Chi sono i veri responsabili dei disastri climatici?

Di fronte all’evidenza della catastrofe climatica, ecco che si fa strada la strategia, da parte dei veri responsabili della situazione, secondo cui «la colpa è di tutti». Astuto, ma attenzione: vogliono distrarci.

Di fronte all’evidenza della catastrofe climatica, ecco che si fa strada la strategia, da parte dei veri responsabili della situazione, secondo cui «la colpa è di tutti». Si sta facendo passare in maniera assai subdola il messaggio che i cosiddetti consumatori siano i responsabili, perché non fanno la raccolta differenziata, perché comprano prodotti con imballaggi, perché non spengono la luce quando escono dalla stanza e così via. Appaiono quindi dappertutto i decaloghi per dire a noi cosa possiamo fare per salvare il mondo, come se comprare un’auto che inquina un po’ meno, mangiare un pochino meno carne rossa, e così via, possa essere un passo decisivo verso un mondo senza inquinamento. Sicuramente ognuno di noi può fare la differenza, ma questa “politica” del dire che la colpa è di tutti (e quando la colpa è di tutti, non è di nessuno) viene orchestrata magistralmente dalle grandi multinazionali, gli imperi economici che continuano ad inondare il mondo di prodotti superflui, a bombardarci di pubblicità demenziali dove ci incitano a comprare a tutto spiano come se non ne fossimo già sommersi dalla loro immondizia. Martellano costantemente fra un decalogo ambientale e l’altro che dobbiamo comprare e ancora e ancora. Fanno loro eco i politici, che ci dicono che dobbiamo crescere altrimenti è la fine. Rimettiamo a posto le cose. I consumatori hanno un grandissimo potere che è quello di rifiutarsi di continuare a comprare le schifezze di cui ci inonda la pubblicità ma politici asserviti, multinazionali, industriali senza scrupoli guidati solo dal lucro ad ogni costo, sono i veri responsabili del suicidio a cui stiamo andando incontro. I media ovviamente non dicono le cose come stanno e continuano ad accettare qualsiasi pubblicità perché altrimenti chi gli paga gli stipendi? Visto che senza la pubblicità chiuderebbero praticamente tutti in pochi giorni.

Imprenditori, multinazionali, grandi gruppi industriali grazie a enormi investimenti e migliaia di persone che lavorano per loro, sono lì a pensare non certo a come salvare il mondo ma a cosa altro venderci, a cosa altro inventarsi per aumentare i loro già stratosferici profitti. Magari mettendo qualche suffisso Eco o Bio ai loro prodotti, e avanti come se nulla fosse. Tutto questo va fermato senza avere paura di mettere in discussione la sacra crescita, perché se la crescita rallenta, si ferma o retrocede, si avrà di conseguenza meno inquinamento, spreco e distruzione ambientale. Non è certo il PIL che ci dà prosperità e benessere ma acqua, cibo, aria pulita e sana, oltre che una vita non sacrificata agli Dei del profitto dove l’unico credo è quello del denaro.

Bisogna comprare il meno possibile e consapevolmente, levando in questo modo potere ai criminali dell’ambiente. Bisogna aumentare la propria autosufficienza e resilienza, costruire società con valori e pratiche completamente diversi da quelli portati avanti da chi vuole vendere e comprare qualsiasi cosa, compresa l’anima delle persone. Le stesse imprese e i politici hanno la possibilità di scegliere da quale parte stare, se quella dei criminali o di quelli che verranno ricordati per il loro coraggio e lungimiranza nell’aver contribuito ad invertire la rotta e assieme alle persone consapevoli, dato al mondo un futuro degno di questo nome. In fondo anche politici, banchieri, industriali hanno figli e nipoti e nemmeno loro si salveranno dalla catastrofe prodotta dai loro padri e nonni.

Fonte: ilcambiamento.it

Società allo sfascio: serve l’azione individuale e collettiva per creare luoghi liberi di resilienza

Per lasciarsi alle spalle il sistema che ormai collassa su se stesso fagocitando le persone, occorre creare e alimentare sempre più gruppi e aree di resilienza, condivisione, autosufficienza e nuove relazioni. Si può!

La nostra società è ormai allo sfascio e non può essere altrimenti dato che si basa su principi e obiettivi che sono contro le persone e la natura. Basta guardare all’Italia, dove non funziona quasi nulla, dove ci si barcamena per andare avanti in una lotta quotidiana e costante contro i mille balzelli e le mille trappole di un sistema sanguisuga in cui l’imperativo per salvarsi è mors tua vita mea e così si creano le basi per un conflitto costante fra simili. Ci ritroviamo in una società dove dilaga l’incattivimento di persone che fanno lavori controvoglia, lavori che odiano e che non abbandonano solo perché hanno bisogno di uno stipendio. A ciò si aggiungono ignoranza, arroganza e maleducazione di chiunque detenga anche un briciolo di potere e naturalmente lo esercita sull’ultimo malcapitato che gli capita a tiro. Dagli uffici statali alle aziende private, dai commercianti ai professionisti, ci si stupisce le rare volte che qualcuno non cerca di fregare il prossimo, oppure quando qualcuno esegue un lavoro come si deve, fornisce un’informazione corretta, con educazione; e se questo incredibilmente accade lo si percepisce come un miracolo e si santifica la persona che ha fatto semplicemente quello che doveva fare.

Siamo abituati a essere trattati come idioti, rassegnati ad attese secolari, sbattuti da uno sportello all’altro, da una informazione all’altra, dove qualsiasi addetto a call center, ufficio che sia, dà una risposta diversa da quello precedente in un labirinto infinito di ipotesi e contraddizioni. Siamo sommersi da una burocrazia che è un muro di gomma e che ha come unico obiettivo lo strangolamento del cittadino e lo svuotamento del suo portafoglio. Tutto contribuisce ad alimentare una società allo sbando e marcia che va rifondata dalle basi, con altri principi, un’etica e una cultura che ovviamente non possono essere quelle televisive o dei grandi media, che la cultura l’hanno fatta a pezzi, l’hanno sepolta sotto una valanga di pseudo-notizie inutili, di gossip contornato da pubblicità senza fine. Basta accendere un qualsiasi canale televisivo a ogni ora del giorno e della notte, per accorgersi dello squallore infinito in cui siamo precipitati. A questo sfascio si aggiunge una situazione ambientale catastrofica provocata anche dalla stessa mentalità menefreghista di cui sopra, che mette in pericolo l’esistenza dell’umanità e impone un piano individuale e collettivo di salvataggio. Individualmente bisogna prendere coscienza che solo l’azione può garantirci un futuro degno di questo nome e ciò significa puntare il più possibile all’autosufficienza alimentare ed energetica, ridurre le proprie spese, fare un  lavoro che non sia nocivo per gli altri e per l’ambiente, riavvicinarsi alla natura per recuperare il centro della persona e le basi della vita.  Ma la presa di coscienza e l’azione individuale, per poter avere maggiore possibilità di successo, dovrebbero affiancarsi a una azione collettiva.

Assieme ad altre persone si possono ad esempio cercare terre abbandonate di cui l’Italia è piena, da coltivare in uso civico, in affitto (a seconda delle regioni hanno costi di poche centinaia di euro all’anno). Si possono costituire gruppi con obiettivi condivisi che acquistino terre e ruderi da ristrutturare (ci sono addirittura comuni che li offrono per un euro, altri comuni in spopolamento che danno molte agevolazioni per chi vuole stabilirsi). Nell’organizzarsi collettivamente ci si aiuta vicendevolmente che significa rinsaldare le relazioni ed essere un grande beneficio per ridurre le spese. Una grande ricchezza è poi condividere le proprie capacità ed esperienze, scambiarsi informazioni, conoscenze, per un obiettivo e progresso comune. Fare quindi l’esatto contrario di quello che succede nella gran parte dei posti di lavoro tradizionali, dove ogni informazione viene gelosamente custodita e ci se ne serve per poter scavalcare gli altri e fare carriera, ottenere avanzamenti, promozioni. Bisogna quindi uscire da queste logiche miopi che non portano a nulla, se non ad aspetti negativi e ad avere un clima lavorativo pessimo. In un luogo dove c’è collaborazione, c’è forza, si impara moltissimo e tutto diventa più semplice e fattibile. La relazione con la natura poi rende la vita più leggera e anche eventuali lavori che richiedono impegno e dedizione vengono vissuti con altro spirito e altra consapevolezza. Inoltre laddove si crea nuova vita, si crea cultura che non è certo appannaggio solo di scuole o università ma soprattutto di luoghi che fanno rinascere esperienze, saperi antichi, saggezza e dove ognuno ha un ruolo e una importanza, dal bambino all’anziano che non sono rispettivamente uno scolaro e un pensionato ma persone che possono donare agli altri tanto, semplicemente con il loro essere. Bisogna riuscire a creare sempre più zone resilienti, libere e per quanto possibile autosufficienti, significa creare tante arche che con l’aggravarsi della situazione potranno dare esempio e supporto alle persone che si troveranno in grosse difficoltà per aver confidato in una società orientata al sicuro suicidio. E più arche, cioè luoghi di azione, liberazione, resilienza ci saranno e più l’umanità potrà rinascere con valori completamente diversi rispetto a quelli unici del mondo attuale cioè quelli monetari. Sembra utopico, irrealizzabile tutto ciò ma non è così perché ci sono già tante esperienze in Italia e nel mondo che stanno andando in questa direzione, basta conoscerle, visitarle, rendersi conto che i veri marziani non sono quelli che stanno dando risposte reali ai problemi; il vero marziano e utopista è chi continua a girare la ruota del criceto senza farsi nemmeno una domanda su se stesso o su quello che sta facendo. Le alternative e le strade su cui incamminarsi per una nuova vita ci sono sempre e sono alla nostra portata.

Fonte: ilcambiamento.it

Piano d’azione Torino 2030, una visione sostenibile e resiliente del futuro

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Dopo l’elaborazione del Piano Torino 2030 da parte dell’Amministrazione si avvierà una fase di apertura e di condivisione con il territorio con quattro incontri (21 settembre, 10 ottobre, 7 e 28 novembre 2018, che si terranno presso la Scuola Holden) a cura di Urban Center Metropolitano.  “Torino 2030” è un Piano d’Azione che presenta la visione a medio termine delle scelte dell’Amministrazione. Un progetto fondato sulla sostenibilità e sulla resilienza, fili conduttori delle azioni che sono e saranno poste in essere. Il Piano presenta i progetti già avviati e quelli da avviare dall’Amministrazione e li colloca in uno scacchiere pluriennale con un importante obiettivo: realizzare una città che metta al primo posto il benessere delle cittadine e dei cittadini e la qualità della vita. Il Piano stabilisce obiettivi da raggiungere e azioni da compiere per realizzare la visione di Torino 2030, identificando priorità d’intervento. La metodologia: comunicare la visione della Città a cittadini e portatori d’interesse, condividere con loro obiettivi strategici e azioni strutturanti e cogliere dal confronto progetti e iniziative pubbliche e private con cui fare sinergia. Il Piano d’Azione Torino 2030 considera le vocazioni produttive e culturali già acquisite nella cassetta degli attrezzi della città: le trasformazioni già avvenute, che ci hanno permesso di diversificare un panorama di monocultura industriale che non si addiceva né alla complessità del passato di Torino, dotata di un patrimonio storico, naturale e culturale di primissimo piano e riconosciuto dall’Unesco tra i suoi tesori, né alle opportunità del futuro. Allo stesso tempo, il Piano indica nuove prospettive e linee di sviluppo improntate sui concetti di sostenibilità e resilienza. Sostenibilità nelle relazioni tra cittadini e tra quartieri; resilienza intesa come equilibrio che favorisce stimolo reciproco tra le comunità che compongono la nostra città. Sostenibilità economica per sanare i conti e indurre processi produttivi virtuosi e filiere più circolari. Sostenibilità energetica e dei consumi, sostenibilità dell’ambiente attraverso una gestione del territorio improntata alla qualità della vita dei suoi cittadini. Resilienza intesa come capacità di adattamento ai cambiamenti epocali, quelli economici sempre meno prevedibili, le trasformazioni sociali che ne derivano, e i cambiamenti climatici, ma anche come forza d’animo, pulsione positiva che stimola una risposta creativa alle sfide dei nostri tempi. Quattro i principi sui quali costruire i progetti e le politiche: una città deve essere partecipata, dinamica, vivibile e solidale, altrettante linee che si intersecano con i dieci settori di intervento dell’Amministrazione comunale (Urbanistica, Cultura, Economia, Istruzione, Welfare, Mobilità, Sport, Ambiente, Pari Opportunità, Innovazione) più il capitolo dei progetti speciali. In questa rete vanno a collocarsi i progetti d’innovazione e i nomi degli assessori cui fanno riferimento.

L’importante non è prevedere il futuro ma renderlo possibile”, scriveva Antoine De Saint Exupéry. Capire la strada che stiamo percorrendo e ipotizzare le deviazioni e gli ostacoli che avremo davanti, dotandoci di una visione come bussola nel tempo a medio termine che ci attende. Questi i prossimi passi: dopo l’elaborazione del Piano Torino 2030 da parte dell’Amministrazione, si avvierà una fase di apertura e di condivisione con il territorio con quattro incontri (21 settembre, 10 ottobre, 7 e 28 novembre 2018, che si terranno presso la Scuola Holden dalle ore 17,30 alle ore 19,30) a cura di Urban Center Metropolitano, per stimolare il dibattito sulle prospettive future della città. Poi il piano sarà portato all’attenzione della Città Metropolitana di Torino e saranno avviati confronti mirati con enti, istituzioni pubbliche e private, associazioni e imprese per costruire collaborazioni e sinergie. Il piano sarà monitorato con attenzione, nello svolgimento di ogni sua azione.

Non viene meno dunque la capacità di Torino di prepararsi ad affrontare il futuro attraverso la definizione di una visione che ponga in relazione la sua identità economica, sociale e ambientale con una realtà in continua evoluzione – spiega la sindaca di Torino, Chiara Appendino -. Costruire una città sostenibile e resiliente, dunque, significa prendersi cura dell’ambiente urbano, delle eccellenze e delle criticità; operare per il superamento di fratture e divari tra le sue parti, per raggiungere un equilibrio positivo tra le diverse dimensioni (sociali, economiche e ambientali) della vita dei cittadini e delle cittadine. Significa, soprattutto, chiudere la forbice delle disuguaglianze per creare le condizioni affinché a ciascuno sia data la possibilità di realizzare il proprio progetto di vita”.

 

Qui il video dove la Sindaca e il Vice Sindaco Montanari presentano il Piano d’Azione Torino 2030

Fonte: Comune di Torino

Passione e resilienza: così è nato DreamsInDress

Carla Demartini è una giovane biellese che ha fatto tesoro del concetto di resilienza: laureata con il massimo dei voti, in difficoltà dopo aver perso il lavoro durante la maternità, non si è abbattuta e ha avuto l’audacia e il coraggio di reinventarsi come artigiana, riscoprendo la passione che aveva da bambina: il cucito. La storia del progetto Dreamsindress e del coraggio di una donna nel realizzare il proprio sogno. La Resilienza è oggi un termine che descrive questi anni tumultuosi e intrisi di grandi trasformazioni: si tratta, in psicologia, della capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Descrive bene la storia di Carla Demartini e del suo neonato progetto DreamsInDress.dreamsindress-cambiamento-vita-carla-demartini

Carla è una giovane mamma biellese, laureata in Economia e Management delle imprese cooperative e non profit. Da sempre appassionata di terzo settore e di economia allo stesso tempo, riesce a coniugare le due passioni lavorando prima nel dipartimento marketing e fundraising di Action Aid, poi a Torino nella Cooperativa Sociale Orfeo e infine a Biella, nell’ufficio amministrativo e fundraising di una fondazione. Dopo anni di soddisfazioni e crescita, arriva il temporale dopo una giornata splendente: dopo l’ulteriore splendida notizia della imminente maternità, non le viene rinnovato il contratto a tempo determinato e perde il lavoro, trovandosi disoccupata. È qui che comincia un percorso che alla fine spazzerà via le nubi e la porterà su nuovi lidi, magicamente legati ad una sua passione dell’infanzia: il cucito.

La nascita di DreamsInDress

“Io ho sempre avuto la passione per il cucito, sin da quando ero bambina. Quando è nato il mio bimbo ho ripreso in mano questa passione, ed ho cominciato a creare il corredo, alcuni giochi e libri di stoffa per il mio bambino”. Carla non sembra affatto una donna che si abbatta o si demorda più del dovuto, ma non sa ancora che si sta aprendo la strada nel crearsi un proprio inaspettato futuro lavorativo e professionale.

“Le mie amiche, vedendo le mie prime creazioni, iniziarono a suggerirmi di provare a vendere qualcosa delle mie realizzazioni. Ho cominciato ad iscrivermi ai gruppi Facebook dedicati alle neo-mamme appassionate di metodi naturali e maternità dolce. Lì ho scoperto un mondo, molto aperto e fantasioso, di mamme creative che sono state escluse dal mondo del lavoro dopo la maternità e che hanno cominciato a creare vari oggetti di sartoria, ho cominciato a prendere spunti e a creare le condizioni per vendere le mie prime realizzazioni”.dreamsindress-cambiamento-vita-carla-demartini-1521012374

È trascorso un anno nella quale Carla, dopo essersi dedicata a tempo pieno nel fare la mamma, capisce che ha bisogno di un cambiamento per ricrearsi un proprio futuro. Dopo aver ripreso in mano i ferri ed essersi iscritta ai gruppi Facebook, decide di seguire il consiglio delle sue amiche e creare quasi per gioco una pagina Facebook personale e presentare accessori per altri bambini oltre il suo: si inventa piccoli peluche in stoffa di cotone fatti con i ritagli (gli scrap) di fasce porta bebè. Sceglie la forma dell’elefantino, simbolo della maternità protettiva e della sua rinascita come donna.

“Ho iniziato a partecipare ai primi mercatini di prodotti naturali e legati all’infanzia, fino ad arrivare alla Fiera del bambino naturale di Chieri, dove ho fatto il boom ed ho capito davvero che questa passione poteva diventare l’occasione per avviare un’attività autonoma.” Carla comincia così a creare capi di abbigliamento personalizzati da donna, oltre che a nuovi accessori per bambini e mamme. I prodotti piacciono per la loro artigianalità, la creatività e la passione che esprimono, aspetti che si uniscono all’utilizzo di materiali naturali e a chilometro zero: la lana, il lino e il cotone, materiali di qualità ricavati da aziende e distretti tessili con sede intorno a Biella. Perché la particolarità dei prodotti di Carla sta proprio nell’utilizzo di materiale completamente italiano per le sue creazioni: “La mia passione era soprattutto per i prodotti naturali: essendo originaria di Biella, utilizzo molto la lana biellese che è di una qualità molto pregiata, insieme a cotone e lino. Ho proseguito con i mercatini, arrivando fino a Bastia Umbria, Ferrara e Cervia, riscontrando un successo sempre più grande. Ho conosciuto sempre più persone e ho capito che ero pronta per il grande salto: quello di aprire una vera e propria partita IVA e di trasformare la mia attività in un lavoro”.

Il 12 gennaio 2018, con l’apertura della partita IVA, Carla ha dato la luce al suo progetto chiamato DreamsInDress, dove realizza artigianalmente e su ordinazione capi di abbigliamento, accessori e giochi per bimbi, mamme e papà. Il sogno di realizzare il grande passo si è materializzato grazie all’incontro con due realtà: la Confederazione Nazionale dell’Artigianato di Biella e il programma Mettersi in Proprio della Regione Piemonte, che accompagna gli aspiranti imprenditori nel percorso di accompagnamento alla creazione di impresa e al lavoro autonomo.dreamsindress-cambiamento-vita-carla-demartini-1521012394

“Nel luglio 2017, durante uno dei miei mercatini a Biella, ho conosciuto Annalisa Zegna, la Presidente del Gruppo Impresa Donna di CNA Biella, anche lei artigiana e che si è subito molto appassionata alle mie realizzazioni. Grazie a lei e al personale del CNA ho poi scoperto la possibilità di partecipare al programma MIP, che mi ha permesso di concretizzare il mio sogno lavorativo”. Grazie al MIP, Carla ha potuto redigere un business plan accurato della sua attività, che gli ha permesso poi di partire nel gennaio 2018. Oggi Carla lavora da casa dove ha un campionario base composto da vestiti, accessori e giochi di stoffa per bambini; capi di abbigliamento per donne, zainetti e scaldacollo per uomini e accessori per le mamme. A Biella, insieme ad altre artigiane della città, a partire da questo mese condividerà uno spazio espositivo e di vendita in città presso il negozio CNA, dove oltre agli spazi le varie artigiane condivideranno anche i propri saperi e le proprie passioni per la creazione di nuovi oggetti.

“In questa nuova situazione lavorativa, l’aspetto più bello oltre alla realizzazione di un sogno è che ora riesco a conciliare il tempo che dedico al lavoro a quello che devo, e voglio, dedicare al mio bimbo e alla famiglia. La cosa importante da considerare, prima di lanciarsi in un’attività del genere aprendo la partita IVA, è quella di essere ben consci e conscie del passaggio che si va ad affrontare. Bisogna studiare per bene i costi e ricavi, informarsi bene riguardo imposte e burocrazia perché fare i dovuti calcoli a tempo debito aiuta tanto”.

Per approfondimenti e ulteriori informazioni puoi leggere qui l’articolo dal Blog del CNA Biella.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/04/passione-resilienza-dreamsindress/

 

Il casale in Cilento che è scommessa di resilienza

Amedeo ha 37 anni e, dopo essersi innamorato di un luogo in cui ha avvertito l’energia che cercava, ha messo in piedi una fattoria bioecologica nel basso Cilento. Ecco cos’è oggi il Casale Il Sughero.9462-10200.jpg

Lui è Amedeo Trezza, ha 37 anni, è dottore di ricerca in semiotica del paesaggio, ma soprattutto è fondatore e anima del progetto ‘Casale il sughero’, piccola fattoria bioecologica a Vibonati nel Basso Cilento, in un’area contigua al Parco del Cilento e Vallo di Diano, sul Golfo di Policastro, in provincia di Salerno.

«Dopo alcuni anni di ricerca universitaria e al contempo di lavoro dipendente, a partire dal 2006 decisi di riprogettare la mia vita altrove, non più in città e soprattutto secondo una visione del mondo (nata in ambiente accademico ma poi maturata a contatto con la terra) totalmente alternativa al paradigma esistenziale e produttivo in cui si è comunemente inseriti» spiega Amedeo.

«Così decisi di utilizzare le mie esperienze pregresse mettendole a disposizione della nuova scommessa che mi accingevo a giocare».

«Cercavo un luogo abbandonato da recuperare e girando prima in bicicletta e poi in auto scoprii un terreno in Cilento con un rudere che a stento si intravedeva tra la vegetazione; decisi subito di iniziare da lì. Per fortuna l’area rurale non era servita da acquedotto e quindi la prima opera da realizzare fu un pozzo artesiano per cercare l’acqua. Trovata l’acqua potei iniziare a immaginare un recupero possibile del luogo. All’inizio sembrò casuale quel rudere in quel posto lontano da tutto, ma pian piano iniziai a imparare a leggere il territorio e a decodificarne il suo linguaggio e mi resi conto che quel rudere era in quel punto per motivi ben precisi: roccia affiorante su cui era stato costruito, strada di passaggio che era una vecchia mulattiera di collegamento tra le aree interne e il mare per le transumanze stagionali, presenza di accumulo stagionale di acque superficiali. Scavando poi nella memoria del paese a valle, capii che quel terreno era stato nei decenni addietro una importante vigna e infatti pian piano sono emersi terrazzamenti in parte crollati. Quindi quel luogo, originariamente luogo di sosta e transito di armenti, era stato poi in epoca recente (fino a dopo la seconda guerra) bottaio della vigna. Per decenni abbandonato fino a che non arrivai io e iniziai il recupero in chiave abitativa oltre che produttiva».

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«Ascoltando la natura – prosegue Amedeo – capii subito che bisognava lavorare recuperando con i materiali locali, ovvero pietra e legno. Dopo una impegnativa ristrutturazione realizzai anche il primo impianto di fitodepurazione privato attivo della provincia di Salerno e affidai alla legna e al sole il compito di riscaldare la casa e l’acqua, riducendo al minimo l’utilizzo di energia non rinnovabile.  La piccola fattoria che oggi ho dimostra che è possibile lasciare la città per la campagna tornando alla coltivazione della terra, alla cura degli animali, alla gestione del bosco e all’ospitalità rurale. Casale Il Sughero ha vinto anche nel 2015 il premio nazionale “Recupera/Riabita” promosso dall’associazione “Piccoli Paesi”».

«L’idea e la pratica di ospitalità rurale qui significano accoglienza in casa di viaggiatori sensibili e alla ricerca di se stessi anziché un luogo da consumare, un’ospitalità che fa del cibo come prodotto della terra un vero e proprio linguaggio di conoscenza e decodifica della identità dei luoghi, una accoglienza a impatto ambientale limitatissimo che preserva e valorizza il territorio anziché mortificarlo: il turismo che consuma cadaveri (paesi e paesaggi finti creati ad hoc per l’industria del turismo) non abita qui. Chi viene qui non trova tv ed aria condizionata ma una vista sul mare e il pane fresco sfornato, non trova la pasticceria raffinata ma il latte di capra e la marmellata del giorno prima, non trova lenzuola di raso e acqua bollente ma profumo di legna e un fiore sul letto, non trova un sorriso di plastica ma una fronte sudata e una mano sporca di terra».

«Infatti Casale Il Sughero è soprattutto un gesto simbolico, casa radical-concettuale, un progetto filosofico e sociale che si pone come obiettivo il recupero del rapporto simbiotico e “bastevole” tra uomo-natura-territorio, che ritengo sia l’alternativa al modello di sviluppo improntato al consumo e una risposta funzionale che superi in maniera costruttiva il concetto di decrescita. Un ritorno alla terra e la volontà di riabitare luoghi abbandonati come scelta di vita da condividere per realizzare un nuovo equilibrio socio-economico e una nuova armonia con l’ambiente e con se stessi, all’insegna della gestione sostenibile delle risorse».

«Un gesto di fondazione – prosegue ancora Amedeo – recuperare un angolo abbandonato di territorio rurale a nuova urbanità possibile e riabitarlo facendolo un piccolo punto di presidio per una nuova esistenza è stato ed è per me una continua scommessa di resilienza e di incontro amoroso possibile con l’altro. È per questo che essendomi messo io stesso in viaggio interiore e quotidiano verso l’Altra Città, ho deciso di aprire le porte di questo luogo ai viaggiatori temporanei – affidando loro una scommessa di contemporaneità – che vogliono conoscere a loro volta un ‘altro’ modo di interpretare lo stare al mondo, un po’ ‘laterale’ e per questo più rischioso ma di certo più affascinante».

«È in questo spirito dunque che qui al Casale l’accoglienza smette di essere una categoria merceologica e diventa incontro e scambio, l’autoproduzione di beni primari diventa condivisione di beni di relazione e così l’incontro diventa finalmente vera occasione di esercizio di reciprocità. Il turismo viene dopo».

Si coltivano orti sinergici e frutta antica, con particolare attenzione al recupero di semi e cultivar antiche a rischio di estinzione; si pratica un piccolo allevamento di animali da cortile e da pascolo e non ultima la cura delle piante spontanee tipiche della macchia mediterranea. Vengono periodicamente attivati anche laboratori di sostenibilità di panificazione naturale con grani autoctoni, autoproduzione di saponi naturali, recupero della lana, caseificazione naturale del latte di capra, trasformazione dei prodotti dell’orto in conserve e confetture, attività educative per bambini, autocostruzione con materiali naturali e di recupero. Il casale ospita inoltre numerosi volontari italiani e stranieri all’interno di diversi progetti di scambio e formazione.

«Casale Il Sughero è quindi luogo stanziale in quanto persistenza e presidio sul territorio – conclude Amedeo – ma al contempo anche luogo di nomadismo interiore: Casa in Cammino, in quanto luogo dell’anima che è in costante cammino interiore e sempre aperto a infinite nuove possibili…rifondazioni».

Fonte: ilcambiamento.it

Paolo e Sara, lui progettista-falegname e lei perito agrario-permacultrice: resilienza e passione

Sara Vittoria e Paolo Frigolorpe abitano a Bologna, in un’area che tanti anni fa era campagna e che nel tempo è stata inghiottita dalla città. Lei, perito agrario, ha scoperto la passione per la permacultura e ha riportato in vita il giardino dei genitori; lui, esperto di progettazione CAD, ha applicato le sue conoscenza all’arte della falegnameria scoprendo l’autoproduzione e la resilienza.permacultura_bologna

«Sono perito agrario ma non esercito propriamente da anni la mia professione. Ho imparato a decrescere sempre più nei miei consumi fino a potermi permettere di svolgere ciò che più mi interessa: condurre piccoli corsi sui temi dell’ecologia profonda, ecologia domestica ed autoproduzione». È l’esperienza di Sara Vittoria che, insieme al marito Paolo, vive a Bologna.

«Il sogno che volevo realizzare a breve termine era quello di riportare in vita il giardino dei miei genitori che, dopo anni di trattamenti sbagliati e calpestamenti selvaggi, si era ridotto ad un deserto di terra polverosa e crepe. Utilizzando esclusivamente i principi della permacultura, sfruttando unicamente la poca materia organica a disposizione e quindi riducendo le spese quasi a zero, i risultati non hanno tardato a prodursi. La città è sorta attorno a casa nostra, che mio nonno costruì per vivere in campagna! Una fermata dell’autobus è piazzata fuori dal nostro cancello. Quando mi sono accorta che la gente in attesa passava il suo tempo a sbirciare dentro la nostra proprietà, è nata in me l’idea-sogno di riportare in vita il giardino e di mostrare in pratica agli abitanti della mia via e del quartiere, i “miracoli” di un approccio diverso nei confronti della natura. Penso ci vorrà ancora una stagione o due per recuperare tutto il terreno, intanto il mio progetto procede, la gente è curiosa e fa domande ed io spero prossimamente di utilizzare la visibilità del giardino per tessere una rete di contatti tra i residenti e seminare qualcosa di molto più ambizioso: idee di decrescita, idee di cambiamento».

Paolo lavora come libero professionista nell’ambito della progettazione CAD da quasi sette anni. «I primi anni sono stati intensi e a ritmi serrati ma poi, in modo sempre più marcato, la mole di lavoro è andata via via calando fino ad arrivare al punto di avere mesi quasi vuoti di attività, controbilanciati da mesi molto (forse troppo) intensi. È una situazione che sento molto instabile e che non mi dà certezze per il futuro; questo mi ha fatto aprire gli occhi sulla “non-resilienza” dell’attività che svolgo, oltretutto le aziende per le quali lavoro sono poco (se non per niente) sensibili a temi quali l’ambiente, la sostenibilità energetica e delle materie prime e così via. Approfittando di un periodo di inattività, ho cominciato a pensare come avrei potuto coniugare quei temi a me cari alla mia attuale attività (che è, a sua volta, legata alla passione per il disegno tecnico); ho provato a partecipare ad un corso base di falegnameria (mi è sempre piaciuto il legno e ho sempre desiderato imparare a lavorarlo) e ho scoperto che era alla mia portata, dopo di che ho frequentato un corso di tornitura del legno e anche quello era alla mia portata. Alla fine del corso di falegnameria era prevista l’ideazione e la realizzare di un manufatto utilizzando le tecniche imparate e così sono riuscito a unire il disegno tecnico e la progettazione CAD alla falegnameria: ho progettato e realizzato un piccolo mobile espositore».

«A quel punto – prosegue Paolo – ho iniziato a pensare che questa sarebbe stata una possibile strada da percorrere: la tecnologia al servizio di un materiale rinnovabile e nobile quale è il legno. Quando ho partecipato al corso presso il PeR, il Parco delle Energie Rinnovabili in Umbria, quasi un anno fa, l’idea era ancora in fase embrionale e quel week-end mi ha dato una spinta e ha contribuito ad allargare la mia visuale. Adesso grazie ad una buona dose di fortuna ed al supporto di mia moglie, sono riuscito a creare un piccolo laboratorio, con qualche piccola macchina, ma che già mi permettere di realizzare qualcosa di utile: per quanto riguarda lo spazio di lavoro, un amico mi ha prestato un angolo del suo capannone (la sua attività a subìto una dura battuta d’arresto a causa della crisi); per quanto riguarda la materia prima e alcune macchine ho avuto la fortuna di trovare tutto di seconda mano ad un prezzo veramente vantaggioso, l’unica macchina che ho comprato nuova è stata il tornio. Ho già realizzato piatti, ciotole, scatole, utensili, decorazioni, porta candele, lampade e tanto altro. L’obiettivo è molto distante dall’essere raggiunto, questo non è che il punto di partenza, però mi sembra una buona base».

«Inoltre, per quanto possibile, sto cercando di mantenere una filosofia all’insegna della sostenibilità, dell’ambiente e del riutilizzo: tutti i prodotti che uso per il trattamento del legno (vernici, solventi, colle, ecc.) sono completamente biodegradabile ed eco-compatibili, a base di sostanze naturali e non inquinanti; per quanto riguarda l’attrezzatura, cerco di realizzarla utilizzando pezzi di scarto di altri lavori e, per l’acquisto degli utensili e delle attrezzature che non riesco ad auto-costruirmi, mi rivolgo a qualche piccola ferramenta locale invece di andare in un punto vendita di qualche grande catena di centri per il bricolage. Ho iniziato a creare contatti con chi potrebbe essere interessato a quello che per me sarebbe scarto: ho conosciuto una persona che realizza quadri e composizioni partendo dalla segatura. Non è facile cercare di realizzare tutto quello che ho in mente anche perchè, per il momento, il “vecchio” lavoro ha la precedenza, però mi sto muovendo per concretizzare sempre più la mia idea; non so quanto tempo ci vorrà ma adesso, se penso al futuro, mi sento più tranquillo».

Fonte: ilcambiamento.it

Rob Hopkins e la transizione verso un mondo sostenibile

George Ferguson è il sindaco di Bristol, una grossa città del sud dell’Inghilterra di quasi mezzo milione di abitanti, e il suo salario annuale ammonta a circa 50mila sterline. Al momento della sua elezione, nel novembre del 2012, Ferguson ha annunciato che questa somma gli sarebbe stata corrisposta in Bristol Poundsla moneta alternativa di Bristol. Il Bristol Pound è la moneta locale più diffusa in Inghilterra, ma non certo l’unica. Ne esistono anche a Totnes, Brixton, Lewes, Stroud. E sapete cos’hanno in comune queste località britanniche? Sono tutte Città in Transizione.

Transizione… Ma verso che cosa? E con quali modalità, coinvolgendo chi? Sono queste le prime domande che, ormai quasi dieci anni fa, un giovane insegnante di permacultura della provincia inglese ha rivolto a se stesso, consapevole della necessità di avviare un grande processo per modificare la società e traghettarla verso il cambiamento a cui il mondo sta ineluttabilmente andando incontro. Il nome di questo insegnante è Rob Hopkins, co-fondatore del movimento delle Transition Towns. Il punto di partenza è un ragionamento tanto semplice quanto cruciale: la società attuale dipende quasi interamente dai combustibili fossili, in particolare dal petrolio. Come teorizzò ormai quasi cinquant’anni fa il geofisico Marion King Hubbert, il picco del petrolio è già stato raggiunto e questo vuol dire che le riserve dell’oro nero stanno cominciando a esaurirsi e d’ora in poi sarà sempre più difficile e costoso estrarlo. A questo, si accompagna un degrado dell’ecosistema che ha raggiunto livelli allarmanti, come testimoniano i pesanti cambiamenti climatici in corso. Che fare quindi? Le conclusioni sono quasi obbligate: è necessario avviare la costruzione di una nuova società che non sia più oil addicted, ma che faccia ricorso alle numerose soluzioni alternative ed ecologiche di approvvigionamento energetico e di reperimento delle materie prime.IMG_2051

Ma da buon permacultore, Rob sapeva che non si può modificare una comunità concentrandosi su un solo obiettivo, appartenente a un singolo ambito. Ecco quindi che una città resiliente deve anche ripensare la propria politica finanziaria, dotandosi di uno strumento monetario che, come ha detto uno degli ideatori del Bristol Pound, sia «creato dai cittadini per i cittadini». Anche il comparto produttivo e commerciale deve essere oggetto di intervento, creando filiere locali che consentano alla ricchezza generata di rimanere sul territorio. Non si può poi prescindere dall’educazione: scuole e università devono preparare i ragazzi alle buone pratiche, senza limitarsi alla teoria e insegnando anche il “saper fare”. E che dire dell’urbanistica, dell’edilizia, dei trasporti, dell’informazione, dell’accesso ai dati, delle relazioni sociali…  «La chiamiamo transizione perché parliamo di un passaggio», ci ha spiegato Rob Hopkins quando lo abbiamo incontrato a Bologna lo scorso ottobre, durante la sua visita in Italia organizzata da Transition Italia. «Un passaggio dal modello attuale, che ci conduce al suicidio climatico, a un modello compatibile, che ci porta verso una vita serena e sana su questo pianeta». Ma questo non è che il punto di partenza: «Per me la transizione ha a che fare con la costruzione di un sistema culturale ricco, abbondante, locale, resiliente. E soprattutto col vedere le sfide di questi tempi come opportunità per stimolare la nostra creatività e la nostra originalità».ChelseaFringe3_2219212b

In occasione del suo viaggio a Bologna, Rob ha incontrato studenti dei licei e dell’università, i maggiori rappresentanti istituzionali del Comune e dell’Alma Mater, mass media, attivisti e semplici cittadini. Come un vento rinfrescante, con l’ironia e la semplicità che lo contraddistinguono, ha portato a tutti ottimismo ed entusiasmo attraverso la forza dell’esempio. I suoi incontri infatti, sono sempre stati caratterizzati non solo da spiegazioni teoriche dei nuovi modelli che la transizione cerca di costruire e insediare, ma anche da testimonianzecase history, con tanto di foto e filmati, di ciò che i transizionisti stanno facendo in giro per il mondo. Così, davanti alle espressioni curiose e interessate del sindaco Virginio Merola e del prorettore Dario Braga, il papà della Transizione ha raccontato delle edible bus stops di una linea di Londra, ovvero le fermate del bus “commestibili”, cioè corredate di piccoli orti con verdure piantate e coltivate dai residenti della zona a disposizione degli utenti dell’autobus. Oppure del Bristol Pound di cui abbiamo parlato all’inizio, la moneta complementare di Bristol, che dopo aver avuto l’approvazione della Bank of England, viene ora accettata da più di 650 negozi e ha un sistema di pagamento elettronico e on-line. O ancora, il Local Entrepreneur Forum, un tavolo che favorisce l’incontri di investitori e imprenditori che vogliono avviare attività sociali, sostenibili, resilienti e finalizzate a creare benessere nel territorio. Sono queste iniziative che possono essere ricondotte all’idea della REconomy. «Verso il 2010 – racconta Rob in proposito –, è emerso questo concetto. Abbiamo capito che la transizione era una cosa seria e ambiziosa, perché ci chiede di reinventare il modo con cui ci alimentiamo, produciamo energia, viviamo. Per questo motivo, era necessario creare anche un nuovo modo di fare economia: generare nuovi posti di lavoro, avviare nuove attività di imprenditoria sociale, trovare nuove modalità di investimento del denaro. C’era bisogno di canalizzare le risorse al fine di rendere possibile nel mondo reale questo cambiamento».well_done_dragons-1024x443

Parallelamente, si è sviluppato l’aspetto della transizione interiore: «La transizione non è solo pannelli solari e carote biologiche! C’è bisogno di creare una cultura resiliente e sana del lavoro di gruppo, allo scopo di risolvere gli storici problemi legati all’attivismo, che è soggetto a un alto rischio di bruciarsi dopo la spinta iniziale. Per questo motivo abbiamo cominciato a chiederci come potevamo progettare la nostra attività in modo da sostenerci a vicenda e questa idea della transizione interiore è stata per molti aspetti il punto di svolta. Spesso, quando viaggio e incontro le persone, mi sento dire: “la transizione è fantastica, bravo Rob, hai fatto una cosa splendida!”. Ma non li ho fatti io tutti quei progetti, in Brasile, a Brixton, a Bologna, in Giappone. Ovunque la risposta che vedo è che la transizione si adatta al territorio e alle passioni delle persone che lo abitano. Io sono un po’ come un’ape che se ne va in giro a raccontare storie. E adesso ne avrò una in più di cui parlare e riguarderà ciò che state facendo voi a Bologna, in Italia». Già, l’Italia… «Qui l’economia è un disastro e continua a peggiorare. Però la vedo come un’opportunità, una possibilità da parte del vostro paese di posizionarsi come prima economia post-crescita. Se solo fossimo capaci di abbandonare l’obiettivo della crescita, la pretesa tornare a un’epoca impossibile. Qui c’è una cultura del cibo straordinaria, ci sono enormi potenzialità per le energie rinnovabili, grandi capacità manuali e pratiche. Basta guardare dalla giusta prospettiva e l’Italia potrebbe diventare la Silicon Valley di una nuova economia». Questo è un invito. Di più, è un’esortazione, quasi una sfida che ci viene posta. Gli strumenti ci sono, le potenzialità e le risorse anche. Adesso spetta solo a noi.

Rob ci lascia con una conclusione che tradisce lo squisito british humor con cui ha conquistato tutti in giro per il mondo, ma che cela anche una grande verità. «Non c’è garanzia che il lavoro che stiamo facendo abbia l’effetto che vogliamo. Del resto, se ci fosse la certezza che andrà tutto bene sarebbe noioso e non ci sarebbe motivo di farlo. È qualcosa che sentiamo di dover fare anche, soprattutto, perché non sappiamo come andrà a finire».

 

 

Fonte: : italiachecambia.org