Paraloup: lo spirito della Resistenza in un rifugio di montagna

Borgata Paraloup è un rifugio di montagna nella Valle Stura, a Cuneo. Un luogo dove i partigiani di Giustizia e Libertà hanno fatto la Resistenza e che oggi è rinato grazie alla Fondazione Nuto Revelli Onlus. Oggi la borgata Paraloup è un vivace centro culturale di scambio e di crescita, un sistema integrato di attività turistico-artigianali, agro-pastorali e di proposte culturali-formative, per coinvolgere la comunità locale e creare una rete di condivisione e partecipazione con le altre realtà del territorio. Immaginate di vivere come i partigiani. In montagna, da sempre e ovunque luogo di resistenza e liberazione. Immaginate di poterlo fare in Italia, in un luogo in cui davvero i partigiani hanno vissuto e lottato. Poi prendete un biglietto per Cuneo, armatevi di cartina e andate a Rittana nella Valle Stura: lì troverete il Rifugio Paraloup, una borgata a 1.400 metri di altezza formata da una dozzina di baite dove i partigiani si sono riparati per combattere il nazifascismo.

Luoghi recuperati con innovazione ma anche con attenzione al territorio e al paesaggio, i ruderi della Borgata Paraloup (che significativamente in dialetto piemontese significa “al riparo dai lupi”) sono oggi un rifugio di montagna con tanto di sale per convegni, mostre e un ristorante. Un luogo dove passare uno o più giorni respirando la memoria partigiana di quella banda di Giustizia e Libertà che scelse questo posto come base. Quello della storia della Resistenza, però, non è un espediente di attrazione turistica né tanto meno una memoria sterile, ma è il cuore di questo progetto di recupero del territorio. Il progetto Paraloup, infatti, è nato nel 2006 insieme alla Fondazione Nuto Revelli Onlus, dedicata al partigiano cuneese “testimone del suo tempo e di queste valli”. Poco tempo dopo la nascita della fondazione accade infatti che il regista Teo De Luigi, impegnato a girare un documentario in quella valle, lanci la spinta per il recupero di quelle baite. Spinta che è stata accolta positivamente dai membri della fondazione e che ha trovato aiuto nell’impresario Aldo Barberis e in un gruppo di architetti del Politecnico di Torino.paraloup-1

“Volevamo recuperare il sito perché è un luogo meraviglioso e perché porta con sé la vocazione di ispirare un ritorno alla montagna che sia consapevole di democrazia e impegno civile”, spiega Beatrice Perri, direttrice della Fondazione Nuto Revelli Onlus. “L’idea è stata quella di non volerne fare un museo o un luogo di memoria vuoto, ma un luogo che potesse innescare un processo di ritorno vero e coniugare memoria e innovazione”.

Recuperato con un’architettura leggera e rispettosa del paesaggio, a chilometro zero ed ecosostenibile (ci sono pannelli solari e si è prestata attenzione alla coibentazione degli edifici), il luogo è riuscito così a preservare la sua “aurea magica”: “Grazie ad un’indagine filologica oggi possiamo dire che si mangia esattamente dove mangiavano i partigiani e si dorme dove dormivano i partigiani”.

Ma la forza di questo luogo non sta soltanto nella sua storia di Resistenza. Come racconta Beatrice, “questo luogo porta con sé una vocazione molto forte, che appartiene al suo DNA, quasi un genius loci: lo hanno sentito i partigiani quando lo hanno scelto come base per un’Italia libera, lo ha sentito la popolazione (nella memoria locale ci sono tante figure in riferimento al luogo), lo abbiamo sentito noi e lo sentono anche i visitatori quando vengono e spesso tornano nuovamente”.paraloup-

La borgata Paraloup è infatti immersa nella Valle Stura ed è anche uno di quei luoghi della memoria della civiltà contadina cuneese, che pure Nuto Revelli aveva documentato. Ed è anche al recupero di questi territori che la Fondazione Nuto Revelli si è dedicata organizzando nel 2011 il primo “Festival Internazionale del ritorno ai luoghi in abbandono”. Il Festival raccoglie varie realtà italiane (l’Unical con il professore Vito Teti, il Movimento di ricostruzione dell’Aquila, il Movimento delle cascine di Milano etc) e ha come tematica principale il riutilizzo dei luoghi abbandonati, che in Italia sono il 70% del territorio nazionale. “Questi luoghi hanno spazi pronti e una vocazione per ospitare dei ritorni, che a volte sono anche delle andate, come nel caso dei migranti che arrivano qui per la prima volta”. E proprio in occasione di questo festival si costituisce la “Rete del ritorno”.

Un ritorno che passa necessariamente attraverso la terra, fonte di vita e di lavoro. Non a caso, la Fondazione organizza nel 2017 il convegno internazionale “Facciamo agricoltura” e, nello stesso anno, promuove la scuola dei giovani agricoltori di montagna, portata avanti grazie ad un progetto europeo e alla collaborazione di altre realtà piemontesi: “Abbiamo formato cinque giovani aspiranti agricoltori, nell’ottica che se lo spopolamento è stato un fenomeno violento e incontrollato il ritorno debba essere accompagnato da strumenti utili e su misura del luogo”.37984134_1919184448144711_5202357443123740672_n

Un’operazione abbastanza riuscita, se si pensa che nel 2017 Paraloup ha visto “passare” 30.000 persone ed è un rifugio per molti: appassionati di sport invernali, studenti che vengono a visitare il luogo, ricercatori di storia e antropologia, amanti della montagna. E “tutti”, ci dice ancora Beatrice, “lasciano Paraloup con un senso di responsabilità sulle spalle: questa è una spinta in grado di innescare dei cambiamenti ed è la vocazione di questo luogo”.

Il progetto Paraloup è solo uno dei modi della Fondazione di volgere l’attenzione alla memoria storica e riattualizzarla. Sono anni, infatti, che lavora sull’archivio di Nuto Revelli, portandolo nelle scuole: “La nostra attenzione è molto forte nei confronti dei giovani, perché certi valori (memoria, relazioni, ascolto) vanno coltivati per creare un dialogo sempre vivo e attivo ed evitare derive, che sembravano remote ma non lo sono più. L’obiettivo, per ora, è continuare a riempire di vita questo posto e sperare che possa essere d’esempio per altri luoghi”.

 

Intervista: Daniel Tarozzi e Paolo Cignini
Riprese e Montaggio: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/10/io-faccio-cosi-227-paraloup-spirito-resistenza-rifugio-di-montagna/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Marco e Gabriella scelgono la pace di un rifugio in montagna

Avevano lavori sicuri ma stressanti, mai abbastanza tempo per dedicarsi alla famiglia, per assaporare la vita nei suoi momenti, tutti importanti. Allora è arrivata la scelta: lasciarsi alle spalle la frenesia per scegliere la pace di un rifugio in montagna. Ecco la storia di Marco e Gabriella.marcogabriella02

Marco D’Aliesio, 39 anni, insieme alla moglie Gabriella e ai loro 2 figli, hanno deciso di lasciare due lavori sicuri ma stressanti, che non davano loro il tempo di dedicarsi alla famiglia, per prendere in gestione un rifugio tra i monti liguri, quello di Pratorotondo. La peculiarità di questo posto è la vista aperta a 360 gradi, infatti da lì è possibile non solo ammirare tutto l’arco alpino con le cime più importanti (Monviso, Monte Rosa..) fino all’Appennino Tosco-Emiliano, ma anche vedere il mare, il promontorio di Portofino, la Corsica, l’isola d’Elba e la Capraia, e sono stati proprio questi panorami mozzafiato che nel 2010 hanno portato Marco a dire basta.

Marco, di cosa ti occupavi prima di prendere il rifugio in gestione?

“Facevo l’agente di commercio nel settore dell’abbigliamento in Liguria e in Piemonte. Avevo l’ufficio a Genova e vivevo a Varazze, quindi tutti i giorni dovevo affrontare il traffico per arrivare a lavoro. Non avevo orari fissi, lavoravo in media 8-10 ore, mentre durante le campagne-vendita arrivavo addirittura a dormire in ufficio con il sacco a pelo per tutta la durata dell’evento. Gabriella invece lavorava in un autogrill e faceva i turni, quindi ci alternavamo il più possibile in modo da stare con i bambini senza dover fare troppo affidamento sui nonni e per questo motivo ci vedevamo pochissimo tra di noi. La pressione del lavoro, gli orari sbagliati, il cibo poco genuino consumato in fretta, mi hanno portato nel tempo problemi di iperacidità con gastroduodenite. Inoltre mi pesava moltissimo non riuscire a seguire i miei figli nelle loro attività quotidiane e vedere così poco mia moglie”.

Come hai conosciuto questo rifugio?

“Sono venuto qui per 2-3 anni nel periodo meno freddo, facevo lunghe camminate con i cani per abbassare lo stress del lavoro, stare a contatto con la natura mi rilassava e mi ricaricava le batterie. Poi un giorno sono venuto in pieno inverno, in una giornata splendida ma gelida, ero in mezzo alla neve con la vista mare davanti, sono rimasto senza fiato… In quel momento ho deciso che volevo cambiare lavoro e che volevo gestire il rifugio. Infatti ero venuto a sapere che il gestore voleva vendere e così sentii che quella doveva diventare la mia nuova vita”. E fu così che nel giro di 6 mesi di trattativa, in settembre Marco diventò il nuovo gestore del rifugio, inizialmente insieme ad un socio. Questo avvenne in un clima di pareri contrari dei parenti, ad esclusione della suocera che non solo ha sempre appoggiato il progetto, ma è diventata parte attiva dello staff del rifugio.marcogabriella01

Gabriella, eri contenta della decisione presa da tuo marito?“Macché, inizialmente io non ne volevo sapere, ero molto spaventata sia dall’idea degli inverni rigidi, sia dalle preoccupazioni economiche. Oltretutto, quando lui ha scoperto questo posto e mi invitava ad accompagnarlo, io non ci andavo per niente volentieri, non solo perché ero incinta, ma anche perché, le poche volte che lo assecondavo, il tempo era sempre umido e nebbioso! Ma alla fine vedevo mio marito troppo insoddisfatto del suo lavoro e di tutto il tempo che sprecava in macchina nel traffico, così mi sono fidata di lui  e ho acconsentito.”

Quali difficoltà hai incontrato nel tuo nuovo lavoro, Marco?

“Quando sono entrato nel Rifugio per la prima volta, avevo 35€ in tasca e il conto in banca inesistente perché avevo investito tutto in questo progetto; ma non ero spaventato perché stavo realizzando un sogno e cambiando la mia vita in meglio, quindi ero pieno di entusiasmo e voglia di mettermi in gioco. Il primo anno e mezzo ho vissuto qua per capire meglio il funzionamento dell’attività, l’afflusso dei clienti e le spese necessarie. Eravamo io e il mio socio fissi mentre Gabriella e mia suocera venivano ad aiutare nel fine settimana. Successivamente però, il mio socio ha deciso di lasciare l’attività ed io ho convenuto di tenere chiuso nel periodo invernale per 2 giorni a settimana e garantire solo il minimo del servizio fino al giovedì, mentre dal venerdì alla domenica è aperta anche la cucina; questo perché le spese di riscaldamento erano troppo alte e non era fattibile tenere sempre aperto. In estate invece c’è il problema della siccità in quanto la nostra acqua di sorgente rischia di non essere sufficiente a coprire tutto il fabbisogno dovuto al maggior passaggio di gente ed inoltre, essendo il periodo in cui si lavora di più, teniamo il rifugio sempre aperto e viviamo qui tutti insieme.”marcogabriella03

Quali sono state invece le belle scoperte di questo posto?

“Qui la vita scorre più calma, non ci sono i ritmi imposti dalla società ma si scopre il tempo della natura, l’alternarsi delle stagioni, i cambiamenti della vegetazione e della fauna. Per esempio in questi anni ho stretto “rapporti” con diversi animali: per 3 anni ho avuto un tasso, un altro anno ho dato da mangiare tutte le sere ad un cucciolo di capriolo, inoltre ho familiarizzato con una coppia di fringuelli, tutti i pomeriggi dopo pranzo la femmina reclamava a gran voce le briciole che cadevano scrollando fuori le tovaglie. In questo posto il cellulare non prende, gli ospiti inizialmente si dispiacciono di questa mancanza, ma dopo pochi minuti parlano fra di loro! Di questi tempi è quasi una cosa strana da vedere… Io stesso amo stare qui perché non sono costantemente disturbato e distratto dal telefono, mentre mi accorgo quanto divento insofferente quando sono facilmente rintracciabile!”

Gabriella, cosa ne pensi alla fine di questo lavoro? Sono passate le paure?

“Sono assolutamente contenta di aver seguito Marco in questa attività: non mi piaceva lavorare in autogrill perché c’era un viavai frettoloso di persone che non consentiva di instaurare alcun tipo di rapporto. Inoltre gli orari cambiavano continuamente e organizzarmi con i bambini era un lavoro da equilibrista. Ora in inverno ho tutto il tempo per seguire i miei figli nella scuola e nelle varie attività; in estate invece stiamo tutti qui, i bambini trascorrono le loro giornate all’aria aperta e giocano con i bambini di passaggio, di qualsiasi nazionalità siano. Le difficoltà ci sono, ma non sono pesanti come credevo, tutto è affrontabile, la neve, il ghiaccio, gli imprevisti, sarebbe ben più pesante andare al lavoro in città tutti i giorni!! Io definisco questo “un lavoro a riposo”, nel senso che mi rilasso in cucina dalla frenesia di tutti i giorni. Adoro il contatto sorridente e disteso con le persone, questo è un posto magico che porta via tutte le tensioni.”marcogabriella05

Marco, ci sono altri progetti che hai potuto realizzare proprio grazie a questo posto?

“Certo, al rifugio ho avuto più tempo e più calma per osservare e per pensare: vedevo venire qui ogni genere di persone, dall’escursionista e dal ciclista in estate, all’amante delle ciaspole o snowkite in inverno. Questo mi ha fatto pensare a quante attività siano praticabili in un contesto come Varazze, dal mare alla montagna in soli 3/4 d’ora di macchina; credo che la Liguria sia unica nel suo genere per la velocità con cui si cambia scenario. Quindi dall’anno scorso, io e altri amici abbiamo fondato un’associazione chiamata “Vaze Free Time” con la finalità di realizzare progetti nel settore turistico e sviluppare una politica del turismo sostenibile che esalti le peculiarità e l’identità del nostro territorio. Un progetto che ha riscosso molto successo è il “Varazze Outdoor”, volto a promuovere il turismo sportivo nel parco del Beigua e a far conoscere le numerose possibilità che la nostra zona ci offre”.

L’ultima domanda, quella di rito: siete felici?

E la risposta di entrambi è “sì, non torneremmo mai indietro… Stiamo vincendo la nostra sfida, era tutto un’incognita ma le soddisfazioni stanno arrivando, sia nel lavoro che nella vita privata, finalmente facciamo un lavoro che ci piace e non dobbiamo sacrificare la nostra famiglia per farlo…!” Il rifugio di Pratorotondo è situato nel cuore del Parco naturale regionale del Beigua al confine tra i comuni di Sassello, Varazze e Cogoleto; si trova a un’altitudine di 1098 metri ed è il punto di arrivo della tappa numero 19 dell’Alta Via dei Monti Liguri. All’interno della struttura sono presenti la sala ristorante con forno a legna, la zona bar e 5 camere per accogliere i turisti.

fonte: ilcambiamento.it

HemLoft, il rifugio sugli alberi a forma di uovo

Questa pittoresca casa sugli alberi, oltre all’indubbio fascino che l’accomuna a tante altre case sugli alberi, ha la prerogativa di avere alle spalle una storia molto particolare e affascinante grazie al suo creatore Joel Allen.hemloft-joel-allen-1-e1339221073176-400x250

Questi all’età di venticinque anni era un comunissimo ragazzo, laureato in informatica, che lavorava in una azienda specializzata nel settore a Whistler, a nord di Vancouver in Canada. Tutto nella sua vita andava per il meglio, finchè fu licenziato a causa della chiusura della stessa azienda trovandosi per la prima volta a dover riorganizzare la sua vita. Decise, a questo punto, di andare in “pensione” per dedicarsi ad altro alla sola età di 26 anni. Aspettava un finanziamento per intraprendere una nuova attività ma a distanza di un anno anche questo suo sogno fu disatteso trovandosi in condizioni economiche alquanto precarie. Nel frattempo conobbe un vecchio hippie chiamato Old Man John con cui strinse una forte e profonda amicizia. Questi aveva spesso l’abitudine di passeggiare per i boschi attorno a Whistler e ne conosceva ogni più piccolo segreto. Old Man John trasmise a Joel Allen l’amore e il rispetto per questo angolo della British Columbia. Tutto ciò fu d’ispirazione per Allen tanto che decise di costruire una casa sull’albero nel pieno rispetto della natura, al fine di vivere più intimamente con essa. Ecco così la nascita del suo nuovo sogno! Per prima cosa prese lezioni in una falegnameria e si fece assumere in una ditta di costruzioni, al fine di guadagnare qualche cosa per poter vivere e per imparare un mestiere che gli sarebbe stato utile nel suo sogno. Contattò due suoi amici architetti e insieme iniziarono la progettazione di una casa che fosse non solo accattivante nelle linee ma anche spaziosa. Vari progetti furono abbandonati, finchè si decise di costruire una casa a forma di uovo dove il tronco dell’albero si trovasse al centro. Allen costruì un modello in scala ridotta al fine di testarne da resistenza e durevolezza. Il passo successivo fu quello di cercare l’albero perfetto, la vista ideale e il terreno più comodo. Data la mancanza di capitale per l’acquisto di un terreno decise di realizzare il suo progetto nella foresta pubblica. Questa casa necessitava di un terreno ad una distanza ragionevole dalla strada in modo da rimanere in contatto con la società ma che consentisse un certo isolamento. Altra nota essenziale e che fosse nelle vicinanze di corsi d’acqua o di laghetti al fine di consentire un approvvigionamento idrico costante e che fungesse anche da doccia naturale. Poi vi era la necessita di costruirla in un luogo dove la forma a uovo non cozzasse troppo con l’ambiente e infine era necessario un albero dal tronco notevolmente robusto. Tale ricerca si protrasse per un mese circa finchè non trovò il sito adatto.

A questo punto il sogno c’era, il progetto anche e il luogo era perfetto. Iniziò la costruzione dell’abitazione e portò a termine lo scheletro della stessa con una spesa di circa 6500 dollari. Il progetto fu abbandonato per circa un anno, causa un viaggio in Slovenia. Qui conobbe e si innamorò di una ragazza di nome Heidi che lo convinse a tornare in Canada per terminare questo meraviglioso progetto. Qui si resero subito conto che poter portare a termine questo sogno sarebbero stati necessari circa 10.000 dollari di materiale. La cosa appariva non fattibile. Ed ecco qui un idea, utilizzare il legno di vecchi mobili e vecchie porte al macero, restaurarlo e riutilizzarlo nella costruzione dell’abitazione.

Nel corso di un’estate Joel e Heidi portarono a termine il loro progetto, lavorando solo nei fine settimana. Decisero di comune accordo di filmare a fotografare questa splendida casa. Tempo dopo a New York incontrarono una redattrice della rivista Dwell che si interessò notevolmente al progetto e decise di pubblicarlo con il nome di HemLoft. In seguito all’interesse riscontrato è stato anche aperto un sito internet dove vengono descritte nel dettaglio le varie fasi produttive.hemloft-joel-allen-6 (1)

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Tale pubblicazione ha portato all’attenzione delle autorità locali questa piccola abitazione in quanto costruita su terreno pubblico e senza nessuna autorizzazione. Tecnicamente, quindi, Allen non è padrone di nulla. Ha portato all’attenzione dei media tutto ciò sperando che possa essere legalizzato. Ha anche indetto un sondaggio sul sito web per farsi consigliare sulla maniera più giusta di muoversi dal punto di vista giuridico. Il 75% degli intervistati gli consiglia di cercare di acquistare il terreno. Ad oggi però, il destino di questa splendida abitazione appare incerto!

Fonte: tuttogreen.it