Le lobby del profitto, del business, i cavalieri del capitalismo sfrenato non si arrendono nemmeno di fronte alla constatazione che la crescita infinita è impossibile. E si inventano la “crescita verde”, che di verde e di “green” non ha proprio nulla.
I malati del
profitto, del business, coloro per i quali il denaro è l’alfa e l’omega
della vita, le inventano tutte pur di glorificare la sacra trinità: Denaro,
PIL e Crescita. Visto che molti si stanno accorgendo in maniera
sempre più chiara che la crescita è un cancro che significa esclusivamente la
devastazione del mondo rendendolo una discarica dove le persone sono cavie per
le malattie prodotte dal cancro, si cerca in ogni modo di indorare la pillola
per continuare imperterriti a guadagnare e fare il proprio comodo. Si sprecano
quindi gli ossimori, le contraddizioni in termini e si parla indifferentemente
di economia circolare e crescita oppure addirittura di crescita verde,
che sono la negazione l’una dell’altra. Ricordiamo infatti, soprattutto a beneficio
di coloro che hanno studiato nelle prestigiose università di economia e quindi
sono inconsapevoli delle basi stesse dell’economia, che la crescita
presuppone uno sfruttamento infinito di persone e risorse naturali per produrre
profitto. Le persone possono essere sfruttate all’infinito, basta metterle
in grado di comprare i gadget giusti; ma la natura e le risorse non possono
essere sfruttate infinitamente, perché sono finite, per ovvi motivi. Infatti
degli squilibrati stanno pensando di colonizzare Marte perché la terra la
stiamo già esaurendo. Come se ciò non bastasse, la crescita produce una
quantità di rifiuti che nessuna capacità di riciclo potrà mai ridurre
considerevolmente. Capacità di riciclo che non si può spingere più di tanto
perchè altrimenti la crescita avrebbe una contrazione, stessa cosa che
avverrebbe con l’economia circolare se si applicasse in tutti i settori. Quindi
non solo gli apostoli della crescita non vogliono che si ricicli o si riusi
granchè, ma la terra non è in grado di assorbire la immensa massa di rifiuti
che viene prodotta. Infatti mari, fiumi e terre sono ormai delle discariche.
Se ne deduce in maniera ovvia, senza bisogno forse nemmeno della quinta
elementare, che una crescita verde è semplicemente impossibile poichè le
due cose assieme fanno a pugni. La crescita per sua natura non ha nulla
di green, perché sfrutta tutto come risorsa o come pattumiera. Ci
possono essere una prosperità verde, un futuro verde, magari anche una economia
verde se si intende l’accezione etimologica di economia che è la cura della
casa, ma è inutile arrampicarsi sugli specchi, fare capriole, giravolte, salti
mortali all’indietro, doppi e tripli, non si può barare: la crescita verde è
impossibile. Per giustificarla e quindi apparire paladini dell’ambiente, ci si
daranno riverniciatine green come fanno i maggiori inquinatori del pianeta a
iniziare ad esempio dall’ENI che ci bombarda con campagne pubblicitarie, ma
sotto la patina il risultato è sempre lo stesso: devastazione della natura e
guerra alla salute delle persone. Questi cantori della crescita verde o meno
verde non si fermeranno da soli, non possono per loro natura, quindi vanno
fermati; va tolto loro qualsiasi potere, qualsiasi appoggio, con un’obiezione
di coscienza sistematica. Allo stesso tempo, occorre costruire luoghi, società,
progetti, lavori, formazione, educazione che non abbiano la crescita e il dio
denaro come faro, bensì la qualità della vita, il benessere, una vita dignitosa
per tutti e la salvaguardia della nostra casa cioè l’ambiente in cui viviamo.
Allora sì che avrà senso parlare dell’unica crescita accettabile e sensata che
è quella dei valori e della ricchezza personale intesa come spirituale.
Trasformare in vere e proprie “fattorie per
lombrichi” i contenitori dedicati alla raccolta dei rifiuti: E’
l’obiettivo del progetto “Il Ciclo del Lombrico”, avviato in
provincia di Alessandria coinvolgendo i cittadini e le scuole con lo scopo di
diffondere la conoscenza della lombricoltura, quale pratica utile a ridurre il
quantitativo di rifiuti che produciamo in casa, produrre humus per i nostri
terreni e risparmiare sulla raccolta differenziata. Lo sapevate che esiste una soluzione semplice e
pratica per smaltire i rifiuti organici in casa riducendo la quantità di scarti
alimentari prodotti nelle nostre cucine? Tutto questo è possibile grazie ai
lombrichi, piccoli amici ma grandi lavoratori, capaci di trasformare questi
scarti in un prodotto naturale e utile per il nostro Pianeta. Grazie al
progetto “Il Ciclo del Lombrico”, ideato da Ruben Gemme e Mirko Pepe ed avviato nell’alessandrino,
chiunque potrà praticare il compostaggio domestico nel proprio giardino o
all’interno della propria abitazione! Come
vi abbiamo raccontato in un precedente articolo, la lombricoltura è una soluzione perfetta e a basso
impatto, nonchè una tecnica alternativa e sconosciuta ai più ma con grandi
potenzialità: si basa sulla trasformazione di scarti vegetali in humus ad opera
dei lombrichi e permette il riciclo di rifiuti organici e la conseguente
produzione di fertilizzante naturale in agricoltura e orticoltura, con
innumerevoli benefici dal punto di vista ambientale, economico e sociale.
Obiettivo del
progetto è realizzare una “lombricompostiera infinita”, trasformando il
numero più elevato di contenitori dedicati alla raccolta dei rifiuti in vere e
proprie “fattorie per lombrichi”. Si tratta di un modello alternativo di
vivere, produrre e consumare e si basa proprio sul concetto di “ciclo
continuo”: la terra ci dona i suoi frutti per nutrirci, una volta consumati,
gli scarti rimasti finiranno nella vermicompostiera, che i lombrichi
lavoreranno producendo humus per concimare la terra, che in questo modo
produrrà nuovi frutti. L’humus prodotto dai lombrichi è inoltre un “super
concime”, in quanto ricco di minerali e sostanze essenziali per la
crescita sana delle piante e capace di migliorare il terreno dal punto
di vista nutritivo. Obiettivo è promuovere una cultura educativa e ambientale
tra le persone, mostrando come questa semplice pratica possa entrare a far
parte delle nostre abitudini quotidiane con innumerevoli vantaggi.
La
lombricompostiera verrà realizzata con la prerogativa di utilizzare
esclusivamente materiali di recupero: contenitori dismessi, plexiglass o
lamiere derivanti da scarti di lavorazione, che andranno a costituire la nuova
casa dei lombrichi. Come racconta Mirko, «I lombrichi amano la spazzatura
organica, per questo rappresentano una soluzione ottimale ed efficace sia in
scala domestica che industriale nella gestione dello smaltimento dei rifiuti».
Ebbene, si tratta
di una soluzione vincente sia da un punto di vista dell’ecologia che
dell’economia. In primis la vermicoltura ci consente di ridurre il quantitativo
di rifiuti che produciamo quotidianamente in casa ed inoltre chiunque può farne
uso: cittadini, condomìni, scuole, ristoranti, con risparmi economici
sulla tassa dei rifiuti. Pensate che una famiglia può riutilizzare un
normalissimo bidone della spazzatura che, ospitando una popolazione di un chilo
di Lombrichi, è capace di smaltire fino a due quintali di rifiuti all’anno!
Inoltre, realizzare un solo bidone con materiali di scarto permette di
recuperare fino a sei chili di plastica e un chilo di ferro, che in alternativa
sarebbero stati destinati allo smaltimento.
Con le iniziative
di “Il Ciclo del Lombrico”, la lombricoltura arriva ora anche nelle scuole.
“Rifiutiamo lo spreco!” è il progetto pensato per le scuole elementari,
per avvicinare i più piccoli al mondo dei lombrichi e a tutti i benefici che ne
derivano, attraverso un progetto didattico tutto improntato all’ecosostenibilità.
Il compostaggio dei rifiuti organici è infatti una pratica semplice, divertente
e molto istruttiva per i più piccoli, aiutandoli a prendersi cura della terra e
della natura. Protagonisti di quest’avventura sono proprio i bambini delle
scuole elementari di Rivalta Bormida e Cassine, che, insieme agli
aiutanti lombrichi, trasformano gli scarti delle mense in prezioso humus e lo
ridonano alla Terra, all’interno degli orti che le scuole mettono loro a
disposizione. Ad Alessandria, inoltre, Ruben e Mirko hanno portato la
lombricoltura all’interno della ristorazione sociale promossa dalla Cooperativa Sociale Coompany&, dove sono state collocate dieci vermicompostiere per
riporre gli scarti alimentari della frutta e della verdura coltivata negli orti
urbani della cooperativa.
«Il Lombrico, per
noi, è la base di tutto – affermano Ruben e Mirko – e grazie a lui stiamo dando
vita a diversi progetti con un unico comune denominatore: dare nuova e migliore
vita a ciò che ieri chiamavamo rifiuto!».
Un progetto virtuoso che vuole contribuire a sensibilizzare grandi e piccoli
fornendo le basi per la crescita organica del terreno, oltre che a costruire
nuove comunità resilienti e promuovere un’economia circolare chiudendo
il cerchio sugli sprechi alimentari.
Greenpeace ha riattivato Plastic Radar,
l’applicazione per segnalare la presenza di rifiuti in plastica sulle spiagge,
sui fondali o che galleggiano sulla superficie del mare. Novità di questa
edizione la possibilità di segnalare i rifiuti in plastica anche nei nostri
fiumi e laghi. Greenpeace ha
riattivato Plastic Radar il servizio per segnalare la presenza di
rifiuti in plastica che inquinano spiagge, mari e fondali e che, a partire dall’edizione
di quest’anno, include anche l’inquinamento da plastica nei nostri fiumi e
laghi. Partecipare è semplice, basta avere un telefono cellulare su cui sia
installata l’applicazione WhatsApp e, una volta ritrovato un rifiuto di
plastica in mare, spiaggia, in fiumi o laghi, segnalarlo al numero di
Greenpeace +39 342 3711267 tramite l’applicazione. Per effettuare una
segnalazione è necessario inviare a Plastic Radar una foto in cui sia
ben riconoscibile il tipo di rifiuto/oggetto e, se possibile, anche il marchio
dell’azienda produttrice, insieme alle coordinate geografiche del
luogo dove è stato individuato il rifiuto. La chatbot di Plastic Radar porrà
successivamente delle domande per reperire le informazioni necessarie per
registrare e validare la segnalazione. I dati saranno disponibili in forma
aggregata – nell’arco di 24-48 ore – sul sito. Greenpeace invita
tutti i partecipanti a raccogliere i rifiuti, differenziarli e depositarli
negli appositi contenitori una volta effettuata la segnalazione.
“Nella nostra
recente spedizione di ricerca e documentazione “MAYDAY SOS Plastica” nel
Tirreno abbiamo verificato che i nostri mari e le nostre spiagge sono soffocate
dalla plastica. Tra i punti più contaminati la foce del Sarno, a conferma che
i fiumi sono una delle principali vie di ingresso dei rifiuti in mare. Per
questo raccogliamo anche segnalazioni relative alla presenza di rifiuti in
plastica lungo fiumi e laghi”, dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della
Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. “Chiediamo una mano a tutti:
insieme possiamo denunciare cosa sta succedendo e accendere i riflettori su una
delle emergenze ambientali più gravi dei nostri tempi”.
Attraverso il sito Plastic Radar sarà
possibile scoprire quali sono le tipologie di imballaggi più comuni che inquinano
mari, spiagge, fiumi e laghi, a quali categorie merceologiche
appartengono e quali sono le aziende che dipendono maggiormente dalla plastica
monouso nell’offerta dei propri prodotti.
“L’iniziativa
lanciata l’anno scorso ha avuto un enorme successo con oltre 6.800 segnalazioni
valide e ci ha aiutato a far luce sui rifiuti in plastica più presenti nei mari
italiani. La maggior parte erano prodotti usa e getta, in primis bottiglie
di plastica, e appartenenti a marchi ben noti come San Benedetto, Coca Cola
e Nestlè. Le grandi aziende continuano a immettere sul mercato enormi
quantitativi di plastica usa e getta non assumendosi alcuna responsabilità
circa il suo corretto riciclo e recupero. Se vogliamo veramente fermare
l’inquinamento da plastica nei nostri mari è necessario che le grandi aziende
avviino immediatamente programmi per ridurre drasticamente il ricorso
all’utilizzo di imballaggi e contenitori in plastica usa e getta” , conclude
Ungherese.
Delle quasi
6.800 segnalazioni valide ricevute nell’estate 2018, il 91 per cento ha
riguardato rifiuti in plastica usa e getta, ovvero oggetti progettati per
un utilizzo che va da pochi secondi ad alcuni minuti, e in gran parte
rappresentati da bottiglie per l’acqua minerale e bevande (25 per cento); a
seguire, nell’ordine: confezioni per alimenti (circa il 10 per cento),
frammenti (6 per cento), sacchetti di plastica (4 per cento), bicchieri,
flaconi di detersivi, tappi e reti (tutti al 3 per cento) e contenitori
industriali, flaconi di saponi e contenitori in polistirolo (tutti al 2 per
cento).
Nei mesi scorsi
Greenpeace ha lanciato una petizione, sottoscritta da
più di un milione di persone in tutto il mondo, in cui si chiede ai grandi
marchi come Coca-Cola, Pepsi, Nestlé, Unilever, Procter & Gamble,
McDonald’s e Starbucks di ridurre drasticamente l’utilizzo di contenitori e
imballaggi in plastica monouso.
Partendo dall’emergenza rifiuti, che è da tempo
una costante per Roma e altre città, Mariella Lancia riflette sul nostro modo
di gestire anche le nostre scorie interiori, oltre a quelle materiali. In che
modo potremmo prevenire l’impatto distruttivo di eventi esterni cominciando a
guardarci dentro e a trasformare noi stessi?
Ciclicamente un
popolo, una parte del mondo, un gruppo o anche solo un individuo si fan e
“manifestatore” di un male dell’umanità. È come se per un misterioso
atto sacrificale qualcuno si facesse carico di una carenza, di una incapacità
che viene posta sotto una lente di ingrandimento in modo che attraverso lo choc
che questo evento provoca – soprattutto oggi attraverso l’esposizione mediatica
– si possa prendere coscienza di qualcosa di cui tutti, seppure in gradi
diversi, siamo portatori. E cominciamo a interrogarci, a cercare soluzioni e
forse ad apprendere qualche lezione. I piromani inceneriscono boschi e pinete.
Adolescenti annoiati ammazzano di botte un ignaro pensionato. Una nave vaga nel
Mediterraneo per 17 giorni col suo penoso carico di migranti senza che un solo
porto le dia il permesso di attraccare. Crollano ponti. Allora ci si agita, si
va in piazza a protestare, si condanna, si aprono inchieste, si fanno in fretta
e furia nuove leggi. Raramente ci si ferma a riflettere su di noi, su che
cosa questi eventi rispecchino di noi stessi, come individui e come gruppo
umano.
Prendiamo l’
“emergenza spazzatura”. Quale può essere la lezione dei rifiuti? A me pare
che questa “emergenza rifiuti” che ricorrentemente affiora e mette in crisi, ci
parli della nostra incapacità di gestire non solo le scorie materiali (di
questo stanno parlando tutti), ma anche quelle psichiche. Della nostra poca
dimestichezza, per esempio, con stati mentali che consideriamo negativi e di
cui vogliamo liberarci al più presto: come la sofferenza, l’incertezza, la
frustrazione, la tristezza, la noia, la paura, la rabbia. Oppure con situazioni
difficili come fallimenti, errori, conflitti. Della nostra incompetenza
nell’analizzare questi stati e questi eventi, per vedere quanto c’è di
utilizzabile (per conoscerci meglio, per la nostra crescita interiore, per
produrre pensiero, poesia, arte, condivisione…) e quanto di questa materia
prima possa, quindi, essere estratto e trasformato. Ci siamo costruiti delle
sane discariche per le nostre emozioni disturbanti? O le scarichiamo
fuori dalla nostra porta, sul primo malcapitato passante? Abbiamo delle
strutture per trasformarle in fertilizzanti e in energie alternative? O le
lasciamo accumulare a casaccio, fino a esserne sopraffatti, a volte fino ad
esplodere, con effetti distruttivi su noi stessi e sugli altri? Sentiamo
ad esempio cosa dice Gandhi, nella sua autobiografia, a proposito della rabbia:
“Ho imparato la lezione suprema di non sopprimere la mia rabbia, ma di
conservarla e come il calore conservato si tramuta in energia così la rabbia
conservata e controllata si tramuta in un potere che può cambiare il mondo”.
Può darsi che per
diventare abili nella trasformazione delle energie fisiche occorra
iniziare imparando a trasformare le energie emotive e mentali. Che ne direste
di avviare riflessioni simili anche su altri “eventi specchio” come quelli
prima elencati ? Di che cosa potrebbero essere il “correlativo oggettivo” gli
incendi dolosi, le “morti bianche”, l’emergenza migranti, le risse dei tifosi,
i crolli di ponti e di edifici.? In che modo potremmo prevenire o almeno
diminuire l’impatto distruttivo di eventi come questi cominciando a guardarci
dentro e a trasformare noi stessi? Anche questo può essere l’Italia che cambia.
Una “rete di valore aperto” per promuovere
progetti, eventi e buone pratiche volti alla riduzione dell’impronta ecologica
individuale in Friuli-Venezia Giulia. Abbiamo intervistato Francesco, che dopo
un’esperienza da cervello in fuga in giro per il mondo, è rientrato in Italia
per raccontare e diffondere la filosofia Zero Waste attraverso una comunità
virtuale territoriale. Zero Waste FVG è una piattaforma indipendente e no profit basata su
tecnologie Open Source il cui scopo è la diffusione della filosofia zero
sprechi in Friuli-Venezia Giulia. A parlarcene è Francesco Marino,
giovane laureato in Tecnologie Web e Multimediali che abbiamo intervistato a
Udine, dove è tornato a vivere da quando, nel novembre del 2018, è rientrato da sei anni di vita
all’estero.
Era il 2012, infatti, quando
Francesco ha iniziato a viaggiare grazie a degli stage post-laurea, diventando
successivamente un digital nomad e allungando la lunga lista di cervelli in
fuga del nostro paese. In questo periodo, passato tra Norvegia, Hong Kong,
Filippine e soprattutto Spagna, la sua consapevolezza ambientale è cresciuta
moltissimo, “di pari passo con un profondo cambiamento interiore, che è
l’unica spinta che può davvero portare le persone a sognare ed agire per un
mondo migliore”.
Durante la sua permanenza in Asia, in
particolare nelle Filippine, ha potuto toccare con mano gli effetti dei
cambiamenti climatici e dell’inquinamento su vasta scala. Sicché, dopo un
percorso di crescita personale iniziato con lo yoga e durato quattro anni, ha
deciso di rimboccarsi le maniche e – prima ancora di rientrare in Italia
da Barcellona, ultima tappa della sua esperienza all’estero – ha deciso di
fondare prima un gruppo e una pagina Facebook, e poi di aprire
il sito www.zerowastefvg.it.
La piattaforma è
pensata come un servizio “contenitore”, co-progettato e co-gestito da tutti i
membri della comunità che lo utilizzano (più di 1000 nel gruppo Facebook), con
l’obiettivo di diventare un bene comune dei cittadini. “Si tratta di un
luogo virtuale nel quale chiedere, suggerire, realizzare sondaggi, far nascere
collaborazioni tra cittadini, siano essi consumatori, produttori, negozianti,
riparatori, comunicatori”, chiarisce Francesco, che sottolinea come il progetto
sia su base volontaria per tutti, totalmente orizzontale ed aperto al supporto
di chiunque voglia dare una mano. Sul sito è presente una mappa collaborativa, che dà visibilità ai “punti di interesse etici” che già esistono sul
territorio regionale e che vuole essere uno stimolo per tutti a lanciare nuovi
progetti e attività in questa direzione. Inoltre è presente un calendario degli
eventi che vengono
organizzati sul territorio e vari gruppi Telegram per gestire attività
specifiche (social, giornate ecologiche, riciclo creativo, ecc.).
Pur non essendo
collegato a nessuna delle varie reti internazionali Zero Waste, il
progetto di Francesco condivide con esse i valori che ne sono alla base e che
possono essere riassunti nei seguenti principi:
– Rifiutare
(prevenzione/minimalismo);
–
Ridurre (prevenzione/decrescita);
– Riutilizzare
(prolungamento della vita dei prodotti);
– Riciclare
(recupero della materia);
– Compostare
(recupero dell’energia).
Francesco tiene
molto a sottolineare come, più che uno stile di vita, Zero Waste sia
soprattutto una filosofia. “Se qualcuno mi chiede cosa deve fare per vivere una
vita a minor impatto ambientale, io gli rispondo che prima di tutto deve
ascoltarsi”, ci dice. Un segno che il cambiamento non si basa tanto (o non
soltanto) sulle azioni, pur dettate dal buon senso, ma soprattutto da un lavoro
interiore. “Vivere una vita Zero Waste significa anzitutto liberarsi
mentalmente del superfluo, a cominciare dal giudizio verso il percorso degli
altri”.
E a ben pensarci è
solo così che possiamo accettare con maggior tolleranza chi, per i motivi più
disparati – a cominciare dalle possibilità di accesso alle informazioni – non
ha (ancora) aderito a un cambiamento strutturale. Aumentando le
possibilità di aprire qualche ulteriore varco nella cultura dominante, invece
di costruire altri muri.
“Troppo buono per essere buttato” è il cibo invenduto
di ristoranti, bar, panifici, hotel, supermercati e altre attività di
ristorazione che, con la nuova iniziativa “Too Good To Go”, giunta a Milano e
ora anche a Torino, verrà messo in vendita a prezzi ribassati tramite
l’utilizzo di una applicazione, coinvolgendo sempre più persone alla lotta
contro gli sprechi alimentari.
Vetrine piene di
prelibatezze, abbondanza di alimenti di ogni forma e colore tra i banchi del
supermercato, specialità dei ristoranti che aspettano solo di essere gustate.
Tanto, troppo cibo appetitoso e pronto per essere consumato che ha un solo
problema: è rimasto invenduto e andrà incontro ad un unico, triste destino…
finire nell’umido. Negli ultimi anni, anche a fronte di una maggior sensibilità
ad una filosofia anti-spreco, le soluzioni per salvaguardare il cibo sono
aumentate in modo significativo, attraverso pratiche virtuose che coinvolgono
sempre più soggetti.
A Torino è recentemente arrivata Too Good To Go, l’iniziativa che consente alle attività di ristorazione di recuperare il
cibo fresco invenduto, permettendo allo stesso tempo ai consumatori, tramite
l’utilizzo di un’applicazione, di ordinare il proprio pasto a prezzi ribassati.
Quali sono i reali costi dello spreco del cibo? Iniziamo dal fatto che, a scala
globale, ogni anno circa un terzo degli alimenti viene sprecato. Per
quanto riguarda il caso italiano, come riportato sul sito di Too Good To Go,
ogni anno più di 10 milioni di tonnellate di alimenti viene gettato via: “Sono
20 tonnellate per minuto, 317 kg ogni secondo… che corrisponde allo stesso
peso di 190 Titanic! Non è assurdo? Questo spreco aumenta ogni giorno e in
termini di spesa corrisponde a €17 miliardi l’anno. Sono circa €700 l’anno
spesi da ogni famiglia per acquistare del cibo che infine finisce nella
spazzatura”.
Too Good To Go
rappresenta, in questi termini, un movimento anti-spreco che, nato in Danimarca, è giunto fino in Italia e parte dall’affermazione
di Chad Frischmann, esperto del cambiamento climatico, il quale sostiene
che ridurre gli sprechi alimentari sia una delle azioni più importanti che
possiamo fare per contrastare il riscaldamento globale.
In Italia la missione del progetto si basa quindi sulla volontà di creare la
più ampia rete anti-spreco che faciliti un trasformazione collettiva a
partire dal cibo, per generare un cambiamento positivo nella società.
“Il cibo viene
continuamente sprecato durante l’intero processo che lo porta dalle fattorie
alle nostre tavole. Non sono solo gli alimenti in sé che vanno sprecati, lo
sono anche tutte le risorse necessarie per produrli, dall’acqua, alla terra, al
lavoro delle persone. Se sprecato, il cibo ha un effetto dannoso sull’ambiente
in quanto è responsabile dell’8% delle emissioni globali di gas serra” si legge
sul sito.
Ma come funziona
Too Good To Go?
Accedere al
servizio è facile: le attività di ristorazione iscritte all’applicazione
metteranno in vendita le cosiddette “Magic Box”, ovvero delle “confezioni
magiche” al cui interno si possono trovare prodotti freschi a prezzi
ribassati, tra i 2 e i 6 euro. I consumatori, geolocalizzandosi ed
individuando i locali inclusi nella rete, potranno quindi ordinare e acquistare
online il prodotto, ritirandolo nel negozio interessato. Il cibo proviene ad
esempio da bar che hanno cucinato troppi prodotti freschi che non possono
essere conservati, oppure da ristoranti che non hanno venduto tutti i
piatti che hanno preparato. La particolarità dell’iniziativa è che il
consumatore scoprirà il cibo che ha acquistato soltanto nel momento in cui
ritirerà la Magic Box. Attraverso il progetto si vogliono incoraggiare i
clienti a portare da casa i propri contenitori, col fine di limitare l’uso di
imballaggi ed inoltre ogni Magic Box acquistata permetterà di evitare l’emissione
di 2 kg di Co2.
Il progetto
“Too Good to Go” rappresenta una soluzione “win-win-win”
che si basa sulla strategia del “vincere assieme” ed in cui tutti gli
attori coinvolti traggono benefici cooperando per un medesimo scopo. Combattere
lo spreco rappresenta in questi termini un vantaggio per tutti: per le attività
di ristorazione, che in questo modo potranno ridurre le eccedenze alimentari
ed espanderanno la propria clientela; per i consumatori, che potranno avere a
disposizione pasti freschi e a costi ribassati; per il pianeta, attraverso piccoli
cambiamenti nelle nostre azioni quotidiane che possono realmente fare la
differenza.
Foto copertina
Didascalia: Lotta allo spreco alimentare
Autore: Too Good To Go
Licenza: Sito Ufficiale Too Good To Go
Con l’approssimarsi della
primavera, nelle località balneari si è in procinto di iniziare le operazioni
di ripulitura delle spiagge in previsione della stagione estiva che verrà. E
Legambiente denuncia una situazione insostenibile: l’80% dei rifiuti che
invadono i nostri litorali è costituito da plastica.
L’indagine Beach litter 2018 di Legambiente ha monitorato 78 spiagge con 48.388
rifiuti rinvenuti in un’area complessiva di 416.850 mq (pari a circa 60 campi
di calcio) e una media di 620 rifiuti ogni 100 metri di spiaggia (lineari)
campionata, 6,2 per ogni metro di spiaggia.
Quello che si trova
sulle spiagge italiane è soprattutto plastica (80%). L’associazione ambientalista sottolinea come oltre
la metà dei rifiuti raggiungono le spiagge perché non vengono gestiti
correttamente a terra. La cattiva gestione dei rifiuti a monte è, infatti, la
causa principale del continuo afflusso dei rifiuti in mare. Ma non è la sola. Anche
i rifiuti abbandonati direttamente sulle spiagge o quelli che provengono
direttamente dagli scarichi non depurati e dalla cattiva abitudine di
utilizzare i wc come una pattumiera.
Sul podio dei
rifiuti più trovati lungo le spiagge ci sono i frammenti di plastica, ovvero i
residui di materiali che hanno già iniziato il loro processo di disgregazione,
anelli e tappi di plastica e infine i cotton fioc, che salgono quest’anno al
terzo posto della top ten. Gli oggetti che si trovano praticamente in tutte le
spiagge monitorate sono tappi e anelli di plastica (95% delle spiagge),
bottiglie e contenitori di plastica per bevande (96% delle spiagge) e
bicchieri, cannucce, posate e piatti di plastica (90% delle spiagge
monitorate).
Questi oggetti usa
e getta di uso diffuso rappresentano un problema comune per tutte le spiagge. Altro
rifiuto molto diffuso sono i materiali da costruzione, presenti nell’85% delle
spiagge monitorate. L’indagine di Legambiente è una delle più importanti azioni
a livello internazionale di citizen science, ovvero il risultato di un monitoraggio
eseguito direttamente dai circoli di Legambiente, da volontari e cittadini, che
ogni anno setacciano le spiagge italiane contando i rifiuti presenti, secondo
un protocollo scientifico comune e riconosciuto anche dall’Agenzia Europea
dell’Ambiente, a cui ogni anno vengono trasmessi i dati dell’indagine per
completare il quadro a livello europeo. Questi dati infatti vanno a integrare
quelli rilevati dalle agenzie ambientali di tutta Europa nell’ambito della
Marine Strategy, la strategia marina dell’Unione Europea.
Non sono solo gli oceani e gli animali marini a
soffrire: la plastica comporta evidenti rischi per la salute umana e per questo
è necessario ed urgente adottare il principio di precauzione e a iniziare ad
eliminare definitivamente questo materiale, a partire dall’usa e getta. Un rapporto diffuso nelle ultime ore dal Center for
International Environmental Law (CIEL) evidenzia l’urgenza
di adottare il principio di precauzione per proteggere l’umanità
dall’inquinamento della plastica. Valutate tutte le fasi del ciclo
produttivo e di vita di questo materiale, il report infatti rileva evidenti
rischi per la salute umana.
Nel dettaglio, il
rapporto del CIEL evidenzia come:
– le materie
plastiche presentano differenti rischi per la salute umana in ogni fase
del loro ciclo di vita: dalle sostanze chimiche pericolose rilasciate durante
l’estrazione del petrolio e la produzione delle materie prime, all’esposizione
agli additivi chimici rilasciati durante l’utilizzo delle materie plastiche,
per terminare con l’inquinamento dell’ambiente e del cibo che può derivare dal
rilascio di plastica nell’ambiente;
– le
microplastiche, come frammenti e fibre, a causa delle loro piccole dimensioni
possono entrare nel corpo umano attraverso il contatto, l’ingestione o
l’inalazione, penetrare nei tessuti e nelle cellule generando impatti
sull’uomo, anche a causa del rilascio di sostanze chimiche pericolose;
– incertezze e
lacune conoscitive non consentono di avere un quadro dettagliato circa gli
impatti sulla salute umana e impediscono a consumatori, comunità e istituzioni
di prendere decisioni consapevoli su questo materiale.
Commentando quanto
emerge dal report di CIEL, Giuseppe Ungherese, responsabile campagna
Inquinamento di Greenpeace Italia, dichiara: “I rischi per la salute derivanti
dall’inquinamento da plastica sono stati ignorati per troppo tempo, un
atteggiamento che va contro le regole basilari della prevenzione che
dovrebbero guidare le scelte istituzionali e delle multinazionali e venire
prima dei profitti. Imprese e istituzioni hanno scelto invece di mantenere lo
status quo. Non sono solo gli oceani e gli animali marini a soffrire le conseguenze
della dipendenza dalla plastica della nostra società, siamo tutti noi a
subirne gli effetti. Nonostante ci sia ancora molto da chiarire su tutti i
possibili impatti generati dalla plastica sulla salute umana, i rischi sono
evidenti. Le conoscenze attuali impongono di applicare concretamente il
principio di precauzione e iniziare a eliminare definitivamente la plastica, a
partire dall’usa e getta”.
“Il ricorso a
questo materiale, oltre a devastare il Pianeta, continua a mantenerci
dipendenti dai combustibili fossili, contribuendo ai cambiamenti
climatici”, continua Ungherese. “Non ci sono motivi per continuare a mettere a
rischio la salute umana in nome della presunta convenienza della plastica. Da
mesi chiediamo alle grandi multinazionali, responsabili della
commercializzazione dei più grandi volumi di plastica usa e getta, di assumersi
le proprie responsabilità riducendo drasticamente la produzione di plastica
monouso”, conclude.
Promuovere l’economia circolare attraverso una
serie di attività, con un focus specifico sulle riparazioni di oggetti guasti
altrimenti destinati a divenire rifiuti. È questo l’obiettivo di Rusko,
associazione nata a Bologna e ispirata all’esperienza internazionale dei Repair
Cafè: un’iniziativa virtuosa e dall’alto valore sociale ed ecologico che sempre
più sta prendendo piede anche in Italia.
“Eravamo quattro
amici al bar, che volevano cambiare il mondo…”. Inizio ad ascoltare
l’intervista raccolta dai miei colleghi e subito mi viene in mente la celebre
strofa della canzone di Gino Paoli che, a pensarci bene, descrive perfettamente
l’avvio di una miriade di progetti virtuosi, innovativi e vincenti nati per
l’appunto da una chiacchierata informale tra persone affini, una buona
intenzione ed un’idea semplice, ma efficace. Ed è proprio così che circa un
anno e mezzo fa a Bologna ha preso vita l’associazione Rusko (Riparo Uso Scambio
Comunitario), ispirata anche
all’esperienza estera dei Repair Cafè: momenti di incontro in cui si riparano
oggetti rotti che altrimenti verrebbero gettati via.
“Insieme ad alcuni
amici, davanti ad una pizza e una birra, abbiamo iniziato a domandarci cosa
avremmo potuto fare concretamente per contribuire al miglioramento di una
società che non ci convinceva. Abbiamo buttato giù un’idea, la abbiamo studiata
e abbiamo raccolto informazioni su altre esperienze avviate in altri Paesi, in
particolare nel nord Europa”, ci racconta Raffaele Timpano, presidente di
Rusko. “Abbiamo preso contatti con la Repair Foundation di Amsterdam,
promotrice di un modello, quello dei Repair Cafè, che coniuga due valori
per noi importanti: partecipazione sociale e rifiuto dello spreco. Tutto quello
che serviva per iniziare era un gruppo di persone ben affiatate e luoghi dove
svolgere le nostre attività: riparazioni, prima di tutto, ma anche una serie di
altre iniziative volte a promuovere l’economia circolare e la sostenibilità”.
Nasce così Rusko,
che significa Riparo Uso Scambio Comunitario ma che in bolognese vuol dire
anche spazzatura. “Abbiamo voluto giocare proprio su questa ambivalenza: una
cosa considerata inutile può avere una nuova vita ed un valore sociale ed
ecologico. Un nome che qui a Bologna ha riscosso subito molto successo”.
Raffaele Timpano ci
spiega la filosofia che sta alla base della loro esperienza. “Ci siamo interrogati
sui cicli di vita sempre più brevi dei prodotti industriali e sul legame che
esiste tra le persone e gli oggetti, ovvero sulla totale dissociazione che si è
venuta a creare con l’avvento del consumo di massa: oggi le persone non si
chiedono più da dove vengono gli oggetti e come vengono realizzati. I prodotti
vengono acquistati, usati e poi buttati nella spazzatura. Un sistema
insostenibile, insomma, che noi vogliamo contribuire a superare”. Partendo,
appunto, dalla promozione dei Repair Cafè, iniziativa nata qualche anno fa in
Olanda e che ora si sta diffondendo anche in Italia. Si tratta di incontri tra
persone che vogliono riparare oggetti malfunzionanti. “Alcune persone
partecipano ai Repair cafè che organizziamo per curiosità, altre per passare del
tempo in compagnia, altre ancora perché animate da uno spirito ecologista – ci
spiega Raffaele – Inoltre nei quartieri più popolari abbiamo visto anche
famiglie che ricorrono alle riparazioni per necessità. È molto diverso
l’approccio tra centro e periferia, nelle zone periferiche spesso abbiamo
conosciuto immigrati che si sorprendono per la nuova diffusione della pratica
della riparazione nel nostro Paese e ci raccontano gli usi dei loro territori.
Si creano così degli scambi molto interessanti”.
Rusko, che conta
ora circa una trentina di volontari, al momento non ha una sede fisica.
“Andiamo dove ci invitano – dice Raffaele – Un luogo fisico non è fondamentale
ma è più funzionale per l’attrezzatura. Ecco perché il nostro prossimo
obiettivo è trovare un posto dove stabilirci”.
Ma come funziona? “Qualche giorno prima dell’evento mandiamo una mail
agli interessati indicando luogo e ora dell’appuntamento – continua Raffaele –
Alcuni ci chiedono prima informazioni circa la possibilità di riparare un
oggetto o meno. L’unica condizione che noi poniamo è la partecipazione attiva
della persona alla riparazione. La persona si presenta quindi nel giorno
stabilito con il prodotto malfunzionante e partecipa al tavolo della
riparazione al quale solitamente siedono alcuni volontari particolarmente
abili, a volte anche professionisti (di elettronica, sartoria, biciclette). Nel
2018 sono stati portati da noi soprattutto piccoli apparecchi elettrici come
frullatori o asciugacapelli. Solitamente i guasti sono abbastanza banali e
quindi risolvibili. A volte però vengono portati anche apparecchi più complessi
la cui riparazione richiede più tempo. In base al tipo di prodotto la persona
si siede accanto al ‘tutor’, si analizza il problema dell’apparecchio in
questione e si prova a risolverlo insieme. Si crea così un’interazione
normalmente assente nei rapporti di mercato che solitamente sono così
strutturati: ‘Io ti pago per risolvermi un problema, quello che fai non mi
interessa’.
Ovviamente il grado
di partecipazione può essere maggiore o minore rispetto al grado di abilità di
chi porta gli oggetti. Soprattutto in questa zona, che ha un tessuto
industriale ancora vivo, ci sono anche tanti pensionati molto esperti. È così
che abbiamo trovato molti volontari, ex lavoratori appassionati di riparazioni.
Noi lavoriamo con la comunità e per la comunità e lo facciamo
incondizionatamente. Non chiediamo niente a chi partecipa ai Repair Cafè ma chi
vuole può lasciare un contributo per sostenere le attività della nostra
associazione. Se le istituzioni vogliono collaborare o sostenerci sono
ovviamente le benvenute”.
Raffaele è infatti
convinto che se le istituzioni riconoscessero il valore sociale di queste
iniziative e le sostenessero si potrebbero fare moltissime cose: ad esempio
corsi di formazione per la manutenzione, per l’alfabetizzazione informatica,
per l’efficientamento energetico delle case, corsi di artigianato o per
l’inserimento sociale di persone svantaggiate. “Le prospettive sono molto
ampie”.
Raffaele ci parla
anche di un aspetto che ci sembra molto interessante: il diritto alla
riparabilità. “Negli anni ’60 se compravi un oggetto ricevevi anche un
manuale per la riparazione. Oggi al contrario quando acquistiamo qualcosa
leggiamo sulla confezione: ‘non smontare’, ‘non aprire’, ‘non sostituire la
batteria’. Dobbiamo rivendicare il diritto alla riparabilità dei nostri
oggetti. È necessario cambiare il modo in cui vengono progettati gli oggetti:
bisogna progettare in modo modulare per far sì che i pezzi siano sostituibili e
dovrebbe essere introdotto l’obbligo di rendere disponibili i pezzi per le
sostituzioni. Serve, insomma, una progettazione pensata per avere un impatto
zero”.
“Noi crediamo molto
nell’urgenza di un cambio del paradigma culturale e dei meccanismi del sistema.
Una frase che rappresenta molto la nostra filosofia è quella pronunciata da
Einstein: ‘Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le
stesse cose’. Ecco perché dobbiamo ridurre il nostro livello di consumo,
interrogarci sulla quantità di rifiuti che produciamo, cominciare a mettere noi
stessi in discussione. Questo si può fare, magari, partendo proprio dalla
riparazione, un punto che tocca alcuni tasti psicologici molto interessanti. Ultimamente
sta prendendo forza l’idea che i rifiuti siano una ricchezza: io credo invece
che dovremmo cercare in primis di ridurli, anche attraverso la riparazione che,
peraltro, serve anche a prendere coscienza delle proprie capacità. La
soddisfazione psicologica che deriva dal riuscire a riparare qualcosa è
grande, è quasi terapeutica!”.
La direttiva approvata dal Parlamento europeo
sulla plastica monouso getta le basi per grossi cambiamenti nella
progettazione, imballaggio e utilizzo dei beni di consumo, introducendo divieti
su molti oggetti di plastica usa e getta e concetti come la responsabilità
estesa del produttore su molti altri. Riusciranno gli stati membri a recepire
correttamente la direttiva e anzi a cogliere l’occasione per andare oltre il
plastic free e introdurre misure per il riuso, la riduzione a monte dei
rifiuti, il superamento dell’usa e getta? Ne abbiamo parlato con Silvia Ricci,
responsabile campagne dell’ACV Associazione Comuni Virtuosi. Qualche settimana fa abbiamo parlato con Silvia
Ricci, responsabile campagne dell’ACV Associazione Comuni Virtuosi, dello
stato dell’arte nella gestione degli imballaggi in plastica. L’abbiamo ricontattata per entrare più nel dettaglio
della direttiva sulle plastiche monouso o Single Use Plastics (SUP) recentemente
approvata dal Parlamento europeo. In particolare ci interessa avere un suo
parere su quali sono le luci e le ombre del provvedimento europeo e su cosa si
potrebbe fare da subito per preparare il terreno per il miglior recepimento
possibile. Il tema degli imballaggi e dell’usa e getta in genere è infatti uno
dei cavalli di battaglia dell’ACV, oltre che che oggetto di proposte a decisori
politici e aziendali, a partire dal lancio della campagna Porta la Sporta che
ha informato sul marine litter collegandolo agli attuali stili di
vita già dieci anni fa.
Parliamo della
direttiva SUP: qual è la tua valutazione complessiva?
L’Europa con questa
direttiva ha fornito una prima risposta importante che mancava per affrontare
un’emergenza mondiale come l’inquinamento da plastica che, soprattutto
negli ambienti marini e acquatici in genere ha assunto dimensioni allarmanti.
Nonostante il fenomeno fosse già noto almeno dagli anni settanta, come ha evidenziato lo studio “Plastic Industry Awareness of the Ocean
Plastics Problem” del CIEL (Center for International Environmental Law),
l’atteggiamento negazionista adottato in primis dall’industria della chimica e
plastica ha avuto la meglio. Pertanto, decadi dopo, il problema si è
ripresentato, amplificato dal boom di produzione plastica che è passato dai dei
35 milioni di tonnellate del 1970 ai 348 milioni di tonnellate del 2017 e ci è stato “servito sul piatto” , nel senso letterale del termine.
Tuttavia alcune
misure presentate nella prima versione del testo sono state edulcorate
nell’ultima stesura e cercherò di spiegare perché, complessivamente, non
le ritengo commisurate alla reale gravità del fenomeno. Non dimentichiamoci che
l’impatto della plastica sull’ambiente è destinato ad aumentare visto che
anche la produzione plastica aumenta, trainata dall’aumento della
popolazione mondiale e da un maggiore benessere nei paesi in via di
sviluppo. Molto dipenderà pertanto dal recepimento che i paesi membri dovranno
formalizzare all’interno dei propri quadri legislativi. Questa direttiva
potrebbe diventare un’importante opportunità per ripensare il modello lineare
che caratterizza la gestione degli imballaggi – non solo in plastica –
introducendo azioni di prevenzione e riuso che sono indispensabili per
alleggerire il carico che i prodotti usa e getta hanno sull’ambiente, riducendo
al contempo le emissioni climalteranti che sono associate a tutti i processi
produttivi, a prescindere dai materiali.
Quali sono i punti
di forza di questa direttiva ?
Ritengo sicuramente
positivo il divieto di vendita sul mercato comunitario (ai sensi
dell’articolo 5 a partire dal 2021) di quegli articoli usa e getta
che sono diventati rifiuti pervasivi sia in contesti urbani che in natura
rappresentando circa la metà di tutti i rifiuti marini trovati sulle spiagge
europee (per numero). Si tratta di: cotton fioc, posate (coltelli, cucchiai,
forchette, bacchette e agitatori), piatti, cannucce, aste per palloncini,
contenitori in plastiche oxo-degradabili e in polistirene espanso (EPS) per
alimenti e bevande (e relativi coperchi) sia per consumo in loco che da
asporto. Inoltre l’istituzione di regimi di responsabilità estesa del
produttore (EPR, ai sensi dell’articolo 8) per alcuni di questi prodotti non
ancora coperti da tali schemi è a mio avviso la misura determinante per favorire
la prevenzione, l’eco design e la riduzione di prodotti superflui, di cui una
parte può essere sostituita con opzioni riutilizzabili. Principalmente perché
questi regimi prevedono che siano i produttori a sostenere i costi di raccolta
e avvio a riciclo di tali prodotti a fine vita nonché delle attività di pulizia
ambientale e di sensibilizzazione verso i cittadini. Parliamo di articoli come,
ad esempio, involucri di snack dolci e salati, salviette umidificate,
assorbenti e prodotti a base di tabacco contenenti plastica (entro il
gennaio 2023 per la maggior parte degli articoli). Inoltre ritengo importante
che la presenza di materie plastiche venga notificata sull’etichetta del
prodotto insieme all’informazione sugli impatti ambientali e alle opzioni
appropriate di smaltimento.
Infine sono
favorevole alla misura che riguarda i criteri di progettazione degli
articoli SUP che, all’articolo 6, stabilisce che coperchi e contenitori debbano
essere fissati al contenitore in modo da non venire dispersi nell’ambiente. Ma
anche finire nello scarto degli impianti di selezione a causa delle ridotte
dimensioni aggiungerei. Peccato che l’entrata in vigore sia stata posticipata
dal 2021 al 2024. Va detto che i paesi che hanno in vigore il deposito su
cauzione offrono già una soluzione alla dispersione dei tappi con tassi di
intercettazione di bottiglie (e tappi) che possono andare oltre al 90%
dell’immesso. Per quanto riguarda invece prodotti contenenti plastica come i
mozziconi di sigaretta e gli attrezzi da pesca l’obbligatorietà di adesione ad
un un regime di responsabilità estesa con monitoraggio e raggiungimento di
obiettivi nazionali di raccolta avrebbe dovuto arrivare già molto, molto tempo
fa. Ma meglio tardi che mai….
Quali sono invece
le ombre della direttiva? Quali misure avresti voluto vedere incluse sin dalla
prima stesura?
In prima battuta
non avere fissare in sede europea delle obiettivi obbligatori di riduzione per contenitori
per alimenti e bevande. Avere previsto la possibilità per i paesi dell’UE
di adottare restrizioni di mercato per questi manufatti, senza proporre
obiettivi, rischia di non stimolare i governi centrali e locali a prendere
misure legislative in merito. Ma soprattutto di non incentivare le aziende che
utilizzano questi contenitori a dismetterli a favore di alternative più
sostenibili già collaudate. Basta guardare impegni annunciati dalle grandi
catene del fast food per diminuire l’impatto dei propri contenitori per notare
che generalmente si limitano all’eliminazione delle cannucce. Oppure a
sostituire la plastica con altri materiali usa e getta che, seppur riciclabili
o compostabili, vengono poi gestiti con l’indifferenziato. Solamente la catena
di caffetterie inglese Boston Tea Party ha, coraggiosamente, eliminato lo
scorso anno tutti i contenitori monouso e introdotto tazze da asporto
riutilizzabili. Il proprietario della catena ha raccontato di essersi chiesto cosa
poteva fare per non lasciare alle future generazioni un pianeta di spazzatura e
di avere fatto la scelta maggiormente responsabile, nella totale consapevolezza
di incorrere in un’importante riduzione del fatturato (che si è poi
verificata). Abbiamo fatto un appello a Starbucks in collaborazione con Zero Waste Europe, Greenpeace e WWF Italia
prima che aprisse il primo locale a Milano, coinvolgendo anche la Giunta
di Milano che ha dimostrato di apprezzare il gesto, senza che l’appello venisse
colto nella sostanza.
Pertanto in assenza
di provvedimenti, che per ora stanno prendendo alcune città come Berkeley, Amsterdam e Tubinga, che spiegherò a seguire, questo flusso di rifiuti, insieme ai
rifiuti derivati dal commercio online, continuerà a crescere così come i costi
ambientali ed economici collegati a carico delle comunità. In seconda battuta
penso sia stato un errore madornale ritardare di 4 anni il raggiungimento dell’obiettivo
di raccolta separata del 90% per le bottiglie di bevande (articolo 9) che,
dal 2025 slitta al 2029, anche se è stato fissato un obiettivo intermedio del
77% di intercettazione entro il 2025. Una scadenza più vicina avrebbe spinto i
paesi EU ad attivarsi per introdurre al più presto un sistema di deposito per
tutti i contenitori di bevande, seguendo gli esempi di successo dei 10
paesi europei dove il sistema è già rodato e nei quali nessuno vorrebbe più
tornare indietro. Come ho raccontato recentemente la Lituania che ha implementato
un sistema di deposito in tempi da record, ha raggiunto in meno di un anno oltre
il 70% di intercettazione (obiettivo intermedio del 2025), per attestarsi al
92% in due anni, testimonia come la volontà politica possa risolvere dei
problemi convertendoli in opportunità economiche. Infine considero
l’obiettivo del 25% di contenuto riciclato per le bottiglie entro il
2025, per passare al 30% al 2030, alquanto modesto, considerato che gli impegni
annunciati da alcune multinazionali dell’acqua in bottiglia, ma anche di prodotti
per la detergenza, sono molto più ambiziosi. Lo scorso anno Bar le
Duc (United Soft Drinks) è stata la prima marca di acqua minerale ad optare in
Olanda per bottiglie realizzate con il 100% di plastica da riciclo. Evian di
Danone ha annunciato che raggiungerà lo stesso obiettivo entro il 2025 e
Coca-Cola porterà al 50% la percentuale di contenuto riciclato nelle sue bottiglie
al 2030.
Gli Stati membri
hanno due anni per recepire la direttiva nella propria legislazione nazionale
che cosa temi e ti auguri rispetto a questa fase?
Come ho anticipato
mi auguro che i paesi membri recepiscano questa direttiva in modo ambizioso con
misure che si inseriscano come tasselli in un contesto più ampio che è quello
della prevenzione dei rifiuti e del consumo di risorse. Perché è qui che
si gioca la vera partita, ogni rifiuto da smaltire è una sconfitta, anche
rispetto alla lotta al cambiamento climatico. A maggior ragione se teniamo
presente che le previsioni della Banca Mondiale (nel rapporto What a
Waste 2.0) stimano al 2050 un aumento del 70% nella produzione dei
rifiuti, di cui quelli da usa e getta ne costituiscono una parte
importante. Anche le stime dell’Unep che indicano che avremo bisogno del 40% in
più di risorse come energia, acqua, legno e fibre varie andrebbero tenute in
mente quando si legifera. Tornando al clima lo Special report 15 (Sr15)
dell’IPCC recentemente presentato alle Nazioni Unite avverte che entro i
prossimi dodici anni vanno messe in campo misure che abbattano a tempo di
record le emissioni di gas ad effetto serra per mantenere il riscaldamento
della Terra entro i 1,5 gradi centigradi. Assodato che per avere qualche
chance di centrare questo obiettivo vanno intrapresi urgentemente drastici cambiamenti
negli stili di vita, cosa c’è di più scontato che partire con una revisione
dei modelli di consumo usa e getta che, in cambio di comodità fugaci
garantiscono una distruzione perenne degli habitat naturali? In linea peraltro
con l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile nr.12: Consumo e Produzione
Responsabili delle Nazioni Unite. I ritmi massicci di prelievo di risorse
operato da oltre 7 miliardi di “cavallette” non rispettano da almeno mezzo
secolo quelli che sono i tempi naturali di rigenerazione degli ecosistemi. E
anche in Italia non scherziamo, visto che l’Overshoot day, il giorno
dell’anno in cui abbiamo già consumato tutto il nostro budget annuale di
risorse naturali cade, secondo il Global Footprint Network, il 24 maggio, con
quasi tre mesi di anticipo rispetto alla media globale ( il 1 agosto nel 2018)
. Pertanto un recepimento della direttiva SUP non dovrebbe solamente seguire la
Gerarchia EU di gestione dei rifiuti nell’individuazione delle azioni
prioritarie da convertire in legge, ma anche tenere conto, per ogni articolo
che si voglia bandire, ridurre o sostituire, verso quali alternative si
sposterà il consumo. Una volta individuate le possibili opzioni di ripiego ne
andrebbero valutati gli impatti (da enti terzi) e andrebbero previste eventuali
misure a supporto delle opzioni più sostenibili. Anche per evitare di
lasciare questa partita in mano al mercato, che ha interessi che non coincidono
sicuramente con la prevenzione del rifiuto. A meno che non si obblighi il
produttore/utilizzatore a dovere recuperare a fine vita i propri prodotti
assumendosene i costi totali. Queste valutazioni , che sarebbero da fare
con la collaborazione di tutti i portatori di interesse di uno specifico
provvedimento, sono necessarie per identificare possibili effetti
collaterali o conseguenze non volute che possono annullare i benefici
ambientali previsti. La direttiva sui biocarburanti ne è l’esempio più
eclatante: è stata introdotta per i presunti effetti positivi sul clima, ma ha
avuto effetti disastrosi sulla biodiversità, sulla deforestazione e sul
fenomeno conosciuto come cambiamento indiretto di destinazione d’uso del suolo
ILUC (indirect land use change).
L’Italia come si
sta muovendo?
Venendo all’Italia
non sono ancora arrivati “segnali incoraggianti” rispetto all’approccio che ho
delineato. Non ho letto nelle dichiarazioni del Ministro Costa riportate dai
media, alcun accenno alla prevenzione di questi rifiuti. Ad esempio per quanto
riguarda le stoviglie usa e getta in plastica , anche se pochi media ne
hanno fatto accenno, va detto che le misure della direttiva SUP si applicano a
tutte le materie plastiche monouso elencate negli allegati, comprese le
plastiche biodegradabili e compostabili. In un’intervista concessa recentemente
al Corriere il Ministro Costa afferma che stiamo chiedendo una deroga in Europa
per le stoviglie in bioplastica compostabile visto che l’Italia è un
produttore leader a livello europeo di questo settore. Questa linea si
riflette nella misura del credito d’imposta del 36% previsto nella Legge di
Bilancio 2019 che viene concesso alle imprese che acquistano “prodotti
realizzati con materiali provenienti dalla raccolta differenziata degli
imballaggi in plastica, ovvero che acquistano imballaggi biodegradabili e
compostabili secondo la normativa UNI EN 13432:2002, o derivati dalla raccolta
differenziata della carta e dell’alluminio”. Questa è una misura di cui tra
l’altro , non riesco a cogliere l’utilità, se non per la plastica. Ma anche in
questo caso, se si vuole creare un mercato di sbocco per le plastiche da
riciclo servirebbe molto di più di quanto previsto da questa misura. Serve un
quadro legislativo di promozione di modelli di economia circolare che
consideri tutti i flussi di rifiuti che potrebbero essere evitati creando
occupazione verde. Ritengo di basilare importanza porre il tema delle materie
prime seconde per cui va sicuramente creato un mercato, ma se non facciamo
prima un ragionamento su quali sono i “prodotti indispensabili” e se ci devono
essere eccezioni (e perché), si rischia di proporre gli stessi volumi
(insostenibili) di usa e getta in altri materiali, che sono solamente
diversamente impattanti. Mi riferisco ovviamente anche ai prodotti a base di
cellulosa. In questo ultimo anno il marketing delle aziende,
approfittando del sentiment anti-plastica, si è speso nella
promozione dei propri prodotti con claim che sono al limite del greenwashing.
Aggettivi come bio-based, compostabile, biodegradabile, plastic-free
(che è invece necessario quando evidenzia la presenza, insospettabile, di
microplastiche nei prodotti), vengono utilizzati per vendere inducendo il
consumatore a pensare che basti optare per questi prodotti per fare “bene
all’ambiente” quando invece, molto spesso, si tratta di alternative che
risultano “meno dannose” o “diversamente impattanti”.
Per meglio chiarire
cosa intendo mantengo l’esempio già citato delle stoviglie monouso:
indifferentemente dal materiale in cui siano realizzate, che sia carta o
bioplastica, andrebbe stabilito che un loro uso debba diventare di natura
“emergenziale” e cioè in quelle situazioni in cui non possono davvero essere
usate alternative riutilizzabili. Questi manufatti dovrebbero essere comunque
aggravati da una tassa ambientale, sull’esempio di Tubinga, il cui sindaco
spiega che la tassa che verrà introdotta in città (per tutti i tipi di
contenitori monouso e in qualunque materiale) è essenziale per rendere meno
oneroso l’adesione a sistemi riutilizzabili. Ecco perché credo che i governi
centrali in fase di recepimento della direttiva debbano guardare agli esempi di
ordinanze come quelle adottate da Berkely, Amsterdam e Tubinga che offrono spunti
concreti da adattare alle caratteristiche dei diversi contesti.
In cosa consistono
queste tre esperienze?
L’ordinanza di
Berkeley che è quella “più strutturata”, ha il merito di avere creato un percorso
a tappe di creazione del sistema che renderà possibile e agevole, in due
anni circa, avere in città cibo e bevande consumate (in loco o da asporto)
prevalentemente in contenitori riutilizzabili. Parallelamente al divieto per i
contenitori di plastica viene infatti permesso l’utilizzo di contenitori
compostabili ma con un sovrapprezzo obbligatorio. Tutto il percorso è stato
avviato dalla municipalità con il coinvolgimento attivo di tutti gli stakeholder
tra i quali gli esercizi commerciali e i loro rappresentanti e le Ong. L’ordinanza
di Tubinga, precedentemente accennata, ha sempre il merito di promuovere il
riuso anche se con una modalità “meno laboriosa” e magari più veloce. Tassando
tutti i contenitori monouso di qualsiasi materiale l’amministrazione cittadina
vuole evitare che l’esternalizzazione dei costi sulle comunità e contribuenti,
che favorisce economicamente gli utilizzatori di contenitori monouso, penalizzi
la nascita e la diffusione di sistemi di riuso basati sul concetto del
“prodotto come servizio”.
E infine
l’ordinanza di Amsterdam, che è altrettanto efficace “da subito” per uno
specifico flusso di usa e getta, e pertanto “geniale”. Tutti gli organizzatori
di eventi che chiedono da questo mese un permesso di occupazione di suolo
pubblico alla città per eventi e manifestazioni varie, sono obbligati a
servirsi solamente di bicchieri riutilizzabili. I sistemi che gestiscono
contenitori riutilizzabili e funzionano con l’applicazione di una cauzione (
che garantisce la restituzione dei contenitori per la sanificazione e
successivi utilizzi), sono già attivi in Olanda da oltre 10 anni fa e ci sono
diverse aziende che forniscono questo servizio chiavi in mano.