Piantare una food forest per seminare il futuro di una comunità

Katia e Roberto vivono tra le colline reggiane e sognano di realizzare una food forest, uno spazio aperto alla comunità di cui potersi prendere cura tutti insieme. Non si tratta di un semplice progetto di rimboschimento, ma di un percorso verso l’autoproduzione nel rispetto del legame profondo che ci unisce alla natura.

Reggio EmiliaEmilia-Romagna – Come si crea una food forest? Di quali cure e manutenzione ha bisogno? La food forest – ovvero foresta commestibile – è un vero e proprio ecosistema di piante, animali, microrganismi ed esseri umani. A differenza di un orto o un campo coltivato, non richiede cure costanti o di essere seminata ogni anno. È un sistema complesso in grado di autoregolarsi, esattamente come accade per boschi e foreste, e di offrire gli stessi servizi ecosistemici oltre a un’ampia varietà di erbe officinali, piante e frutti commestibili. Alle porte di Reggio Emilia, tra le morbide pendici delle colline reggiane, Katia e Roberto sognano di piantare una grande food forest insieme ad amici, familiari e chiunque desideri dare il proprio aiuto. Dopo una vita trascorsa in città si sono trasferiti a Montalto (Vezzano sul Crostolo) per coltivare il sogno di una vita semplice, che assecondi i ritmi della campagna. Psicologa lei, professore di filosofia e counselor lui, poco più di un anno fa hanno creato l’associazione culturale “Il Passo Oltre lo Specchio”, che si occupa di ambiente, crescita personale e arte, partendo da un approccio olistico.

Su una parte del terreno alle spalle della loro abitazione hanno avviato un progetto di rimboschimento, in collaborazione con “Città di Smeraldo APS” e “Simbiosi Magazine”: «Abbiamo già messo a dimora cinquecento piante autoctone, partendo da ghiande di alberi secolari – mi raccontano – nell’ambito di “Nuove Antiche Foreste”, iniziativa che mira a ricreare aree di bosco per favorire la biodiversità e contrastare il cambiamento climatico».

Punteggiate di case sparse, sentieri e borghi abbandonati, queste colline ospitano alcuni dei più antichi boschi autoctoni di pino silvestre dell’Emilia Romagna. Qui la qualità dell’aria ha sorprendenti proprietà balsamiche, come attestato dagli ultimi rilevamenti del CNR. A lungo rimaste spopolate, le frazioni di queste pendici sono tornate a essere meta ambita per chiunque desideri una vita più semplice e lenta. Ma per ricucire questa comunità frammentata e dare nutrimento a un territorio a lungo sfruttato dalle colture intensive, occorre tempo. Per Katia e Roberto quello della food forest è un progetto ambizioso e una piccola eredità da consegnare alla comunità di oggi e a quella che verrà: «Ci piacerebbe realizzarla nel terreno alle spalle di casa nostra, ma vorremmo che sia di tutti», mi raccontano. «Uno spazio in cui i bambini possano venire a giocare, esplorare e apprendere. In cui ritrovare sé stessi, meditando, passeggiando o semplicemente sedendo sotto un albero a leggere».

Da settembre scorso, grazie a una campagna di crowdfundingKatia e Roberto hanno avviato un corso su come progettare e piantare una food forest grazie all’aiuto di Stefano Soldati, esperto di agricoltura alternativa, fondatore e primo presidente dell’Accademia Italiana di Permacultura. Fra i massimi conoscitore di foreste commestibili in Italia, Soldati lavora da circa quarant’anni come consulente per il recupero di terreni, contribuendo alla conversione al biologico di ettari ed ettari di seminativi.

«Quando si progetta una food forest (a questo è stato dedicato il primo modulo del corso, ndr), non si tratta soltanto di scegliere quali piante mettere a dimora. È importante cogliere la saggezza dell’ecosistema – racconta Roberto –, ogni albero ha i suoi tempi e le sue risorse: ci sono quelli da frutto e poi ve ne sono altri, come la robinia, ottima per la legna, perché cresce in fretta ed è in grado di nutrire il terreno, in quanto azotofissatore». All’inizio una food forest ha bisogno di cure, i giovani alberi vanno protetti perché facile preda di animali e parassiti. Con il tempo, la foresta commestibile sarà autonomamente in grado di tenere lontani i parassiti, grazie a piante apposite, fornire nutrimento per la comunità e per gli altri animali. I partecipanti del corso, guidati da Stefano Soldati e da un po’ di fantasia e intuito, si sono cimentati nella progettazione di una possibile food forest. Questa si presenta come un sistema stratificato: si va dalle piante grandi, ovvero la struttura portante della foresta, alle intermedie, dalle cespugliose fino alle specie tappezzanti e le radici. Tra le varietà si possono contare le lianose o rampicanti e quelle acquatiche. Realizzare una piccola riserva d’acqua in una food forest consente di ricreare un piccolo microclima dove verranno attratti insetti in grado di allontanare quelli dannosi, anfibi e animali selvatici, che potranno abbeverarsi. A fine novembre si è tenuta l’ultima parte del corso e sono state messe a dimora le prime piante. Katia e Roberto vorrebbero organizzare diverse attività all’interno della food forest: incontri di meditazione, mindfulness, attività con i bambini, performance artistiche. Sarà uno spazio aperto, non vi saranno confini o recinti. Tutti potranno venire a raccogliere o semplicemente trascorrervi del tempo. «In Emilia Romagna nessuno è più in grado di riconoscere le erbe spontanee. È un’abitudine che si è persa da generazione», racconta Katia. La food forest infatti nasce anche per riportare in vita tradizioni scomparse con il graduale abbandono di queste colline. Certo, ci vorrà del tempo, ma per dirla con Riccardo Ferrari, chi pianta gli alberi vive due volte, o forse molte di più.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/food-forest-colline-reggiane/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Riduzione dei rifiuti alla fonte, Trento e Reggio Emilia ci hanno provato con la GDO e il progetto NO.WA (No Waste)

Insieme alla GDO (Grande Distribuzione Organizzata), in prima fila COOP, si è provato ad “aggredire” i rifiuti alla fonte. Ecco come Trento e Reggio Emilia hanno lavorato su “No Waste”, “Spesa netta, solo l’utile della spesa”, con il contributo LIFE dell’Unione Europea, dimostrando che un ipermercato può fare 500 tonnellate di rifiuti in meno all’anno381161

C’era molto entusiasmo venerdì 21 novembre, nello splendido scenario della Sala degli Specchi del Teatro Romolo Valli di Reggio Emilia, dove la Regione Emilia Romagna, i Comuni di Reggio Emilia e Trento, i vertici di Coop e Coop Consumatori Nord-est e Ambiente Italia, hanno presentato i risultati del progetto “No Waste” “Spesa netta, solo l’utile della spesa”, una sperimentazione di 3 anni (2012-2014), avviata con il contributo LIFE dell’Unione Europea. Gli onori di casa li ha fatti il Comune di Reggio Emilia, in quanto capofila del progetto NO.WA (No Waste), rappresentato soprattutto da Mirko Tutino, Assessore Infrastrutture del territorio e Beni comuni del Comune, che è stato tra i più espliciti, nel ricordare alla platea quali siano i punti critici della gestione dei rifiuti in Italia. Secondo Tutino, il problema del conflitto d’interessi in Italia c’è anche nel settore dei rifiuti, perché “Non si può chiedere ad un’azienda di servizi ambientali, che gestisce anche un impianto di smaltimento dei rifiuti, di fare un lavoro serio sulla loro riduzione. C’è un conflitto d’interesse enorme”.  E ancora Giuseppe Bortone, Direttore Generale Ambiente della Regione Emilia Romagna: “In Italia non cambierà davvero nulla riguardo la riduzione dei rifiuti, sino a che smaltirli negli impianti costerà solo 70 euro a tonnellata. Una cifra che non considera gli altri costi collaterali il processo di smaltimento  implica”. Il progetto “NO WASTE”, invece, si è prefissato in 3 anni di ridurre davvero i rifiuti, operando alla fonte, con un modello avanzato che potrebbe già costituire un punto di riferimento a livello nazionale. NO WASTE è riuscito a coinvolgere il principale canale di emissione dei rifiuti, supermercati e ipermercati della grande distribuzione organizzata (GDO), dimostrando che si possono risparmiare in media 500 tonnellate annue di rifiuti, per un punto vendita simile agli Ipermercati Coop. Con altri numeri, tale riduzione significa avere fatto 7 kg di rifiuti in meno, ogni 1000 euro di fatturato.  I punti vendita che hanno aderito a questa sperimentazione sono stati differenti, tra Reggio Emilia (6 punti vendita) e Trento (22 punti vendita). Nella provincia emiliana, infatti, ha collaborato soprattutto la Coop, con grossi punti vendita. Conad e Sigma, gli altri marchi. Più piccoli, ma numerosi quelli del Trentino. Il piano di riduzione dei rifiuti ha compreso tutte le azioni ritenute più efficaci presso la GDO e capaci di sensibilizzare i cittadini: vendita di borse riutilizzabili, di alimenti, bevande e detersivi sfusi e ricaricabili, di stoviglie comportabili; utilizzo di confezioni e imballaggi a basso impatto ambientale, riutilizzo di bancali e cassette per ortofrutta. Come massa e peso, sembra che l’80% dei rifiuti siano proprio nelle cassette e nei bancali dell’ortofrutta.
L’importanza di No-Waste è stata proprio quella di riuscire a coinvolgere la Grande Distribuzione Organizzata, che può dare un contributo notevole alla riduzione dei rifiuti, avendo un forte potere d’acquisto nei confronti delle aziende e potendo influenzare, per esempio, le politiche di packaging.  Inoltre, No Waste ha incluso una campagna di comunicazione con “bollino di qualità” dei soggetti aderenti, che ha promosso le azioni base del processo di riduzione dei: scegli, riduci, riusa. L’altro filone del progetto LIFE “No WASTE”, avviato da Comune di Reggio Emilia, città di Trento, Ambiente Italia srl, Reggio Children e Coop Consumatori Nordest, è stato progettare un centro del riuso che recuperi l’invenduto non alimentare dei punti vendita e i beni dimessi dai cittadini, prima che finiscano nei centri di raccolta dei rifiuti urbani. Grazie anche alla collaborazione di Iren e del Comune di Piacenza, è stato realizzato lo studio di fattibilità per la realizzazione del Centro.

Fonte: ecodallecitta.it

Pronti a rivedere il Codice della Strada con maggiore attenzione ai ciclisti

Al MIT Ministero per le infrastrutture e trasporti sono pronti a rivedere il Codice della strada in favore di ciclisti e pedoni dopo il boom di vendite di biciclette del 2012179564740-594x350

Ha detto il Sottosegretario al MIT Erasmo D’Angelis, stamane durante la conferenza stampa di presentazione dei dati sulla sicurezza stradale per i ciclisti:

Il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti è pertanto pronto a rivedere il Codice della Strada, con un’attenzione particolare per pedoni e Ciclisti.

Alla conferenza stampa oltre al Sottosegretario D’Angelis erano presenti il Direttore Generale per la Sicurezza Stradale Sergio Dondolini, l’assessore alla Mobilità del Comune di Firenze Filippo Bonaccorsi, il responsabile nazionale sicurezza di Fiab (Federazione Italiana Amici della Bicicletta) Edoardo Galatola, Paolo Pinzuti di Salva i Ciclisti e Alberto Fiorillo di Rete Mobilità Nuova – Legambiente a pochi giorni dai Mondiali di Ciclismo che si terranno in Toscana e a cui il MIT prenderà parte con iniziative dedicate proprio alla sicurezza dei ciclisti.

Sia nel 2011 e sia nel 2012 sono state vendite più biciclette: 1.748.000 contro la vendita di 1.450.000 di auto e i ciclisti rappresentano il 9% delle persone che si muovono in strada.

Ha detto de Angelis:

La voglia di mobilità nuova va sostenuta e incentivata. Spesso guardiamo al Nord Europa per trovare buone pratiche nel settore della mobilità ciclabile, ma in realtà il nostro Paese già propone molti esempi da copiare, come Bolzano, Reggio Emilia, Ferrara, città nelle quali un abitante su tre già oggi usa la bicicletta.

Fonte:  Siciliaway