Acqua privatizzata? I cittadini battono la Nestlè in Oregon

In un paesino dell’Oregon la Nestlé voleva imbottigliare e commercializzare l’acqua di un fiume locale e prometteva di portare molti posti di lavoro e ricchezza. I cittadini di Cascade Locks però non se la sono bevuta e sono divenuti protagonisti di una vittoria storica contro la privatizzazione e vendita dell’acqua. 

Davide contro Golia. A scanso di equivoci: il “gigante” sono i cittadini quando prendono coscienza del loro potere e si uniscono, non di certo le multinazionali e gli interessi di pochi, anzi pochissimi! Italia Che Cambia ne è più che cosciente ed ecco perché questa volta abbiamo deciso di fare uno strappo alla regola raccontandovi quanto succede fuori dal nostro “Bel paese”, poiché quanto è stato realizzato in Oregon pochi giorni fa, costituisce davvero un bel precedente per quanto riguarda la gestione delle risorse idriche. Succede il 17 maggio scorso a Cascade Locks in un paesino di un migliaio di persone a 70 km da Portland, capitale dell’Oregon, dove la nota multinazionale svizzera Nestlé, aveva in progetto di accaparrarsi 500 milioni di litri d’acqua all’anno dal fiume locale. La più grande multinazionale al mondo di cibi e bevande (proprietaria di ben 24 marche diverse di acque minerali, tra cui Acqua Panna, Vera, S. Pellegrino e Levissima, che ha già attirato numerose volte in passato l’attenzione delle Ong ed è stata oggetto di boicottaggio, tra le altre cose, per l’impiego di schiavitù e manodopera minorile e per aver venduto latte inquinato in Italia) prometteva di rifocillare le casse comunali della piccola cittadina e di offrire 50 nuovi posti di lavoro.20150416_083657

A Cascade Locks la Nestlé aveva in progetto di accaparrarsi 500 milioni di litri d’acqua all’anno dal fiume locale

 

Ma gli abitanti di Cascade Locks non se la sono bevuta e si sono uniti in comitati locali, hanno organizzato eventi per la sensibilizzazione dei concittadini, hanno creato un blog  e tappezzato il paese di cartelli informativi, ma soprattutto hanno proposto il “provvedimento 14-55” contro la privatizzazione e vendita dell’acqua, che è stato approvato dalla stragrande maggioranza dei cittadini, ovvero dal 69% degli aventi diritto. Come scrive Maria Rita D’Orsogna  “è considerata una vittoria monumentale: numeri così alti raramente si vedono negli Usa, e soprattutto è un messaggio chiaro e forte: l’acqua è della gente e non della Nestlé. Cascade Locks è la prima cittadina, e Hood River County la prima contea americana, a vietare l’imbottigliamento di acqua locale a livello industriale. Daranno l’esempio e coraggio a molte altre città.”

In tutto il mondo è chiaro: i cittadini pretendono di vedere riconosciuto il diritto all’acqua pubblica, mentre dei governi sempre più sordi ai bisogni della popolazione, ma molto sensibili a quelli delle multinazionali, vorrebbero privatizzarla a tutti i costi. In molti casi si arriva addirittura al paradosso, come in quello dell’Italia, in cui 27 milioni di Italiani nel noto Referendum del 2011 si espressero contro la privatizzazione dell’acqua.lwa-press-event-water-give-away

In quel caso gli Italiani parlarono forte e chiaro. Ciononostante il Governo ha recentemente deciso arbitrariamente che la gestione pubblica dell’acqua non è obbligatoria. Come a ricordarci che il gigante non si deve mai assopire. Lo sanno bene i cittadini di Arezzo che in migliaia stanno portando avanti una campagna giustamente definita di“obbedienza civile”  in cui si impegnano a detrarre dalla bolletta dell’acqua le cosiddette spese di “profitto” per rispettare il volere popolare di almeno uno dei famosi quesiti del referendum. Sembra proprio che Golia debba stare sempre allerta: la lotta deve andare avanti, almeno finché l’acqua non verrà davvero riconosciuta a tutti gli effetti come bene pubblico.

 

Per saperne di più:

 

Leggete il risultato del nostro tavolo di lavoro “visione 2040 agricoltura e acqua 

 

Per un’approfondimento esaustivo sulla questione dei beni comuni si legga invece il saggio a cura di Paolo Cacciari,“La società dei beni comuni – una rassegna” 

 

Per approfondire la posizione della Nestlé riguardo l’acqua invece, leggete l’articolo di Andrea Degl’ Innocenti su una storica ed eloquente intervista rilasciata dal presidente della Nestlé, in cui dice chiaramente di essere convinto del fatto che l’acqua non sia un diritto, bensì una merce.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2016/05/acqua-privatizzata-cittadini-battono-nestle-oregon/

Expo 2015, il tema dell’acqua al centro della Carta di Milano

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Il diritto al cibo è il primo punto della Carta di Milano – Expo 2015, il documento programmatico che i leader mondiali in visita all’Expo stanno sottoscrivendo in queste settimane. Ato Città di Milano, in collaborazione con il gestore del servizio idrico integrato MM spa e Utilitalia, hanno presentato un contributo che ne integra i contenuti in merito all’accesso universale alle risorse idriche. Sono circa 1,2 miliardi le persone che, attualmente, soffrono per la carenza di risorse idriche e, per garantire a tutti un diritto fondamentale come quello all’acqua, occorre avere ben chiari quali siano gli atteggiamenti più responsabili da mettere in atto. Secondo Davide Corritore, presidente di MM SpA:

L’acqua è un grande business del futuro. E’ il petrolio del domani. Si stanno costruendo nel mondo investimenti che consentono di avere accesso a giacimenti enormi. Ci sono quindi grandi interessi economici che non sono favorevoli alla creazione di un’agenzia pubblica in cui il sapere sia a disposizione di tutti. Bisogna arrivare ad una istituzione che operativamente raccolga brevetti, tecnologie e innovazione e li metta a disposizione dei Paesi africani o dei Paesi che non hanno acqua. Questo deve essere un obiettivo molto preciso. Il Contributo redatto da Ato Città di Milano e da MM spa è aperto alla sottoscrizione di altri soggetti italiani e esteri che operano nel settore idrico. Uno dei traguardi di medio termine è l’obiettivo fissato dall’Onu per il 2030: riuscire a gestire la fame del mondo, un impegno che non può che passare attraverso la soluzione del problema idrico.

Fonte:  Askanews

Sei mosse per ridurre il consumo di acqua

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Avete mai pensato a quanta acqua si risparmierebbe chiudendo il rubinetto ogni volta che ci si lavano i denti? Se non lo avete mai fatto questo è il momento giusto. Secondo una ricerca pubblicata su Nature Geoscience, un utilizzo più parsimonioso nel consumo domestico di acqua, unitamente ad altre “piccole” accortezze, permetterebbe di soddisfare il bisogno idrico globale entro il 2050. Sì, ma come?

La scarsità d’acqua non è un problema che riguarda solo i Paesi in via di sviluppo. In California, per esempio, si sta proponendo un piano di emergenza per il rifornimento idrico di ben 7,5 miliardi di dollari e negli Stati Uniti lo scorso anno i funzionari federali hanno avvertito la popolazione dell’Arizona e del Nevada che entro il 2016 sarà necessario affrontare dei tagli nel rifornimento idrico proveniente dal fiume Colorado. Alla radice del problema, apparentemente insormontabile, non ci sono solo le abitudini domestiche, ma anche le moderne tecniche di irrigazione, l’utilizzo di risorse idriche da parte degli impianti industriali nonché i cambiamenti climatici del pianeta. Lo stress idrico a cui sono sottoposte molte aree è dovuto allo sfruttamento dell’acqua dei fiumi, soprattutto in zone in cui oltre il 40% di tale acqua è già utilizzato; una situazione questa che riguarda circa un terzo della popolazione mondiale e che entro la fine del secolo potrebbe colpirne più della metà, se lo sfruttamento di risorse idriche continuerà a questo ritmo. Per ridurre lo stress idrico, gli autori dello studio hanno quindi individuato sei strategie. Fra le misure “soft” l’introduzione di nuove tecniche di coltura, unitamente ad una maggiore efficienza dei nutrienti agricoli; il miglioramento delle infrastrutture idriche, tramite il passaggio a sistemi di irrigazione a interruttore; l’utilizzo più parsimonioso del consumo di acqua domestica e industriale e, persino, una limitazione nel tasso di crescita della popolazione (da mantenere entro il 2050 al disotto degli 8,5 miliardi), potrebbero diminuire considerevolmente l’utilizzo d’acqua a livello mondiale. Ma i ricercatori hanno individuato anche delle soluzioni “hard” fra cui la possibilità di aumentare lo stoccaggio di acqua nei serbatoi e la desalinizzazione dell’acqua di mare. “Non esiste un unico metodo per affrontare il problema in tutto il mondo”, sostiene Tom Gleeson del Dipartimento di Ingegneria Civile del McGill e fra gli autori dello studio. “Ma, guardando il problema su scala globale, abbiamo calcolato che se quattro di queste strategie sono applicate allo stesso tempo è effettivamente possibile stabilizzare il numero di persone che nel mondo hanno problemi di stress idrico, piuttosto che continuare a consentire a questo numero di crescere, che è ciò che accadrà se continuiamo con il modello di business attuale”. “Riduzioni significative di stress idrico sono possibili entro il 2050”, aggiunge il co-autoreYoshihide Wada del Dipartimento di Geografia fisica dell’Università di Utrecht “ma un forte impegno e sforzi strategici sono necessari perché ciò accada.”

Riferimenti: Nature Geoscience Doi: 10.1038/ngeo2241

Credits immagine: Ian Sane/Flickr

Fonte: galileonet.it

Spreco di cibo e impatto ambientale, presentato Rapporto FAO

È stato appena presentato a Roma un nuovo Rapporto FAO sullo sperpero di cibo a livello globale che, per la prima volta, si focalizza sulle conseguenze ambientali del problema. In particolare lo studio si sofferma sull’impatto ambientale dello spreco alimentare su clima, risorse idriche, utilizzo del suolo e biodiversità.perdita_alimentare

È stato presentato qualche giorno fa a Roma un nuovo ed importante Rapporto FAO sullo sperpero di cibo a livello globale che, per la prima volta, si focalizza sulle conseguenze ambientali del problema. Lo studio, dal titolo “The Food Wastage Footprint-Impacts on Natural Resources”(“L’impronta ecologica dello sperpero alimentare: impatto sulle risorse naturali”, n.d.a.), mette in evidenza l’impatto devastante che le perdite alimentari hanno sull’ambiente e, in modo particolare, sul clima, sulle risorse idriche, sull’utilizzo del territorio e sulla biodiversità. Prima di entrare nei dettagli è importante fare un po’ di chiarezza e precisare il significato dei termini “perdita”, “spreco” e “sperpero”. Per perdita alimentare s’intende la riduzione non intenzionale del cibo destinato al consumo umano. Tale riduzione non intenzionale deriva da una serie di inefficienze presenti nella catena di approvvigionamento alimentare, quali ad esempio la carenza di infrastrutture e logistica e la mancanza di tecnologia, competenze o capacità gestionali. La perdita di cibo avviene principalmente nelle fasi di produzione e di lavorazione post-raccolto, cioè quando i prodotti rimangono sul campo o quando vengono scartati durante le fasi di lavorazione, immagazzinamento e trasporto. Il termine spreco alimentare, invece, si riferisce allo scarto intenzionale del cibo (destinato al consumo umano e) ancora perfettamente commestibile. Lo scarto, in questo caso, è dovuto al comportamento tenuto dalle aziende e dai singoli individui, soprattutto da parte di esercenti e consumatori finali. L’espressione sperpero alimentare, infine, indica l’insieme di perdite e sprechi. Il Rapporto FAO sottolinea come lo sperpero di 1,3 miliardi di tonnellate di cibo all’anno (che corrispondono ad un terzo del cibo prodotto in tutto il mondo) genera non solo enormi costi economici, ma anche ambientali. I costi economici dello sperpero – che includono solo i costi diretti ed escludono dal conteggio pesci e frutti di mare – vengono quantificati in 750 miliardi di dollari all’anno. A questi elevati costi economici si aggiunge l’impatto devastante dello sperpero sulle risorse naturali del pianeta, quelle stesse risorse da cui dipende la sopravvivenza degli esseri umani. Si calcola che ogni anno, sempre a livello globale, il cibo prodotto ma non consumato sperpera un volume d’acqua pari alla portata del fiume Volga; consuma 1,4 miliardi di ettari di terreno (il 30% circa della superficie agricola mondiale) ed immette in atmosfera 3,3 miliardi di tonnellate di gas effetto serra.

Dallo studio FAO emerge che il 54% dello sperpero totale si verifica ‘a monte’, cioè durante le fasi di produzione, raccolto e primo immagazzinamento e, quindi, è ‘perdita’ alimentare, mentre il 46% dello sperpero avviene ‘a valle’, nelle fasi di trasformazione, distribuzione e consumo e, quindi, ed è ‘spreco’. Le perdite alimentari, in generale, si concentrano nei paesi a basso reddito e in via di sviluppo, mentre gli sprechi alimentari sono una caratteristica dei paesi ad alto e medio reddito. Un interessante capitolo, inoltre, rende noto che più un prodotto ‘va avanti’ lungo la catena produttiva, maggiore è la sua impronta ambientale, poiché i costi ambientali che vengono sostenuti ‘a valle’ – durante la lavorazione, il trasporto, lo stoccaggio ed il consumo – vanno a sommarsi ai costi ambientali iniziali, quelli già avvenuti ‘a monte’ – durante la produzione e il raccolto. Detto in parole povere: prima un alimento viene consumato rispetto alla catena produttiva, meglio è per tutto il pianeta.spreco__alimentare

I dati sono impressionanti: mentre il volume dello sperpero di carne è, tutto sommato, relativamente basso, il settore genera un impatto ambientale elevato in termini di occupazione del suolo ed emissioni di carbonio, in particolare nei paesi ad alto reddito che, da soli, sono responsabili dell’67% di tutto lo sperpero di carne – e se a questi aggiungiamo l’America Latina si arriva all’80%. Lo sperpero di cereali ha notevoli ripercussioni sulle emissioni di carbonio, sull’uso delle risorse idriche e del suolo del continente asiatico. Ma è la produzione di riso, in modo particolare, a causare elevate emissioni di metano e sperpero alimentare nella regione. Lo sperpero di frutta contribuisce in modo significativo al consumo di acqua in Asia, America Latina ed Europa, mentre quello di verdura in Europa, Asia e Sud-est asiatico. Si tratta di sperperi inammissibili, se teniamo presente che oltre 800 milioni di persone sul pianeta soffrono la fame. “Oltre all’imperativo ambientale, ve n’è anche uno di natura etica: non possiamo permettere che un terzo di tutto il cibo che viene prodotto nel mondo vada perduto o sprecato a causa di abitudini inappropriate-inopportune, quando vi sono 870 milioni di persone che soffrono la fame”, ha sottolineato José Graziano da Silva, Direttore Generale FAO, durante la presentazione del Rapporto. “Tutti noi”, ha continuato, “agricoltori e pescatori, lavoratori del settore alimentare e supermercati, governi locali e nazionali, singoli consumatori – dobbiamo apportare dei cambiamenti ad ogni anello della catena di approvvigionamento alimentare al fine di evitare, in primo luogo, lo sperpero di cibo e dobbiamo riutilizzare o riciclare il cibo, laddove è possibile”. Per questo, insieme al nuovo studio, la FAO ha pubblicato anche un interessante manuale che spiega come ridurre le perdite e gli sprechi alimentari durante ogni singola fase della catena produttiva. Il manuale, che si intitola “Toolkit: Reducing the Food Wastage Footprint” (“Guida pratica: come ridurre l’impronta ecologica dello sperpero alimentare”, n.d.a.), rende note anche molte esperienze positive che documentano come governi nazionali, enti locali, agricoltori, aziende e singoli consumatori abbiano adottato misure efficaci per fronteggiare il problema.

Fonte: il cambiamento

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SLOW FOOD: 14 punti per una nuova politica alimentare in Italia


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L’associazione Slow Food entra pienamente nella campagna elettorale con quattordici proposte per una nuova politica alimentare in Italia.

Per troppo tempo l’agricoltura è stata considerata solo come un settore produttivo marginale, ma ora finalmente sta diventando uno degli snodi centrali in tema di ecologia, salute pubblica, occupazione, tutela dei diritti e, più in generale, qualità della vita.

Slow Food parla in modo innovativo di politiche alimentari anziché di politiche agricole: ovvero di un insieme di interventi organici e interconnessi: ambiente, agricoltura, educazione, salute, economia, giustizia, sviluppo, industria, beni culturali. Non esiste confine: se si fa politica per il cibo e per l’agricoltura, si fa politica su tutto e per tutti.

Questi 14 punti sono il primo abbozzo per la definizione della sovranità alimentare nel nostro paese. Le proposte sono tanto semplici, quanto radicali.

  1. Difendere il suolo, il paesaggio e il territorio: salvaguardare i suoli fertili e recuperare i suoli agricoli abbandonati. Il suolo fertile è una risorsa fondamentale per il futuro del pianeta (prova ne sia il land grabbing). Il nuovo parlamento deve approvare il disegno di legge “salvasuoli“.
  2. Difendere la legalità nei sistemi di produzione del cibo, dalle mafie al lavoro nero, anche con rapporti più stretti tra produttori e consumatori.
  3. Contrastare il cambiamento climatico, con limiti ai biofuel e norme per l’autonomia energetica delle aziende agricole.
  4. Tutelare la biodiversità, dalle sementi di varietà tradizionali e le razze autoctone, ai prodotti frutto di trasformazioni e di saperi tradizionali.
  5. Liberare il sistema alimentare nazionale dagli OGM. Gli Ogm non servono alla nostra agricoltura, non ne risolvono i problemi, anzi sostengono un modello economico, produttivo, sociale e gastronomico che è antitetico alla nostra cultura e alle grandi opportunità di un sistema alimentare fondato sulla diversità e sulle risorse locali
  6. Fornire incentivi per le giovani generazioni. Contrastare l’invecchiamento degli agricoltori con misure che rendano la vita agricola non solo redditizia ma anche socialmente attrattiva.
  7. Tutelare le risorse idriche. Ottimizzare e ridurre gli sprechi, con una gestione pubblica e partecipativa dell’acqua.
  8. Tutelare le sapienze locali e di genere e incentivare l’imprenditoria ad esse connesse. Promuovere il sapere e il saper fare a livello locale.
  9. Promuovere programmi di riduzione degli sprechi, che rappresentano lo scandalo principale del sistema alimentare dominante.  Occorre promuovere politiche per favorire il recupero e il riutilizzo, per ridurre gli imballaggi, per penalizzare sistemi produttivi inefficienti
  10. Adottare politiche fiscali adeguate e attuare la semplificazione burocratica: politiche territoriali in grado di premiare imprese agricole diversificate, appoggio alla creazione dei gruppi d’acquisto solidale e di forme di partecipazione alla produzione sul modello della community supported agriculture;
  11. Tutelare e sostenere l’agricoltura di piccola e media scala e a basso impatto ambientale, e le economie locali, con maggiore attenzione all’agricoltura biologica, eccellenza italiana a basso impatto ambientale
  12. Sostenere una PAC (politica agricola comunitaria) verde, equa e giovane, con maggiore attenzione ai piccoli agricoltori.
  13. Utilizzare la cooperazione anche come strumento di sviluppo agricolo e alimentare. Promuovere e rilanciare la cooperazione internazionale allo sviluppo coinvolgendo direttamente agricoltori, pescatori, artigiani, educatori, cuochi e ricercatori.
  14. Tornare a investire sulla scuola. Il cibo e l’educazione alimentare e del gusto sono un’opportunità per sperimentare didattiche interdisciplinari, per rieducare le nuove generazioni a scegliere il proprio cibo, imparando il piacere della tavola e di
    un’alimentazione sana.

Fonte: ecoblog