Unep: la pandemia non ha fermato il riscaldamento globale, serve una ‘ripresa green’

Secondo il Programma ambientale delle Nazioni Unite, con una ripresa verde si potrebbero ridurre fino al 25% le emissioni di gas serra e avvicinare il mondo al raggiungimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi

Secondo il nuovo rapporto del Programma ambientale delle Nazioni Unite

Emissions Gap Report 2020

una “ripresa green” dalla pandemia potrebbe ridurre fino al 25% le emissioni di gas serra previste per il 2030 e avvicinare il mondo al raggiungimento dell’obiettivo previsto dall’accordo di Parigi di limitare al di sotto dei 2 gradi Celsius il riscaldamento medio globale rispetto al periodo preindustriale, puntando a un aumento massimo della temperatura pari a 1,5 gradi.  Il rapporto Unep rileva che, nonostante un calo delle emissioni di Co2 nell’anno corrente a causa del Covid-19, il mondo viaggia ancora verso un aumento della temperatura superiore ai 3 gradi. Tuttavia, dice l’organizzazione, se i governi investissero in azioni per il clima come parte della ripresa dalla pandemia e consolidassero gli impegni per emissioni zero alla prossima Cop di Glasgow nel novembre 2021, potrebbero portare le emissioni a livelli sostanzialmente coerenti con l’obiettivo dei 2 gradi. Se non addirittura coerenti con quello più ambizioso di un grado e mezzo, combinando una ripresa green con nuovi impegni sulle emissioni anche nei programmi nazionali (NDCs) .

“L’anno 2020 è destinato a essere uno dei più caldi mai registrati, mentre gli incendi, le tempeste e la siccità continuano a provocare il caos”, ha affermato Inger Andersen, Direttore esecutivo dell’Unep. “Tuttavia, il nostro rapporto mostra che una ripresa green da una pandemia può eliminare un’enorme fetta delle emissioni di gas serra, esorto i governi a sostenerla e ad aumentare in modo significativo le loro ambizioni climatiche nel 2021”.

Ogni anno il Gap Report dell’Unep valuta il divario tra le emissioni di gas serra previste e i livelli coerenti con gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Il documento rileva che nel 2019 le emissioni totali di gas climalteranti, incluse quelle derivanti dal cambiamento nell’uso del suolo, hanno raggiunto un nuovo massimo di 59,1 gigatonnellate di CO2 equivalente (GtCO2e). Le emissioni globali di gas serra sono aumentate in media dell’1,4% all’anno dal 2010, con un aumento più rapido del 2,6% nel 2019 a causa di un forte aumento degli incendi boschivi. Come risultato della riduzione dei viaggi, della minore attività industriale e della minore generazione di elettricità quest’anno a causa della pandemia, si prevede che le emissioni di anidride carbonica diminuiranno fino al 7% nel 2020. Tuttavia, questo calo si traduce solo in una riduzione di 0,01 grado del riscaldamento entro il 2050. Nel frattempo, gli NDCs rimangono inadeguati.

Ripristino green critico

Una ripresa green potrebbe invece portare le emissioni nel 2030 a 44 GtCO2e, invece delle 59 GtCO2e previste, superando di gran lunga le riduzioni delle emissioni previste negli NDCs incondizionati, che lasciano il mondo sulla strada di un aumento della temperatura di 3,2 gradi. Un tale recupero ecologico collocherebbe le emissioni entro l’intervallo che offre una probabilità del 66% di mantenere le temperature al di sotto dei 2° C, ma sarebbe comunque insufficiente per raggiungere l’obiettivo di 1,5° C.

Le misure per dare la priorità ad una ripresa fiscale green includono il supporto diretto per le tecnologie e le infrastrutture a zero emissioni, la riduzione dei sussidi ai combustibili fossili, l’assenza di nuove centrali a carbone e la promozione di soluzioni basate sulla natura, tra cui il ripristino del paesaggio su larga scala e il rimboschimento. Finora, rileva il rapporto, l’azione per una ripresa fiscale verde è stata limitata. Circa un quarto dei membri del G20 ha dedicato al massimo il 3% del PIL a misure a basse emissioni di Co2. Ciononostante rimane una significativa opportunità per i paesi di attuare politiche e programmi verdi. Il rapporto rileva inoltre che il numero crescente di paesi che si impegnano a raggiungere obiettivi di emissioni nette zero entro la metà del secolo rappresenta uno “sviluppo significativo e incoraggiante”. 

Riformare il consumo critico

Ogni anno la relazione esamina anche il potenziale di settori specifici. Nel 2020 prende in considerazione il comportamento dei consumatori e i settori della navigazione e dell’aviazione. I settori marittimo e aereo, che rappresentano il 5% delle emissioni globali, richiedono molta attenzione. I miglioramenti nella tecnologia e nelle operazioni possono aumentare l’efficienza del carburante, ma l’aumento previsto della domanda significa che ciò non si tradurrà in decarbonizzazione e riduzioni assolute di Co2. Entrambi i settori devono combinare l’efficienza energetica con una rapida transizione dai combustibili fossili, rileva il rapporto. Per quanto riguarda invece il settore privato, l’Unep rileva che quando si utilizza la contabilità basata sui consumi, circa due terzi delle emissioni globali sono legate alle famiglie private. I ricchi hanno la maggiore responsabilità: le emissioni dell’uno per cento più ricco della popolazione mondiale rappresentano più del doppio della quota complessiva del 50 per cento più povero. Questo ristretto gruppo dovrebbe ridurre la propria impronta di 30 volte per permettere a tutti di rimanere in linea con gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Possibili azioni per sostenere e consentire consumi a minor impatto ambientale includono la sostituzione dei voli nazionali a corto raggio con la ferrovia, incentivi e infrastrutture per consentire la mobilità ciclistica e il car-sharing, migliorare l’efficienza energetica degli alloggi e politiche per ridurre lo spreco alimentare.

Fonte: ecodallecitta.it

Clima Ue, taglio emissioni del 55% entro il 2030. Soddisfatta Bruxelles, critici gli ambientalisti

Il Consiglio Europeo ha raggiunto un accordo sul nuovo obiettivo climatico dell’Unione. Greenpeace critica la poca ambizione del patto e la riluttanza dei governi ad affrontare le vere cause dell’emergenza climatica. Dopo un’intensa notte di lavori a Bruxelles il Consiglio Europeo ha raggiunto un accordo sul nuovo obiettivo climatico dell’Unione. I leader dei 27 paesi hanno concordato di ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990, aggiornando l’obiettivo attuale di tagliarle del 40% in questo decennio. Il nuovo obiettivo mira a mettere l’UE sulla buona strada per raggiungere zero emissioni nette entro il 2050, una scadenza che secondo gli scienziati il mondo deve rispettare per evitare gli impatti più catastrofici del cambiamento climatico. “L’Europa è leader nella lotta al cambiamento climatico” ha detto in un tweet il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, che ha presieduto i colloqui. “Ci mettiamo su un percorso chiaro verso la neutralità climatica nel 2050”, ha invece commentato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen del nuovo obiettivo. Per Bruxelles, l’accordo offre la possibilità di affermare la propria leadership climatica sulla scena globale. L’UE presenterà il suo obiettivo sabato al vertice virtuale dei leader mondiali delle Nazioni Unite. L’obiettivo è stato conquistato a fatica con un compromesso tra i paesi dell’UE più ricchi, per lo più occidentali e nordici, che desiderano un’azione per il clima più ambiziosa, e gli stati orientali con settori energetici dipendenti dal carbone e industrie ad alta intensità energetica, che volevano condizioni specifiche legate ai tagli delle emissioni. L’obiettivo “almeno il 55%” è buono ma richiederà l’approvazione del Parlamento europeo, che sostiene un più ambizioso taglio delle emissioni del 60%” ha detto Jytte Guteland, il principale legislatore del parlamento sulla questione. “Ci stanno preparando per una trattativa difficile”.

Critici gli ambientalisti

L’accordo raggiunto tuttavia non soddisfa le principali organizzazioni ambientaliste del mondo. Greenpeace critica la poca ambizione del patto e la riluttanza dei governi a seguire la scienza e ad affrontare le vere cause alle origini dell’emergenza climatica in corso.

“I governi senza dubbio definiranno questo accordo come storico, ma la realtà è che si registra solo un piccolo miglioramento rispetto ai tagli alle emissioni che l’Ue aveva già in programma di raggiungere. È evidente che la convenienza politica ha la precedenza sulla scienza del clima, e che la maggior parte dei politici ha ancora paura di affrontare i grandi inquinatori”, dichiara Luca Iacoboni, responsabile della campagna clima di Greenpeace Italia. “Senza ulteriori azioni, il nuovo obiettivo dell’Ue in materia di clima permetterà alle compagnie petrolifere e del gas di continuare con il solito business, e non trasformerà la mobilità e i metodi di produzione del cibo con la velocità necessaria a superare l’emergenza climatica, lasciando così le persone più vulnerabili indifese rispetto agli impatti della crisi climatica”. 
Nella tarda notte, durante il vertice Ue diversi governi hanno fatto pressioni affinché si riconoscano le cosiddette “tecnologie di transizione” come il gas, che sarebbero dunque ammissibili ai finanziamenti “verdi”. Greenpeace sostiene da tempo che gli investimenti nel gas saranno catastrofici per il clima e porteranno a miliardi di euro di attività economicamente non redditizie. I leader europei si sono accordati per ridurre le emissioni nette dell’Ue del 55% entro il 2030 (sulla base dei livelli del 1990). L’uso del termine “nette” per definire le emissioni comporta che sarà possibile l’uso dei cosiddetti “pozzi di assorbimento”, e dunque ci sarà solo un taglio del 50,5% delle emissioni reali di settori inquinanti come l’energia, i trasporti e l’agricoltura industriale, mentre ci si affida alle foreste per assorbire abbastanza carbonio da raggiungere l’obiettivo del 55%. Questo accordo rappresenta dunque un miglioramento insufficiente rispetto agli obiettivi climatici esistenti, per i quali l’Ue dovrebbe già ridurre le emissioni del 46% nel 2030. La comunità scientifica avverte che, per evitare la catastrofe climatica, l’Ue deve ridurre le emissioni molto più velocemente di quanto accadrebbe con un obiettivo del 55%. Per aumentare le possibilità di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C ed evitare i peggiori effetti di una catastrofe climatica, Greenpeace sostiene un taglio minimo del 65% delle emissioni dell’Ue provenienti dai settori inquinanti entro il 2030.

Fonte: ecodallecitta.it


Le emissioni di anidride carbonica continuano a crescere

(Foto: veeterzy on Unsplash)

Se da una parte le emissioni di anidride carbonica, il gas serra responsabile del riscaldamento globale, continuano ad aumentare, dall’altro, magra consolazione, crescono a un ritmo più lento rispetto al passato. A raccontarlo, mentre è in corso la Cop25 (l’annuale conferenza internazionale delle Nazioni Unite sul clima) a Madrid, sono stati i ricercatori dell’Università dell’East Anglia (Uea), in collaborazione con l’Università di Exeter, secondo cui quest’anno le emissioni derivanti dalla combustione di combustibili fossili sono cresciute dello 0,6%, raggiungendo quasi 37 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2). Vale a dire una riduzione significativa rispetto all’1,5% nel 2017 e il 2,1% nel 2018. Lo studio Global Carbon Project 2019 è stato appena pubblicato su Nature Climate ChangeEarth System Science Data ed Environmental Research Letters.

Il tasso di crescita più lento delle emissioni di anidride carbonica nel 2019, spiegano i ricercatori, è dovuto principalmente a drastiche riduzioni dell’utilizzo del carbone da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea (-10%), e, in aggiunta, a una crescita più lenta dell’uso di carbone da parte di Paesi come la Cina e l’India. Inoltre, quest’anno, secondo le stime dello studio, le emissioni di CO2 dovute al consumo di petrolio, dovrebbero crescere dello 0,9%, mentre per quelle dovute all’uso di gas naturale, che rappresenta la fonte di emissioni in più rapida crescita, l’aumento previsto è del 2,6%. Mentre si prevede che le emissioni derivanti dalla combustione del carbone diminuiranno dello 0,9%.

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(Infografica: University of East Anglia, University of Exeter e Global Carbon Project)

Sebbene le strategie climatiche ed energetiche stiano emergendo, sottolineano i ricercatori, non sono ancora sufficienti per invertire la tendenza delle emissioni globali. “Un fallimento nell’affrontare prontamente i fattori trainanti alla base della continua crescita delle emissioni limiterà la capacità del mondo di spostarsi su un percorso coerente all’obiettivo dell’Accordo sul clima di Parigi”, spiega Pierre Friedlingstein, dell’università di Exeter. “La scienza è chiara: le emissioni di CO2 devono ridursi a zero a livello globale per fermare un ulteriore riscaldamento del pianeta”.

Le emissioni globali di CO2, ricordano i ricercatori, sono cresciute in media dello 0,9% all’anno dal 2010, più lentamente del 3% degli anni 2000. Mentre quest’anno le stime delle emissioni provocate dalla deforestazione, hanno raggiunto 6 miliardi di tonnellate di CO2, circa 0,8 miliardi di tonnellate in più rispetto ai livelli del 2018. Le emissioni totali di CO2 prodotte dalle attività umane – compresa la combustione di combustibili fossili e il consumo di suolo – dovrebbero raggiungere i 43,1 miliardi di tonnellate nel 2019. Mentre, la concentrazione di CO2 atmosferica nel 2019 dovrebbe essere del 47% al di sopra dei livelli preindustriali. In Europa, sempre secondo le stime del nuovo studio, le emissioni sono diminuite dell’1,7% nel 2019, con una riduzione prevista del 10% delle emissioni a base di carbone. Mentre, il consumo petrolio continua ad aumentare, portando a un aumento delle emissioni dei prodotti petroliferi dello 0,5%. Anche il consumo di gas continua a crescere, di circa il 3% di media, sebbene a un tasso molto variabile tra gli stati membri dell’Ue. “Le attuali politiche climatiche ed energetiche sono troppo deboli per invertire le tendenze delle emissioni globali”, spiega Corinne Le Quéré, ricercatrice dell’Uea. “Le politiche hanno avuto successo a vari livelli nell’implementazione di tecnologie a basse emissioni di carbonio, come i veicoli solari, eolici ed elettrici. Ma queste spesso si aggiungono alla domanda esistente di energia anziché sostituire le tecnologie che emettono CO2, in particolare nei paesi in cui la domanda di energia è in crescita. Abbiamo bisogno di politiche più forti volte a eliminare gradualmente l’uso di combustibili fossili”.

Fonte : Wired.it

Il cambiamento climatico rispecchia la nostra relazione con la terra

Un’ode alla terra e un invito a riparare la nostra relazione con essa. È così che potremmo definire l’ultimo rapporto IPCC sui cambiamenti climatici dal quale emerge lo stretto legame tra l’uso del suolo ed il riscaldamento globale. Le previsioni cupe del report non rappresentano però una sentenza definitiva e gli esperti tracciano la strada da seguire per fronteggiare la crisi ambientale in atto. “Né le nostre identità individuali o sociali, né l’economia mondiale esisterebbero senza le molteplici risorse, servizi e sistemi di sostentamento forniti dagli ecosistemi terrestri e dalla biodiversità. Il valore annuale dei servizi ecosistemici terrestri totali del mondo è stato stimato a 75-85 trilioni di dollari nel 2011. Ciò supera sostanzialmente il PIL annuale mondiale. La terra e la sua biodiversità rappresentano anche benefici essenziali e immateriali per l’uomo, come l’arricchimento cognitivo e spirituale, il senso di appartenenza e i valori estetici e ricreativi. Valorizzare i servizi ecosistemici con metodi monetari spesso trascura questi servizi immateriali che modellano le società, le culture e la qualità della vita e il valore intrinseco della biodiversità. L’area terrestre della Terra è limitata. L’uso sostenibile delle risorse della terra è fondamentale per il benessere umano”.

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Si apre così, quasi con un’ode al nostro pianeta, il Rapporto speciale “Il cambiamento climatico e la terra” del gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) delle Nazioni Unite. L’anno scorso l’IPCC ha pubblicato il famoso “Rapporto speciale sul riscaldamento globale di 1,5° C”, in cui ci dice che abbiamo 12 anni per scongiurare il peggio. Questa è la prima volta nella storia dei rapporti dell’IPCC che la maggior parte degli autori – 53% – proviene da paesi in via di sviluppo. Il team degli autori ha attinto al contributo di 96 autori partecipanti; ha incluso oltre 7000 riferimenti citati nel rapporto; e considerato un totale di 28.275 commenti di esperti e dei governi. I rapporti dell’IPCC contengono solo dati e previsioni su cui c’è accordo nella comunità scientifica, e sottolineano anche il grado di consenso esistente sulle singole affermazioni contenute nel rapporto.  

“Con l’aumento del riscaldamento, si prevede che la frequenza, l’intensità e la durata degli eventi legati al calore, comprese le ondate di calore, continueranno ad aumentare nel corso del 21° secolo (alta fiducia). Si prevede che la frequenza e l’intensità della siccità aumenteranno in particolare nella regione mediterranea e nell’Africa meridionale (media fiducia). Si prevede che la frequenza e l’intensità degli eventi con precipitazioni estreme aumenteranno in molte regioni (elevata sicurezza)”. La probabilità che l’onda calda della scorsa estate si ripeta nelle prossime è praticamente certa. Meno sicuro è che in Europa faremo esperienza di siccità, seppure anche questo resta mediamente probabile. In generale, nel mondo, circa 500 milioni di persone vivono in aree soggette a desertificazione. Cosa c’entra la terra con tutto questo? Non sono solo le emissioni di gas serra a causare il riscaldamento globale? Sembra di no. Il modo in cui utilizziamo la terra, ha un impatto sul riscaldamento globale. Questo per due motivi, ci spiega il rapporto. La deforestazione dovuta all’agricoltura e le pratiche agricole industriali impoveriscono il terreno, diminuisce l’umidità e la biodiversità, e quindi la naturale capacità della terra di mitigare il clima, produrre precipitazioni e assorbire anidride carbonica dall’atmosfera.

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Contemporaneamente, però, azioni come la riforestazione, l’agricoltura rigenerativa, la protezione e il restauro degli ecosistemi, possono aumentare la capacità della terra di prelevare carbonio e immagazzinarlo nel terreno. Mentre noi esseri umani lo estraiamo dal sottosuolo e lo rilasciamo nell’atmosfera, le piante e i microrganismi del suolo lo riportano a terra. “L’agricoltura, la silvicoltura e altri tipi di utilizzo del suolo rappresentano il 23% delle emissioni umane di gas serra. Allo stesso tempo, i processi naturali terrestri assorbono l’anidride carbonica equivalente a quasi un terzo delle emissioni di anidride carbonica da combustibili fossili e dall’industria ”, spiega Jim Skea, copresidente del terzo gruppo di lavoro dell’IPCC. Ci siamo indignati per il disboscamento dell’Amazzonia voluta dal Governo Bolsonaro per soddisfare gli appetiti della lobby agricola. Ma circa tre quarti della superficie terrestre libera dai ghiacci a livello globale è utilizzata dall’uomo per attività produttive. E non basta. Si legge nel rapporto che se la dieta media dei paesi ricchi fosse consumata a livello globale, “la superficie agricola necessaria per fornire queste diete aumenterebbe di 14 volte”. 

Ultimamente si parla molto di piantare alberi per contrastare l’innalzamento delle temperature, e recentemente è stata lanciata una campagna anche in Italia. Il Rapporto dedica molte pagine agli effetti dei programmi di forestazione e riforestazione. Tuttavia non tutto è così semplice. Piantare alberi dove ci sono praterie o pascoli, per esempio, può addirittura ridurre la capacità di assorbimento di carbonio del terreno. Può anche portare a un consumo maggiore di acqua. Le foreste di monoculture a rapida crescita, purtroppo diffusissime, hanno un impatto negativo sulla biodiversità, e alcune specie come il pino e l’acacia risultano spesso invasive e dannose per le specie autoctone. Se si guarda ai “potenziali effetti collaterali di tali misure su larga scala, in particolare per i paesi a basso reddito, si potrebbero verificare aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari causati dall’aumentata concorrenza per la terra”.

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Riscaldamento atmosferico, aumento di eventi climatici estremi, spostamento degli ecosistemi stanno già causando instabilità nell’approvigionamento di cibo. “I modelli previsionali globali – si legge nel rapporto – prevedono un aumento mediano del 7,6% (intervallo dall’1 al 23%) dei prezzi dei cereali nel 2050 a causa dei cambiamenti climatici, portando a un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e a un aumento del rischio di insicurezza alimentare e fame (media fiducia). Le persone più vulnerabili saranno maggiormente colpite (alta sicurezza)”. 

Ma le previsioni cupe contenute nel rapporto non sono una sentenza definitiva. Infatti, si legge, “esistono molte opzioni di gestione del territorio sia per ridurre l’entità delle emissioni sia per aumentare l’assorbimento di carbonio. Queste opzioni migliorano la produttività delle colture, lo stato dei nutrienti del suolo, il microclima o la biodiversità e quindi supportano l’adattamento ai cambiamenti climatici (elevata fiducia)”.  

Il bello è che queste opzioni coincidono con quanto sostenuto da quelli che fino a poco tempo fa apparivano come sognatori utopici. C’è infatti, scrive il rapporto, “un elevato accordo su (una combinazione di) scelte come l’agroecologia, l’agricoltura conservativa e le pratiche forestali, la diversità delle specie vegetali e forestali, adeguate rotazioni di colture e foreste, agricoltura biologica, gestione integrata dei parassiti, conservazione e protezione dei servizi di impollinazione, raccolta delle acque piovane, gestione della gamma e dei pascoli e sistemi di agricoltura di precisione. L’agricoltura e la silvicoltura conservativa utilizzano pratiche di gestione con un minimo disturbo del suolo come nessuna lavorazione del terreno o minima lavorazione, copertura del suolo permanente con pacciamatura combinata con rotazioni per garantire una superficie del suolo permanente o rapida rigenerazione della foresta dopo il raccolto”. Sono queste le pratiche agricole del futuro, perché sono le uniche che possono sia mitigare i cambiamenti climatici, che facilitare l’adattamento ad essi. Inoltre, queste opzioni “possono contribuire a sradicare la povertà eliminando la fame, promuovendo nel contempo buona salute e benessere, acqua pulita e servizi igienico-sanitari, azione per il clima e vita sulla terra”.

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Per implementare queste opzioni nella scala e rapidità necessarie, tuttavia, servono sistemi di governance innovativi, in grado di coinvolgere i diversi stakeholder, consultare le popolazioni locali, creare processi decisionali deliberativi, costruire istituzioni policentriche e multilivello e attingere alle conoscenze indigene.  “La natura, la fonte e le modalità di generazione della conoscenza sono fondamentali per garantire che le soluzioni sostenibili siano di proprietà della comunità e completamente integrate nel contesto locale. L’integrazione della conoscenza indigena e locale con le informazioni scientifiche è un prerequisito per tali soluzioni di proprietà della comunità”. 

Nel parlare dei sistemi di pensiero indigeni il Rapporto specifica che “la conoscenza indigena locale è anche olistica dal momento che gli indigeni non cercano soluzioni volte ad adattarsi ai soli cambiamenti climatici, ma cercano invece soluzioni per aumentare la loro capacità di resistenza a una vasta gamma di shock e stress”. 

Come ha scritto la biologa nativa americana Robin Wall Kimmer nel suo meraviglioso libro “Braiding Sweetgrass”, sottotitolato “Saggezza indigena, conoscenza scientifica e gli insegnamenti delle piante”, occorre integrare le antiche conoscenza indigene con le moderne indagini scientifiche. Come emerge dal Rapporto dell’IPCC, infatti, abbiamo un vitale bisogno di entrambe. Come scrive Kimmer, “antiche e nuove storie che possano essere medicina per la nostra relazione spezzata con la terra, una farmacopea di storie curative che possano consentirci di immaginare una relazione diversa, nella quale gli esseri umani e la terra siano buona medicina gli uni per l’altra”.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/09/cambiamento-climatico-rispecchia-nostra-relazione-terra/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

COP24 sui cambiamenti climatici: “Non ci sono più scuse. Il Pianeta brucia”

I rappresentanti di duecento Paesi sono riuniti a Katowice, in Polonia, per la Conferenza delle Parti promossa dalle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (COP24). Ad aprire ieri il Summit sul clima un chiaro messaggio: la minaccia non è mai stata così urgente.

“Non ci sono più scuse, il Pianeta brucia ed è ora di agire”. In apertura del Summit sul clima (COP24) in Polonia, Greenpeace ricorda l’allarme lanciato dalla comunità scientifica: abbiamo solo dodici anni per salvare il clima del nostro Pianeta. Per questo il Summit di Katowice non può che avere obiettivi ambiziosi.

“Questo è un momento cruciale per tutti noi, un vero e proprio test per l’umanità”, afferma Jennifer Morgan, Direttrice Esecutiva di Greenpeace International. “A Katowice i leader di tutti i Paesi del mondo devono sfidarsi a guardarsi in faccia e affermare di essere al fianco di tutti noi. Quelli che non lo faranno saranno condannati dalla Storia e ne dovranno render conto. Alla CoP24, i governi devono agire e impegnarsi, entro il 2020, ad allineare i loro piani nazionali sul clima all’obiettivo di mantenere l’incremento delle temperature entro 1,5°C”.

“La scienza del clima ci dà ancora speranze, ma il tempo per le chiacchiere è finito da un pezzo”, dichiara Giuseppe Onufrio, Direttore Esecutivo di Greenpeace Italia. “I cittadini chiedono a gran voce azioni concrete. Ci sono bambini che marciano fuori dalle scuole, attivisti che si mobilitano e sono sempre più frequenti le cause legali che contrappongono singoli o intere comunità ai responsabili delle emissioni di gas serra: dall’industria petrolifera ai responsabili della deforestazione del Pianeta”.

Quest’anno, il Summit sul Clima arriva sulla scia di avvertimenti chiarissimi lanciati dal Panel di scienziati dell’ONU sul Clima (Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC), dall’Organizzazione Meteorologica Internazionale (WMO) e dal Piano Ambientale dell’ONU (UNEP):

– Se l’incremento delle temperature dovesse continuare al ritmo corrente, il riscaldamento climatico dovrebbe superare la soglia di 1,5°C tra il 2030 e il 2052: ciò rende assolutamente urgente il taglio delle emissioni di gas serra;
– I livelli di CO2 hanno raggiunto valori record: la stima è di 405,5 parti per milione (ppm) nel 2017: un valore che non si registrava in atmosfera negli ultimi 3/5 milioni di anni. Nel 2015 in atmosfera c’erano solo 400,1 ppm;
– Il 2018 sia avvia a essere il quarto anno più caldo di sempre: i venti anni più caldi sono stati tutti registrati negli ultimi 22 anni;

– Il rapporto “UNEP Emission Gap” rivela che i Paesi devono aumentare di cinque volte le riduzioni di emissioni di gas serra per centrare l’obiettivo 1,5°C.

A fronte di queste notizie negative ce ne sono però altre che ci danno speranze:

– L’Unione europea ha ripreso una forte leadership sul clima e ha proposto un obiettivo “emissioni zero” al 2050. Tuttavia, per restare entro 1,5°C questo obiettivo deve essere anticipato al 2040;
– I Capi di Stato di 18 Paesi europei, tra cui il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, hanno firmato un appello che chiede a tutti i Paesi di rivedere i loro piani nazionali sul clima, alla luce delle ultime evidenze scientifiche;
– Governi regionali, città e aziende forniscono ai leader del Pianeta esempi sempre più forti di piani ambiziosi a difesa del clima. Ad esempio, poche settimane fa Generali Assicurazioni ha notevolmente migliorato la sua policy sul clima distanziandosi dal carbone.  Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/12/cop24-cambiamenti-climatici-pianeta-brucia/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Cambiamenti climatici: “Convertire tutti i settori dell’economia”

La differenza tra 1.5 e 2 gradi centigradi non è trascurabile e contenere il surriscaldamento del pianeta entro questa soglia potrà ridurre in maniera significativa i danni climatici – ondate di calore, siccità, incendi boschivi, alluvioni – che altrimenti potrebbero diventare devastanti. È quanto emerge dal rapporto del Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC). Legambiente commenta: “Un obiettivo ambizioso ma attuabile. Serve, però,una rapida e profonda riconversione di tutti i settori dell’economia. L’Europa e l’Italia sono chiamati a tradurre in realtà l’Accordo di Parigi”.

“Il rapporto del Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), presentato oggi dimostra che molte delle disastrose conseguenze dei cambiamenti climatici in corso possono essere evitate se si rispetta la soglia critica di 1,5 gradi centigradi. Si tratta di un obiettivo ambizioso che siamo, però, ancora in grado di raggiungere. Ma serve una rapida e profonda riconversione di tutti i settori dell’economia globale. Domani i ministri europei dell’ambiente si riuniranno a Bruxelles e, insieme a tante altre associazioni europee, abbiamo chiesto loro di dare concreta attuazione a questa speranza. L’Italia può e deve avere un ruolo da protagonista in Europa non solo per tradurre in realtà la promessa di Parigi, ma soprattutto per accelerare la transizione, fondata su efficienza energetica e rinnovabili, verso la decarbonizzazione dell’economia europea. Solo così sarà possibile vincere la triplice sfida climatica, economica e sociale, creando nuove opportunità per l’occupazione e la competitività delle imprese italiane ed europee”.ciclone-cambiamenti-climatici

È il commento di Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, a seguito della pubblicazione del rapporto speciale dell’IPCC, commissionato e approvato dai governi che nel 2015 avevano firmato l’Accordo di Parigi. Una presentazione che arriva alla vigilia della riunione dei ministri europei dell’ambiente, chiamati ad adottare la posizione europea per la prossima Conferenza sul clima (COP24) di Katowice, in programma il prossimo mese di dicembre. Il rapporto costituisce la più approfondita ed autorevole valutazione degli impatti dovuti all’aumento della temperatura media globale. Si dimostra, oltre ogni dubbio, che la differenza tra 1.5 e 2 gradi centigradi non è trascurabile e che contenere il surriscaldamento del pianeta entro questa soglia potrà ridurre in maniera significativa i danni climatici – ondate di calore, siccità, incendi boschivi, alluvioni – che altrimenti potrebbero diventare molto pericolosi e devastanti.

“È evidente che servono impegni di riduzione delle emissioni molto più ambiziosi di quelli sottoscritti a Parigi, ma invertire la rotta è possibile sia dal punto di vista tecnologico che economico – sottolinea ancora Zanchini –. Ai ministri che si riuniranno domani, a partire da quello italiano, chiediamo per questo di accelerare la transizione verso un’Europa rinnovabile e libera da fonti fossili. Il Consiglio Ambiente deve pertanto impegnarsi ad aumentare entro il 2020 gli obiettivi europei, in linea con la traiettoria di riduzione delle emissioni compatibile con la soglia critica di 1.5°C, così da poter raggiungere zero emissioni nette entro il 2040 sulla base delle possibilità e responsabilità di leadership globale dell’Europa”.cambiamenti-climatici-stop

Decarbonizzare non serve solo a contrastare i cambiamenti climatici, ma produce anche benefici sociali ed economici. Legambiente ricorda, infatti, che un’azione climatica in linea con gli obbiettivi di Parigi, secondo il recente rapporto della Commissione Globale su Economia e Clima, può far crescere l’economia mondiale di ben 26.000 miliardi di dollari, creare 65 milioni di nuovi posti di lavoro ed evitare 700.000 morti premature per l’inquinamento atmosferico già entro il 2030. Un impegno che non solo offre grandi opportunità di sviluppo economico e occupazionale, ma che consente una drastica riduzione dei costi dovuti agli impatti climatici. Secondo Eurostat, nel 2015 le perdite economiche sono state di ben 11.6 miliardi di euro. Mentre un recente studio dell’Agenzia europea dell’ambiente stima costi sino a 120 miliardi l’anno con un aumento della temperatura globale di 2°C e addirittura 200 miliardi se si raggiungessero 3°C.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/10/cambiamenti-climatici-convertire-tutti-settori-economia/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

‘Ghiacciai – Il futuro dei ghiacci perenni nelle nostre mani’. Al Muse di Trento la mostra sui termometri del riscaldamento globale

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Novamont sostiene “Ghiacciai”, la mostra del Museo delle Scienze di Trento che racconta natura, ricerca, avventura e mito degli ambienti glaciali. Il Museo delle Scienze (MUSE) di Trento, innovativo e modernissimo progetto museale voluto dalla provincia di Trento e realizzato dall’architetto Renzo Piano, inaugura una mostra di grande fascino – “Ghiacciai – Il futuro dei ghiacci perenni nelle nostre mani.

Masse di ghiaccio, riserve d’acqua dolce, attrazione turistica, laboratori scientifici a cielo aperto, termometri del riscaldamento medio globale, testimoni dell’impronta dell’uomo sull’ambiente. I ghiacciai sono tutto questo e molto di più. La mostra, visitabile fino al 23 marzo 2019, offre una fotografia dei ghiacciai che ricoprono il nostro pianeta da quattro prospettive: l’ambiente naturale glaciale e le dinamiche che lo mantengono in equilibrio; le attività scientifiche e i rilievi che permettono di quantificare lo stato di salute dei ghiacciai e di studiare i cambiamenti climatici degli ultimi secoli; le avventurose esplorazioni sui sentieri glaciologici; le vicende storiche e i miti legati ai luoghi più inospitali dell’ambiente montano. Il visitatore ha la possibilità di scoprire diverse realtà dell’attività glaciologica grazie a contenuti multimediali inseriti in strutture lignee, dalle linee essenziali e curiose. La desertificazioni dei suoli e le emissioni di CO2 sono tra le cause principali del riscaldamento globale. Utilizzare prodotti in bioplastica compostabile come il Mater-Bi di Novamont, smaltibili con la raccolta del rifiuto organico, anziché manufatti in plastica tradizionale, significa aumentare la produzione di compost, il miglior alleato per combattere il fenomeno della desertificazione. Commenta Andrea Di Stefano, responsabile comunicazione di business e eventi speciali di Novamont: “Sosteniamo la mostra “Ghiacciai” perché raccontare e documentare la realtà attuale dell’habitat glaciale significa sensibilizzare le coscienze e promuovere il cambiamento per combattere il degrado in cui versa madre Terra e l’impoverimento complessivo, non solo economico, in cui vivono le persone”. La sponsorizzazione al MUSE, che prevede una collaborazione triennale, si inserisce nell’ambito delle iniziative che da anni vedono Novamont impegnata nella divulgazione scientifica e nella promozione di modelli di produzione e di consumo sostenibili.

Fonte: ecodallecitta.it

 

 

Aumentano i tornado violenti nel Mediterraneo per il riscaldamento globale, uno studio ENEA – CNR

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Sempre più probabile il verificarsi di trombe marine e tornado intensi nei mari italiani a causa dell’innalzamento della temperatura superficiale dell’acqua dovuta al riscaldamento globale. È quanto emerge da una ricerca ENEA – CNRpubblicata su Scientific Report di Nature, una delle più antiche e autorevoli riviste scientifiche al mondo. Sempre più probabile il verificarsi di trombe marine e tornado intensi nei mari italiani a causa dell’innalzamento della temperatura superficiale dell’acqua dovuta al riscaldamento globale. È quanto emerge da una ricerca ENEA – CNRpubblicata su Scientific Report di Nature, una delle più antiche e autorevoli riviste scientifiche al mondo. Lo studio è stato condotto su un tornado che si è abbattuto su Taranto nel novembre del 2012, quando la temperatura in superficie del mar Ionio era superiore di 1 C° rispetto alla media del periodo.StudioENEACNR

“I tornado violenti sono generati da celle temporalesche, chiamate supercelle, che si formano solo in determinate condizioni meteorologiche. Attraverso un esperimento modellistico abbiamo dimostrato che 1 C° di variazione di temperatura è stato determinante per formare la supercella, quindi il tornado”, spiega il ricercatore ENEA Vincenzo Motola, uno degli autori dello studio. “Infatti, aumentando la temperatura del mare cresce anche la sua energia, che viene ‘ceduta’ alla supercella. Tuttavia, la proporzionalità tra il calore del mare e l’intensità del tornado non è lineare. Questo vuol dire che, superata una certa temperatura, la violenza di questi fenomeni aumenta in maniera più che proporzionale”.

In questo studio i dati numerici raccolti dal CNR sono stati elaborati dall’ENEA con il software ESRI-Arc-GIS, che ha prodotto una mappa capace di visualizzare  geograficamente il fenomeno ed evidenziare il ruolo dell’orografia nello sviluppo del tornado. Nel caso del tornado al largo di Taranto, la Sila, la catena montuosa che attraversa la Calabria, ha contribuito a creare le condizioni di vento per la formazione del fenomeno violento. Oltre ad aver fornito importanti risultati scientifici, questo studio ha anche dimostrato che unendo le competenze modellistiche previsionali del CNR, alle competenze GIS (Geographical Information System) del l’ENEA per la realizzazione delle mappe, si aprono nuove prospettive nella validazione di modelli per le previsioni meteo e lo studio di sistemi complessi che determinano la formazione di fenomeni meteorologici estremi.

Per maggiori informazioni: Lo studio completo pubbblicato su Scientific Report

Fonte: ecodallecitta.it

Clima e emissioni CO2: la carne per cani e gatti inquina come 13 milioni di auto

Secondo uno studio pubblicato su PlosOne, nei soli Stati Uniti, per sfamare cani e gatti si emettono 64 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno.http _media.ecoblog.it_c_c81_clima-e-emissioni-co2-la-carne-per-cani-e-gatti-inquina-come-13-milioni-di-auto

In un periodo di cambiamenti climatici e riscaldamento globale, in una delle estati più torride degli ultimi decenni con ondate di caldo che stanno creando danni economici enormi, arriva come un fulmine a ciel sereno uno studio scientifico che ci costringe a riesaminare il nostro modo di guardare alle emissioni di CO2. Da anni puntiamo il dito soprattutto su tre grandi fonti di emissioni di gas climalteranti: il settore energetico (in particolare le centrali elettriche alimentate da fonti fossili come petrolio, gas e carbone), quello dei trasporti (in particolare il trasporto privato, basato su auto di proprietà con motore a benzina o diesel a gasolio) e quello dell’alimentazione (con un occhio e un dito puntati sull’eccessivo consumo di carne). Tutto vero, ma se ci soffermiamo sull’ultimo settore, quello delle emissioni di CO2 derivanti dall’alimentazione carnivora, spunta adesso uno studio pubblicato su PlosOne che fa riflettere da cui si evince che, negli Stati Uniti, tra il 25% e il 30% delle emissioni di CO2 dipendenti dalla produzione di carne provengono dalla carne destinata al pet food. Il cibo per cani e gatti, insomma, da solo causa oltre un quarto delle emissioni del “comparto carne” americano. In questi calcoli sono incluse anche le emissioni derivanti dalle feci degli animali. Negli USA, spiega l’autore dello studio Gregory Okin, ci sono 77,8 milioni di cani e 85,6 milioni di gatti (dati 2015). Se questi 163 milioni di animali domestici fossero considerati uno Stato sovrano, esso sarebbe il quinto al mondo per consumo di carne, dopo Russia, Brasile, USA e Cina. Venendo al “lato sporco” dello studio, Okin ha stimato in 5,1 milioni le tonnellate di feci prodotte da cani e gatti in un anno negli Stati Uniti. Più o meno quante ne producono 90 milioni di americani. In totale le emissioni equivalenti di CO2 attribuibili a cani e gatti sono pari a circa 64 milioni di tonnellate. Che, più o meno, è quanto emettono 13,6 milioni di auto negli Stati Uniti ogni anno.

Okin fa notare che “Comparata a una dieta a base di piante, quella carnivora richiede più energia, territorio e acqua e ha un impatto ambientale superiore in fatto di erosione, pesticidi e rifiuti prodotti“. E di cani gatti vegani, aggiungiamo noi, ce ne sono ben pochi. Tuttavia, è lo stesso Okin che precisa che molto spesso i mangimi per cani e gatti sono prodotti partendo dagli scarti della filiera della carne e quindi non si tratterebbe, o almeno non del tutto, di tonnellate di CO2 aggiuntive rispetto a quelle emesse dall’americano medio con la sua dieta altamente carnivora. Ma lo stesso Okin, analizzando il pet food per ottenere i dati su cui iniziare il suo studio, ha notato che i “mangimi premium” contengono percentuali di carne superiore a quelli più economici. Per non parlare del fatto che l’umanizzazione degli animali domestici porta sempre più spesso i loro padroni a cucinare per loro, utilizzando alimenti utili per il consumo umano.

Questo, secondo Okin (che tra l’altro specifica e ribadisce di amare cani e gatti), può essere realmente dannoso per l’ambiente: “Un cane non ha bisogno di mangiare bistecche, un cane può mangiare cose che un umano sinceramente non può mangiare“.

Credit foto: Flickr

Fonte: ecoblog.it

Cambiamenti climatici: innalzamento dei mari più veloce del previsto per il riscaldamento globale

Un recente studio pubblicato su Nature corregge i dati: il livello dei mari cresce di 3,3 millimetri l’anno. Urgono politiche di adattamento al global warming.http _media.ecoblog.it_d_d36_cambiamenti-climatici-innalzamento-dei-mari-piu-veloce-per-riscaldamento-globale

Grazie a strumenti di misurazione sempre più sofisticati e a supercomputer in grado di elaborare una mole di dati sempre maggiore, gli studi più recenti sui cambiamenti climatici e il conseguente scioglimento dei ghiacciai e innalzamento del livello dei mari riportano oggi dati più accurati del passato. E, per questo, molto più preoccupanti. L’ultimo studio pubblicato su Nature, ad esempio,  mostra che l’innalzamento dei mari nel periodo 1993-2014 non è stato identico ogni anno: se nel 1993 i mari sono cresciuti di 2,2 millimetri, a livello globale, nel 2014 si è arrivati a 3,3 millimetri. I mari cioè si innalzano ad un ritmo di molto più alto del previsto. Cosa causa l’innalzamento dei mari? In primo luogo, secondo gli scienziati, è colpa dello scioglimento dei ghiacciai della Groenlandia che, nel 1993, contribuiva solo per il 5% al problema mentre nel 2014 per il 25%. Lo scioglimento dei ghiacciai della Groenlandia, quindi, negli ultimi vent’anni ha subito una fortissima accelerazione. Come combattere l’innalzamento del livello degli oceani? Innanzitutto rallentando i cambiamenti climatici che portano al riscaldamento globale: diminuire le emissioni di gas serra climalteranti è fondamentale, è il punto di partenza. Lo si fa diminuendo l’uso di combustibili fossili e spingendo per la diffusione delle energie rinnovabili e di auto elettriche. Poi bisogna mettere in atto costose, ma ormai inevitabili, misure di contenimento dei danni. Le cosiddette politiche di adattamento ai cambiamenti climatici. Questo perché molti dei danni del global warming sono già parte delle nostre vite: i ghiacciai si sciolgono, il livello dei mari si innalza divorando le coste, la desertificazione delle aree temperate è ormai alle porte, persino in Italia dove, a causa della siccità e delle anomale ondate di caldo,  si contano già danni all’agricoltura per un miliardo di euro.

Credit foto: Flickr

Fonte: ecoblog.it