L’Italia e le emissioni di gas serra: buone notizie per il futuro, anche se l’Italia non ha raggiunto gli obiettivi di Kyoto

Il mancato raggiungimento degli obiettivi di Kyoto da parte dell’Italia continua ad essere ignorato e sottovalutato. Sebbene formalmente raggiunto l’obiettivo a livello globale, le sue poco lungimiranti aspettative – in attesa di impegni più sostanziosi che si spera di ottenere alla conferenza di Parigi di fine anno – sono sotto gli occhi di tutti: lo dimostra quanto sta accadendo in fatto di sconvolgimenti climatici. E l’Italia, seppur fautrice di un taglio alle emissioni, è ancora lontana dagli obiettivi.kyoto

Come ogni anno, puntualmente come se fosse il 25 dicembre per il Natale o il 15 agosto per il Ferragosto, in occasione della ricorrenza dell’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto (16 Febbraio), appaiono articoli sulla stampa nazionale che fanno riferimento a questo importante evento. A dire il vero, sono sempre di meno questi articoli, come se l’emergenza climatica non ci riguardasse da vicino e le conseguenze degli impatti del cambiamento climatico fossero lontane dal verificarsi; sappiamo invece che non è così e ogni giorno sperimentiamo sulla nostra pelle tali conseguenze, a volte devastanti in alcune aree del nostro pianeta. Ma tornando alla ricorrenza, si fa riferimento, ancora una volta, ad un articolo pubblicato su Repubblica.it dal titolo “Gas serra, l’Italia li ha tagliati del 20%”. Nell’articolo si riportano i dati relativi alle emissioni nazionali dell’anno 2014 e – correttamente – si rileva come tali emissioni siano notevolmente diminuite rispetto al 1990 (20%), ma anche rispetto all’anno precedente (6-7%). Facendo direttamente riferimento all’accordo di Kyoto che assegnava all’Italia un obiettivo di riduzione delle emissioni del 6,5% entro il 2012, l’articolo ha però dimenticato di ricordare che il nostro Paese al momento non risulta in linea con gli impegni presi. Sulla base delle più recenti valutazioni, il gap che l’Italia deve ancora colmare per raggiungere il proprio obiettivo di Kyoto è di circa 20 MtCO2 equivalente. Quindi, ben vengano le buone notizie sulla riduzione delle emissioni dell’Italia nel periodo post-Kyoto – peraltro utili per l’impegno che il nostro paese ha assunto in sede europea nell’ambito della politica climatico-energetica al 2030 – ma altra cosa è far finta di non sapere o dimenticare la grave inadempienza del nostro Paese nei riguardi del Protocollo di Kyoto. Cogliamo quindi l’occasione per mantenere alta l’attenzione dei lettori de “Il Cambiamento” e anche del governo nazionale affinché possa presto affrontare questo problema ed evitare di incorrere nelle sanzioni previste. In primavera sarà pubblicato un articolo su Nimbus, la rivista scientifica di meteorologia, clima e ghiacciai della Società Meteorologica Italiana (SMI) nel quale saranno presentati nel dettaglio i dati (tratti dalle fonti ufficiali) relativi alle emissioni nazionali di gas serra e la situazione del nostro Paese nei confronti del Protocollo di Kyoto; non mancheremo di informare i lettori de “Il Cambiamento” di questa uscita.

Fonte: ilcambiamento.it

Protocollo di Kyoto: che cos’è

Sono passati diciassette anni dalla firma del protocollo di Kyoto, il principale strumento messo in atto dalle Nazioni Unite per limitare i cambiamenti climatici. Fra pochi giorni saranno trascorsi diciassette anni dall’11 dicembre 1997, il giorno in cui 180 Paesi, in occasione della Conferenza COP3 della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, firmarono il protocollo di Kyoto, il principale trattato internazionale in materia ambientale riguardante i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale. Ci vollero più di sette anni perché, in seguito alla ratifica da parte della Russia, il trattato entrasse in vigore il 16 febbraio 2005. Il trattato – il cui protocollo è stato prolungato sino al 2020, otto anni in più della scadenza fissata al 2012 – prevede l’obbligo di operare una riduzione delle emissioni di elementi inquinanti quali il biossido di carbonio, il metano, l’ossido di azoto, gli idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo in una misura non inferiore all’8% rispetto alle emissioni registrate nel 1990 nel periodo 2008-2013. La condizione affinché il trattato potesse entrare in vigore era che le nazioni firmatarie fossero almeno 55 e che contribuissero al 55% delle emissioni inquinanti: come anticipato in precedenza solamente grazie alla firma della Russia nel novembre 2004 si è potuto far entrare in vigore il trattato. A oggi, a diciassette anni dalla stesura e a dieci dall’entrata in vigore sono 191 i Paesi che hanno ratificato il protocollo. Il protocollo prevede meccanismi flessibili con i quali i Paesi aderenti possono acquisire crediti: con il Clean Development Mechanism e il Joint Implementation i Paesi industrializzati possono realizzare progetti, nei Paesi in via di sviluppo o in altri Paesi aderenti, atti a produrre benefici ambientali in termini di riduzione dei gas-serra e a far acquisire crediti spendibili autonomamente o insieme ai Paesi partner. Con l’Emission Trading i Paesi industrializzati e quelli a economia in transizione possono scambiarsi i crediti. I Paesi in via di sviluppo non sono stati invitati a ridurre le loro emissioni. Fra i Paesi che avevano firmato il protocollo nel 1997 una delle ratifiche più tardive è stata quella dell’Australia avvenuta solamente il 2 dicembre 2007. Per quanto riguarda l’Italia, il 16 marzo 2012 il ministro dell’ambiente del Governo Monti,Corrado Clini, ha stanziato un Fondo rotativo per Kyoto da 600 milioni di euro per finanziare, attraverso tassi agevolati di interesse, le energie rinnovabili, gli interventi atti a potenziare l’efficienza energetica e le tecnologie di cogenerazione e trigenerazione. Gli Stati Uniti, responsabili del 36,2% delle emissioni mondiali di biossido di carbonio, non hanno mai firmato il Protocollo di Kyoto.Fracking In California Under Spotlight As Some Local Municipalities Issue Bans

© Foto Getty Images

Fonte: ecoblog.it

L’Italia e il Protocollo di Kyoto: vietato dire la verità?

Il Cambiamento ha fornito di recente dati precisi, una visione puntuale e rigorosa sulla situazione del nostro Paese nei riguardi del Protocollo di Kyoto. Oggi torniamo sull’argomento per denunciare come nella stampa italiana continuino ad essere divulgati dati che, seppur corretti, vengono posti in contesti sbagliati generando confusione nel lettore e, ancor peggio, fornendo rassicurazione su un tema che prima o poi ci riguarderà tutti: le conseguenze del ritardo dell’Italia nel raggiungimento degli obiettivi assunti nell’ambito del protocollo di Kyoto.

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Il Cambiamento ha fornito di recente dati precisi, una visione puntuale e rigorosa sulla situazione del nostro Paese nei riguardi del Protocollo di Kyoto. Oggi torniamo sull’argomento per denunciare come nella stampa italiana  continuino ad essere divulgati dati che, seppur corretti, vengono posti in contesti sbagliati generando confusione nel lettore e, ancor peggio, fornendo rassicurazione su un tema che prima o poi ci riguarderà tutti: le conseguenze del ritardo dell’Italia nel raggiungimento degli obiettivi assunti nell’ambito del protocollo di Kyoto.

Punto primo:  per valutare lo stato dell’arte degli obiettivi raggiunti dal nostro Paese nell’ambito di trattati internazionali esistono formali istituzioni che hanno il preciso compito di monitorare e verificare la rispondenza tra gli impegni assunti e i risultati raggiunti. Nel caso del protocollo di Kyoto, abbiamo il segretariato della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (UNFCCC) e, a livello europeo, la Commissione europea che ha il compito di verificare che ogni Stato membro sia in linea con i propri obiettivi ed eventualmente sollecitare azioni di stimolo per ripianare situazioni a rischio.

Punto secondo:  la pubblicazione nell’ottobre 2013 del Rapporto “Trends and projections in Europe 2013 – Tracking progress towards Europe’s climate and energy targets until 2020” da parte dell’EEA (Agenzia Europea per l’Ambiente), e sintetizzato nell’articolo pubblicato a gennaio su “Il Cambiamento” può rappresentarsi come uno “stimolo” per il nostro Paese a ripianare una situazione di deficit certificata al momento dalle istituzioni europee.
Ma cosa è accaduto in Italia a seguito della pubblicazione del Rapporto EEA? Si è aperto un dibattito all’interno dei ministeri responsabili del raggiungimento dell’obiettivo di Kyoto da parte dell’Italia? Si è aperta una discussione tra i think-tank nazionali che seguono questo tema al fine di suggerire all’Italia eventuali strategie da affrontare? Oppure ci si è indignati per i dati riportati dalle istituzioni europee, se si ritiene che essi siano palesemente sbagliati? Nulla di tutto questo. Non sembra che alcuna testata giornalistica a livello nazionale abbia riportato i dati pubblicati nel Rapporto EEA. Invece, in data 13 febbraio 2014 è uscito su La Repubblica (versione on-line) un articolo che, in linea con quelli pubblicati in passato dalla stessa testata,  proclama: “Gas serra, l’Italia centra l’obiettivo del protocollo di Kyoto. Il nostro paese ha ridotto le emissioni del 25% tra il 2005 e il 2013, centrando gli impegni dell’accordo siglato in Giappone e andando oltre i target al 2020 previsti dal pacchetto clima-energia dell’Unione europea”.  Queste tre righe contengono una serie di errori, che vengono di seguito analizzati. Innanzitutto, l’affermazione “Gas serra, l’Italia centra l’obiettivo del protocollo di Kyoto” viene legata all’analisi delle emissioni di gas serra tra il 2005 e il 2013. Ma il protocollo di Kyoto ha come orizzonte temporale il quinquennio 2008-2012 e il raggiungimento degli obiettivi assunti (-6,5% delle emissioni rispetto al 1990) lo si deve commisurare a quel periodo e non ad anni successivi al 2012. Aver “ridotto le emissioni del 25% tra il 2005 e il 2013” rappresenta certamente una buona notizia, ma non e’ affatto collegata con il raggiungimento degli obiettivi di Kyoto.Tutto il periodo post-2012 (post-Kyoto quindi) è riferibile, almeno per quanto riguarda l’Unione europea, al pacchetto “Clima ed Energia”, cioè alle politiche e misure che l’Ue ha adottato unilateralmente fino al 2020. Almeno fino a che non sapremo cosa si deciderà alla Conferenza sul Clima che si svolgerà nel 2015 a Parigi ove si auspica il raggiungimento di un accordo globale che sarà quello che idealmente si potrà definire il prosieguo del protocollo di Kyoto. Affermando che si è andati  “.. oltre i target al 2020 previsti dal pacchetto clima-energia dell’Unione europea”, si lascia intendere che l’Italia ha già raggiunto i propri obiettivi del 2020 con sette anni di anticipo. Stiamo parlando del pacchetto “Clima-Energia” al 2020; il protocollo di Kyoto non ha nulla a che vedere con i target al 2020. Prendiamo come buon augurio questa ultima considerazione ma ricordiamoci sempre: se gli obiettivi prefissati vengono raggiunti troppo facilmente e troppo in fretta significa che chi li ha definiti ed assunti non si rendeva minimamente conto delle potenzialità del nostro Paese. Per concludere,  qual e’ il rapporto esistente tra questi dati come descritti  nell’articolo su la Repubblica e quelli forniti dalle fonti ufficiali? E, soprattutto,  a chi giova non dire la verità sulla situazione dell’Italia nei riguardi del protocollo di Kyoto?

Fonte: il cambiamento

Le Città Contro l'Effetto Serra
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Al C40 di Johannesburg Pisapia propone un Protocollo contro lo spreco alimentare

C40 di Johannesburg, le città del Climate Leadership Group: Milano propone una Food Policy contro gli sprechi alimentari da firmare per Expo. L’auspicio di Pisapia: “Come il protocollo di Kyoto è stato riferimento per le politiche ambientali, quello di Milano potrà esserlo per cibo sano e lotta agli sprechi”378075

Milano come Kyoto passando dall’ambiente all’alimentazione. Giuliano Pisapia, intervenendo alla sessione plenaria del C40 Cities Mayors Summit di Johannesburg, ha proposto di lavorare insieme alla presentazione di una food policy per Milano, oltre a una partnership con altri sindaci delle città del Nord e del Sud del mondo per le politiche del cibo sano. Un vero e proprio “Protocollo Milano” con obiettivi chiari e definiti da raggiungere nel medio periodo, da firmare nel corso di Expo 2015.

 “Un piano di azione locale – ha detto il Sindaco Pisapia – interamente dedicato al tema del cibo, una vera e propria food policy, di cui ad esempio si sono dotate Londra e altre città, per essere più sostenibile e competitiva. Sono convinto che questo tema, cruciale per il pianeta e al centro del dibattito di Expo 2015, sia strettamente collegato alla lotta ai cambiamenti climatici, pericolosi per le persone e per il mondo intero. La produzione, la trasformazione e la distribuzione del cibo, insieme allo spreco delle risorse alimentari, riguardano da vicino il futuro di tutti noi. Vorrei coinvolgere tutte le città presenti a Johannesburg, molto sensibili su questo tema. Milano, in questo anno che ci separa dall’Esposizione Universale, lavorerà alla sua Food Policy, strumento utile per delineare la visione per il futuro del suo sistema alimentare urbano. Expo 2015 ci offre una grande occasione per pianificare il futuro anche nel campo dell’alimentazione sana ed equilibrata. Che non significa tristi rinunce, ma vere e proprie opportunità per uno sviluppo alternativo, con ricadute non solo sul piano della salute, ma anche economico e sociale. Laddove gli Stati non riescono a raggiungere i risultati, le sinergie tra le città possono invece vincere le sfide che ci troviamo ad affrontare”.

Il C40 Cities è la rete di città – nata sotto la guida di Micheal Bloomberg e ora presieduta dal Sindaco di Rio de Janeiro Eduardo da Costa Paes – impegnate nella riduzione delle emissioni di gas, causa principale dei cambiamenti climatici.
Milano ha anche aderito al Patto dei Sindaci, lanciato dalla Commissione Europea, con l’impegno a ridurre le emissioni di anidride carbonica di almeno il 20% entro il 2020.

“Milano, come tutte le città che aderiscono al C40, gioca un ruolo da protagonista in quello che è stato chiamato il ‘Secolo Urbano’. Condividiamo proprio il senso di questa missione e siamo impegnati a raggiungere obiettivi importanti per i nostri cittadini in tutti i settori. Penso ad esempio al grande aumento degli appartamenti collegati al teleriscaldamento che nel 2013 sono cresciuti del 9,4%”, ha concluso Pisapia.

 

Fonte: ecodallecittà

Protocollo di Kyoto: l’Italia lontana dall’obiettivo

E’ difficile trovare sulla stampa nazionale informazioni aggiornate su quello che può essere considerato il trattato ambientale più famoso al mondo: il protocollo di Kyoto. E da sapere c’è che l’Italia è ben lontana dall’obiettivo.kyoto20

E’ difficile trovare sulla stampa nazionale informazioni aggiornate su quello che può essere considerato il trattato ambientale più famoso al mondo: il protocollo di Kyoto. Che, seppur con i suoi limiti, costituì nel lontano 1997 quando fu siglato (poi entrato in vigore nel 2005) il primo tentativo riuscito di limitare e regolare le emissioni di gas serra a livello internazionale. In Italia si parla di esso e dei tentativi di proseguire la sua azione (in effetti il protocollo di Kyoto si è concluso nella sua prima fase 2008-2012) solo in occasione delle conferenze annuali sul Clima delle Nazioni Unite (UNFCCC) oppure sulle riviste specializzate di settore. Quasi mai si porta all’attenzione dell’opinione pubblica la situazione reale del nostro Paese nei confronti di questo importante impegno assunto. I temi che il protocollo di Kyoto tratta (energie rinnovabili, efficienza energetica, risparmio energetico, ecc.) dovrebbero in effetti diventare l’asse portante della politica economico-industriale del nostro Paese e non relegarli ad un ruolo marginale se non addirittura oggetto di critiche e attacchi per lasciare spazio ai soliti sostenitori delle fonti fossili di energia. L’occasione di portare questo tema all’attenzione dei lettori de “Il Cambiamento” è particolarmente interessante poiché chi scrive è fermamente convinto che “il cambiamento”- quello vero – si avrà solo quando un qualsiasi obiettivo verrà perseguito sulla base di un’analisi corretta dei dati di partenza e scevra da pregiudizi e/o interessi parziali.

Cos’è il protocollo di Kyoto

Iniziamo con il ricordare cosa è il Protocollo di Kyoto: un trattato internazionale nel quale i Paesi industrializzati (tranne alcune eccezioni come gli Stati Uniti d’America che si sono ritirati) si sono impegnati a ridurre le proprie emissioni di gas ad effetto serra, in particolare l’anidride carbonica. Il primo periodo di impegno del Protocollo è il quinquennio 2008-2012 e, su tale periodo, si verificheranno i risultati raggiunti. A livello globale la riduzione delle emissioni è stata fissata a circa il 5% rispetto all’anno di riferimento (1990), come media di impegni differenziati tra i vari Paesi o gruppi di Paesi. Ad esempio, l’Unione europea ha aderito a suo tempo con un impegno di riduzione dell’8% rispetto al 1990 e, al suo interno, i Paesi membri dell’Unione si sono suddivisi tale impegno sulla base di alcuni criteri e, ad esempio, per l’Italia la percentuale di riduzione è stata fissata al 6,5%, sempre rispetto al 1990. Agli altri Paesi entrati nell’Unione europea dopo il 1997 (a parte Cipro e Malta), con in aggiunta l’Islanda, il Liechtenstein, la Norvegia e la Svizzera,  sono stati assegnati obiettivi individuali di limitazione e riduzione delle emissioni di gas climalteranti nell’ambito del Protocollo di Kyoto. Questi livelli di riduzione delle emissioni sono assolutamente insufficienti a contrastare i cambiamenti climatici in atto, tanto è vero che gli esperti dell’IPCC (il Panel Intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) non si stancano mai di ricordarci che sarebbe necessario un taglio delle emissioni del 80-90% entro il 2050 al fine di cercare di mantenere sotto un livello di guardia l’aumento della temperatura media del pianeta. In questo senso il protocollo di Kyoto andava visto come un primo passo nella giusta direzione. L’azione dell’Unione europea può considerarsi utile in quanto già unilateralmente ha deciso di ridurre le proprie emissioni del 20% entro il 2020 (Pacchetto Clima-Energia) e sta discutendo adesso di innalzare tale livello di riduzione al 30% entro il 2030. Ovviamente, all’interno dell’Unione europea non tutti i Paesi si comportano allo stesso modo ed anche in questa occasione sui limiti da introdurre per il 2030 ci sono paesi più “lungimiranti” che vedono nell’innalzamento dei limiti di riduzione delle emissioni anche un’opportunità economico-industriale per promuovere tecnologie che utilizzano fonti rinnovabili di energia o che facilitano l’efficienza e il risparmio energetico ed altri Paesi “meno lungimiranti” che dietro il falso problema del contenimento dei costi continuano a sostenere politiche energetiche di vecchio stampo. Arriviamo alla questione dei risultati conseguiti dai vari Paesi europei nell’ambito del Protocollo. Ogni anno l’Agenzia europea per l’ambiente (Aea) fornisce un quadro esaustivo sui progressi dell’Europa nel  raggiungimento dei propri  obiettivi  di politica energetica.  Di recente è stata pubblicata l’edizione 2013 del rapporto “Trends and projections in Europe 2013 – Tracking progress towards Europe’s climate and energy targets until 2020” che qui viene presentato in forma sintetica, limitatamente agli obiettivi assunti nell’ambito del Protocollo di Kyoto (2008-2012), con una particolare attenzione alla situazione dell’Italia.

L’attuazione del Protocollo di Kyoto

Con la pubblicazione delle ultime stime delle emissioni di gas climalteranti da parte dell’Aea e di 18 Stati membri, si rendono disponibili, per la prima volta, i dati completi sulle emissioni di gas climalteranti inerenti il primo periodo di impegno  del Protocollo di Kyoto (2008-2012). Questi dati permettono una più accurata valutazione – rispetto a quanto fatto negli anni precedenti – dei due grandi settori nei quali il Protocollo di Kyoto può essere idealmente suddiviso: quello del Sistema di Emissions Trading (ETS) che riguarda i grandi impianti industriali e quello degli altri settori diversi dall’ETS, cosiddetti non-ETS che riguarda settori molto importanti quali il residenziale, i trasporti, il terziario, l’agricoltura, i rifiuti. Come termine di paragone, a livello europeo le emissioni derivanti dai settori non-ETS sono circa il 60% del totale (il restante 40% dal settore ETS); nonostante ciò, nel primo periodo di impegno del Protocollo è stata data massima attenzione al settore ETS (con norme ben definite e vincolanti), lasciando le azioni nei settori non-ETS al buon cuore e alla lungimiranza degli amministratori locali, visto che nei settori non-ETS sono particolarmente coinvolti gli Enti locali e regionali. Nella fase post-2012 qualcosa è cambiato in Europa; con il pacchetto Clima-Energia al 2020 i settori non-ETS assumono un ruolo diverso, più importante, ma ne parleremo in un successivo articolo. Qui ci concentriamo sul primo periodo di impegno  del Protocollo di Kyoto (2008-2012). Senza entrare in un linguaggio prettamente tecnico, e semplificando al massimo, gli obiettivi di riduzione delle emissioni assunti dai Paesi corrispondono a permessi di emissione che non devono essere superati dai singoli Stati per il periodo 2008-2012. Per raggiungere i propri  obiettivi, i Paesi devono quindi bilanciare le proprie emissioni con la quantità dei permessi a loro disposizione.  Tale equilibrio può essere raggiunto limitando o riducendo le proprie emissioni a livello nazionale (ad esempio con programmi ed azioni che comportino un maggior ricorso alle energie rinnovabili o ad una maggiore efficienza energetica) ed aumentando la capacità di assorbimento dell’anidride carbonica da parte degli ecosistemi agro-forestali (carbon sink), in particolare attraverso la cosiddetta gestione forestale. Ma anche attraverso l’utilizzo dei cosiddetti meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto che permettono l’acquisto di permessi di emissione da altri Paesi, sia industrializzati che in via di sviluppo, confermando quella flessibilità insita nel Protocollo che permette di andare ad investire in Paesi ove i costi sono minori e ricavandone, tra i benefici, anche quello di avere a disposizione permessi di emissione più a buon mercato.
Lo schema ETS comunitario per raggiungere  gli obiettivi di Kyoto

Lo schema ETS fu introdotto per aiutare gli Stati membri a raggiungere i propri obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto e, al contempo, raggiungere i livelli di riduzione delle emissioni nella maniera più efficiente ed economica possibile direttamente presso le fonti di inquinamento (impianti industriali emissivi di una certa dimensione). I partecipanti allo schema ETS sono obbligati (pena una sanzione economica)  a bilanciare le proprie emissioni con la quantità di permessi di emissione a loro disposizione assegnata sulla base di alcuni parametri. Coloro che si trovano in una situazione di deficit  possono acquistarne da coloro che ne dispongono in surplus oppure fare ricorso, in misura limitata, ai permessi di emissioni derivanti dai meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto di cui si è accennato sopra. Lo schema ETS riguarda le emissioni di CO2 provenienti dal settore energetico, così come la maggior parte di quelle provenienti dagli impianti industriali (centrali termiche ed altri impianti di combustione, raffinerie, ecc.). Durante questo secondo periodo di trading nell’ambito dell’ETS, coincidente con il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto, sono state circa 11.500 le installazioni coinvolte in trenta diversi paesi (i 27 dell’Ue, Islanda, Liechtenstein e Norvegia). Nel loro insieme, questi impianti hanno prodotto circa 1,9 miliardi di tonnellate di CO2 in media all’anno, che equivale a circa il 41% delle emissioni di gas serra dell’Ue. Le emissioni di CO2 prodotte dal trasporto aereo sono state incluse nell’ETS solo a partire dal 2012. Le emissioni nel periodo 2008-2012 sono state influenzate da una serie di fattori, quali le variazioni del mix di combustibile nella produzione di elettricità, che ha rilevato un maggior ricorso al gas, un maggior utilizzo di fonti rinnovabili e una minore produzione nei settori industriali causata dalla crisi economica. Una serie di azioni, tra le quali anche gli effetti della crisi economica, ha provocato un surplus di circa 1,8 miliardi di permessi di emissione. Le emissioni derivanti dai settori ETS si sono quindi ridotte al di sotto dei tetti massimi consentiti nella maggior parte degli Stati membri, mentre il raggiungimento degli obiettivi fissati per il settore non-ETS è apparso più difficile. La crisi ha avuto un maggiore impatto sulle emissioni nel sistema ETS in quanto i settori coinvolti erano più fortemente legati all’attività economica.  La recessione,  non prevista al tempo in cui furono stabiliti i tetti dell’ETS per il 2008-2012, ha fatto calare le emissioni nel comparto ETS più che in altri settori.

L’Ue in linea con gli obiettivi ma l’Italia arranca

L’obiettivo di riduzione delle emissioni dell’8% – rispetto al 1990 – nel periodo 2008-2012 sarà rispettato dall’Ue-15. La riduzione media è stata del 12,2% e, in termini quantitativi, si è superato l’obiettivo di circa 236 MtCO2 annue. Anche nel settore non-ETS le emissioni si sono ridotte, superando l’obiettivo di circa 95 MtCO2 annue. Per quanto riguarda i carbon sink (assorbimenti da attività agro-forestali), si stima (analisi svolta sui dati 2008-2011) un contributo pari a 64 MtCO2 annue.  L’utilizzo dei meccanismi flessibili per  nove Stati membri dell’Ue-15 è stimato essere pari ad un’ulteriore disponibilità di 81 MtCO2 annue. Di questi nove Stati membri, otto hanno presentato informazioni circostanziate sull’allocazione delle risorse finanziarie da utilizzare, pari a circa 2,3 miliardi di euro nel quinquennio di riferimento. L’unico Paese che non ha presentato informazioni chiare sulla disponibilità delle risorse finanziarie da utilizzare è l’Italia che, insieme al Lussemburgo, sono gli unici Paesi ove il prospettato utilizzo dei meccanismi flessibili, come attualmente riportato, non sarà comunque sufficiente per colmare il gap rilevato. Quasi tutti i Paesi europei con un obiettivo individuale di riduzione o limitazione delle emissioni di gas serra nell’ambito del protocollo di Kyoto (26 Stati membri dell’Ue, Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera) risultano in linea nel raggiungimento dei propri obiettivi, migliorando quindi la situazione rispetto alle valutazioni fatte negli anni precedenti. Sei Stati membri dell’Ue-15 (Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Svezia e Regno Unito), tutti gli undici paesi dell’Ue-13 (quelli che hanno aderito all’Ue dopo il 2004) con un obiettivo quantificato nell’ambito del Protocollo di Kyoto, insieme a Islanda e Norvegia risultano in linea per il raggiungimento dei propri obiettivi di riduzione attraverso l’utilizzo di sole attività domestiche. Se si prendono in considerazioni anche le attività carbon sink, altri tre paesi dell’Ue-15 (Irlanda, Portogallo e Slovenia) risultano in linea nei rispettivi obiettivi da raggiungere. Per raggiungere i propri obiettivi, nove Stati membri  e il Liechtenstein avevano originariamente dato maggiore enfasi nella riduzione delle emissioni nei settori non-ETS (con il 2005 come anno base di riferimento), ove le azioni  per ridurre le emissioni domestiche sono in generale più costose rispetto ai settori ETS. Entro la fine del primo periodo di impegno (e tenendo conto degli effetti delle attività carbon sink dichiarate), risulta ancora da colmare un divario nel settore non-ETS per l’Austria, il Belgio, la Danimarca, il Liechtenstein, l’Italia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, la Spagna e la Svizzera. Tutti questi paesi, visto che eventuali surplus nei settori ETS non possono essere utilizzati per compensare i ritardi nei settori non-ETS, dovranno necessariamente colmare il divario con il ricorso ai meccanismi flessibili. Tra questi,  il Belgio, l’Italia, il Liechtenstein, l’Olanda e la Svizzera dovranno anche acquistare permessi di emissione dal mercato internazionale per raggiungere i rispettivi obiettivi nazionali.
Austria, Liechtenstein, Lussemburgo e Spagna  sono i paesi che registrano i gap più elevati, che intendono colmare acquistando significative quantità (tra il 13 e il 20% delle proprie emissioni) di permessi di emissione a livello nazionale, paragonate ad una media dell’1,9% per l’Ue-15. Tra questi paesi, l’Italia, il Lussemburgo e la Spagna sono quelli che risaltano maggiormente a causa delle loro specifiche peculiarità. Nelle analisi degli anni precedenti, l’Italia viene considerato un paese sostanzialmente non in linea con il proprio obiettivo di riduzione delle emissioni, principalmente a causa del fatto che non ha fornito adeguate informazioni sulle proprie intenzioni di utilizzo dei meccanismi flessibili. Nel 2012 la media delle emissioni nazionali nei settori non-ETS è stata più alta, rispetto al corrispondente obiettivo da raggiungere, di circa 22,5 MtCO2/anno. Questo divario non è attualmente compensato dagli assorbimenti attesi dalle attività agro-forestali (che risultano essere di una quantità inferiore, 16,8 MtCO2/anno, sempreché si riuscirà a contabilizzare pienamente questo potenziale visto che si sono perse le tracce del Registro nazionale dei serbatoi di carbonio) e dalla quantità di permessi di emissione che il governo italiano ha previsto di contabilizzare nell’ambito dei meccanismi flessibili (2 MtCO2/anno). Tutto ciò porta l’Italia ad un gap annuale di 3,7 MtCO2/anno, che nel quinquennio di riferimento assomma in totale a 18,5 MtCO2. In termini monetari stiamo parlano di circa 90 milioni di euro, che potrebbero aumentare viste le fluttuazioni sul mercato della tonnellata di CO2, parametro di riferimento per i permessi di riduzione. Al momento non si sa come l’Italia farà fronte a questo “acquisto” sul mercato internazionale in quanto in nessuna delle ultime Leggi di Stabilità (Leggi Finanziarie) è stato mai fatto riferimento a tale impegno assunto dall’Italia. Sulla base dell’ultimo Piano nazionale per la riduzione delle emissioni di gas climalteranti approvato dal Comitato interministeriale per la pianificazione economica (delibera CIPE n. 17/2013 dell’8 Marzo 2013), entro il 30 Novembre 2013 il Ministero dell’Ambiente italiano avrebbe dovuto trasmettere al CIPE le possibili opzioni per raggiungere l’obiettivo di Kyoto con particolare riferimento al portafoglio di AAUs/ERUs/CERs, cioè le diverse tipologie di permessi di emissione insiti nel protocollo di Kyoto – di cui non è oggetto di questo articolo analizzarne il dettaglio – con le relative risorse finanziarie necessarie per il loro acquisto. Molti sono dell’opinione che tali acquisti si sarebbero potuti evitare, magari investendo la stessa quantità di risorse in progetti a livello nazionale; ma non adesso durante il biennio 2014-2015 al fine di rientrare nei parametri di Kyoto (sempreché si trovi la copertura finanziaria), ciò andava fatto ben prima, magari con una pianificazione ed una strategia sui cambiamenti climatici più concreta e mirata. Ma al di là di questo, visto che ormai, purtroppo, non sembrano esserci altre alternative, rimane anche il fatto, come sottolinea il Rapporto dell’Aea, che ancora non si sa come il governo italiano intenda finanziare tale operazione di acquisto. Nell’ambito dei settori ETS l’Italia ha deciso di ridurre le proprie emissioni di 30 MtCO2 rispetto ai livelli del 2005, pari a una diminuzione del 13%. Ciò ha comportato un ammontare delle emissioni permesse di 281 MtCO2/anno, che corrisponde ad una riduzione necessaria di 61 MtCO2/anno rispetto al 2005 (-18%) nei settori non-ETS. Le riduzioni effettivamente raggiunte sono state 39 MtCO2 in entrambi i settori (ETS e non-Ets). Ciò ha creato un surplus di 9 MtCO2 nel settore ETS e un gap di 23 MtCO2 in quello non-ETS. In definitiva, l’ammontare dei crediti necessari per il nostro Paese per risultare in linea con gli obiettivi di Kyoto rappresenterebbe solo l’1,1% delle emissioni nell’anno base (1990) ma, nonostante ciò, come già ricordato, l’Italia rimane l’unico tra gli Stati membri dell’Ue-15 che intendono utilizzare i meccanismi flessibili a non aver fornito alcuna informazione sulla quantità di permessi di emissione che intende acquistare, né sulle risorse finanziarie stanziate per tale scopo.

Fonte: il cambiamento

Efficienza, emissioni e rinnovabili al 2020: come sta andando l’Europa?

L’Agenzia Europea per l’Ambiente ha pubblicato un bilancio degli obiettivi UE al 2020 in materia di emissioni, rinnovabili ed efficienza energetica. Se l’Europa lotta ancora per raggiungere i primi due target, il terzo sembra sempre più lontano dalla possibile attuazione. E l’Italia non è da meno

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Salvo sorprese, l’Europa non riuscirà a centrare gli obiettivi di efficienza energetica previsti per il 2020. Lo rivela il rapporto Trends and projections in Europe 2013 (vedi allegato), appena pubblicato dall’AEA, l’Agenzia europea per l’Ambiente. Confrontando la situazione attuale con gli impegni assunti dagli Stati membri, infatti, risultano in linea con il rispettivo target solo 4 Paesi: Belgio, Estonia, Malta e Spagna. Per il resto, sembra a portata di mano soprattutto l’obiettivo che riguarda la riduzione delle emissioni di CO2. Stando alle stime dell’Agenzia, infatti, l’Unione europea ha ridotto le emissioni tra il 1990 e il 2012 di circa il 18%, per cui intravede il target di riduzione delle emissioni del 20% entro il 2020. Più nel dettaglio, le emissioni sono scese quasi dell’1% nel corso del 2012, secondo i dati provvisori sulle emissioni pubblicati di recente dalla stessa AEA. Sempre sul fronte dei gas serra, i 15 Stati membri con un comune impegno nell’ambito del Protocollo di Kyoto (UE-15) dovrebbero aver ridotto le emissioni, tra il 2008 e il 2012, del 12,2%, ben oltre l’obiettivo dell’8% richiesto dal Protocollo di Kyoto per la sua prima fase di applicazione. Inoltre, quasi tutti i Paesi UE con un obiettivo individuale di riduzione dei gas serra nell’ambito del protocollo di Kyoto sembrano in condizioni di mantenere gli impegni assunti in sede internazionale. Ancora in bilico, infine, l’obiettivo in materia di energie rinnovabili: secondo il rapporto siamo al 13% del fabbisogno europeo coperto da fonti “pulite”, e il target del 20% al 2020 sembra alla portata dell’UE. Quanto ai singoli Paesi, nessuno sembra sulla buona strada per centrare tutti e tre gli “scores” della politica 20-20-20, ma neanche un Paese membro, d’altro canto, rischia il flop su tutti e tre i fronti. Più nel dettaglio, il rapporto indica come Austria, Belgio, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo e Spagna debbano impegnarsi di più in materia di riduzione delle emissioni, mentre Belgio, Francia, Lettonia, Malta, Paesi Bassi e Regno Unito dovranno darsi da fare sul fronte delle rinnovabili. Per quanto riguarda l’Italia, infine, risulta indietro proprio nell’inseguimento dell’obiettivo di efficienza energetica, nonostante il “contributo” della crisi economica al calo dei consumi e le recenti stime che parlano di target al 2016 centrato al 65%. Bel Paese più avanti, invece, sul fronte dello sviluppo delle fonti rinnovabili (nel 2011 eravamo al 12% del consumo totale di energia, rispetto a un obiettivo del 17% entro il 2020. La crescita percentuale dal 2005 è stata del 6,1%, una delle più significative in Europa), mentre l’impegno di riduzione delle emissioni dovrebbe essere raggiunto, ma solo a patto che vengano adottate tutte le misure previste. A questo proposito, comunque l’AEA sottolinea la carenza di informazioni relative alla situazione italiana, soprattutto per quello che riguarda il meccanismo di scambio dei crediti di emissione (ETS). «L’Italia – si legge nel rapporto – rimane l’unico Stato membro dell’UE a 15 che non ha fornito le informazioni sulla quantità di crediti che intende acquistare, né sulle risorse finanziarie stanziate a tale scopo».

Fonte: eco dalle città

Più alberi in Italia ma le città restano camere a gas per lo smog: i dati ambientali ISPRA

ISPRA ha presentato l’Annuario dei Dati Ambientali dove si nota una crescita dei boschi anche se in città si sforano più spesso i limiti per le emissioni di PM10ispra2-620x350

ISPRA fotografa nell’Annuario dei Dati Ambientali la situazione dell’ambiente nel nostro Paese e ciò che emerge è una situazione in bianco e nero. Il rapporto è organizzato in diversi capitoli tra cui “Tematiche in primo piano”, “Tematiche in primo piano light”, “Annuario in cifre”, “Database”, “Multimediale” e “Fumetto”, destinato a un pubblico giovane di non esperti. Da un lato l’inquinamento è sempre più concentrato nelle grandi città a causa dello smog e dei continui sforamenti dei livelli di emissione dei PM10, dall’altro si è registrato un aumento del coefficiente di boscosità al 36%, molto più alto di quel 28,8% registrato nel 1985. Nelle aree metropolitane, restano stazionari i dati relativi a biossido di azoto e benzene ma il PM10, fa registrare sforamenti dei limiti giornalieri nel 48% delle stazioni di monitoraggio. Ozono oltre i limiti nel 92% delle stazioni e sforamento dei limiti di biossido di azoto nel 20% delle centraline di monitoraggio. Preoccupano i livelli di benzo(a)pirene che superano i limiti nel 20% dei rilevamenti. In realtà poi su tutto il territorio si registrano meno spostamenti in auto tanto che gli italiani, probabilmente a causa della crisi, hanno ridotto gli spostamenti del 16,6% a fronte di un aumento del turismo dall’estero. Amiamo sempre l’auto però che preferiamo come mezzo di trasporto scelto dal 62,9& mentre gli stranieri che arrivano da noi e scelgono di farlo in auto sono il 65% il che sembra dire che effettivamente non si fidano del nostro sistema di trasporto pubblico. Le emissioni di gas serra dal settore trasporti sono state parti al 23,4% del totale. Il che evidenzia una diminuzione del 5% rispetto al 2011 portandoci sempre più vicini agli obiettivi del Protocollo di Kyoto. Crescono i boschi e le foreste su aree abbandonate dall’agricoltura anche se cresce la minaccia incendi per cui il 72% che si sono registrati nel 2011 erano di natura dolosa, il 14% colposa e il restante 14% non classificabile. Ce la caviamo bene anche con le acque di balneazione per cui il 91,9% è conforme ai limiti imposti dalla Direttiva 76/160/CEE. Ma cresce il consumo del suolo per cui in media sono stati consumati 7 m2 al secondo per oltre 50 anni e oggi arriviamo agli 8 m2 al secondo: ossia ogni 5 mesi viene cementificata una superficie pari a quella del comune di Napoli e ogni anno una superficie pari alla somma di quelle dei comuni di Milano e Firenze. L’inquinamento industriale però resta preoccupante e nel 2012 sono stati rilasciati 13 provvedimenti di AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) a 1 raffineria, 3 centrali termoelettriche e 9 impianti chimici e gli impianti vigilati sono stati 140 nel 2012 contro i 25 del 2009 mentre sono stati ispezionati nel 2012 76 impianti contro i 5 del 2009. Un capitolo nuovo e molto utile è dedicato ai pollini con l’inserimento dei dati relativi alla stagione pollinica e all’indice pollinico allergenico. In Italia centrale dunque, emerge una presenza di pollini al di sopra della media e sono per lo più cupressaceae con picchi a Firenze, Perugia e Castel di Lama; a Nord si notano più pollini del tipo urticaceae così come nell’Arco prealpino, dalla spiccata biodiversità. L’Italia ha un territorio particolarmente tendente al dissesto geologico-idraulico, sia per le proprie caratteristiche geologiche e geomorfologiche, sia per l’impatto dei fenomeni meteoclimatici oltre che per la diffusa e incontrollata presenza dell’uomo e delle sue attività. Dal 1° novembre 2011 al 31 dicembre 2012 in Italia sono stati registrati 4.129 terremoti di magnitudo maggiore o uguale a 2, ed è aumentato il numero dei sismi con magnitudo superiore a 5. Si sono censite circa 487.000 frane 987.650 persone le hanno subite. Nel 2012 risultano a ISPRA 85 eventi di frana principali e le persone esposte ad alluvioni sono 6.153.860.

Fonte: Comunicato stampa

 

Per le sabbie bituminose del Canada 20 scienziati tedeschi ritirano i progetti di ricerca sostenibile

Venti scienziati tedeschi di un prestigiosi istituto di ricerca si ritirano dal progetto di studio sulla sostenibilità delle estrazioni di sabbi bituminose in Canada.

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A fare marcia indietro sulla ricerca di soluzioni sostenibili contro l’inquinamento provocato dall’estrazione di sabbie bituminose in Canada sono stati 20 scienziati del prestigioso istituto di ricerca tedesco Hermann von Helmholtz (UFZ Helmholtz) che ha sospeso tutte le collaborazioni con Helmholtz Alberta Initiative (HAI) dopo la dichiarazione di moratoria il mese scorso. Ha spiegato la decisione a Euractiv il professore Frank Messner capo del personale dell’ UFZ Helmholtz:

E stato percepito come un rischio per la nostra reputazione. In qualità di centro di ricerca in materia di ambiente e che svolge un ruolo indipendente di onesto mediatore portare avanti una ricerca del genere in questo contesto avrebbe potuto danneggiare la nostra reputazione, tanto più che il Canada si ritirato dal protocollo di Kyoto.

In pratica lo HAI era stato chiamato a trovare soluzioni sostenibili per avere il minor inquinamento possibile dalle vasche di decantazione veri e propri laghi tossici che coprono al momento 176 Km quadrati di Alberta. Ma dopo la moratoria è arrivata la sospensione della collaborazione. La sospensione della collaborazione in materia di ricerca arriva dopo un intenso dibattito all’interno della comunità scientifica e politica in Germania e non passerà inosservata a Ottawa.

Ha detto Messner:

Questo è un chiaro segnale che la comunità internazionale, in particolare la Germania, non accetta la politica del Canada in materia di energia e clima.

Dopo il Venezuela e l’Arabia Saudita, il Canada ha le riserve di petrolio più grandi al mondo principalmente sotto forma di sabbie bituminose ma la loro estrazione richiede grandi quantità di solventi, energia, acqua e prodotti chimici peraltro con enormi emissioni di CO2. Secondo James Hansen, direttore dell’Istituto Goddard per gli studi spaziali NASA:

Le sabbie bituminose canadesi depositi contengono il doppio della CO2 di tutto il totale delle emissioni emesse globalmente nella storia dell’umanità.

La conclusione di questa vicenda dunque appare lontana e probabilmente sarà oggetto di molti rapporti che vorranno dimostrare da una parte e dall’altra le tesi a favore o contro l’estrazione delle sabbie bituminose. Nel mentre si estrarranno e nel mentre le emissioni di CO2 e l’inquinamento ambientale aumenterà considerevolmente.

Fonte:  Euractiv

 

KYOTO: l’Italia (forse) centra gli obiettivi 2008-2012

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Secondo il “Dossier Kyoto 2013″ realizzato dalla Fondazione Sviluppo Sostenibile, l’Italia ha centrato il suo obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra, fissato con la firma nel 1997 del Protocollo di Kyoto, arrivando ad una riduzione del 7%.

L’obiettivo minimo per l’Italia corrispondeva ad un abbattimento totale del 6,5%: secondo quanto diffuso dalla Fondazione dunque il Belpaese non solo ha centrato, ma ha superato gli obiettivi minimi: si legge nel Dossier Kyoto che la media di emissioni annue italiane negli ultimi 5 anni si è attestata a 480 milioni di tonnellate (a fronte di un limite di 483 imposto dal protocollo). I prossimi obiettivi di riduzione fissati dalla road map europea sono di 440 milioni di tonnellate di CO2 nel 2020 e di 370 nel 2030.

Tuttavia, solo pochi mesi fa era stata l’Europa, con l’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA), a mettere in guardia l’Italia: nonostante l’Unione sia riuscita ad abbattere quasi dell’8% le sue emissioni, i passi in avanti italiani non avevano convinto Bruxelles, che solo nell’ottobre scorso ammoniva l’Italia:

L’Italia non ha ancora comunicato alcun piano concreto riguardo all’acquisto di quote supplementari (Kyoto unit) rispetto a quelle già previste in precedenza. E’ l’unico paese dell’Ue a non aver fornito alcuna informazione sullo stanziamento delle risorse finanziarie.

Si legge rapporto dell’EEA “Greenhouse gas emission trends and projections in Europe 2012“, ove si spiega che l’acquisto dei cosiddetti ‘carbon credit’.

L’obiettivo italiano era di tagliare le emissioni totali del 6,5% rispetto ai rilievi del 1990, da raggiungere come media annuale del periodo 2008-2012; una riduzione che ha riguardato il larghissima parte solo il settore industriale (settore Ets, la cosiddetta “borsa delle emissioni”, cioè quegli impianti che possono acquistare quote di Co2 da altri più virtuosi) mentre le politiche sul settore “non Etf” si sono adagiate sulla speranza che avvenisse il miracolo; ma l’aritmetica e la scienza non sono soggette, pare, a chissà quali interventi divini.

Il rapporto della Fondazione va pertanto preso con le dovute accortezze; secondo il presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile Edo Ronchi l’incredibile recupero è stato possibile non solo grazie alla crisi economica ma anche e sopratutto grazie alle scelte industriali e produttive fatte.

Il Ministro dell’Ambiente Corrado Clini, dal canto suo, plaude al risultato:

L’aver centrato gli obiettivi di Kyoto è un segnale importante per l’Italia, l’indicazione puntuale che il percorso di decarbonizzazione dell’economia italiana è stato avviato e deve proseguire secondo le linee indicate dal piano nazionale definito dal Governo per raggiungere gli obiettivi già fissati in sede europea al 2020 e al 2030.

si legge sul sito del Ministero dell’Ambiente, ove però non compaiono dichiarazioni sul rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente dell’ottobre scorso.

Fonte: Fondazione Sviluppo Sostenibile