Il progetto AdaPT Mont‐Blanc

 DESCRIZIONE

Gli ecosistemi alpini sono particolarmente vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici, che si aggiungono o intensificano una vasta gamma di rischi naturali, pressioni antropiche e ambientali che le aree montane devono affrontare già oggi, ma che si intensificheranno nei prossimi decenni. Il progetto AdaPT Mont‐Blanc ‐ Adattamento della pianificazione territoriale ai cambiamenti climatici nell’Espace Mont‐Blanc offre l’esempio di un approccio territoriale ed intersettoriale nella definizione di strategie di adattamento ai cambiamenti climatici. Al progetto partecipano le collettività regionali e locali della regione del Monte Bianco, sia del versante italiano che di quello francese, con l’obiettivo di integrare l’adattamento ai cambiamenti climatici negli strumenti di pianificazione del territorio. AdaPT Mont‐Blanc è un progetto strategico dell’Espace Mont‐Blanc, rientra tra le priorità definite dalla Stratégie d’avénir du Massif du Mont‐Blanc ed è finanziato nell’ambito del Programma europeo di cooperazione territoriale Alcotra Italia‐Francia 2014‐2020. L’obiettivo generale del progetto è sviluppare strumenti di pianificazione e gestione territoriale per l’adattamento ai cambiamenti climatici che possano essere integrati e adottati dalle istituzioni pubbliche dell’Espace Mont‐Blanc ai diversi livelli (locale, regionale), attraverso un percorso partecipato ed un approccio intersettoriale.

ATTIVITA’

Le attività sono coordinate dalla Regione autonoma Valle d’Aosta, attraverso l’assessorato ad Ambiente e risorse naturali, con il supporto tecnico di ARPA Valle d’Aosta e della Fondazione Montagna sicura. In questi anni il progetto ha sviluppato tre linee di attività: l’approfondimento delle conoscenze sugli effetti dei cambiamenti climatici sugli ambienti di montagna, la messa a punto di nuovi strumenti e azioni di supporto alla pianificazione del territorio e la sensibilizzazione dei diversi interlocutori, sia attraverso campagne di comunicazione che attraverso il loro coinvolgimento in un processo partecipativo di supporto al progetto. Sul fronte delle conoscenze, il progetto è stato rivolto a sviluppare l’Osservatorio del Monte Bianco (OMB) per farne un “termometro” del cambiamento climatico e renderlo sempre più uno strumento di supporto alla pianificazione territoriale, attraverso l’analisi e lo studio degli scenari di impatto. La seconda linea di attività è stata rivolta alla definizione di strumenti e azioni locali di adattamento, sia attraverso un’attività di raccolta e analisi di buone pratiche di adattamento ai cambiamenti climatici, nell’ottica di una loro replicazione / trasferibilità sul territorio alpino, sia attraverso lo sviluppo di nuovi strumenti e azioni di pianificazione territoriale che consentano di tenere conto dei cambiamenti climatici a livello regionale e comunale. Il processo partecipativo si è avvalso della metodologia dei world café, coinvolgendo le istituzioni pubbliche e i portatori di interesse locali con l’obiettivo di indirizzare le attività tecniche del progetto in funzione delle esigenze concrete del territorio e riflettere congiuntamente sulle soluzioni per l’adattamento agli effetti dei cambiamenti climatici.

RISULTATI/IMPATTI

Il progetto ha portato all’elaborazione di un Rapporto sui cambiamenti climatici nell’Espace Mont Blanc, che analizza l’evoluzione del clima nell’area di cooperazione fornendo indicazioni sull’andamento atteso di diversi parametri climatici e sul loro impatto sull’ambiente e le attività umane, con orizzonte temporale al 2035, 2050 e 2085. Impatti già in corso e in accelerazione nei prossimi decenni che porteranno a cambiamenti significativi nell’ambiente naturale: ritiro dei ghiacciai, degrado del permafrost, riduzione dell’innevamento di 4‐5 settimane a 2000 m sui pendii meridionali, crescita delle foreste, migrazione ad alta quota di piante e animali. Cambiamenti che si riflettono sull’economia dell’area, soprattutto per quanto riguarda il comparto turistico, che dovrà gestire la progressiva riduzione delle aree sciistiche al di sotto dei 2000 m e insieme il probabile aumento delle presenze turistiche estive, attratte dalla frescura delle zone di montagna. Il Rapporto è stato assunto come base per le analisi condotte nel corso del processo partecipativo, che ha riunito circa 200 persone provenienti dai tre versanti del Monte Bianco, tra amministratori locali, tecnici e professionisti, per individuare le possibili soluzioni per l’adattamento del territorio ai cambiamenti climatici. Le azioni presentate sono il risultato del lavoro svoltosi a cavallo tra il 2018 e il 2019 su tre temi prioritari: “risorse naturali e agricoltura”, “rischi naturali” e “turismo sostenibile” e hanno costituito il primo nucleo della “Boite à outils” di AdaPT Mont‐Blanc, contenitore di tutte le azioni elaborate dal progetto per aiutare gli amministratori locali ed i tecnici nella definizione delle più opportune strategie di adattamento. Per rafforzare il loro impegno nel processo di adattamento, 19 Comuni valdostani hanno sottoscritto la “Carta di Budoia”, dichiarazione volontaria di impegno all’attuazione di misure di adattamento locale ai cambiamenti climatici nei territori alpini elaborata nel quadro della Convenzione delle Alpi.

TRASFERIBILITÀ

L’Espace Mont‐Blanc è considerato una regione montana pilota in virtù della sua esperienza ultraventennale nel campo della cooperazione transfrontaliera e delle caratteristiche ambientali, economiche e sociali del territorio. Per questo motivo il progetto AdaPT Mont‐Blanc può essere considerato un laboratorio per mettere a punto percorsi e strumenti innovativi per migliorare la resilienza degli ambienti montani al cambiamento climatico, che tengano conto delle vulnerabilità territoriali attraverso un approccio intersettoriale.

Fonte: www.sinanet.isprambiente.it/

Giornata della Terra: “Chiediamo stop a deforestazioni e sostegno all’agroecologia”

In occasione della Giornata Internazionale della Terra una coalizione planetaria di oltre 500 organizzazioni chiede lo stop alle deforestazioni e alla perdita di biodiversità e il sostegno alle piccole e medie produzioni agroecologiche. Riconoscere lo stato di crisi in cui si trova il pianeta Terra, identificare le reali cause che hanno condotto all’emergenza sanitaria Covid 19 e approfittare del lockdown per ripartire con un vero cambio di paradigma produttivo, economico, sociale e culturale che tenga conto di quanto la salute della Terra e di tutte le specie che la abitano, animali e vegetali, siano profondamente interconnesse. È questa la richiesta di oltre 500 organizzazioni della società civile internazionale, appartenenti a oltre 50 paesi, che hanno aderito all’appello lanciato da Navdanya International, Naturaleza de derechos e Health of Mother Earth foundation in occasione della Giornata Internazionale della Terra. Il documento, a cui hanno aderito le maggiori organizzazioni ecologiste di tutto il mondo fra cui Ifoam, Third World Network, International Forum on Globalization, Organic Consumers Association, Acción Ecológica, Isde-Medici per l’ambiente, Pesticide Action Network – Italia e Associazione per l’Agricoltura Biodinamica, e sottoscritto da centinaia di ambientalisti fra cui Vandana Shiva, Adolfo Perez Esquivel, Maude Barlow, Maria Grazia Mammuccini, Carlo Triarico, Patrizia Gentilini e Lucio Cavazzoni, denuncia lo stato di degrado del pianeta dovuto a un sistema economico estrattivista e irresponsabile, sotto il controllo di un pugno di multinazionali, interessato solo a ottenere il massimo dei profitti senza curarsi dei danni provocati a livello sociale e ambientale.

https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2020/04/deforestazione-1024x683.jpg

La pandemia in atto, si denuncia nell’appello, è l’ennesimo esempio di una cattiva gestione delle risorse naturali ma è anche un ulteriore grido di allarme che deve necessariamente essere ascoltato prima della prossima inevitabile calamità. Le organizzazioni internazionali chiedono di non tornare al “business as usual” ma piuttosto di supportare le iniziative “bottom up”, già attive su moltissimi territori e basate sul rispetto dell’ambiente e del lavoro, per promuovere una fase di transizione verso sistemi economici democratici, equi ed ecologici. In particolare, è il sistema di produzione agricola industriale a confermare, anche in questa occasione, la sua insostenibilità. La corsa alla deforestazione, per ottenere nuove terre da sfruttare per piantagioni e allevamenti, crea le condizioni ideali per la diffusione di nuove epidemie: «Invadendo gli ecosistemi forestali, distruggendo gli habitat delle specie selvatiche e manipolando piante e animali a scopo di lucro, creiamo le condizioni per nuove epidemie. Negli ultimi 50 anni sono emersi fino a 300 nuovi agenti patogeni. È ben documentato che circa il 70% degli agenti patogeni umani, tra cui HIV, Ebola, Influenza, MERS e SARS, sono emersi quando gli ecosistemi forestali sono stati invasi e i virus sono passati dagli animali all’uomo (salto di specie). Quando gli animali sono costretti a vivere in allevamenti industriali per massimizzare i profitti, nascono e si diffondono nuove malattie come l’influenza suina e l’influenza aviaria».
Agricoltura industriale e allevamenti intensivi contribuiscono alla crisi sanitaria e a debilitare i nostri sistemi immunitari rendendoci ancora più esposti a nuove malattie: «L’agricoltura industriale ad alta intensità chimica e i sistemi alimentari industriali danno origine a malattie croniche non trasmissibili come difetti congeniti, cancro, disturbi endocrini, diabete, problemi neurologici e infertilità. In presenza di queste condizioni preesistenti, che sono alla base della compromissione del nostro sistema immunitario, la morbosità del Coronavirus aumenta drammaticamente».

https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2020/04/covid-19-4961257_1920-1024x576.jpg

È allora necessario ripartire favorendo processi di localizzazione e di economia circolare: «Durante la crisi del Covid-19 e nella fase di ripresa post-coronavirus dobbiamo imparare a proteggere la Terra, i suoi sistemi climatici, i diritti e gli spazi ecologici delle diverse specie e dei diversi popoli – indigeni, giovani, donne, contadini e lavoratori. Per la Terra non ci sono specie sacrificabili e non ci sono popoli sacrificabili. Tutti noi apparteniamo alla Terra. Per evitare future pandemie, carestie e un possibile scenario in cui le persone vengano considerate sacrificabili, dobbiamo andare oltre il sistema economico globalizzato, industrializzato e competitivo. La localizzazione lascia spazio alla prosperità delle diverse specie, delle diverse culture e delle diverse economie locali. Dobbiamo abbandonare l’economia dell’avidità e della crescita illimitata, basate sulla concorrenza e sulla violenza, che ci hanno spinto a una crisi esistenziale e passare a una “Economia della cura” – per la Terra, per le persone e per tutte le specie viventi».
I membri della coalizione planetaria firmatari dell’appello si impegnano infine a sollecitare ed esortare le autorità e i rappresentanti dei governi dei rispettivi paesi, città e comunità, a favorire il passaggio a un paradigma in cui la responsabilità ecologica e la giustizia economica siano il fondamento per la creazione di un futuro sano e prospero per l’umanità. A questo scopo, le organizzazioni indicano una serie di azioni per favorire la transizione fra cui la protezione della biodiversità, l’impulso al biologico, la sospensione dei sussidi pubblici all’agricoltura industriale con la contestuale promozione dell’agroecologia e delle produzioni locali, la fine del sistema delle monocolture, delle manipolazioni genetiche e degli allevamenti intensivi di animali, il contrasto ai cambiamenti climatici e la tutela della sanità pubblica.

https://www.italiachecambia.org/wp-content/uploads/2020/04/vandana-shiva-navdanya.jpg

Foto tratta dalla pagina Facebook di Navdanya International

Dichiarazioni:

Vandana Shiva, Navdanya International: «Un approccio sistemico all’assistenza sanitaria in tempi di crisi del Coronavirus non si occuperebbe solo del virus, ma anche di come le nuove epidemie si stanno diffondendo mentre invadiamo le case di altri esseri. È necessario affrontare il sistema alimentare industriale non sostenibile, antinaturale e malsano alla base dell’epidemia di malattie croniche non trasmissibili. I sistemi alimentari globalizzati e industrializzati diffondono le malattie. Le monocolture diffondono le malattie. La deforestazione diffonde malattie. L’emergenza sanitaria ci costringe a deglobalizzare e dimostra che, se c’è la volontà politica, possiamo farlo. Rendiamo permanente questa deglobalizzazione e la transizione verso la localizzazione».
Fernando Cabaleiro, Naturaleza de Derechos – Argentina: «Questa pandemia ci dice che il sistema di accaparramentoaccumulazione che governa le economie mondiali, e con esse la vita, la salute della terra e delle persone e della biodiversità, ha raggiunto il suo punto di svolta: la sua elevata vulnerabilità è stata esposta dimostrando che è giunto il momento che la politica ascolti tutte le organizzazioni, le assemblee, le persone, i contadini e le popolazioni indigene che da ogni angolo del pianeta già denunciavano e mettevano in guardia da disastri di questo tipo. In questa Giornata della Terra, la società civile globale si unisce in un unico grido di speranza».
Nnimmo Bassey, Health of Mother Earth Foundation (Homef) – Nigeria: «Il mondo è a un bivio. Questo è il momento di smettere di bruciare il Pianeta, dobbiamo lasciarci alle spalle l’era dei combustibili fossili, riconoscere i diritti della Madre Terra e punire l’ecocidio in tutte le sue forme».
Patrizia Gentilini, Isde – Italia: «Non possiamo continuare ad illuderci di essere sani in un mondo malato: la pandemia ha mostrato tutta la fragilità di un sistema predatorio, iniquo e violento nei confronti delle persone e del Pianeta. Tanto meno possiamo pensare di uscire dalla crisi sanitaria, economica e sociale rimanendo ancorati o addirittura prigionieri dello stesso modello di sviluppo e di consumo che ci ha portato ad essa e dobbiamo capire che neppure la tecnologia ci salverà, perché sarà utilizzata non per renderci più liberi, ma piuttosto sempre più schiavi, controllati e succubi. Da questa crisi possiamo uscirne più consapevoli e solidali, imboccando finalmente la strada giusta, ma anche purtroppo, peggiorando ulteriormente le cose e questo purtroppo vediamo profilarsi all’orizzonte».


Leggi e firma il Comunicato per la Giornata della Terra

Visualizza i firmatari

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/04/giornata-della-terra-chiediamo-stop-deforestazioni-sostegno-agroecologia/

Uruguay, inaugurata la prima scuola completamente sostenibile del Sud America

multimedia-160921110905

Le giornate di sole sono una buona notizia per gli alunni di questa scuola dell’Uruguay per molte ragioni: il loro è il primo istituto scolastico dell’America latina al 100% sostenibile grazie all’alimentazione tramite pannelli solari e all’uso di materiali riciclati. “La scuola è un edificio completamente autonomo nel senso che non è collegato a nessuna fonte energetica, funziona solo con risorse naturali”, spiega Francesco Fassina, educatore e membro dell’Ong che ha costruito lo stabile. I muri sono stati realizzati con materiali ricavati da penumatici, bottiglie di plastica e di vetro grazie all’impegno di una Ong locale e al lavoro dell’architetto americano Michael Reynolds. “Le persone mi davano dello stupido. Costruire con la spazzatura, che follia, sei la disgrazia della comunità degli architetti. Io stavo cercando di recuperare l’acqua, di trattarla, di fare tutte queste cose che gli architetti non fanno”

La protezione dell’ambiente è diventata anche una materia di studio per i 39 alunni e per i loro professori che frequentano corsi sulla sostenibilità, compresa la direttrice Alicia Alvarez. “Poco a poco acquisiamo competenze, impariamo come funzionano i meccanismi dell’edificio e il sistema per evitare che si deteriorino”.

Fonte: ecoblog.it

Gli Usa risarciscono i Navajo con 554 Mln di dollari per aver sperperato le loro risorse naturali

Un risarcimento di 554 milioni di dollari è stato riconosciuto agli indiani Navajo in Usa poiché il Governo non ha agito nel loro interesse nella gestione delle loro risorse naturali. Alla Nazione Navajo, la più grande tribù indiana del paese, con più di 300.000 membri si sviluppa su 27.000 chilometri quadrati nel New Mexico, Arizona e Utah è stato riconosciuto un risarcimento da 554 milioni di dollari dal governo statunitense perché le loro risorse naturali sono state sfruttate senza tenere conto degli interessi dei nativi americani. L’accordo sarà ufficialmente annunciato il prossimo venerdì nella sede della Navajo Nation a Window Rock in Arizona e i soldi saranno versati nel giro di un paio di mesi. Il governo federale controlla secondo un accordo che risale al 1800 circa 14 milioni di acri di terra su cui sorge la Navajo Nation e da cui ottiene carbone e petrolio, legname e agricoltura. Nel 2006 la tribù ha intentato una causa in cui sostenuto che il governo non era riuscito a condividere i profitti delle risorse naturali con il benessere della Nazione Navajo. Si è iniziato a contabilizzare la cattiva gestione dal 1946 ed è stata stimata in 900 milioni di dollari di danni subiti dai nativi americani.7552611580_f34a964057_z-620x350

Ben Shelly, il presidente della Nazione Navajo, chiamato indennizzo “equo e giusto” e giunto:

dopo un processo lungo e conquistato a fatica. Sono lieto che siamo finalmente giunti a una risoluzione.

I nativi americani utilizzeranno questi soldi per alleviare la povertà di cui hanno sofferto negli ultimi 50 anni investendo in infrastrutture che possano migliorare la loro vita nella Navajo Nation. L’accordo non preclude la tribù di perseguire future rivendicazioni o eventuali reclami separati per la gestione l’acqua e per l’inquinamento da uranio sul suo prenotazione ha precisato il procuratore generale Harrison Tsosie.

Fonte:  NYT

Foto | Jungle Jim3 @ Flickr

Il possibile collasso della civiltà secondo uno studio della NASA: effetto di sovraconsumo e disuguaglianza

Per la prima volta si mostra attraverso un modello matematico che la maggiore disuguaglianza sociale aumenta il rischio di collasso della società per sovrasfruttamento delle risorse.(1) che possa prevedere il collasso della nostra società per il sovrasfruttamento delle risorse naturali. Sta facendo abbastanza discutere uno studio delle università del Maryland e del Minnesotafinanziato dalla NASA che ha lo scopo di creare un modello (1) che possa prevedere il collasso della nostra società per il sovrasfruttamento delle risorse naturali. Questo lavoro non ha naturalmente il livello di sofisticazione e di complessità svolto dal gruppo del MIT a proposito dei limiti dello sviluppo, ma contiene un elemento interessante ed inedito: per la prima volta indaga sul ruolo della disuguaglianza sociale nell’eventuale collasso della civiltà. Il modello mostra che il collasso è tanto più probabile, quanto è maggiore lo sfruttamento naturale e la stratificazione in classi sociali. I grafici qui sotto mostrano due possibili scenari di raggiungimento dell’equilibrio, quando il fattore di disuguaglianza è pari solo a 10,  oppure di collasso nel caso di una società fortemente disuguale in cui le elite consumano 100 volte il consumo della gente comune (il loro numero effettivo è quindi moltiplicato per cento) (2).Equilibrio-o-collasso-620x307

Le conclusioni dell’articolo sono chiare ed inequivocabili e dovrebbero rappresentare la base di ogni politica sensata di governo:

Il risultato dei nostri esperimenti indica che una sola tra queste due caratteristiche, il sovrasfruttamento delle risorse e una forte stratificazione economica, possono portare indipendentemente al collasso. Data una certa stratificazione economica, il collasso è difficile da evitare e richiede cambiamenti politici di grande rilievo, tra cui una siginificativa riduzione delle disuguaglianza e della crescita della popolazione. Anche in assenza di stratificazione economica, il collasso può comunque avvenire se i consumi pro capite sono troppo alti. Il collasso può tuttavia essere ridotto e la popolazione può raggiugnere un valroe di equilibrio se il consumo pro capite delle risorse è ridotto a un livello sostenibile e se le risorse sono distribuite in modo ragionevolmente equo.

Per la prima volta il tema della giustizia sociale fa il suo ingresso nei modelli sulla capacità di carico dell’ecosistema, e questo è molto importante. Come affermato dai ricercatori, non ci possiamo però illudere che uguaglianza significhi di per sè sostenibilità.

(1) Il modello matematico è naturalmente una descrizione semplificata delle realtà, che prende in considerazione quattro variabili: popolazione comune, popolazione delle elitè (i ricchi), le risorse naturali e la ricchezza della società. L’evoluzione di queste quattro variabili è descritta da equazioni che prendono ispirazione dal modello predatore-preda di Lotka-Volterra.

(2) Non è possibile qui approfondire gli aspetti di questo modello che andrebbe studiato per poter essere presentato nel modo più efficace. Mi piacerebbe farlo, se riuscissi a trovare il tempo.

Fonte: ecoblog.it

10.Un’impostazione europea sulla sostenibilità

Attraverso una serie di misure legislative, i responsabili politici dell’UE mirano a rendere l’Europa più efficiente sotto il profilo delle risorse. Ma come può l’Europa trovare un equilibrio tra economia e natura? Nell’ambito della conferenza Rio+20, qual è il significato della parola sostenibilità per l’UE e le aree in via di sviluppo? Presentiamo un punto di vista. Intervista con Gerben-Jan Gerbrandy Gerben-Jan Gerbrandy è stato un membro del Parlamento europeo nel gruppo dell’Alleanza dei Liberali e dei Democratici per l’Europa dal 2009. Proviene dal partito liberale olandese «Democrats 66».29

Qual è la sfida maggiore a cui è sottoposto l’ambiente? Come possiamo affrontarla?

«La sfida maggiore è costituita dall’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali. Il consumo umano va ben oltre i limiti naturali del nostro pianeta. Il nostro modo di vivere, più nello specifico il nostro modo di gestire l’economia, semplicemente non è sostenibile. La popolazione mondiale raggiungerà i nove miliardi entro qualche decennio e avrà bisogno del 70% di cibo in più. Di conseguenza, una seconda sfida riguarda i modi per nutrire questa crescente popolazione, dal momento che già stiamo già affrontando il problema della scarsità di numerose risorse. Per affrontare queste sfide, è necessario modificare le basi della nostra economia. Ad esempio, le nostre economie non pongono un valore economico su un’ampia serie di benefici che riceviamo gratuitamente. Il valore di una foresta è preso in considerazione quando la si trasforma in legname, ma non quando viene mantenuta intatta. Il valore delle risorse naturali dovrebbe, in qualche modo, essere riflesso nell’economia.»

Possiamo veramente cambiare le basi della nostra economia?

«Ci stiamo lavorando. Ritengo che presto riusciremo a trovare dei modi per inserire il valore completo delle risorse naturali all’interno dell’economia. Ma, fatto ancora più importante, vi sono tre elementi chiave che stanno costringendo l’industria a diventare più efficiente dal punto di vista delle risorse. Il primo è la scarsità delle risorse. Di fatto, siamo in presenza di ciò che chiamo la «rivoluzione industriale verde». La scarsità delle risorse costringe le imprese a impostare processi per il recupero e il riutilizzo delle risorse o a cercare altri modi per utilizzare le risorse in modo efficiente.  La spinta al consumo costituisce un altro elemento. Guardiamo le pubblicità. I grandi produttori di automobili non parlano più di velocità, ma di prestazioni ambientali. Inoltre, le persone sono notevolmente più consapevoli dell’immagine dell’impresa per cui lavorano. Il terzo elemento è la legislazione. Abbiamo costantemente bisogno di migliorare la legislazione in materia ambientale poiché  non tutto può essere conseguito tramite le pressioni del mercato, la scarsità delle risorse e la spinta dei consumatori.»30

Qual è il fattore più importante che determina le scelte del consumatore?

«Senza dubbio il prezzo. Per ampi segmenti della società, scegliere in base a ragioni diverse dal prezzo costituisce un lusso. È tuttavia possibile scegliere di consumare prodotti alimentari di stagione e locali, oppure prodotti freschi, che spesso sono perfino più economici. Per queste persone, e per la società nel suo complesso, ciò comporta evidenti benefici per la salute. La scelta di un’opzione più sostenibile dipende dall’infrastruttura nonché dalla consapevolezza della gente del loro impatto sull’ambiente. Se non è presente alcuna infrastruttura per il trasporto pubblico, non possiamo aspettarci che la gente smetta di recarsi al lavoro in auto. Oppure, nel caso della legislazione, se non siamo in grado di spiegare il valore di certe norme o leggi, sarà quasi impossibile applicarle. Abbiamo bisogno di coinvolgere e convincere le persone. Ciò richiede spesso la traduzione delle nozioni scientifiche nella lingua di tutti i giorni, a beneficio non solo dei cittadini, ma anche dei responsabili politici.»

Cosa può rendere un «successo» la conferenza Rio+20?

«Abbiamo bisogno di risultati concreti, come un accordo relativo a un nuovo quadro istituzionale od obiettivi specifici sull’economia verde. Ma, anche in assenza di risultati concreti, la conferenza può avere una grande influenza. Sono un convinto sostenitore della creazione di un tribunale internazionale per i crimini ambientali o di un quadro istituzionale che eviti il ripetersi di situazioni di stallo come quelle che abbiamo sperimentato nelle recenti tornate di negoziati sull’ambiente. Indipendentemente dai progressi compiuti nella creazione di tali istituzioni, solamente il fatto che stiamo discutendo e provando a trovare soluzioni congiunte costituisce un enorme passo in avanti. Fino a poco tempo fa, i negoziati globali sull’ambiente dividevano il mondo in due parti: i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo. Ritengo che ci stiamo allontanando da tale approccio bipolare. A causa della maggiore dipendenza economica dalle risorse naturali, molti dei paesi in via di sviluppo saranno tra i primi a subire le conseguenze della scarsità delle risorse. Se la conferenza di Rio riuscirà a convincere molti di essi ad adattarsi a pratiche più sostenibili, la considererò un grande successo.»

In tale contesto, l’Europa può aiutare il mondo in via di sviluppo?

«Il concetto di economia verde non è importante solamente per i paesi sviluppati. Esso può di fatto prevedere una prospettiva più lunga. Al momento, molti dei paesi in via di sviluppo stanno vendendo le proprie risorse naturali a prezzi molto bassi. Le prospettive a breve termine sono allettanti, ma potrebbero anche significare che i paesi stanno svendendo il loro benessere e la loro crescita futuri. Tuttavia, ritengo che la situazione stia cambiando. I governi si stanno preoccupando maggiormente delle implicazioni a lungo termine delle esportazioni delle risorse. In numerosi paesi in via di sviluppo l’industria ha iniziato a investire anche nella sostenibilità. Così come le loro controparti nei paesi sviluppati, anch’essi affrontano la scarsità  delle risorse. Ciò costituisce un incentivo finanziario molto forte per le imprese di tutto il mondo. Personalmente, ritengo che potremmo contribuire aprendo i nostri mercati agricoli e permettendo a questi paesi di generare più valore aggiunto. Attualmente, le imprese straniere arrivano ed estraggono le risorse e vi è solo un minimo input economico da parte della popolazione locale. L’agricoltura in generale è fondamentale. Se guardiamo alle sfide future connesse alla produzione alimentare globale, è evidente che abbiamo bisogno di più cibo e per fare ciò occorre aumentare l’efficienza produttiva nei paesi in via di sviluppo. Una maggiore produzione agricola nei paesi in via di sviluppo ridurrebbe inoltre le loro importazioni alimentari.»

Come cittadino europeo, cosa significa per Lei «vivere in modo sostenibile»?

«Significa una serie di piccole cose, come indossare un maglione invece di alzare il riscaldamento, utilizzare i trasporti pubblici invece dell’automobile ed evitare di viaggiare in aereo se possibile. Significa anche portare i miei figli, ma anche gli altri, a conoscenza del concetto di sostenibilità e dell’impatto delle loro scelte quotidiane. Non posso affermare che per me è sempre possibile evitare di viaggiare in aereo, data la mia posizione. Ma questo è il motivo per cui dobbiamo rendere il viaggio in aereo più sostenibile insieme ai nostri modelli di consumo non sostenibili. Questa è la sfida dell’economia verde.»

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

 

7. Pagare il prezzo «giusto»?

Le economie di molti paesi in via di sviluppo puntano sullo sfruttamento delle risorse naturali per affrancare le loro popolazioni dalla povertà, con un danno potenziale per i sistemi naturali da cui dipendono. 16

Spesso, le soluzioni a breve termine compromettono il benessere della popolazione sul lungo termine. Possono i governi aiutare i mercati a stabilire il prezzo «giusto» per i servizi della natura e influenzare le scelte economiche? Analizziamo cosa significa per il Burkina Faso utilizzare acqua per la produzione del cotone. A livello mondiale, oltre un miliardo di

persone vive in condizioni di «povertà estrema», ovvero con meno di 1,25 dollari USA al giorno secondo la definizione della Banca mondiale. Sebbene la percentuale di popolazione povera nel mondo sia diminuita notevolmente negli ultimi 30 anni, un numero significativo di paesi, molti dei quali africani, stentano a fare passi in avanti. In questi paesi, l’economia è spesso incentrata sullo sfruttamento delle risorse naturali: attività agropastorale, forestale, mineraria e così via. Di conseguenza, gli sforzi per stimolare la crescita economica e soddisfare le esigenze di popolazioni in rapida crescita possono mettere a dura prova gli ecosistemi. In molti casi, le risorse, come il cotone, vengono coltivate o estratte nei paesi in via di sviluppo ed esportate nelle aree più ricche, come l’Europa. Una simile realtà investe i consumatori del mondo industrializzato di un ruolo importante: aiutare «l’ultimo miliardo» a uscire dalla povertà o minarne ogni possibilità di successo danneggiando i sistemi naturali da cui queste persone dipendono.

L’«oro bianco»

In Burkina Faso, un paese arido, privo di sbocco sul mare ed estremamente povero, situato ai margini meridionali del Sahara, il cotone è un grande affare. Anzi, enorme. Con il rapido aumento della produzione degli ultimi anni, il Burkina

Faso è oggi il maggiore produttore di cotone del continente africano. L’«oro bianco», come è conosciuto nella regione,

rappresentava nel 2007 l’85% dei proventi delle esportazioni del paese e il 12% della produzione economica. Fatto fondamentale, i proventi derivanti dal cotone risultano estremamente dispersi. Il settore occupa tra il 15% e il 20% della forza lavoro, fornendo un reddito diretto a 1,5–2 milioni di persone. Come principale motore della crescita economica

dell’ultimo decennio ha generato un gettito fiscale in grado di finanziare interventi migliorativi in settori quali la sanità e

l’istruzione. Per la popolazione del Burkina Faso, i vantaggi della coltivazione del cotone son ben chiari. Spesso, i costi lo sono meno.

Breve glossario dell’acqua

L’impronta idrica e l’acqua virtuale sono due concetti che aiutano a capire quanta acqua consumiamo.17

L’impronta idrica è il volume di acqua dolce utilizzata per produrre i beni e i servizi consumati da una persona o da una comunità oppure realizzati da un’azienda. È costituita dalla somma di tre componenti. L’impronta idrica blu rappresenta il volume di acqua superficiale e sotterranea utilizzato per produrre beni e servizi. L’impronta idrica verde è la quantità di acqua piovana utilizzata durante la produzione. L’impronta idrica grigia è costituita dal volume di acqua inquinata dalla produzione. Qualsiasi bene o servizio esportato comporta anche l’esportazione della cosiddetta «acqua virtuale», ovvero l’acqua utilizzata per produrre il bene o il servizio in questione. Si parla di esportazione di acqua virtuale quando un bene o un servizio viene consumato al di fuori dei confini del bacino idrografico da cui l’acqua è prelevata. Per i paesi o i territori importatori, l’importazione di «acqua virtuale» consente di utilizzare le risorse idriche interne per altre finalità, che possono essere di grande utilità per i paesi in cui l’acqua scarseggia. Purtroppo, molti paesi esportatori di acqua virtuale sono in realtà paesi poveri d’acqua ma dal clima soleggiato, che ben si addice alla produzione agricola. Nei paesi carenti d’acqua, l’esportazione di acqua virtuale comporta ulteriori pressioni sulle

risorse idriche e spesso impone costi sociali ed economici in quanto l’insufficiente disponibilità d’acqua viene destinata ad altre

attività e ad altre esigenze.

Fonte: Water Footprint Network (Rete dell’impronta idrica)

 

Un quarto degli abitanti non ha accesso all’acqua potabile. Per oltre l’80% si tratta di coltivatori che praticano l’agricoltura di sussistenza, per i quali la capacità di soddisfare i bisogni primari, quali cibo e rifugio, dipende dall’acqua. Inoltre, secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale, la domanda annua di risorse idriche supera del 10–22% la disponibilità. In tale contesto, la forte crescita della produzione di cotone degli ultimi anni appare rischiosa. Il cotone ha bisogno di molta acqua per crescere: richiede interventi di irrigazione durante la stagione secca e consuma molta più acqua di altre colture ampiamente diffuse. Destinare l’acqua alla produzione del cotone significa sottrarla ad altri possibili utilizzi. La maggior parte del raccolto viene esportata, il che significa che grandi quantità d’acqua vengono utilizzate per soddisfare la domanda di consumatori che vivono altrove. Questo processo è conosciuto sotto il nome di esportazione di «acqua virtuale». Una metà del cotone del Burkina Faso è

esportata in Cina, dove viene venduta alle filande locali e da lì alle ditte produttrici, che servono i mercati mondiali. Alla fine della catena di approvvigionamento, i consumatori di prodotti derivati dal cotone importano di fatto considerevoli volumi d’acqua, talvolta da aree del pianeta molto più aride. Nel caso del cotone, uno studio ha rivelato che l’84% dell’impronta idrica dell’Europa si colloca fuori dall’Europa. Per i paesi aridi, come il Burkina Faso, è generalmente preferibile importare prodotti a elevato consumo idrico, anziché esportarli. Dopo tutto, esportare «acqua virtuale» può significare che non ne rimanga a sufficienza per le popolazioni e

gli ecosistemi locali. Detto ciò, l’unico modo per capire se usare l’acqua per coltivare il cotone sia una buona soluzione per il Burkina Faso è valutare i costi e i benefici totali rispetto ad altri impieghi. Come tale, il concetto dell’acqua virtuale non dice quale sia il modo migliore di gestire l’acqua, anche se fornisce informazioni molto utili sull’impatto delle nostre scelte di produzione e consumo.

Più inquinamento, meno foreste

Il consumo idrico non è l’unico motivo di preoccupazione legato alla produzione di cotone in Burkina Faso. Di solito, la coltivazione del cotone comporta un uso massiccio di pesticidi. Infatti, il cotone corrisponde a ben il 16% dell’uso di pesticidi a livello mondiale, pur coprendo appena il 3% delle terre coltivate. Le ripercussioni sulle popolazioni e gli ecosistemi locali possono essere gravi. Tuttavia, finché i singoli coltivatori che utilizzano i pesticidi non percepiscono la totalità di questi effetti e finché, addirittura, non ne diventano consapevoli, le loro decisioni non potranno tenerne conto (per tale ragione, può essere importante istruire e informare gli

agricoltori locali sui pesticidi e sui loro effetti). L’acqua non è l’unica risorsa a essere utilizzata. Un’altra risorsa fondamentale è la terra. Come quasi dappertutto, in Burkina Faso il territorio può essere utilizzato in molti modi diversi. I suoi abitanti devono forse gran parte della ricchezza del paese alla destinazione della terra alla coltivazione del cotone?18

«A soli otto anni, Modachirou Inoussa già aiutava i genitori sui campi di cotone. Il 29 luglio 2000 Modachirou aveva lavorato duramente ed era corso a casa assetato. Lungo il tragitto aveva trovato un recipiente vuoto, con cui aveva raccolto da un canale un po’ d’acqua da bere. Quella sera non fece ritorno a casa. Il suo corpo fu ritrovato dagli abitanti del villaggio accanto a un flacone vuoto di Callisulfan».

Casi di avvelenamento da endosulfan in Africa occidentale, riportato da PAN UK

(Pesticide Action Network) Rete d’Azione sui Pesticidi, Regno Unito, 200619

Ciò che è bene per uno può non essere bene per tutti

Questa non è una domanda inutile. La superficie forestale del Burkina Faso si è ridotta del 18% nel periodo 1990–2010, in parte a causa dell’espansione agricola, e il tasso di diminuzione è in crescita. In Burkina Faso, un proprietario privato di un terreno forestale può preferire produrre il cotone perché vendere il legno (o utilizzarlo come combustibile) e coltivare la terra è più redditizio che preservare la foresta. Questo però non è necessariamente il risultato migliore per il paese, per la sua popolazione e per i suoi ecosistemi. La foresta fornisce agli esseri umani, vicini e lontani, vantaggi di gran lunga superiori al valore della legna. Costituiscono un habitat per la biodiversità, prevengono l’erosione del terreno, assorbono biossido di carbonio, offrono opportunità ricreative e così via. Se la società nel suo insieme dovesse decidere quale uso fare della terra, e se potesse decidere sulla base di una valutazione completa dei costi e dei benefici delle diverse opzioni, probabilmente non esaurirebbe tutta la terra e tutta l’acqua

solo per produrre cotone. La differenza tra i benefici e i costi per i singoli e per la società è di fondamentale importanza. Nel rispondere ad alcune domande chiave (quanta acqua usare per coltivare il cotone, quanti pesticidi, quanta terra) gli agricoltori di tutto il mondo decidono sulla base dei relativi costi e benefici. Tuttavia, mentre può beneficiare appieno della vendita del cotone,

l’agricoltore di solito non ne sostiene tutti i costi. La spesa per acquistare i pesticidi, ad esempio, spesso appare irrisoria di fronte

agli effetti che i pesticidi hanno sulla salute. In questo modo, i costi gravano su altri, tra cui le future generazioni. I problemi nascono dal fatto che l’agricoltore, come del resto tutti noi, fonda le sue decisioni sull’interesse personale. Tale distorsione si trasmette attraverso i mercati globali. I prezzi sostenuti da commercianti, aziende tessili e, in ultima analisi, dai consumatori danno una rappresentazione falsata dei costi e dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse e dalla produzione delle merci. È un problema serio. In buona parte del mondo, i mercati e i prezzi servono a guidare le nostre decisioni; di conseguenza, se i prezzi forniscono un’immagine fuorviante dell’impatto della produzione e del consumo, le decisioni che prenderemo saranno sbagliate. La storia ci insegna che i mercati possono costituire un meccanismo molto efficace per orientare le nostre decisioni sull’utilizzo delle risorse e sulla produzione e per aumentare al massimo la prosperità. Quando però i prezzi sono sbagliati, i mercati falliscono.h2o

«Il 99% dei coltivatori di cotone nel mondo vive in aree in via di sviluppo. Ciò significa che i pesticidi vengono utilizzati

dove il livello di analfabetismo è elevato e dove il tema della sicurezza è poco sentito, con rischi sia per l’ambiente che per

le vite umane».

Steve Trent, direttore di Fondazione per la giustizia ambientale (Environmental Justice Foundation)

Quando i mercati falliscono: correzioni e vincoli

Cosa possiamo fare? In una certa misura, i governi possono intervenire per correggere i difetti del mercato. Possono imporre norme e tasse sull’utilizzo dell’acqua e dei pesticidi, in modo tale che gli agricoltori ne utilizzino meno oppure trovino alternative meno dannose. Per contro, possono prevedere pagamenti destinati ai proprietari dei terreni forestali tali da rispecchiare benefici che le foreste forniscono alla società a livello nazionale e internazionale, garantendo in questo modo una fonte alternativa di reddito. Il segreto sta nell’allineare gli incentivi rivolti ai singoli con quelli destinati alla società nel suo insieme. È inoltre importante fornire informazioni ai consumatori per completare quelle veicolate dal prezzo. In molti paesi, sono sempre più diffuse le etichette che spiegano come viene prodotto un bene, così come le campagne promosse dai gruppi di interesse per sensibilizzare e migliorare la comprensione di queste tematiche. Molti di noi sarebbero disposti a pagare di più o a consumare di meno se comprendessero la portata dell’impatto delle nostre scelte. In alcuni casi, i governi devono fare di più e, oltre a correggere il mercato, sono effettivamente chiamati a limitarne il ruolo di distribuzione delle risorse. Gli esseri umani come gli ecosistemi hanno bisogno dell’acqua per vivere e prosperare. Di fatto, si potrebbe argomentare che le persone hanno diritto all’acqua in quantità sufficiente per dissetarsi e per avere il cibo, i servizi igienici e un ambiente salubre. I governi potrebbero quindi essere tenuti a garantire che tali esigenze siano soddisfatte prima di ricorrere al mercato per spartire il resto. Tornando al Burkina Faso, il governo e i partner internazionali puntano a soddisfare il bisogno primario dell’accesso all’acqua potabile. Benché la realtà non sia ancora

questa per un quarto della popolazione, la situazione attuale rappresenta un netto miglioramento rispetto a 20 anni fa, quando il 60% degli abitanti non aveva accesso all’acqua.20

Cambiare gli incentivi

A livello globale, sono in atto interventi per correggere e porre vincoli sui mercati aperti, traendone al contempo numerosi benefici.

In questo momento, tuttavia, i prezzi del mercato forniscono spesso informazioni fuorvianti, con il risultato che produttori e consumatori prendono decisioni errate. Se i mercati funzionassero in maniera adeguata e se i prezzi rispecchiassero appieno costi e benefici delle nostre azioni, continuerebbe il Burkina Faso a produrre cotone? Benché sia difficile saperlo con certezza, sembra assai probabile. Per un paese come il Burkina Faso, estremamente povero, privo di sbocchi sul mare e carente di risorse, non esistono strade agevoli per raggiungere la prosperità. Il settore del cotone offre quantomeno ricavi considerevoli, fornendo potenzialmente una piattaforma di sviluppo economico e livelli di vita migliori. Tuttavia, continuare a produrre cotone non deve significare continuare ad applicare tecniche produttive a elevato consumo idrico e di pesticidi. Né continuare a ridurre le aree forestali. I metodi alternativi, quali la produzione di cotone biologico, possono ridurre il consumo di acqua ed escludere del tutto l’utilizzo dei pesticidi. I costi diretti della coltivazione del cotone biologico sono superiori, il che comporta prezzi più alti pagati dai consumatori per i prodotti in cotone, ma sono più che compensati dalla riduzione dei costi indiretti a carico dei coltivatori e delle loro comunità.

A noi la scelta

I responsabili politici hanno certamente un ruolo da svolgere nel far sì che i mercati funzionino correttamente, in modo tale che

i segnali dei prezzi incoraggino l’assunzione di decisioni sostenibili. Ma non sono solo loro a dover intervenire: anche una cittadinanza informata può fare la differenza. Disporre di catene di approvvigionamento globali implica che le decisioni dei produttori, dei rivenditori e dei consumatori in Europa possano condizionare in modo significativo il benessere di popolazioni in territori remoti come il Burkina Faso. Tale condizionamento può includere non soltanto la creazione di occupazione e di reddito, ma anche lo sfruttamento eccessivo di risorse idriche limitate e l’avvelenamento delle comunità e degli ecosistemi locali. In definitiva, i consumatori hanno il potere di decidere. Proprio come i responsabili politici possono orientare i nostri consumi influenzando i prezzi, così i consumatori possono inviare segnali ai produttori, chiedendo un cotone coltivato in modo sostenibile. È un aspetto che vale la pena di considerare la prossima volta che acquistiamo un paio di jeans.

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

Aree protette: “la fretta mette a rischio i parchi”

“Il disegno di legge che il Senato vuole approvare con urgenza allontana i parchi italiani dalla conservazione della natura. La somma d’interessi particolari non corrisponde mai all’interesse pubblico generale”. È quanto sostengono le principali associazioni ambientaliste, contrarie alla riforma della Legge quadro sulle aree naturali protette.parchi_naturali3

Le otto Associazioni chiedono al Parlamento l’avvio di un ampio confronto con tutte le parti interessate sul rilancio del ruolo dei parchi e delle riserve naturali

La dichiarazione d’urgenza approvata ieri dal Senato per l’approvazione del disegno di legge n.119 sulla riforma della Legge quadro sulle aree naturali protette (legge n. 394/1991) conferma purtroppo il prevalere degli interessi particolari e privati nella gestione del patrimonio naturale e culturale del Paese. Il disegno di legge presentato dal Senatore D’Alì soddisfa senz’altro gli interessi di cacciatori e cavatori e quanti altri interpretano i parchi essenzialmente come ostacolo ai propri particolari interessi e considerano le norme di tutela solo un vincolo all’utilizzo delle risorse naturali. Purtroppo la somma degli interessi particolari, anche degli agricoltori, non corrisponde mai all’interesse pubblico generale del Paese. Le maggiori Associazioni ambientaliste criticano la decisione del Senato di procedere con urgenza all’esame del disegno di legge presentato dal Senatore D’Alì, che ripropone integralmente il testo raffazzonato e improvvisato approvato dalla Commissione Ambiente del Senato al termine della scorsa legislatura. Con questo voto il ddl n.119 diventa purtroppo il testo di riferimento per la riforma della legge quadro sulle aree naturali protette, la Legge n.394 del 1991. Si allontana così la possibilità di un sereno confronto sulla riforma della legge esasperando ulteriormente il conflitto tra Associazioni ambientaliste e chi caparbiamente continua a sostenere e difendere i contenuti della riforma proposta dal Senatore D’Alì. Una riforma che allontana i parchi dalla loro missione prevalente: la conservazione della natura. Con l’adesione del CTS si allarga nel frattempo il fronte delle Associazioni ambientaliste che criticano i contenuti, le modalità ed i tempi di questa riforma della legge sui parchi. CTS, FAI, Italia Nostra, LIPU, Mountain Wilderness, Pronatura, Touring Club Italiano e WWF Italia considerano infatti grave procedere alla modifica della normativa di riferimento per l’istituzione e la gestione delle aree naturali protette nel nostro paese senza una adeguata analisi e riflessione sullo stato di applicazione della legge quadro ed una attenta valutazione sulla gestione attuale dei parchi. parco_gran_paradiso4

“La riforma prevista rischia di aprire le porte alla caccia nei parchi per interessi lontani dalla conservazione della biodiversità nel nostro paese”

Le otto Associazioni chiedono al Parlamento l’avvio di un ampio confronto con tutte le parti interessate sul rilancio del ruolo dei parchi e delle riserve naturali per garantire una efficace conservazione del patrimonio naturale del Paese e si adopereranno già dai prossimi giorni per presentare e far comprendere a senatori e deputati le ragioni del loro dissenso sui contenuti del disegno di legge D’Alì. Sono almeno quattro i motivi per cui le maggiori Associazioni ambientaliste non condividono le proposte di riforma della Legge 394/1991 presenti nel disegno di legge n.119 del Senatore D’Alì:

1.  perché verrebbero rivisti gli equilibri, in modo evidente e comprensibile anche per i non addetti ai lavori, tra coloro che rappresentano negli enti di gestione interessi nazionali generali e chi rappresenta interessi particolari e privati. Nessuno intende contrapporre i legittimi interessi delle comunità locali alle esigenze di tutela della natura ma è quanto mai opportuno nel nostro Paese assicurare il rispetto di quella gerarchia di valori ribadita in più occasioni dalla Corte Costituzionale per la quale la tutela dell’ambiente dovrebbe prevalere sempre su qualunque interesse economico privato.

2. è piena d’insidie la distinzione artificiosa che si vorrebbe introdurre tra attività venatoria e controllo della fauna selvatica, pur con la supervisione dell’ISPRA, l’Istituto di ricerca del Ministero dell’Ambiente. Si prevede di fatto un diretto coinvolgimento dei cacciatori nella gestione della fauna all’interno delle aree naturali protette. La normativa attuale già consente interventi da parte degli Enti Parco per la gestione dei problemi che alcune specie, essenzialmente il cinghiale, possono determinare se presenti in sovrannumero. La riforma prevista rischia di aprire le porte alla caccia nei parchi per interessi lontani dalla conservazione della biodiversità nel nostro paese.

3. manca  inoltre, come indispensabile premessa ad ogni ipotesi di riforma della Legge attuale, una seria analisi dei problemi nella gestione dei parchi in relazione al ruolo centrale che dovrebbero svolgere per la tutela della natura. Risale infatti al 2002, cioè alla seconda Conferenza nazionale sulle aree naturali protette di Torino, l’ultima occasione di ampio confronto e dibattito sul nostro sistema nazionale di parchi e riserve naturali.

4. c’è infine da rilevare che in assenza di una seria valutazione sullo stato delle nostre aree naturali protette le proposte di riforma della Legge entrano esclusivamente nel merito delle rappresentanze negli Enti di gestione, delle procedure di nomina di Presidenti e Direttori, di possibili meccanismi di finanziamento attraverso royalty che rischiano di determinare pesanti condizionamenti nella gestione delle risorse naturali dei territori protetti e nella gestione della fauna attraverso un discutibile quanto inopportuno coinvolgimento del mondo venatorio.

Per questi motivi le otto Associazioni ambientaliste rilanciano l’allarme sul destino dei parchi italiani ed auspicano una opportuna ampia riflessione prima di riavviare il processo di riforma della Legge quadro 394/91, nei tempi e modi opportuni, con l’avvio di un serio ed approfondito confronto sul futuro dei parchi con il solo obiettivo di assicurare una loro gestione più efficace per la conservazione del nostro patrimonio naturale.

(*)CTS, FAI, Italia Nostra, LIPU, Mountain Wilderness, Pronatura, Touring Club Italiano, WWF Italia

Fonte: il cambiamento

Siamo all’Earth Overshoot Day e abbiamo già consumato le risorse di un anno

Bilancio in rosso per la Terra: la quota si risorse naturali che ci dovrebbe bastare per un anno è stata già consumata08-overshoot-day-620x350

Dal 20 agosto siamo in rosso: l’umanità si è appena fatta fuori le risorse naturali, con due giorni di anticipo rispetto allo scorso anno, che le sarebbero dovute bastare per un anno: acqua, suolo, aria, pesca, oceani, cibo…tutto è già stato consumato. In pratica la nostra impronta ecologica è insostenibile per il Pianeta e abbiamo usato le risorse disponibili una volta e mezza oltre la capacità globale di rigenerarsi, avverte il tank Global Footprint Network. Ma l’Europa va ben oltre consumandone ben due volte e mezza mentre gli Stati Uniti arrivano a consumarne oltre le 4 volte. La corsa al consumo delle risorse è inarrestabile: nel 2011 l’overshooday cadde il 27 settembre. Spiega Tony Long, direttore del WWF Europa:

La natura è la base del nostro benessere e della nostra prosperità ma stiamo consumando troppo le risorse limitate e disponibili su questo pianeta. Se tutti i paesi del mondo dovessero consumare le risorse naturali allo stesso modo allora avremmo bisogno di 2,66 pianeti per sostenere i nostri livelli di consumo attuali. Tra il 1990 e il 2008 un’area della foresta tropicale pari a tre volte le dimensioni del Belgio è stata autorizzata per la coltivazione di prodotti agricoli destinati per l’UE Stiamo effettivamente usando la nostra quota delle nostre risorse e quelle di altri paesi.

Ma non solo risorse naturali, ci stiamo facendo fuori anche i combustibili fossili. Spiega Philippe Carr portavoce del WWF:

Stiamo bruciando combustibili al di sopra di ciò che dovremmo. Più del 50% dell’impronta ecologica è composta l’impronta di carbonio, soprattutto dalla combustione di combustibili fossili.

La Commissione europea ha sollecitato l’uso più efficiente delle risorse nell’economia della Ue con la pubblicazione nel settembre 2011 una tabella di marcia per un Europa meno sprecona Ciò richiede l’introduzione di indicatori e obiettivi per i 28 Stati membri. Ma ancora oggi non esistono leggi che governano l’efficienza delle risorse a livello europeo.

Fonte:  Euractiv

Aree agricole, nel mondo l’84% è a rischio

campi_agricoli

 

“Circa 2 miliardi di ettari delle terre emerse sono interessati a diversi livelli da processi di degrado, compromettendo l’84% delle aree agricole a livello mondiale e coinvolgendo circa un quarto della popolazione del globo”. Lo rende noto Maria Luigia Giannossi, ricercatrice dell’Istituto di metodologie per l’analisi ambientale del Cnr, basandosi su nuovi studi che saranno illustrati a Pisa dal 16 al 18 settembre durante la manifestazione Geoitalia 2013 organizzata dalla Federazione italiana di scienze della terra. In Italia il fenomeno della cosiddetta ‘land degradation’ colpisce in maniera significativa le regioni meridionali e insulari: Basilicata, Puglia, Calabria, Sardegna e Sicilia. Qui, oltre allo stress di natura climatica, “la pressione spesso non sostenibile delle attività umane sull’ambiente sta determinando una riduzione della produttività biologica ed agricola ed una progressiva perdita di biodiversità degli ecosistemi naturali”. Spiega sempre Giannossi in una nota. ”Anche le regioni del centro nord, in particolare Toscana, Emilia Romagna e la Pianura Padana in generale – aggiunge Giannossi – manifestano un peggioramento della situazione idrometeorologica e sono sempre più vulnerabili all’irregolarità delle precipitazioni, alla siccità ed all’inaridimento”. “Nell’ambito di vari studi promossi dall’IMAA CNR sono stati realizzati 3 progetti di cui uno in corso – ha dichiarato Giannossi – tutti indirizzati a studi integrati per il monitoraggio del fenomeno della land degradation nelle regioni meridionali in particolar modo in Basilicata e per il sostegno alle metodiche di salvaguardia delle risorse naturali (suoli e acque). Dai risultati osservabili risulta che la Basilicata è particolarmente interessata dal rischio land degradation. I rapporti disponibili sono consultabili sul sito mildmap-media.basilicatanet.it Tra i processi di degrado a cui è soggetta la Basilicata, sono stati studiati in dettaglio il fenomeno dell’erosione del suolo con sviluppo delle tipiche forme morfologiche: i calanchi; nonché il fenomeno di degrado di origine chimica: la salinizzazione (oggetto del progetto PRO_Land “Studio dei processi di land degradation a supporto delle attività di prevenzione e gestione degli impatti indotti sull’ambiente”, finanziato dal Programma Operativo FESR Basilicata 2007-2013, tuttora in atto). Questi fenomeni sono stati studiati con tecniche integrate in situ e di remote sensing al suolo e da satellite per quantificare la gravità e l’impatto dei fenomeni di land degradation. I punti di innovazione del progetto sono da ricercarsi nella valutazione di tutte le geomatrici ambientali colpite dal fenomeno, nell’utilizzo di tecniche integrate e nella valorizzazione delle competenze degli stakeholder locali per la mappatura del degrado del territorio e per la valutazione de corretta gestione sostenibile del territorio”. La necessità di fermare o prevenire i processi di degrado ha sollecitato la comunità scientifica internazionale a fornire strumenti interpretativi dei fenomeni di degrado, per comprenderne meglio i fattori predisponenti e le loro mutue interazioni e supportare, infine, i decisori nella scelta delle più adeguate soluzioni di mitigazione e/o recupero”. “L’elaborazione di mappe, oltre ad essere uno strumento di collaborazione scientifica tra i paesi affetti nelle regioni del nord mediterraneo – ha concluso Giannossi – è dunque diventato parte integrante delle politiche ambientali adottate dai diversi paesi. Il degrado delle terre e dei suoli agricoli dipende da fattori climatici e di origine antropica – soprattutto per quanto riguarda i paesi industrializzati – come una gestione impropria del territorio, e ha implicazioni dirette e indirette perché mette a rischio la sicurezza alimentare e il cambiamento climatico ma anche, conclude Giannossi, ”le guerre legate allo sfruttamento delle risorse naturali e la conseguente presenza di ecorifugiati”. Si tratta quindi di una tra le maggiori emergenze sociali e ambientali del nostro tempo, per questo ora anche la comunità scientifica sta riconoscendo questa emergenza, munendosi di strumenti per il monitoraggio del degrado e consumo di suolo agricolo.

Fonti: IMAA Cnr