Cambiamo approccio e facciamo in modo che il contagio si diffonda!

La radice etimologica del termine contagio ci fa scoprire un’accezione di questo concetto che per noi è nuova e decisamente diversa da quella che, soprattutto in questi ultimi mesi, siamo abituati ad attribuirgli. Eppure essa è estremamente familiare alla maggior parte degli esseri viventi che popola il Pianeta insieme all’homo sapiens. Ancor prima che esseri viventi, siamo stati il sogno di un uomo e una donna che sono poi diventati padre e madre. Ancor prima di essere chioma, l’albero è stato solo fusto, seme e ancor prima del seme è stato l’albero da cui quel seme è caduto. Ancor prima che abbiano un significato, le parole nascono da suoni e radici che hanno altri significati e possono portare luce su ciò che creano nelle nostre vite. Iniziamo con queste sfumature poetiche poiché il linguaggio nasce da processi di creatività, musicalità e anche poesia, intesa come la capacità di celebrare il bello, cosa intangibile, in parole che possano rendercene una immagine osservabile. E lo facciamo per concentrarci sul tema attuale del Contagio. La parola Contagio nasce dall’unione di due termini latini che sono: con (insieme) + tangere (toccare). In questo periodo storico di contagio inteso come trasmissione di malattia, che cosa accade in ognuno di noi dall’incontro di “insieme” e “toccare”? “Insieme” ha a che fare con una dimensione sociale, di condivisione, di presenza, con la dimensione di esseri relazionali che ci appartiene. “Toccare” ha a che fare col tatto, stare a contatto, con la sensorialità, con la fisicità, con ciò che ha risonanza con le sensazioni e la materia fisica.

La riflessione viene dal fatto che quando siamo insieme a un essere vivente di specie diversa e lo tocchiamo, traiamo da questo gesto una sensazione di piacevolezza che è immediata. Accade altrettanto negli abbracci sentiti tra esseri umani: essere insieme e toccarsi, stare a contatto, col corpo. Allo stesso modo, quando siamo insieme a qualcuno e tocchiamo, stiamo a contatto con le sue informazioni, con le sue emozioni, in un processo che è altro da quello razionale, ne usciamo diversi. Arricchiti o depotenziati.

Il punto è: cosa ne facciamo, di tutto questo? Stare insieme con ciò che ci tocca è il ponte per la passare da una vita fatta di incertezze e automatismi a una vita di percezioni coscienti e sensazioni di qualità. Stare insieme anziché giudicare o etichettare, toccare anziché capire. Lo sanno benissimo gli esseri non umani che trasformano ogni cosa da cui vengono toccati, ogni loro esperienza, in materia prima di cognizione, emozione, esperienza con cui stare insieme, da cui costruire. Permettere a quella materia di diventare personalità e storia accolta, anziché lottarci, ignorarla, fare finta che non esista e persino ripudiarla, azioni che danno vita a quella profonda dis-connessione che ci impedisce di stare veramente insieme a ciò che ci accade, di lasciarci toccare e da qui soffriamo perché perdiamo pezzi della nostra stessa storia e della storia di chi amiamo. E allora, in questo tempo di contagio inteso come trasmissione di malattia, da cosa potremo farci contagiare per riportare connessione ed equilibrio? Potremmo affidarci a un contagio emozionale. Quest’ultimo, come quello fisico, genera un cambiamento. Questo processo avviene in noi umani, così come nelle altre specie animali, a prescindere dalla nostra volontà di accettazione e non è arrestabile. Un cambiamento che avviene grazie a un contagio emozionale può intraprendere la strada della nostra accoglienza, del desiderio di crescita, di trasformazione e di evoluzione. Altresì può intraprendere la strada della nostra resistenza: avviene quando cerchiamo in ogni modo di esercitare un controllo su ciò che proviamo, quando cerchiamo di gestirlo come se fosse una parte svincolata da un processo più ampio, come se fosse una semplice appendice di noi stessi, una parte aggiunta e non integrata, non determinante rispetto a una dinamica di sviluppo.

Il pavor, il timore, che da un punto di vista evolutivo è uno strumento fondamentale ai fini della sopravvivenza, diventa un grande vallo capace di farci arretrare quando parliamo di relazioni e di cambiamenti. Le nostre resistenze si agganciano a eventi passati e subiti, non necessariamente traumatici, che tuttavia portano alla costruzione di schemi e sovrastrutture, sotto i quali ci celiamo per sentirci accettati, per proteggere i nostri sentimenti. Rimanere nascosti dentro le nostre sovrastrutture certamente ci permette di non andare incontro, temporaneamente, a giudizi che innescano insicurezze e reazioni in noi stessi e conseguentemente nei rapporti con gli altri, ma a che costo? Il costo è duplice e davvero molto alto. Per cominciare ci costringiamo a subire una grave perdita: perdiamo noi stessi e la nostra capacità di sperimentare ciò che veramente ci appaga e le nostre peculiarità. In secondo luogo, facciamo perdere agli altri la possibilità di confrontarsi con soggetti rimasti coerenti con la voglia di sperimentarsi ed evolvere, che rivelano una strada percorribile libera dal giudizio, mostrandosi dialoganti con sé stessi e non assoggettati alle convinzioni altrui. Se, al contrario, ci permettiamo di osservare senza giudicare le nostre e le azioni ed emozioni altrui, ci doniamo la possibilità di riuscire a vedere – come fanno ad esempio gli animali non umani che accompagnano la nostra vita – come sia possibile continuare a percorrere la strada dei nostri reali bisogni, sentendoci desiderosi di contagiarci con ciò e chi ci circonda o scegliendo di allontanarci con grande consapevolezza da ciò che non ci appartiene.

Osservando i nostri compagni non umani e abbandonando la presunzione antropocentrica di conoscere meglio di loro i loro stessi bisogni, possiamo tornare a vedere questi individui come soggetti attivi della propria esistenza, capaci di ibridarsi senza perdersi, liberi pensatori. Gli stessi occhi dovremmo rivolgere a noi stessi affinché ogni esperienza vissuta diventi tessuto funzionale al benessere, allo scambio, alla crescita, a nuove aperture e a nuove contaminazioni.

Ecco che la paura del contagio non può che lasciare spazio alla capacità di rimanere connessi con i nostri bisogni e con gli altri – umani e non –, con l’ambiente di cui facciamo parte integrante, potenziando la capacità di evolverci in aderenza a quel che siamo, ai nostri profondi desideri, riconoscendo, e al contempo rispettando, quelli degli altri esseri viventi. Anche in questi tempi – soprattutto in questi tempi – un virus di consapevolezza che genera un’epidemia di benessere diventa possibile abbandonando la paura di non essere abbastanza, disfunzionale al nostro benessere emotivo, e godendo di relazioni con noi stessi e con gli altri, liberi dalle imposizioni e dai giudizi.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/05/cambiamo-approccio-contagio/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Gruppo di Appoggio Mutuo: a Roma si condividono cibo, saperi e relazioni

Da un fertile humus di solidarietà e impegno civile è nato un gruppo che per decine di famiglie della periferia romana sta rappresentando una risorsa fondamentale in questo periodo di crisi e incertezza. Dalla distribuzione di pacchi al bookcrossing, fino all’autoproduzione, vi raccontiamo le sue attività. Si chiama GAM, Gruppo di Appoggio Mutuo, è nato all’inizio della pandemia e proprio con l’ingresso della primavera ha “festeggiato” un anno di attività. Questa realtà romana territoriale è figlia della Libera Assemblea di Centocelle (LAC), costituita per rispondere agli incendi che avevano colpito il quartiere nell’inverno del 2019 e in particolare una libreria, la Pecora Elettrica. Con l’arrivo di una nuova emergenza, quella del COVID-19, le attiviste e gli attivisti si sono messi nuovamente in gioco, chiedendosi quali potesse essere l’esigenza principale per chi ha dovuto smettere di lavorare improvvisamente a seguito delle misure restrittive. Senza dubbio la distribuzione dei pacchi alimentari è stata una risposta dettata dalla situazione emergenziale, ma con il tempo la richiesta non solo non è diminuita ma è addirittura aumentata. Se a settembre 2020 l’utenza del GAM raggiungeva un numero di 120 famiglie a settimana, a Natale sono diventate 150, per arrivare nell’ultimo periodo a ben 180 famiglie.

Da un fertile humus di solidarietà e impegno civile è nato un gruppo che per decine di famiglie della periferia romana sta rappresentando una risorsa fondamentale in questo periodo di crisi e incertezza. Dalla distribuzione di pacchi al bookcrossing, fino all’autoproduzione, vi raccontiamo le sue attività. Si chiama GAM, Gruppo di Appoggio Mutuo, è nato all’inizio della pandemia e proprio con l’ingresso della primavera ha “festeggiato” un anno di attività. Questa realtà romana territoriale è figlia della Libera Assemblea di Centocelle (LAC), costituita per rispondere agli incendi che avevano colpito il quartiere nell’inverno del 2019 e in particolare una libreria, la Pecora Elettrica. Con l’arrivo di una nuova emergenza, quella del COVID-19, le attiviste e gli attivisti si sono messi nuovamente in gioco, chiedendosi quali potesse essere l’esigenza principale per chi ha dovuto smettere di lavorare improvvisamente a seguito delle misure restrittive. Senza dubbio la distribuzione dei pacchi alimentari è stata una risposta dettata dalla situazione emergenziale, ma con il tempo la richiesta non solo non è diminuita ma è addirittura aumentata. Se a settembre 2020 l’utenza del GAM raggiungeva un numero di 120 famiglie a settimana, a Natale sono diventate 150, per arrivare nell’ultimo periodo a ben 180 famiglie.

«Ci siamo mobilitati fin dall’inizio tramite passaparola, social network e volantini – racconta Alessandra La Porta, portavoce del GAM –, siamo scesi nelle strade, quando era possibile, e in tutti quei luoghi che già frequentavamo». Il radicamento sul territorio e il legame tra le persone sono infatti le componenti fondamentali che hanno permesso a questa realtà di fare la differenza. I momenti di distribuzione di pacchi alimentari e beni di prima necessità sono quattro a settimana e si svolgono in due giorni diversi, il giovedì a Villa Gordiani, Centocelle e Tor Pignattara; il sabato sempre a Centocelle, il quartiere con maggiore richiesta.

«Ci sentiamo un tutt’uno con le persone a cui ci rivolgiamo – prosegue Alessandra La Porta – tanto è vero che molti dei beneficiari conosciuti durante la distribuzione dei pacchi alimentari si sono attivati diventando loro stessi volontari». È un circolo virtuoso di mutualismo e solidarietà che non si ferma solo alla distribuzione di pacchi alimentari, ma mira alla condivisione di pratiche e conoscenza. Sono nati così punti di bookcrossing per lo scambio di libri nel quartiere, ma anche laboratori per la realizzazione di mascherine, fino alla produzione di saponi o detersivi naturali.

«Ci siamo mobilitati fin dall’inizio tramite passaparola, social network e volantini – racconta Alessandra La Porta, portavoce del GAM –, siamo scesi nelle strade, quando era possibile, e in tutti quei luoghi che già frequentavamo». Il radicamento sul territorio e il legame tra le persone sono infatti le componenti fondamentali che hanno permesso a questa realtà di fare la differenza. I momenti di distribuzione di pacchi alimentari e beni di prima necessità sono quattro a settimana e si svolgono in due giorni diversi, il giovedì a Villa Gordiani, Centocelle e Tor Pignattara; il sabato sempre a Centocelle, il quartiere con maggiore richiesta.

«Ci sentiamo un tutt’uno con le persone a cui ci rivolgiamo – prosegue Alessandra La Porta – tanto è vero che molti dei beneficiari conosciuti durante la distribuzione dei pacchi alimentari si sono attivati diventando loro stessi volontari». È un circolo virtuoso di mutualismo e solidarietà che non si ferma solo alla distribuzione di pacchi alimentari, ma mira alla condivisione di pratiche e conoscenza. Sono nati così punti di bookcrossing per lo scambio di libri nel quartiere, ma anche laboratori per la realizzazione di mascherine, fino alla produzione di saponi o detersivi naturali.

Come va avanti tutto questo? Il GAM si sostiene interamente attraverso le donazioni alimentari davanti ai supermercati e con la raccolta dell’invenduto giornaliero nei mercati rionali. «Purtroppo le offerte nell’ultimo periodo sono diminuite – spiega la referente del GAM – mentre la nostra utenza è aumentata significativamente». Per sostenere il progetto, i volontari del Gruppo si sono quindi affidati a un crowdfunding su Produzioni dal Basso a cui tutti possono contribuire. L’obiettivo è quello di continuare a distribuire pacchi alimentari per tutto il 2021, perché le persone in fila aumentano e gli attivisti e le attiviste, per fortuna, non hanno intenzione di fermarsi. «Vogliamo prenderci metaforicamente per mano e attraversare insieme questo momento di difficoltà», conclude Alessandra. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/04/gruppo-di-appoggio-mutuo-roma-cibo-saperi-relazioni/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

È davvero ora di cambiare, anche nel rapporto fra esseri umani e animali

Sara De Santi e Sonia Signorini si occupano di relazioni tra animali umani e tra l’essere umano e altre specie e collaborano nell’ambito del progetto “Col resto di due”. In questa serie di articoli condivideranno con noi alcune riflessioni su questo macrotema. Nella prima uscita analizzano la situazione attuale, sottolineando la necessità di cambiare paradigma e scardinare il rapporto asimmetrico – oggi ampiamente diffuso – fra il cane e la sua figura umana di riferimento. Nell’ultimo anno sono cambiate molte cose. Sono cambiate abitudini e certezze, è cambiato il modo in cui guardiamo al futuro e anche quello in cui consideriamo il passato. Ciò che definivamo “normalità” è risultato essere un concetto labile e volatile. Ne sentivamo parlare dei cambiamenti in atto, in relazione al clima, alle evoluzioni sociali, alle necessità di specie e ambienti, eppure restavano voci di nicchia, fino a quando una pandemia ci ha coinvolti tutti.

Stanno avvenendo anche cambiamenti culturali importanti: diamo più rilevanza alle emozioni in svariati ambienti, al benessere interiore, alla meditazione, si parla di relazione in più modalità. La connessione tra la responsabilità e la consapevolezza di sé e dell’altro, nell’ambiente in cui si vive, inizia a divenire evidente. La comunicazione tra l’essere umano, il mondo animale e quello vegetale ci mostra l’importanza di un cambiamento nei modelli di interscambio e di relazione. Per questo io e la mia amica e collega Sonia abbiamo ideato il progetto “Col resto di due”, attualmente attivo come pagina social, dove condividiamo osservazioni e considerazioni nate dalla nostra esperienza sul campo e dai nostri studi. Il nostro intento è quello di spostare l’attenzione dal pensiero lineare e utilitaristico a quello divergente e collaborativo, in particolare nella relazione con la diversità. Ci occupiamo di relazioni tra animali umani e tra l’essere umano e altre specie. In questo ambito, che ha visto una fortissima evoluzione negli ultimi anni, c’è un’urgenza che diventa sempre più chiara: la necessità di cambiare paradigma. È da questa necessità che nel primo di questi articoli a due voci che andremo a scrivere, oggi vogliamo partire: la necessità di cambiare paradigma o forse semplicemente di non averne affatto, convinte che sia questa la strada da intraprendere per ritrovare la nostra vena animale e poter riconoscere quella altrui.

Ma cosa significa “cambiare paradigma”? Il paradigma è un modello di riferimento a cui ci affidiamo quando parliamo di un determinato argomento, è un termine di paragone. Ad oggi in ambito animale sono innumerevoli i paradigmi a cui ci affidiamo e di cui abbiamo bisogno. Ci servono per decodificare comportamenti, per dare spiegazioni, finanche per creare proiezioni. La necessità di circoscrivere, di mettere etichette che in qualche misura ci rassicurano, ci fanno riconoscere un legame e sentire in sintonia con altre specie. È questo il primo passo verso la gabbia mentale in cui non solo releghiamo gli altri animali, ma in cui releghiamo anche noi stessi, le nostre
emozioni, il nostro ruolo. Ed è proprio il ruolo che assume un’importanza non secondaria nel nostro modo di relazionarci con gli animali non umani. La cinofilia è un esempio illuminante di come la ricerca del ruolo determini il modo di vivere il cane. Addentrandoci, neanche troppo, in questo mondo si può arrivare a pensare che il cane esista grazie a noi, dimenticandoci invece che sulla terra la maggior parte dei cani vive liberi, senza una figura umana di riferimento.

Se guardiamo i dati da questa prospettiva c’è da domandarsi se davvero siano i cani ad avere bisogno di noi o se, al contrario, siamo noi ad avere la necessità di riconoscerci nella figura che il cane ci dà l’opportunità di esprimere: padre-padrone, guida, leader, coach, capobranco, madre e così via. Una figura di cui ci appropriamo con la forza e che lascia l’altro senza possibilità di reale rifiuto perché il rifiuto diventa automaticamente ai nostri occhi un problema – aggressività, fobia, iperattività o altro – da risolvere in fretta, possibilmente da altri, da smontare e in ultima istanza da allontanare, andando ad alimentare tutta quella mal gestione e quel mercato infame del più becero volontariato che alimenta cani viaggianti su e giù per l’Italia e riempie i canili. E allora, forse, la sfida più grande e più urgente diventa distruggere vecchi paradigmi, che hanno la colpa di ricondurci a modelli di riferimento troppo vicini alle abitudini di un’epoca che ha perso contatto con la propria animalità. Riconoscere e accettare quello che è sotto ai nostri occhi senza averne timore, senza incatenarlo ai nostri bisogni, affiancandolo invece, alla scoperta dell’altro e di noi stessi, in una convivenza che si contamina ed evolve senza violenze fisiche ed emozionali.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/03/cambiare-rapporto-esseri-umani-animali/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

La CSA di Roma: la comunità che supporta l’agricoltura e costruisce nuovi legami.

Nella campagna a nord di Roma ha preso vita una comunità fondata sulla fiducia, la condivisione e la coltivazione del cibo sano. Si tratta della CSA Semi di Comunità, un modello di produzione e distribuzione dei prodotti alimentari nonché un esperimento sociale di successo da diffondere e replicare. Una delle particolarità della città di Roma (se davvero fosse possibile generalizzare la sua variegata geografia) è la sua capacità di cambiare aspetto da un momento all’altro. Come si usa dire, “tutte le strade portano a Roma” così come molte, allo stesso tempo, partono da qui. Una di queste è la Via Cassia, via di fuga verso Nord dal centro cittadino, che percorro praticamente da sempre. Una delle ramificazioni di questa arteria è la Via Cassia Veientana, al suo inizio caratterizzata da un grande cavalcavia. Per raccontarvi la storia di oggi, per la prima volta ho attraversato questo ponte da sotto, percorrendo una strada di campagna che, quasi in un battito di ciglia, mi ha condotto nel cuore della campagna romana per andare a scoprire un “esperimento sociale” di compartecipazione tra agricoltori e comunità: la CSA Semi di Comunità. CSA sta per “Community Supported Agricolture”, traducibile in italiano come “Comunità che Supporta l’Agricoltura”. Si tratta di un modello di reciproco supporto tra una determinata comunità di persone e una cooperativa di agricoltori: la comunità diventa “proprietaria”, insieme agli agricoltori, di una qualsiasi iniziativa di produzione agricola, investendo una quota per finanziare la produzione e ricavandone in cambio una certa quantità di cibo per la famiglia, regolarmente distribuita. Insieme, dunque, si condividono rischi e opportunità di un’iniziativa del genere, si sperimenta la condivisione in gruppo di decisioni strategiche come, ad esempio, quali colture produrre, quali costi sostenere e quali investimenti programmare, come ripartire le quote tra i diversi soci e quale modello organizzativo scegliere. Stabilite queste basi comuni, non esiste un modello organizzativo comune per tutte le CSA: noi vi abbiamo raccontato, tempo fa, la “madre” di tutte le CSA in Italia, cioè Arvaia, alla quale la CSA romana “Semi di Comunità” si ispira. Vi invitiamo a guardare il video qui da noi realizzato, dove potrete scoprire il modello organizzativo e distributivo che incarna il senso di questa esperienza.

L’asta delle quote: come funziona nella pratica la CSA Semi di Comunità

In “Semi di Comunità” esistono dei concetti cardine: naturalmente la creazione di comunità, come avete potuto vedere all’interno del video. Un altro concetto fondamentale è l’accessibilità al cibo naturale: «Un esperimento che rende ancora più orizzontale il nostro progetto – ci racconta Saverio Carrara, socio lavoratore e Presidente della Cooperativa – è lo strumento dell’asta delle quote. Una volta stabilito il piano economico annuale, i costi e gli investimenti previsti vengono divisi in quote, che ogni singolo socio deve versare. Il problema è che se i costi delle quote sono cari non tutti possono partecipare. Durante l’asta delle quote da noi qualche socio offre un quantitativo di denaro più alto rispetto al dovuto, per permettere così ad altri di partecipare anche con una quota più bassa. Il tutto a parità di prodotto, naturalmente: il quantitativo di verdure rimane lo stesso. Abbiamo usato per la prima volta questo strumento quest’anno ed abbiamo chiuso il nostro piano economico con seicento euro di avanzo. Questo strumento, condiviso da tutto il gruppo, ci ha così consentito di rendere la CSA il più inclusiva possibile, permettendo di raggiungere l’obiettivo fondamentale di rendere il cibo sano e naturale accessibile possibilmente a tutti».

Oggi “Semi di Comunità”, nata a Gennaio 2019, conta circa duecentotrenta soci, contribuendo al fabbisogno alimentare di circa centotrenta famiglie. Il terreno su cui opera è grande circa cinque ettari, di cui tre a seminativo e due a bosco: attualmente sono già giunti alla giusta proporzione tra soci fruitori e capacità produttiva.

La differenza Tra CSA e GAS (Gruppo di Acquisto Solidale)

Perché la CSA rappresenta, probabilmente, l’evoluzione naturale dei Gruppi di Acquisto Solidale, in termini di partecipazione e responsabilizzazione delle persone? Non solo per la compartecipazione al rischio di impresa. «Non è sufficiente acquistare una quota e basta per fare parte di Semi di Comunità – ci spiega il socio Davide Gentili – Siamo divisi in soci volontari e soci fruitori, ma anche il socio fruitore che acquista le quote deve garantire la presenza sui campi almeno quattro volte l’anno. Noi, tutti insieme, stiamo costruendo a partire dal cibo una comunità, perché il cibo sano e genuino rappresenta il collante giusto per tenere unite le persone e condividere momenti insieme. Il nostro è anche un atto politico: è un modo di stare a contatto con i campi diverso,evitando le storture messe in pratica dalla GDO e appoggiando un certo modo di fare agricoltura che sia rispettoso dell’uomo e dell’ambiente circostante. Chiunque può venire sui campi e può partecipare, provare cosa significa fare parte di una comunità inclusiva come questa: il problema è proprio capire come far partecipare tutte le persone che vogliono far parte di questa esperienza».

Altra differenza fondamentale rispetto al GAS è la distribuzione, ben spiegata nel video sopra dal socio volontario Bruno Sclavo: «Alla fine del raccolto, che di solito avviene di martedì pomeriggio o di mercoledì, si effettua la suddivisione delle verdure in base ai nostri otto attuali punti di distribuzione. Questi otto punti di distribuzione sono suddivisi in varie parti di Roma ed ognuno dei soci fruitori si occupa della distribuzione qui in sede. I soci fruitori si recheranno al punto di distribuzione e sapranno la parte che spetta loro: a differenza delle cassette tradizionali su ordinazione, i soci non trovano una cassetta già preparata, ma una tabella con la quantità di ortaggi che possono prendere, componendo loro stessi le proprie cassette. Ciò introduce il discorso della fiducia, altro tassello importante per noi: nessuno controlla il singolo socio fruitore quanto prende per la propria cassetta, ed ognuno si assume la propria responsabilità nella buona riuscita della distribuzione».

La costruzione della Comunità e gli obiettivi futuri

Semi di Comunità non è solo produzione e distribuzione di cibo ma costruzione di reti e relazioni: «io sono venuta a conoscenza di questa realtà tramite mia madre» ci racconta divertita la socia volontaria Marta de Marinis «e sapevo che per diventare almeno socio sostenitore bastava compilare un formulario su Internet. A dir la verità mi sono innamorata di questo luogo frequentandolo prima come volontaria che come socia, perché l’atmosfera che si crea è davvero particolare».

«È come una seconda casa per me, ormai» aggiunge la socia volontaria Giada Serina «e le occasioni di incontro non sono legate solamente al lavoro sui campi e alla produzione di cibo. Anche nella gestione degli spazi qui in sede, vale il discorso della condivisione: ad esempio prossimamente, insieme ai soci volontari, ci ritroveremo a sistemare nuovamente la cucina e gli spazi comuni. Organizziamo eventi di incontro con la comunità come la proiezione di film. E poi ci sono i tornei a biliardino tra di noi, le serate passate a parlare e a godere di tramonti stupendi. È davvero bello trascorrere le giornate qui».

Un altro tentativo per costruire una comunità attiva in Semi di Comunità è stato quello della condivisione dei saperi: «Una volta al mese, prima del lockdown – spiega Saverio – abbiamo organizzato dei corsi di formazione anche non direttamente collegati alla produzione di cibo, come quelli per la costruzione di forni in terra cruda o per produrre saponi naturali . L’idea alla base di questa iniziativa è mettere a disposizione la propria competenza di tutti i soci come dono. Questo significa condivisione pura e possibilità di crescita per tutti, perché la condivisione del sapere aiuta a costruire dei legami forti tra le persone».

A questo link trovate l’intervista integrale.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/09/csa-roma-comunita-che-supporta-agricoltura-costruisce-nuovi-legami-io-faccio-cosi-298/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Toctocdoor, il social network che fa rivivere i quartieri

Ricreare la comunità di quartiere facilitando le relazioni di vicinato, la condivisione di informazioni ed il supporto reciproco tra gli abitanti della stessa zona. È questo l’obiettivo di Toctocdoor, il social network pensato per favorire i rapporti reali sul territorio. Il servizio è già attivo a Torino ma presto verrà esteso a tutte le città italiane. Toctocdoor non è l’ennesimo social network creato per farci stare incollati con gli occhi ad uno smartphone, anzi. Quello che Toctocdoor prova a fare è proprio il contrario: creare una comunità che partendo dal virtuale possa poi spostarsi sul piano delle relazioni reali. Può essere definito un social network di quartiere: ogni utente che si iscrive si ritroverà “virtualmente immerso” nel proprio quartiere e più facilmente a contatto con le persone che lo abitano. Oltre al semplice dialogo, in questo modo sarà più facile relazionarsi, aiutarsi e chiedere aiuto. È nato come società nel marzo 2016 e in questi due anni i tre cofounder – Lorenzo Triggiani (CEO), Antonio Triggiani (CTO) e Viviana Tiso (COO) – hanno lavorato allo sviluppo della piattaforma, ispirandosi a modelli già presenti all’estero e individuando come città target Torino, che per ora è l’unica dove è possibile utilizzare il social. “Noi stiamo cercando attraverso la dinamica del learn by doing di capire come la piattaforma possa essere uno strumento utile e non l’ennesima realtà virtuale di relazione”, ci racconta Viviana, “Vogliamo spostarla nel mondo reale questa relazione”. Al momento Toctocdoor non ha ancora un’applicazione per gli smartphone, ma “ci stiamo lavorando”, assicura Viviana.28053223_1786015275035650_524427436_n

“L’idea è di creare un social network che attraverso una dinamica di dialogo all’interno del quartiere possa generare delle buone prassi di comunità, partendo dal soddisfacimento di bisogni individuali per poi raggiungere obiettivi di collettività”, spiega Viviana. In effetti, soprattutto nelle grandi città, i vicini di casa sono spesso degli sconosciuti e anche piccole esigenze possono diventare dei problemi quando non si è inseriti all’interno di una comunità su cui fare affidamento. Basti pensare al ritiro di un pacco quando non si è in casa o al trovare un idraulico competente o una baby sitter affidabile. Piccole necessità che invece all’interno di un quartiere che si conosce e si aiuta si risolvono facilmente.

“Il nostro sogno è che la piattaforma possa essere utile per lanciare delle idee e dei progetti che abbiano a che fare con la comunità e con il territorio di riferimento”. Un obiettivo ambizioso quello di Toctocdoor, che mira quindi alla collettività e al recupero del territorio da parte della stessa. Ma che già in parte è concreto nella città di Torino, dove c’è stato un caso esempio di quel “fare comunità”: un condominio di un palazzo si è trovato costretto a tagliare degli alberi, così uno dei condomini ha condiviso questa notizia su Toctocdoor, chiedendo se a qualcuno potesse servire quella legna. Ed è venuto fuori che a due isolati di distanza c’era un laboratorio di falegnameria sociale, a cui la legna è stata data.28108974_1786015121702332_1906262003_n

Ma con tutte queste relazioni virtuali non esiste il rischio che anche Toctocdoor diventi l’ennesimo social network in cui intrattenere rapporti superficiali? Anche a questo hanno pensato Lorenzo, Antonio e Viviana, ponendosi una domanda: come facciamo ad evitare la deriva di quello che effettivamente nasce come un luogo di relazioni virtuali? “Stiamo lavorando sui meccanismi di gamification, ossia logiche di gioco che vengono applicate in contesti estranei a quelli del gioco ma che servono ad indirizzare meglio le azioni. Bisogna indirizzare meglio le azioni degli utenti, fargli capire che all’inizio ha una serie di azioni a disposizione e nel momento in cui utilizza questi strumenti ‘passa di livello’ e accede a delle funzioni ulteriori che valorizzano il suo impegno all’interno della comunità”. In questo modo, è il funzionamento stesso del social network a spingere l’utente ad uscire dal piano delle relazioni virtuali, se vuole far parte di Toctocdoor.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/02/toctocdoor-social-network-fa-rivivere-quartieri/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Una volta si chiamava carità pelosa: l’umanitario funzionale al potere

Grandi ong, miliardari, fondazioni, denaro: ecco la fitta rete di rapporti e relazioni che unisce chi il potere e il denaro li ha e li usa.charityhands-revise-50

Trilateral Commission, giugno 1991. David Rockfeller dice: “Siamo grati al Washington Post, al New York Times, a Time Magazine e ad altre importanti pubblicazioni i cui direttori hanno partecipato alle nostrie riunioni e rispettato la promessa di discrezione per quasi quarant’anni… Sarebbe stato impossibile per noi sviluppare il nostro piano mondiale se fossimo stati esposti alle luci della pubblica opinione in questi anni. Ma il mondo ora è più evoluto e preparato a imcamminarsi verso un governo mondiale. La sovranità sovranazionale di un’élite intellettuale e degli uomini d’affari mondiali è sicuramente preferibile alla sovranità nazionale praticata nei secoli passati”.

La Commissione Trilaterale è una di quelle istituzioni sovranazionali con le quali i potentati economici pensano di dominare il mondo: uno strumento di elaborazione e progettazione della dittatura mondiale. Va da sé che i “mezzi di comunicazione di massa” non possono non avere un ruolo fondamentale per chi vuole dominare il mondo.

“Cosa facciamo stasera, prof? Quello che facciamo tutte le sere, Mignolo! Tentare di conquistare il mondo!”

Giornali, radio e televisioni (e internet per quanto possibile) devono essere sotto il loro controllo. E così è. “Siamo grati al Washington Post… e ad altre importanti pubblicazioni”. Non è il caso di elencarle tutte, evidentemente. In realtà, il dominio funziona solo se i popoli si sottomettono, ma ingannarli, confonderli, frastornarli, fuorviarli con “notizie false, esagerate, tendenziose” aiuta molto a renderli passivi, confusi, divisi, pieni di contraddizioni. In una parola, a sottometterli. L’inganno, l’occulta censura, la mistificazione sono uno strumento imprescindibile per i dominatori. Dire il falso, tacere il vero: questo potrebbe essere il motto, oggi, dei grandi mezzi di comunicazione. Quando l’Impero però comincia a decomporsi, quando per tenere in piedi la sua struttura scricchiolante e marcescente deve vessare e opprimere e distruggere senza più alcuna mediazione o inibizione, l’inganno diventa più difficile, il malcontento e la diffidenza popolare diventano imponenti e problematici da contrastare o “convogliare”. Allora l’inganno diventa un’arte e richiede nuovi attori. Per questo nella “troupe” a quel punto entrano le grandi ONG, o associazioni non-profit, o “Charity” come dicono gli inglesi. Associazioni di “carità”; cioè che chiedono a noi la carità mentre i loro funzionari e dirigenti, detti “volontari”, prendono stipendi invidiabili o addirittura, i dirigenti, barche di quattrini. Volontari. Non deve essere difficile trovare chi abbia una tale volontà. E come fanno a diventare grandi, le grandi ONG? Coi soldi degli stati e dei capitalisti.

Amnesty International è finanziata dalla Commissione Europea, dal governo britannico, dalla Open Society Georgia Foundation del famigerato benefattore internazionale George Soros, solo per citarne alcuni. Irene Khan, direttrice di Amnesty, suscitò lo sdegno degli stessi attivisti andandosene con una “liquidazione” di 500.000 sterline nel 2009. Suzanne Nossel, altra direttrice di Amnesty nel 2012-2013, aveva prima lavorato per multinazionali USA della comunicazione, per il Wall Street Journal, per il Dipartimento di Stato USA dove si era distinta per le sue posizioni filoisraeliane e a favore dell’intervento USA in Afganistan. Non per niente Colin Powell dichiarò che “le ONG sono per noi una forza altrettanto importante dei combattenti armati”. L’attuale direttore di Amnesty, Salil Shetty, prende uno stipendio annuale di 210.000 sterline. Passiamo a Save the Children, cacciata da Pakistan e Siria con l’accusa di lavorare per la CIA, che prende soldi da: Chevron, Exxon Mobil, Merck Foundation, Bank of America e molte altre multinazionali citate come sponsor sul suo sito, tra le quali naturalmente varie industrie chimiche e chimico farmaceutiche, oltre che dall’immancabile Soros e dai due benefattori mondiali Bill e Melinda Gates, dall’Unione Europea e dal governo britannico (alla faccia delle organizzazioni non governative). Uno dei suoi passati direttori, Justin Forsyth nel 2013 prendeva un salario di 185.000 sterline per salvare i bambini. Era stato prima direttore di Oxfam, poi consigliere di Tony Blair, poi direttore delle “campagne strategiche di informazione” di Gordon Brown; adesso è direttore UNICEF. Decisamente un uomo per tutte le stagioni. O forse è sempre la stessa? Nel 2014 lo stipendio (chiamiamolo così) massimo di un dirigente di Save the Children UK era di 234.000 sterline. Nel bilancio di Save the Children International il dirigente con la paga più alta prendeva 387.000 dollari. Medici senza Frontiere nel 2010 aveva un bilancio di 1,1 miliardi di dollari. Nel 2014 il direttore di MSF USA (Doctors Without Borders) prendeva uno stipendio di 164.000 dollari l’anno, però per risparmiare viaggiava in aereo in “economic class”. Tra i finanziatori di Medici Senza Frontiere ci sono Goldman Sachs, Citigroup, Bloomberg, e Richard Rockfeller, padrone e dirigente di svariate multinazionali, è stato per ventun anni presidente della filiale USA di questa organizzazione caritatevole che si è trovata spesso in situazioni ambigue sui teatri di guerra, accusata di essere di parte e non necessariamente dalla parte giusta. Accusata di lanciare falsi allarmi per false epidemie che però richiedevano vere campagne di vaccinazione. Naturalmente, anche qui non mancano Soros e Bill Gates.

E via incamerando. E redistribuendo, perché no? Vaccini a vagonate, per esempio.

Bill Gates e consorte sono proprietari delle ditte farmaceutiche che producono vaccini, danno soldi a Save the Children e Medici senza Frontiere, che ne trattengono quel che serve per i propri stipendi e il resto lo restituiscono ai patron Gates comperando i loro vaccini. I Gates scalano dalle tasse le “donazioni” che sono rientrate nelle loro tasche, i bambini africani e indiani vengono rimpinzati di vaccini e tutti vivono felici e contenti. O no?

Della Commissione Trilaterale, lo dice la parola stessa, fanno parte tre “branche” del dominio: uomini d’affari (e con questo s’intende dirigenti e padroni di multinazionali private e pubbliche), politici (ma solo del tipo che rappresenta gli interessi dei succitati uomini d’affari), intellettuali (idem). Degli intellettuali membri della tribù trilaterale (loro sì che “fanno rete”!) fanno parte qualche vagone di docenti universitari e rettori di università di tutto il mondo, camionate di giornalisti e direttori di giornali e media vari e… parecchi funzionari della CIA. Ma è interessante notare come la maggior parte di costoro saltellino dall’uno all’altro dei tre rami dell’albero trilaterale come allegri uccellini. Forse per ingannare la vista.

Ed è quello che fanno anche i dirigenti delle grandi e ricche ONG. Paolo Magri, segretario generale del gruppo italiano della Trilateral Commission, è direttore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, docente di Organizzazioni internazionali all’università di Pavia, docente al master in Comunicazione per le Relazioni Internazionali della IULM, membro della consulta tecnica della fondazione Giordano dell’Amore (microfinanza) e del consiglio d’indirizzo della fondazione Italia-Russia, funzionario dell’ONU e collaboratore della Italcementi e… vicepresidente del CESVI. Una delle più grosse e importanti ONG italiane, che “risponde alla fame nel mondo, all’assistenza sanitaria e alle emergenze umanitarie”.

Il capitalismo globale sa che l’inganno e il tradimento sono armi fondamentali per vincere le guerre e, nella sua guerra globale, le utilizza a piene mani. Sa anche che il lavoro d’équipe è quello che dà i migliori risultati. In questo lavoro d’équipe le grandi ONG sono il nuovo strumento dell’imperialismo e del neocolonialismo. Dietro le apparenze, che ingannano tante brave e generose persone, volontari e donatori, ci sono interessi economici, politici e strategici perseguiti con maschere ingannevoli (ma sempre meno ingannevoli) e dietro regie occulte (ma sempre meno occulte).

Fonte: ilcambiamento.it

L'industria della Carità

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Comunitazione: nelle relazioni la chiave per cambiare il mondo

Comunicazione, comunità, azione. Sono queste le tre parole racchiuse nel progetto Comunitazione che incoraggia la partecipazione dal basso, la progettazione condivisa a vari livelli e l’innovazione nelle dinamiche sociali attraverso l’attivazione di cittadinanza attiva. L’obiettivo? Innovare le tecniche di comunicazione odierne per facilitare le persone ad agire come comunità. Comunitazione è una delle storie più rappresentative di “chi ha fatto così”. Già, il plurale è d’obbligo: è una realtà nata dal desiderio di Ilaria Magagna, Giulio Ferretto e Melania Bigi di trovare nuove forme di comunicazione dove poter far esprimere al massimo il valore e il potenziale d’azione della relazione.

Ilaria ha studiato al Dams a Bologna e si è trasferita a Ceglie Messapica, in Puglia, per il teatro. A Ostuni, presso il Centro Culturale “la Luna nel Pozzo” conosce Giulio, anche lui amante del teatro. I due, oltre a condividere questo percorso, diventano marito e moglie, formano una famiglia e, tramite la lettura di un articolo sulla Democrazia Profonda, conoscono poi Melania Bigi, che attratta dal progetto nascente si trasferisce a Ceglie Messapica.
I tre hanno una forte passione in comune che nasce da un’esigenza: come innovare le tecniche di comunicazione odierne, per avvicinare il mondo della formazione al miglioramento delle relazioni interpersonali, in maniera tale da spingere le persone ad agire come Comunità nel superamento del conflitto. La forte spinta nell’andare ad indagare “l’essenza della relazione” stessa. Dopo la scrittura del progetto, i ragazzi vincono un bando legato all’innovativo programma di politiche giovanili “Bollenti Spiriti” della Regione Puglia e la loro avventura è partita e arrivata fino ad oggi con una domanda: in un mondo che sta apparentemente andando in una direzione negativa, chi cerca di comunicare che questa direzione può essere pericolosa riesce a trovare il modo per comunicarlo alle persone?

ComuniTazione: Comunicazione, Comunità e Azione

Comunitazione si occupa principalmente di processi di comunità sotto due differenti aspetti. Uno è quello della comunità di gruppi che lavorano insieme, il prendersi cura dei gruppi di lavoro sotto vari punti di vista e le cui modalità di gestione si rifanno alla Facilitazione, cioè  accompagnare i gruppi in una serie di processi che vanno dalla progettazione, alla visione fino alla governance del gruppo stesso. Comunitazione gestisce i gruppi di lavoro sia attraverso delle facilitazioni vere e proprie, disegnate e progettate ad hoc per la realtà interessata e per le sue esigenze, sia attraverso dei corsi sulla facilitazione più generici e allargati a gruppi più ampi. L’altro aspetto riguarda le comunità territoriali più ampie come i quartieri, i paesi, le città e le esigenze di ognuna di queste, disegnate e gestite attraverso i Processi Partecipativi: una serie di tecniche e di metodologie che Melania, Giulio e Ilaria studiano e continuano a studiare per mettere insieme le persone, farle aggregare e progettare insieme rispetto ad un sogno, un’esigenza o un bisogno, e dopo di questo attuare una serie di azioni che hanno deciso direttamente le persone stesse per rispondere a questi sogni e bisogni. Tratto caratteristico della Facilitazione e dei Processi Partecipativi è proprio la relazione che si fa azione, essenza del lavoro di Comunitazione.

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La Facilitazione: il conflitto si trasforma in oro, la sostenibilità della relazione

Per Facilitazione “intendiamo una serie di tecniche, molto variegate, che ci permettono di lavorare sulle difficoltà, sui conflitti, spesso rappresentate dal come fare una riunione e da come gestire i tempi di questa” ci racconta Giulio Ferretto “ per far emergere il vero messaggio che sta dietro al conflitto, il possibile valore aggiunto che si viene a creare se riusciamo a gestirlo. Per anni Giulio e Ilaria, da genitori, si sono domandati cosa significasse davvero per loro il termine sostenibilità. Per anni tutti e due hanno lavorato con il teatro, e qui tornano le relazioni: perché non sviluppare la comunicazione come sostenibilità nelle relazioni? E perché non farla uscire dal palcoscenico del teatro per portarla nelle sale della vita quotidiana? L’idea della sostenibilità nella comunicazione è così divenuta l’essenza di Comunitazione.

I processi partecipativi: la forma più forte di mettere in relazione le persone

“Cercavamo qualcosa che ci desse la possibilità di andare a conoscere le persone e fare qualcosa insieme” racconta Ilaria Magagna “perché nel fare insieme si costruiscono relazioni che poi durano nel tempo.” Nello sviluppo dei processi partecipativi in Comunitazione Melania Bigi ha avuto un ruolo centrale: dopo un’esperienza personale in Brasile, Melania ha trasmesso a Giulio e Ilaria la metodologia dell’Oasis Game, sviluppata da Elos tra le favelas del paese allo scopo di costruire un sogno collettivo coinvolgendo le comunità ad agire per realizzarlo. L’Oasis Game si basa su sette passi (che sono tecniche sociali per creare spazi aperti di collaborazione) e su due principi fondamentali: il primo, fondamentale è la bellezza, che in questo caso sta a significare la spinta che ognuno ha dentro di se verso ciò che nutre, “è trovare la bellezza dove tendenzialmente noi non la vediamo, ma esiste. E farla uscire, si tratta di mettere in luce ciò che all’interno di uno spazio, di un quartiere, di una periferia già c’è.” spiega Ilaria “ed il secondo è il divertimento. Uno dei principi dell’Oasis Game è che se una cosa non è divertente non è sostenibile.

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Da molti anni in Italia si fanno processi partecipativi, quello che cercavamo noi era il poter trasmettere alle persone dei concetti e delle azioni non solo attraverso il canale razionale delle semplici riunioni, ma avvicinarsi a quello tramite tutta una serie di azioni che vengono dall’animazione sociale, dal gioco, che vengono molto anche dal teatro, affinché le persone possano essere protagoniste di un cambiamento delle loro vite attraverso il divertimento e lo stare insieme in maniera spontanea e creativa.” E questo processo mette in condizione le persone di vivere in un’abbondanza incredibile “che è dentro di noi e che è nostro compito riuscire a farla emergere, perché abbiamo perso la capacità di vederla ma esiste” sostiene Giulio “ci sono molteplici verità nella vita e non una assoluta ed ognuno di noi è portatore di una tessera del puzzle. Viviamo in un periodo che definiamo complesso, dobbiamo iniziare ad imparare a viverci e a gestirla questa complessità e queste tecniche ci aiutano a far emergere tutti i punti di vista e la potenzialità di ognuno di questi nella costruzione di un racconto comune. Sono tecniche stimolanti per il formarsi dell’intelligenza collettiva, che permette di trovare soluzioni creative e straordinarie alle problematiche che dobbiamo affrontare.” A Ceglie Messapica queste tecniche hanno stimolato la riqualificazione partecipata del Paese, come illustrato in questo video.

La cittadinanza attiva e la leadership condivisa

I processi e le attività di Comunitazione, per loro caratteristica, non si fermano ad un solo gruppo chiuso. Trattando di Processi Partecipativi, lo sguardo va ben oltre ad un aspetto che può essere solamente aziendale o di piccolo gruppo e si allarga al mondo della cittadinanza, dei quartieri, delle dinamiche di trasformazione e cambiamento di un Paese, ed è li che si innesca un processo di ‘economia circolare della relazione’. Spiega Ilaria che “bisogna capire che il concetto di cittadinanza attiva, di cui tanto si parla in questi anni, è un percorso da costruire e difficilmente si costruisce solo improvvisando. Stiamo osservando in questi anni che c’è bisogno di professionisti e di persone formate per gestire la partecipazione, l’inclusione, i processi relazionali e tutti i conflitti che ne derivano, affinché questi non diventino deleteri e si trasformino in ricchezza per tutti.”img_1219

Comunitazione inoltre sta cercando sin dalla sua nascita di diffondere un nuovo concetto di leadership affinché la cittadinanza attiva possa farsi realtà concreta e coerente con quello che vuole esprimere: secondo Giulio “nella nostra cultura i tempi sono maturi per poter passare da leadership piramidali a leadership condivise. Perché è nella leadership condivisa che un singolo che lavora per un progetto riesce poi a tirare fuori tutto il potenziale che porta dentro, perché questa leadership nutre il progetto stesso ed è fondamentale che questo concetto si attivi anche nei processi aziendali e associazionistici. Noi sentiamo fortemente che questo sia uno dei concetti che serve di più in questo momento.”

Le attività e la collaborazione con Italia che Cambia

Comunitazione nel corso degli anni ha collaborato (e collabora tutt’oggi) con Labsus, il laboratorio per la sussidiarietà, nella creazione del Regolamento per l’amministrazione condivisa a Mesagne, facilitando l’approvazione di alcuni patti tra l’amministrazione e i cittadini. Ha organizzato dei World Café (una tecnica che permette di raccontarsi tramite conversazioni informali)  con un’associazione che si occupa dei migranti a Grottaglie, che ha permesso a dei rifugiati politici di incontrare dei ragazzi delle scuole elementari e medie e di potersi presentare e raccontare. È impegnata nella collaborazione con un percorso di formazione per il terzo settore nel Sud Italia chiamato “Formazione Quadri del Terzo Settore”, nel quale è responsabile per la formazione in Puglia. Inoltre sta portando in Italia un progetto europeo che si chiama “Go deep” che mette insieme la versione pratica dell’idea della democrazia profonda con l’Oasis Game.

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L’incontro degli Agenti del Cambiamento di Milano

Oltre a tutto ciò, Comunitazione è parte integrante del progetto di Italia che Cambia: hanno portato la Facilitazione all’interno del team organizzatore, introducendo una serie di tecniche per gestire le relazioni tra i membri che lavorano al progetto, e seguono tutto il processo di relazione tra Italia che Cambia e i territori, facilitando gli incontri sia regionali che nazionali degli Agenti del Cambiamento. Le tecniche e l’apporto di Comunitazione è stato fondamentale per l’ottima riuscita dei documenti alla base della Visione 2040 di Italia che Cambia, nello specifico per gestire al meglio i processi comunicativi che hanno caratterizzato tutti i tavoli tematici.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2016/11/io-faccio-cosi-144-comunitazione-nelle-relazioni-la-chiave-per-cambiare-il-mondo/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Tempo di Vivere, un villaggio ecologico per costruire il futuro

Nel cuore dell’Emilia si trova Tempo di Vivere, una comunità di persone che condividono un obiettivo: costruire un nuovo modello di società che sia sostenibile, resiliente e incentrato sulle relazioni umane. Hanno affittato un terreno con un casale, organizzano corsi e laboratori e stanno creando un tessuto solidale con gli altri attori del territorio.

Un ecovillaggio, un co-living, una comune, un centro di formazione. Tempo di Vivere è tutto ciò, eppure è qualcosa di ancora diverso. È un casale vecchio e incantevole, situato su un promontorio che domina per chilometri la pianura padana. È un luogo di sperimentazione dove vengono messe in pratica nuove idee per un futuro sostenibile. Ma soprattutto, è un gruppo di persone che vuole dimostrare che è possibile vivere e crescere insieme, come individui e come comunità, per costruire un mondo migliore. Siamo andati a trovarli sulle colline modenesi per farci raccontare la loro storia.

Quella che abbiamo trovato a Tempo di Vivere è una rara miscela di spiritualità e pragmatismo. Da un lato, una piccola comunità che mette al centro la persona e le relazioni, le emozioni, le necessità, i dubbi e le speranze di ognuno. Senza giudicare, con semplicità e affetto. Dall’altra, un’iniziativa che vuole fornire strumenti concreti per costruire un nuovo modello, interagendo con il territorio e coinvolgendo i cittadini per generare una massa critica.

Il progetto, a partire dal nome, nasce da un percorso arduo e doloroso del fondatore, Antonio: «Dopo un periodo difficile della mia vita, ho avuto tanto tempo a disposizione per riflettere grazie all’ospitalità di un amico. Stando da lui ho capito il significato dell’accoglienza, del volersi bene, dell’essere accettato e ho deciso di ricreare la stessa esperienza. Il nome deriva dalla sofferenza che ho attraversato e dalla decisione che ho preso: vivere o morire? Io ho scelto di vivere».tempodivivere4-1024x589

Dopo anni di ricerche, il gruppo – che nel frattempo era diventato più folto – ha trovato la sua casa in affitto fra le colline modenesi. «Questo territorio è molto particolare, qui nacquero le prime comuni agricole», ricorda Ermanno, un altro membro di Tempo di Vivere. «C’è curiosità, molti vengono a trovarci per vedere cosa facciamo. Vogliono capire se è possibile vivere in modo sostenibile anche normalmente, senza essere “strani” o isolati, e trovare delle risposte nella propria quotidianità».

Già, perché le attività dell’ecovillaggio sono fortemente proiettate verso l’esterno: «Organizziamo molti corsi e i partecipanti arrivano da tutta Italia. Uno che abbiamo fatto recentemente e che riproporremo anche in futuro è quello per imparare a realizzare una food forest, ovvero un piccolo boschetto o giardino di piante commestibili ed erbe medicinali. Ma le tematiche degli incontri sono le più disparate: permacultura, downshifting, cucina naturale, rimedi naturali, thermocompost, autocostruzione, scollocamento e tanti altri».tempodivivere8

I workshop sono un momento importante, sia dal punto di vista relazionale che da quello pratico. Ciascun partecipante porta le proprie competenze e il proprio punto di vista, arricchendo tutto il gruppo. Inoltre, è un aiuto importante per sperimentare e realizzare opere che senza il contributo degli altri non ci sarebbero, come per esempio il forno in terra cruda o la cupola geodetica, entrambi costruiti durante dei laboratori.

Un altro degli obiettivi di Tempo di Vivere è raggiungere l’autosufficienza: «Ci autoproduciamo pane, pizza, marmellate, conserve, seitan e tutto ciò che riusciamo a fare da soli», spiega Ermanno. «Abbiamo avviato un orto sinergico, ma vogliamo sperimentare anche altre tecniche di coltivazione. Per quello che non riusciamo ad autoprodurre, abbiamo in programma di fondare un gruppo d’acquisto solidale, poiché la mole di approvvigionamenti che ci serve è ingente e non riusciremmo a entrare in uno già esistente».tempodivivere5-1024x604

L’elemento dell’accoglienza e dell’apertura verso l’esterno è ricorrente. Grazie a open days organizzati con regolarità, le persone possono visitare Tempo di Vivere e capire com’è gestito. Uno dei workshop residenziali proposti – “Vita da ecovillaggio” – consente persino di sperimentare la routine quotidiana per alcuni giorni. Poi, le braccia sono sempre aperte per chi decide di avvicinarsi ulteriormente: «Siamo incentrati sulle dinamiche emotive dell’essere umano», spiega Gabriella, che viene da un percorso professionale di facilitatrice e mediatrice. «Gli ospiti hanno la possibilità di esprimere loro stessi, con autenticità, senza giudizio, in confronto e condivisione».

Anche l’aspetto alimentare si coniuga con quello relazionale: «La gestione della cucina è complessa perché siamo tante anime diverse – vegani, vegetariani, onnivori – e ciascuna deve essere accontentata. Quello del pasto è per noi un momento molto importante: mangiamo tutti insieme per celebrare un rito comunitario, di condivisione. Ciascuno svolge la propria attività separatamente durante il giorno, ma a tavola ci ritroviamo tutti».tempodivivere1-1024x536

Antonio, Ermanno, Katia, Gabriella, Simona, i piccoli Isotta e Pietro. Ciascuno di loro si è impegnato profondamente in questo progetto, si è messo in gioco abbandonando casa e lavoro, lasciandosi alle spalle la propria vita precedente. L’obiettivo è dimostrare che è possibile costruire un nuovo modello di comunità partendo dalle relazioni e dagli affetti, fino ad arrivare all’alimentazione, all’energia, al lavoro, all’educazione e a ogni altro aspetto della vita di una persona. E tutto questo si può fare senza chiudersi in sé stessi, senza rinunciare alla socialità, ma – anzi – facendo leva sulla gioia della condivisione per contaminare positivamente chi ci sta accanto.

 

 

Visita il sito di Tempo di Vivere.

 

Visualizza la scheda di Tempo di Vivere sulla mappa dell’Italia che cambia.

 

Visualizza la Rete Italiana Villaggi Ecologici sulla mappa dell’Italia che cambia.

 

Fonte : italiachecambia.org

Quando si lavora per essere una squadra…

Cambiare lavorando insieme per trovare un sistema di valori e relazioni condiviso: non è un’utopia né un miracolo. É accaduto al seminario promosso dall’associazione Paea con Beatrice Briggs.risoluzione_conflitti

Ogni vero cambiamento richiede sempre una riorganizzazione della gerarchia dei propri valori e una rimodulazione delle dinamiche con le quali ci relazioniamo con l’esterno. Azioni importanti che dovrebbero essere affrontate con meticolosità e, se possibile, con metodo. Proprio per approfondire questo approccio si è svolto dal 6 al 12 ottobre, nella splendida cornice del Parco dell’Energia Rinnovabile e promosso dall’associazione PAEA, il corso di formazione “Costruire il cambiamento attraverso la facilitazione, il consenso e la risoluzione dei conflitti”. Docente del corso è stata Beatrice Briggs, direttrice dell’International Institute for Facilitation and change e una delle più autorevoli e referenziate facilitatrici a livello mondiale, che si dedica con entusiasmo e professionalità ai processi di facilitazione all’interno di gruppi, comunità, ecovillaggi, enti e organizzazioni di rilievo internazionale. I partecipanti erano i professionisti di PAEA, i coordinatori del PER e, soprattutto, il gruppo dei futuri soci e residenti della struttura che ha ospitato l’iniziativa. La versatilità di Beatrice, insieme all’interdisciplinarità dei contenuti offerti, ha consentito a ciascun partecipante di “captare” il valore aggiunto della facilitazione, per la sua proficua applicazione nei rispettivi campi: organizzazione interna, fluidificazione delle dinamiche relazionali, comunicazione efficace, metodo decisionale consensuale, gestione del conflitto. Grazie all’infaticabile guida di Beatrice, alle tante attività che si sono susseguite nel corso della settimana hanno partecipato attivamente tutti con entusiasmo e coinvolgimento, rivelando quanto sia importante – per chi vuole contribuire alla costruzione di un reale cambiamento sociale – non soltanto la tensione verso un obiettivo condiviso, ma anche l’efficace risoluzione di tutti quei conflitti interni che si frappongono al raggiungimento di una decisione finale efficiente, partecipata e trainante. Proprio in questo delicato ma affascinante processo di cambiamento, che parte dall’individuo per contagiare positivamente le rispettive comunità di appartenenza, è spontaneamente emerso il valore strategico della figura del facilitatore. Che, proprio come un bravo direttore d’orchestra, accompagna le idee, coordina le passioni e scandisce i tempi, contribuendo ad armonizzare i gruppi nel corso dell’intero processo decisionale. Tutti i partecipanti, accomunati dal desiderio di contribuire alla realizzazione di una benefica metamorfosi del contesto sociale, incentrata sulla sostenibilità ambientale, sul miglioramento del rapporto uomo-natura, su uno stile di vita più semplice, genuino ed autentico, si sono attivamente impegnati nella ricerca di un’efficace applicazione degli strumenti concettuali e operativi forniti da Beatrice, esercitandosi nell’ascolto, nella condivisione, nella cooperazione e nell’interazione, avendo sempre come obiettivo quello di raggiungere soluzioni partecipate e consensuali. L’armonizzazione degli obiettivi (e, in molti casi, di veri e propri ideali) di un gruppo eterogeneo di persone è un processo entusiasmante ma molto delicato, in quanto la propensione all’affermazione delle istanze individuali – pur nell’interesse del gruppo – è un rischio sempre in agguato, che può seriamente minacciare la coabitazione pacifica di un sogno condiviso. Per rinforzare la comprensione di questi strumenti partecipativi, dal 22 al 26 ottobre, presso l’ecovillaggio “Torri Superiore”, la stessa Beatrice Briggs terrà un corso avanzato di queste tecniche dal titolo “Facilitare i processi decisionali in situazioni complesse”, alla cui partecipazione invitiamo tutti coloro che, giustamente sedotti dal fascino di un cambiamento profondo e strutturale della propria esistenza, potrebbero beneficiarne per ottimizzare le energie.

Fonte: ilcambiamento.it

Guida Pratica a Facilitazione e Metodo del Consenso - Libro

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La luna al guinzaglio, a Potenza i rifiuti diventano opere d’arte

Il suo inventore, il drammaturgo Alfred Jarry, definì la patafisica come “la scienza delle soluzioni immaginarie” per problemi che non esistono. Ma se il mondo è così pieno di problemi e le soluzioni spesso scarseggiano, perché non cavalcare l’intuizione fantasiosa e dissacratoria dello scrittore francese per rendere il mondo e la società in cui viviamo un posto migliore? E perché non risolvere più problemi con una sola soluzione? È proprio questo ciò che fa La luna al guinzaglio, l’associazione che ha sede nel Salone dei Rifiutati.

Sara Stolfi e Rossana Cafarelli sono due delle sette persone che portano avanti l’attività di questa strana, intrigante e prospera realtà che affonda le sue radici nella Potenza di dieci anni fa. «La luna al guinzaglio – ricorda Rossana – è nata nel 2003 come associazione culturale, per un’esigenza pratica. Ognuno di noi, portati a termine percorsi personali di studio e formazione, si è chiesto cosa avremmo fatto “da grandi”: saremmo tornati nella nostra terra d’origine, la Basilicata, o saremmo rimasti dove eravamo? Da questa riflessione è nata l’idea di sperimentare questa formula, pensando che a partire da essa avremmo potuto inventare una nuova dinamica lavorativa, ma anche ricreare delle relazioni». Riassumere in poche parole l’attività della Luna è difficile, ma Sara e Rossana individuano tre macrotemi intorno ai quali si sviluppano le iniziative dell’associazione: «Partiamo dai problemi reali e quotidiani della gente, li facciamo passare attraverso il contenitore del Salone dei Rifiutati, che ospita oggetti considerati non più utili, e combiniamo questi due fattori in una soluzione che, come fa La luna al guinzaglio, suscita stupore e poesia». È proprio questo il processo grazie al quale sono nate le “patamacchine”.raee

«Era il 2010 quando abbiamo pensato di dare una nuova vita ad alcuni rifiuti elettronici, i cosiddetti RAEE, all’epoca oggetto di una nuova legislazione. Per sensibilizzare su questo tema, abbiamo pensato di coinvolgere la cittadinanza per riconvertire questi rifiuti in qualcosa di utile. Ispirandoci alla patafisica, abbiamo battezzato i risultati prodotti da questo esperimento “patamacchine”». Si tratta di opere interattive, tematiche, che hanno degli scopi precisi. Per esempio, il “Catalogatore di sogni” è una cassettiera che ha la capacità di immagazzinare e conservare i sogni, mentre il “Guarisci pensiero” è un dispositivo ottenuto dall’assemblaggio di vecchi aerosol, di un pedale di un organo, di una sedia, di un casco e di un tubo luminoso, che trasferisce i pensieri cattivi alla macchina per l’aerosol, la quale li assorbe e li trasforma in una nube di talco profumato al rilascio del pedale. Insieme, le patamacchine formano un set di opere capace di risolvere problemi «che abbiamo individuato interpellando direttamente le persone, le quali attraverso colloqui e questionari ci hanno parlato dei pensieri pesanti della notte, dei sonni agitati, della difficoltà di essere sempre sottovalutati, dei sogni irrealizzati, dei litigi troppo frequenti e così via».pata

L’utilità delle patamacchine è duplice: «Quando sono esposte al pubblico – racconta Sara – sono accompagnate da una doppia pannellistica, che spiega sia l’aspetto ambientale, ovvero il recupero di oggetti altrimenti destinati allo scarto, sia quello artistico, poetico e scientifico». Queste creazioni sono anche molto utili all’associazione, poiché costituiscono fonte di guadagno e di visibilità: «Le noleggiamo, partecipiamo a call di musei o a collaborazioni con amministrazioni. Per esempio, un’azienda pubblica di Novi Ligure che si occupa di acqua e politica ambientale voleva festeggiare i suoi quarant’anni di attività con una mostra che parlasse di sostenibilità, declinata però in un contesto artistico:  Museo dei Campionissimi. Le patamacchine erano l’elemento perfetto in questo senso, così gliele abbiamo affittate. Le mostre sono anche spazi didattici, dove le guide possono organizzare laboratori che permettono di approfondire il concetto di base che ha permesso di creare le opere. In questo caso il nostro pacchetto commerciale prevede anche la formazione degli operatori dei musei». In questo modo, le opere hanno calcato importanti palcoscenici in tutta Italia, dal Parco della Musica di Roma al Festival della Scienza di Genova.riciclo

L’attività della Luna al guinzaglio è più che mai eterogenea. La sua casa, il Salone di Rifiutati, inaugurato nel 2008 in una zona periferica di Potenza, ha una doppia dimensione: «Da un lato – spiega Rossana – si ispira al Salon des Refusés, storico spazio parigino di sperimentazione artistica, mentre dall’altro è un salone inteso nella sua dimensione di incontro, di luogo di socialità, di agorà. Noi pensiamo di avere a che fare non tanto con l’arte, quanto piuttosto con i processi: la nostra è l’arte della relazione».laboratorio

L’utenza è molto eterogenea e va dagli insegnanti ai ragazzi, alle mamme, ai semplici curiosi. Il filo conduttore è il lavoro sugli oggetti, ma si ritrovano sempre gli elementi della sostenibilità a trecentosessanta gradi e della sperimentazione dei linguaggi. «Quest’anno la programmazione degli eventi si è divisa in quarti di luna, per arrivare poi alla luna piena. Su base trimestrale cerchiamo di programmare cinque o sei proposte fra laboratori ed eventi serali aperti alla cittadinanza. La luna al guinzaglio è un luogo legato all’arte per creare una relazione, dove poi ognuno elabora il proprio linguaggio. E non manca mai la dimensione del quotidiano, del reale, del lavoro manuale, del rapporto diretto con l’oggetto».

Francesco Bevilacqua

Il sito di La luna al guinzaglio

Fonte: italiachecambia.org