kg di classe A+ con delle buone caratteristiche, può costare intorno ai 400 euro e rigenerata costa sui 200 euro”.ri-generation-4

I prodotti rivenduti hanno una garanzia di un anno, vengono venduti in tre punti vendita di Ri-Generation a Torino oppure online. Il tema dei RAEE negli ultimi anni ha assunto un ruolo importante nel dibattito pubblico: nel 2017, in Italia, sono stati prodotti oltre 90000 tonnellate di rifiuti RAEE “R2”, i cosiddetti “Grandi Bianchi” che comprendono, tra i tanti, anche le lavatrici, le lavastoviglie, i frigoriferi e i forni elettrici di vario tipo.

In generale, la produzione di RAEE è in aumento di circa il dieci per cento ogni anno, e non tutta viene smaltita nel modo più consono: nel 2015, in Italia, solo 250000 tonnellate di Rifiuti di apparecchi elettrici ed elettronici sono stati smaltiti nel modo più corretto, ma questi rappresentano solamente il quaranta per cento del totale dei rifiuti. Sono infatti stimati in 350000 tonnellate i RAEE che, purtroppo, finiscono in discariche abusive, abbandonati nelle campagne o nei boschi oppure esportati illegalmente verso i paesi in via di sviluppo, per essere utilizzati come fonte di componenti e materie prime di recupero.

Ri-Generation diventa così un modello di impresa, replicabile, che risolve un problema creando più opportunità: incluso la creazione di posti di lavoro.ri-generation-

La collaborazione con il Sermig: il lavoro e le donazioni

Ri-Generation è un progetto che vede la collaborazione, oltre che di Astelav, del Sermig: si tratta del Servizio Missionario Giovani, organizzazione composta di volontari fondata da Ernesto Oliviero nel 1964 e che si occupa di sostenere persone in difficoltà economica e sociale. “Insieme al Sermig abbiamo individuato la necessità di dare una risposta forte all’esigenza più importante e delicata di questi ultimi anni: quella del lavoro – ci spiega Ernesto Bertolino – e la nostra comune passione per il non spreco e per il riutilizzo, si è rivolta anche in direzione di quelle persone che hanno perso il lavoro a causa della crisi o per altri motivi. Abbiamo collaborato insieme nel cercare alcune persone che avessero già elevate competenze professionali nella riparazione di elettrodomestici, oppure persone o ragazzi giovani che mostrassero una buona predisposizione nell’apprendere questo tipo di lavoro.

Abbiamo così formato un team di tecnici assunti per Ri-Generation, di età variegata: siamo riusciti ad introdurre in azienda persone ultracinquantenni, che avevano perso il lavoro, insieme a ragazzi poco più che ventenni. Una storia che ricordo come esempio di economia circolare applicata al lavoro è quella di un ragazzo del Mali, che da bambino aggiustava biciclette in Africa: dopo un periodo di tirocinio durato sei mesi con Ri-Generation, continuerà la sua attività lavorativa con noi come riparatore di elettrodomestici. Penso anche alle competenze più specifiche recuperate, come quelle di Amos, un ragazzo rumeno che ha dimostrato una buona propensione verso l’elettronica e che oggi è un eccellente riparatore di lavastoviglie”.ri-generation-1

Oggi Ri-generation impiega otto persone: sei di loro sono tecnici di laboratorio e due si occupano della vendita del prodotto. Ma la collaborazione con il Sermig non è finita qui e si è estesa anche al settore delle donazioni: “Ri-Generation accetta anche elettrodomestici che, per vari motivi, non sono più utili alle persone. Il Sermig ci aiuta ad intercettare quelle persone sul territorio che si stanno liberando di un elettrodomestico e noi ci occupiamo della logistica di queste donazioni: ritiriamo direttamente il potenziale rifiuto e, come gli altri, presto diventa un nuovo elettrodomestico perfettamente funzionante”.

La reazione nei confronti del progetto da parte del pubblico è molto buona e si può dividere in due livelli: qualità percepita e vendite. “Il problema più istintivo è quello della qualità del prodotto: essendo rigenerato, potrebbe essere percepito come qualitativamente inadeguato. Vi assicuro che le persone che vengono nei nostri punti vendita, spesso, non riescono a distinguere se una delle nostre lavatrici sia un prodotto nuovo o rigenerato. Questo si rispecchia nei nostri obiettivi, perché l’attività sta andando molto bene, soprattutto per la vendita diretta nel negozio: anche la vendita online sta crescendo, è chiaro che si tratta di un processo che richiede più tempo ma l’andamento generale positivo di Ri-Generation ci spinge ad aumentare la produzione e l’attività di laboratorio, e quindi di conseguenza ad impiegare anche nuove persone per far crescere il progetto, oltre alla possibilità di poter aprire nuovi negozi come Ri-Generation anche in altri luoghi d’Italia, oltre che a Torino”.

Il tutto nel segno della Riduzione, del Riuso e della Rigenerazione.

Intervista: Daniel Tarozzi e Paolo Cignini

Riprese e montaggio: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/07/io-faccio-cosi-220-ri-generation-limpresa-elettrodomestici-dismessi/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Un mondo più ecologico? Inizia dalla tinteggiatura delle pareti della tua abitazione

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Una recente ricerca dell’Osservatorio Compass ha confermato tutta l’attenzione degli italiani nei confronti delle case ecosostenibili, dai materiali di costruzione, fino al riciclo e al riuso. Ma c’è un altro elemento chiave: la tinteggiatura delle pareti con vernici ecologiche. Una recente ricerca dell’Osservatorio Compass ha confermato tutta l’attenzione degli italiani nei confronti delle case ecosostenibili: secondo il rapporto, il 28% degli intervistati ha dichiarato di nutrire grande interesse per questo argomento. Non è un caso, dunque, che la creazione di un mondo più ecologico parta proprio da noi e dalle nostre abitazioni. Sono diversi gli aspetti domestici che possono favorire questa missione green: dai materiali di costruzione, fino ad arrivare all’importanza del riciclo e del riuso. Fra i punti chiave di una gestione ecosostenibile della casa troviamo un altro elemento, nonché uno dei più importanti: la tinteggiatura delle pareti, che ci permette di dare nuova vita alla casa senza per questo contaminare l’ambiente. Ecco perché si tratta di un tema che merita un ulteriore approfondimento.

Ecologia e case: come applicare questo concetto con le vernici

Le vernici ecologiche e naturali sono degli strumenti indispensabili per chi desidera vivere senza inquinare e, al tempo stesso, vivere in una casa curata nel minimo dettaglio. Non a caso il concetto di ecologia può essere facilmente applicato anche alle nostre abitazioni: quando si tratta di doverle rinnovare, esistono dei modi e delle misure che ci permetteranno di farlo senza causare ulteriori danni al Pianeta. Le vernici ecologiche sono perfette per questo scopo. I motivi? Sono realizzate solo ed esclusivamente con elementi naturali, dunque non posseggono alcuna sostanza pericolosa per noi e per l’ambiente. Questo non si può dire delle vernici chimiche che, al contrario, sono particolarmente pericolose per entrambi: vengono difatti realizzate con sostanze tossiche, che possono inquinare l’atmosfera e al tempo stesso mettere a rischio la salute di chi abita in casa. Fra l’altro, rimodernare il proprio appartamento con le vernici eco è molto facile e davvero poco costoso: per la tinteggiatura delle pareti interne basta affidarsi ad uno dei tanti specialisti, ottenendo così un risultato perfetto, sostenibile ma anche economico.

Vernici chimiche ed ecologiche: un approfondimento

Le vernici chimiche vengono prodotte utilizzando delle sostanze di origine petrol-chimica: ciò vuol dire che, utilizzandole, si mette in primis a rischio la salute di chi frequenta l’abitazione. Inoltre, queste sostanze sono particolarmente nocive in quanto volatili: tendono infatti ad inquinare velocemente l’aria che respiriamo, specialmente quando vengono utilizzate per tinteggiare i muri interni della casa. Al contrario, le vernici naturali sono totalmente sprovviste di sostanze VOC (volatili) e dunque sicure per l’ambiente e per chi vi abita. Questo perché non producono effetti secondari potenzialmente gravi come le emicranie, la nausea e le irritazioni cutanee. Inoltre, non rilasciando alcun tipo di rifiuto tossico, non causano danni all’ambiente. Fra le altre cose, il ciclo produttivo necessario per realizzare le vernici chimiche produce tonnellate di elementi inquinanti che finiscono nell’atmosfera. Ecco perché ognuno di noi dovrebbe ragionare prima di usare pennello e spatola: ricorrere alle vernici ecologiche, insieme a tutti gli altri prodotti sostenibili, può aiutare noi e sostenere l’ambiente. Inoltre questo può garantire un futuro migliore alle prossime generazioni che abiteranno il nostro pianeta, e che non dovranno così fare i conti con gli errori sin qui commessi dall’uomo.

Fonte: ecodallecitta.it

Sacchetti ortofrutta, riutilizzabili o no ecco quello che serve sapere

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A un mese dal caos mediatico sull’introduzione dei sacchetti ultraleggeri compostabili e dopo gli apocalittici sondaggi che prevedevano una rivoluzione nei consumi dei italiani, ecco come è andata a finire

Il 2018 è iniziato nel segno del sacchetto compostabile per l’ortofrutta. Sul web e non solo si è letto di tutto, dalle tesi più strampalate filo complottistiche ai più bassi istinti da tastiera. In molti si sono schierati contro l’introduzione dei sacchetti a pagamento. Una questione di pochi centesimi – che per la verità i consumatori già pagavano all’interno del costo al chilogrammo per prodotto – e che secondo Assobioplastica vale circa 4,5 euro all’anno per consumatore ma per alcuni giustificavano addirittura una rivoluzione nei consumi dei italiani.

Infatti stando a un sondaggio realizzato dal Monitor Ortofrutta di Agroter in collaborazione con Toluna e diffuso non solo dal notiziario online italiafruit.net ma anche da importanti media mainstream, “la nuova legge spacca in due il Paese” cambiandone i comportamenti di acquisto. Secondo il sondaggio il 21% degli intervistati aveva dichiarato che per colpa della nuova legge aveva spostato i consumi dal supermercato ai piccoli negozi di ortofrutta.

Un dato davvero incredibile che ha costretto il notiziario Italiafruit News a un lungo editoriale nel quale precisava che, il sondaggio, voleva tastare il polso agli italiani “per verificare il percepito”. Più che il polso, la ricerca (o sondaggio) ha verificato i sentimenti dei cittadini non nei luoghi dove si acquista il prodotto “ortofrutta” ma in rete, visto che i risultati erano relativi ad una “Cawi condotta sull’intero territorio nazionale e rappresentativa della popolazione italiana”. In pratica un sondaggio online dove Cawi sta per “Computer Assisted Web Interviewing”. Tutto lecito, per carità, oggi i sondaggi e la raccolta di sentiment si fanno online e non più per strada, e quindi si poteva osare di più (ma non troppo) chiedendo ai player del mercato come stavano andando le vendite nei primi giorni dell’anno e si sarebbe scoperto una realtà ben diversa.

Ma per tutti coloro che andando dal fruttivendolo sperano si eludere il pagamento del sacchetto è bene sapere che: la legge non impone l’uso di sacchetti ultraleggeri sempre e per forza. La legge impone, laddove vengano usati, che questi siano in materiale biodegradabile e compostabile.

Tra ipermercati e piccoli negozi a fare la differenza è il modello organizzativo che incide sulle modalità di acquisto e asporto dell’ortofrutta. Nei primi l’organizzazione è generalmente standardizzata e in quasi tutte queste realtà sono presenti reparti dell’ortofrutta dotati di bilance dove ci si serve da soli. I sacchetti, servono quindi ad “uso interno” (anche se è un termine improprio, ndr), solo per trasportare la merce nel sacchetto chiuso, pesato ed etichettato, dal reparto alla cassa.

Nei negozi di ortofrutta, vista anche la dimensione ridotta delle superfici di vendita, le modalità operative e organizzative sono diverse rispetto alla grande distribuzione. Capita spesso di trovare un addetto alla frutta e alla verdura: in questo caso il sacchetto utilizzato è quello in carta (in alternativa a quello di bioplastica). Nulla però obbliga ad usarlo, dopo aver lasciato all’operatore il compito di pesare la merce, potremmo riporre frutta e verdura all’interno della nostra sporta o direttamente nello zaino.

Stessa cosa può accadere nei piccoli alimentari dove la pesata della frutta e della verdura avviene alla cassa: in questo caso potremmo portare in un nostro contenitore la merce da acquistare e una volta giunti dal cassiere, pagare e andar via senza acquistare sacchetti.

Cosa dice la legge a questo proposito? Il legislatore nell’art. 9 bis d.l. n. 91/2017 utilizza i termini “commercializzazione” e “in esercizi che commercializzano genere alimentari“, quindi non fa distinzione tra gdo e negozi di vicinato, l’unica distinzione che viene fatta è quella relativa a cosa viene commercializzato con qualche distinzione per gli esercizi che commercializzano esclusivamente merci e prodotti diversi dai generi alimentari.

Quindi è fuori norma chi usa il riutilizzabile? No, il sacchetto riutilizzabile è sempre da preferire. Ma con delle precisazioni. Per i negozi di vicinato (alimentari o solo ortofrutta) è consuetudine portare via la merce come si vuole (in un sacchetto portato da casa, in uno acquistato nel negozio, in uno zaino, in un carrello, ecc…). In teoria lo stesso discorso vale anche per la grande distribuzione ma portare il proprio sacchetto per metterci l’ortofrutta pone qualche problema in più.

Infatti per tutti, ma in particolare per la gdo, rimangono valide le ultime indicazioni del ministero dell’ambiente:

Per quanto riguarda l’utilizzo di borse portate dall’esterno degli esercizi commerciali in sostituzione delle borse ultraleggere fornite esclusivamente a pagamento ai consumatori a partire dal 1° gennaio 2018, si fa presente, innanzitutto, che la nuova disciplina introdotta dall’art. 9-bis del decreto-legge n. 91/2017, come convertito in legge, si applica esclusivamente alle borse di plastica come definite dal nuovo art. 218, comma 1, lett. dd-ter), ai sensi del quale le borse di plastica sono “borse con o senza manici, in plastica, fornite ai consumatori per il trasporto di merci o prodotti”; si ricorda, inoltre, che il comma 3 dell’art. 226-ter del D.Lgs. n. 152/2006 stabilisce testualmente che “nell’applicazione delle misure di cui ai commi 1 e 2 sono fatti comunque salvi gli obblighi di conformità alla normativa sull’utilizzo dei materiali destinati al contatto con gli alimenti adottata in attuazione dei regolamenti(UE) n. 10/2011, (CE) n. 1935/2004 e (CE) n. 2023/2006, nonché il divieto di utilizzare la plastica riciclata per le borse destinate al contatto alimentare”.

Conseguentemente, ancorché qualunque pratica volta a ridurre l’utilizzo di nuove borse di plastica risulti indubbiamente virtuosa sotto il profilo degli impatti ambientali, si ritiene che sul punto la competenza a valutarne la legittimità e la conformità alle normative igienico-alimentari richiamate nel citato comma 3 dell’art. 226-ter spetti al Ministero della Salute. Lo stesso Dicastero, allo stato, è orientato a consentire l’utilizzo di sacchetti di plastica monouso, già in possesso della clientela, che però rispondano ai criteri previsti dalla normativa sui materiali destinati a venire a contatto con gli alimenti. Tali sacchetti dovranno risultare non utilizzati in precedenza e rispondenti a criteri igienici che gli esercizi commerciali potranno definire in apposita segnaletica e verificare, stante la responsabilità di garantire l’igiene e la sicurezza delle attrezzature presenti nell’esercizio e degli alimenti venduti alla clientela.

In pratica la grande distribuzione organizzata, notoriamente più soggetta a controlli e verifiche, difficilmente può dotarsi di mezzi precisi per attestare che il sacchetto riutilizzabile portato dal cliente rispetti le indicazioni del ministero (plastica monouso, non esser stati utilizzati in precedenza, criteri previsti dalla normativa sui materiali destinati a venire a contatto con gli alimenti). Mentre per il piccolo negozio (che dovrebbe per legge rispettare gli stessi requisiti della gdo) sarà più facile eludere queste prescrizioni.

Un discorso che nei fatti è dimostrato dall’utilizzo dei sacchetti monouso in plastica che, seppur illegali dal 2012, sopravvivono indisturbati nei mercati e nei negozi di vicinato ma son spariti dalle casse della grande distribuzione organizzata.

Fonte: ecodallecitta.it

 

Meno plastica, ma solo dal 2030

Riciclo o riuso degli imballaggi in plastica entro il 2030, riduzione delle microplastiche nei cosmetici e misure per ridurre oggetti in plastica mono-uso come le stoviglie. La Commissione europea ha presentato nuovi obiettivi anti-inquinamento. Ma sono in molti a sostenere che il 2030 sarà troppo tardi: bisogna agire prima.9737-10511

La Commissione europea, riunita a Strasburgo in occasione di una sessione plenaria del Parlamento europeo, ha presentato nuovi obiettivi anti-inquinamento. Si punta entro il 2030 a riusare o riciclare tutti gli imballaggi di plastica e a ridurre l’uso di microplastiche. La strategia comprenderebbe un’etichettatura più chiara per distinguere polimeri compostabili e biodegradabili e regole per la raccolta differenziata sulle imbarcazioni e il trattamento dei rifiuti nei porti. Attese entro gennaio misure per ridurre l’impatto delle bottiglie d’acqua in plastica.

Eppure, a differenza di quanto lasciano intendere i titoloni trionfalistici dei media, «la nostra non è una strategia anti-plastica», ha detto il vice presidente della Commissione Frans Timmermans, parlando a un gruppo di giornalisti belgi. «La plastica rimane indispensabile per l’economia. L’industria di questo settore dà lavoro a 1,5 milioni di persone nell’Unione». E, tra le altre cose, la Commissione vuole mettere a disposizione dell’industria 100 milioni di euro da investire nella ricerca tecnologica. Da sottolineare poi che la strategia viene formulata proprio dopo che la Cina ha deciso di vietare l’importazione di rifiuti dal resto del mondo; questo sta costringendo l’Unione Europea a rivedere le priorità. Finora, la UE esportava verso la Cina il 60% dei rifiuti di plastica e il 13% dei rifiuti di carta, chiedendo al paese asiatico di riciclarli o di bruciarli. Sempre secondo l’esecutivo comunitario, sarà possibile creare 200mila nuovi posti di lavoro da qui al 2030, nel settore del riciclo. L’uso una sola volta di molti imballaggi di plastica fa sì che il valore di questi sacchetti venga perso al 95% in brevissimo tempo. Nel 2015, la Commissione ha imposto che il 55% dei rifiuti di plastica venga riciclato. La proposta è stata fatta propria almeno preliminarmente dal Parlamento e dal Consiglio nel dicembre scorso.

La nuova strategia comunitaria giunge mentre la stessa Commissione europea sta valutando una tassa sulla plastica per finanziare il bilancio europeo. «Sarà necessario fare uno studio d’impatto – nota ancora Frans Timmermans -, tenendo presente che se il nostro obiettivo è di ridurre l’uso della plastica il gettito potrebbe diminuire. Dobbiamo chiederci se questa soluzione possa essere un reddito sostenibile nel tempo».

“La strategia europea sulla plastica presentata oggi dalla Commissione Europea è una buona notizia per l’ambiente e l’innovazione industriale” ha dichiarato Stefano Ciafani direttore generale di Legambiente.

L’Italia, ricorda Legambiente, è stato il primo Paese in Europa ad varare la legge contro gli shopper non compostabili, approvata nel 2006 ed entrata in vigore nel 2012, ad applicare dall’1 gennaio 2018 la messa al bando dei sacchetti leggeri e ultraleggeri di plastica tradizionale, a dire stop ai cotton fioc non biodegradabili e compostabili (dal 2019) e alle microplastiche nei cosmetici (a partire dal 2020). Non va inoltre dimenticato l’impegno sul fronte dell’economia circolare promosso da Comuni, Consorzi ed imprese private.

“Ora – aggiunge Ciafani – i prossimi passi da compiere nel nostro Paese devono riguardare un sistema di controlli efficace per garantire il rispetto delle leggi approvate, nuove misure per contrastare l’usa e getta, ridurre l’uso eccessivo di acque in bottiglia, con conseguente consumo di grandi quantità di plastica, e allo stesso tempo occorre sviluppare la chimica verde, per riconvertire i vecchi petrolchimici in nuove bioraffinerie per promuovere filiere di produzione industriale innovative e rispettose dell’ambiente”.

«Purtroppo l’orizzonte del 2030 appare un po’ troppo lontano rispetto ad una vera e propria emergenza che sta assumendo, giorno dopo giorno, dimensioni estremamente preoccupanti e sulla quale bisogna intervenire con urgenza» dice il WWF.

«Dagli anni ‘50 ad oggi, con l’avvio della grande diffusione dell’uso della plastica, abbiamo prodotto 8,3 miliardi di tonnellate di plastica, gettandone in natura circa 6,3 miliardi. È come se ogni abitante della Terra trascinasse con se circa una tonnellata di plastica. Il 79% di questa è finita nelle discariche e in tutti gli ambienti naturali contaminando aree remote come i ghiacci polari fino le grandi fosse marine a 10 km di profondità. Specie simbolo, come tartarughe marine e balene, sono le vittime più evidenti, ma la tossicità dei rifiuti plastici in mare sta contaminando anche le catene alimentari che arrivano fino alla nostra tavola».

«Senza aspettare l’entrata in vigore delle nuove norme, infatti, da subito tutti possono impegnarsi per ridurre il proprio impatto adottando stili di vita ‘zero plastica’. Le alternative ci sono già e il mercato stesso offre soluzioni sempre nuove ogni giorno: dalla riduzione degli imballaggi al refill di cosmetici e prodotti per la casa».

 

Fonte: ilcambiamento.it

Non si ricicla? Allora non lo compro

Rifiuti: la parola d’ordine è ridurre, non più solo riciclare. E per ridurre non basta, appunto, il riciclo: occorre cambiare a monte la progettazione delle merci che arrivano sul mercato. E, fatto non secondario, occorre che sempre più cittadini scelgano di fare acquisti consapevoli, eliminando dal carrello della spesa ciò che finisce nell’indifferenziato.9676-10451

Vi ricordate quando Rossano Ercolini di Zero Waste Italia lanciò un anno fa la campagna “La doppia sporca dozzina” contro i prodotti non riciclabili? L’iniziativa aveva il coinvolgimento del Centro Ricerca Rifiuti Zero del comune di Capannori, Zero Waste Italy e l’Associazione Ambiente e Futuro per Rifiuti Zero. Ebbene, a poco più di un anno di distanza si è ancora lontani dal cambio di paradigma, ma una cosa è certa: la situazione è tale da non concedere più tempo. A nessuno. Attuando i primi sette passi del percorso rifiuti zero, come spiega Ercolini, le comunità possono arrivare a risolvere fino all’85% del problema rifiuti, trasformandoli in risorse con la pratica della raccolta differenziata porta a porta, le isole ecologiche e i Centri per la riparazione e il riuso (per abiti, scarpe, borse, mobili, elettrodomestici, computer ecc.). Ma resta un 15% di indifferenziato ed è anche e molto su quello che occorre agire; per riprogettarne la produzione. Si sa ormai che ridurre è la parola chiave; anche l’Unione Europea, nella sua piramide sulla gestione dei rifiuti, la mette al primo posto. Ma come è possibile diminuire il numero di rifiuti non facilmente riciclabili?  Ercolini suggerisce due strade: la prima è quella della sensibilizzare delle persone agli acquisti consapevoli, la seconda, maggiormente incisiva e su cui puntare con forza, è quella della riprogettazione industriale di beni e prodotti, principio alla base dell’economia circolare, e la responsabilità estesa del produttore, che spesso è rappresentato da grandi imprese multinazionali. Secondo gli studi del Centro Ricerca Rifiuti Zero del comune di Capannori, Zero Waste Italy e l’Associazione Ambiente e Futuro per Rifiuti Zero, sono 24 i prodotti denominati, appunto, “la doppia sporca dozzina”:

  •     pannolini, pannoloni ed assorbenti femminili
  •     cotton fioc
  •     accendini mono uso
  •     spazzolinotubetti di dentifricio e spazzolini da denti
  •     figure adesive
  •     scontrini fiscali
  •     capsule e cialde per il caffè monoporzionato
  •     appendini in plastica
  •     CD, Floppy disk
  •     chewingum
  •     rasoi usa e getta
  •     mozziconi di sigarette
  •     stoviglie usa e getta
  •     penne a sfera e pennarelli
  •     guanti in lattice monouso
  •     salviette umidificanti
  •     cerotti per medicazione
  •     nastro adesivo
  •     carta carbone e carta forno
  •     carta plastificata
  •     tovaglie e tovaglioli in tessuto non tessuto (TNT)
  •     carte di credito, bancomat e tessere plastificate
  •     lettiere sintetiche per gatti e altri animali domestici

Vediamone nel dettaglio alcuni con le possibili alternative in commercio.

Assorbenti femminili, pannolini e pannoloni  – Questo “flusso” di rifiuti, come ci ricorda Ercolini, rappresenta circa il 25% del totale dei rifiuti urbani residui (RUR) e quindi una delle “voci” più importanti per abbattere la produzione di rifiuti difficilmente riciclabili. Per gli assorbenti esistono alcune alternative, ad esempio, in commercio si trovano quelli biodegradabili da conferire nell’organico (ma non nell’auto-compostaggio in quanto richiedono un trattamento negli impianti industriali di compostaggio), altra alternativa è rappresentata dalla coppetta mestruale igienica e funzionale. Per i pannolini l’alternativa più efficace rimane il pannolino lavabile che, però, per essere sufficientemente comoda va integrata con un servizio di lavanderia per permettere alle famiglie di disporre, ad un costo ragionevole, del servizio di lavaggio, se non intendono effettuarlo in autonomia. Si potrebbe pensare, ad esempio, di ubicare il servizio di lavanderia negli asili nido facendolo, magari, gestire da una cooperativa sociale. Più complicato è il problema dei pannoloni, per i quali risulta utile fare i conti con lo “stato dell’arte”, ovvero con tutte quelle tecnologie in grado di riciclare questi rifiuti evitando così la produzione di una mole di scarti destinati solo ad essere smaltiti.

Cotton Fioc – Le alternative a quelli non riciclabili, spesso scaricati nel water close e quindi corresponsabili dell’inquinamento da plastiche nei mari, ci sono; ne esistono, infatti, di vegetali ed anche in plastica biodegradabile.

Accendini mono uso – Si può fare a meno degli accendini usa e getta utilizzando quelli ricaricabili (USB). Certo, all’inizio costano di più ma possono durare molto a lungo.

Spazzolini da denti – Ne esistono di canna di bambù interamente biodegradabili (ed auto compostabili) come esistono quelli in cui si può sostituire la parte a contatto con i denti, ovvero la testina consumata.

Tubetti di dentifricio – Esiste il dentifricio in pastiglie in confezioni di vetro/carta e quindi riciclabili. Interessante e simpatico anche prodursi in proprio il dentifricio. Ovviamente, questo per i più motivati e coerenti.

Figurine adesive – Esistono alcune soluzioni per ridurre o evitare di ricorrere agli adesivi (le figurine adesive non possono essere riciclate perché plastificate). Tra le altre soluzioni, quella dell’album prodotta dal WWF nel quale si sistemano le figurine non plastificate negli appositi angoli “ad incastro”.

Scontrini fiscali in carta termica – Gli attuali scontrini sono prodotti in carta chimica non riciclabile (vanno messi nell’indifferenziato), dal 1996 se ne prevede la dismissione ed un sistema alternativo che mantenga tutte le caratteristiche tese ad evitare le evasioni fiscali. Purtroppo il loro utilizzo continua nonostante si possa procedere nello stessa funzione attraverso sistemi informatizzati.

Capsule e cialde per il caffè monoporzionato – Questo caso studio è certo il più famoso lanciato nel 2010 dal CRRZ che ha portato alcune importanti marche di caffè ma anche la grande distribuzione a produrre sistemi in plastica biodegradabile. La battaglia non è vinta ma sono stati fatti dei passi nella giusta direzione.

Appendi abiti (in plastica) – A differenza di quelli in ferro, che possono essere conferiti nelle isole ecologiche (i metalli sono ben remunerati), quelli in plastica, dopo una circolare di COREPLA (che li riconosce parte dell’imballaggio), possono essere conferiti nel multi-materiale. Così la doppia sporca dozzina fortunatamente perde un membro che nessuno rimpiange.

CD–DVD – Abbiamo appreso che possono essere facilmente riciclati. Il CD è in policarbonato e i DVD in PVC. Il problema purtroppo non si risolve perché se tali possibilità tecniche di riciclo sono disponibili, esse possono valere per i venditori di “dischi” e non per le utenze domestiche che dovrebbero essere informate sulla necessità di conferire tali prodotti nelle isole ecologiche (in alternativa al loro smaltimento). Una buona idea potrebbe essere quella di fornire i negozi di dischi e tutte le scuole di appositi contenitori dove conferire i vecchi CD.

Gomme da masticare – Esiste un’unica gomma biodegradabile disponibile grazie al mercato equo e solidale.

Rasoi usa e getta – Per questi prodotti oggi si punta a promuovere soluzioni commerciali che moltiplicano il numero delle prestazioni di un’unica lametta. Meglio, sempre, la testina ricaricabile.

Mozziconi di sigarette – Meglio non fumare! Comunque per la normativa vigente i mozziconi devono essere raccolti attraverso sistemi diffusi dai Comuni e gli abbandoni devono essere sanzionati con multa. Talvolta all’abbandono della “cicca” corrisponde l’abbandono in strada del pacchetto che invece è perfettamente riciclabile essendo in cartoncino e foderato all’interno con carta stagnola.

Stoviglie usa e getta – I Comuni possono fare tanto, ad esempio usare nelle mense pubbliche solo piatti in ceramica e normali posate e dotare le strutture di lavastoviglie. In feste, sagre e simili, si può, nell’ordine, usare la cellulosa della canna da zucchero (piatti, bicchieri ecc. completamente compostabili ed auto compostabili), contenitori realizzati con foglie di palma e solo in ultimo le bio plastiche. Occorre, in proposito, che i Consigli comunali adottino specifici regolamenti modulando con incentivi e disincentivi il ricorso alle buone pratiche.

Penne e pennarelli – Per i pennarelli che i bambini a scuola consumano in quantità notevoli abbiamo trovato alcune marche che vendono pennarelli ricaricabili che il Centro Ricerca Rifiuti Zero (CCRZ) sta testando per verificarne le prestazioni.

Carta forno – Bisogna fare attenzione al momento dell’acquisto, infatti, sul mercato sono disponibili modelli biodegradabili conferibili nell’organico. Qui la sensibilità del consumatore può fare la differenza !

Fonte: ilcambiamento.it