Agricoltura contadina e filiera corta possono salvarci. Ma riusciranno a salvare se stesse?

La crisi della filiera alimentare dovuta alla pandemia apre spazi di cambiamento interessanti. Cosa possiamo fare per favorire la nascita di una filiera più resiliente ed equa del cibo? E quali aspetti dell’agricoltura contadina attuale dobbiamo lasciar andare affinché possa cogliere l’occasione che la storia le pone di fronte? Ne parliamo con Nicola Savio, permacultore e vecchia conoscenza di Italia che Cambia, e con Davide Biolghini della Rete Italiana di Economia Solidale. Ne abbiamo sentite e continuiamo a sentirne tante, in questi giorni anomali. Chi è convinto che il virus cambierà il mondo, chi spera in un rapido ritorno alla normalità, chi, portando ottimi argomenti, mette in guardia che “la normalità era il problema”. Stiamo proiettando su questa situazione i nostri desideri più intimi tanto quanto le nostre più profonde paure. È vero, questa pandemia cambierà molte cose, ma la direzione di questi cambiamenti non le deciderà il virus. Le decideremo – più o meno consapevolmente – noi. 

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Uno dei tanti settori in cui si aprono interessanti finestre di cambiamento è quello della produzione, distribuzione e consumo di cibo. Abbiamo osservato con sgomento le code interminabili di fronte ai supermercati, preludio a scaffali spesso semivuoti – dal Regno unito sono arrivate voci di scenari ancor più catastrofici. Consegne in ritardo, shop online intasati e con attese lunghissime. E il peggio potrebbe essere ancora di là da venire: la fuga della manodopera a basso costo – perlopiù stranieri tornati in patria subito prima del lockdown – sta lasciando buona parte dei raccolti a marcire nei campi mettendo a rischio la sicurezza alimentare. La crisi sanitaria ha messo a nudo la totale inadeguatezza della filiera alimentare, costruita per massimizzare l’efficienza a discapito della resilienza. In questo contesto parlare di come produciamo e distribuiamo il nostro cibo diventa improvvisamente un argomento centrale per tutti. Per capire quali sono i problemi e le opportunità di questa situazione nuova mi sono fatto due chiacchierate, la prima con Nicola Savio, agricoltore esperto di permacultura e vecchia conoscenza di Italia che Cambia, la seconda con Davide Biolghini, membro del consiglio direttivo della Rete Italiana di Economia Solidale. Provo a mettere insieme i pezzi e riassumervi quello che ho capito.

Crisi o opportunità?

«In questo periodo – mi spiega Davide – la domanda di prodotti biologici e anche di sistemi di distribuzione locale come quelli dei Gruppi d’acquisto solidali (Gas) sta crescendo. Buon Mercato, ad esempio, l’esperienza di ‘supergas’ nel corsichese, ha visto aumentare del 30-40% gli ordini da parte di famiglie nuove che si sono avvicinate in questa circostanza». Come spesso accade, la crisi è stata occasione per mettere in atto soluzioni creative: «Da un lato c’è stata disponibilità da parte di alcuni piccoli e medi produttori di aumentare i punti di distribuzione: La Terra e il Cielo, ad esempio, ha iniziato a consegnare gli ordini in più punti diversi, evitando ai gasisti di doversi recare tutti assieme al punto di raccolta, che per alcuni era persino fuori dal proprio comune di residenza. Alcune persone, poi, si sono offerte di fare consegne a domicilio a famiglie o gruppi di famiglie che avevano particolari difficoltà. Anche alcuni produttori ora fanno la consegna a domicilio, cosa che prima non veniva fatta».

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Davide Biolghini

Anche Nicola mi conferma una crescita notevole delle richieste nei confronti di molte aziende agricole medio-piccole. «Oltre a me – spiega – penso ai miei amici di Prati al Sole, che vista la situazione hanno provato a riorganizzarsi per fare consegna a domicilio: hanno finito tutta la produzione che avevano programmato per quella settimana in 24 ore. E in un raggio dall’azienda di due chilometri. E come loro molti altri: chi si è organizzato con gruppi Whatsapp, chi con gruppi Facebook. In momenti di crisi la creatività viene fuori, se si hanno gli occhi per vedere le opportunità».

Tuttavia non tutta l’agricoltura contadina sembra godere di vento favorevole. Molti produttori stanno soffrendo per la chiusura dei mercati all’aperto, compresi quelli contadini e rischiano di buttare parte del raccolto. Altri chiedono l’intervento dello Stato, con finanziamenti mirati a sostenere le aziende in difficoltà. Tuttavia la riapertura dei mercati e i finanziamenti sono soluzioni che possono tamponare l’emergenza, ma difficilmente possono migliorare la situazione a medio-lungo termine. «Ho l’impressione – continua Nicola – che stiamo provando a risolvere un problema non classico adottando soluzioni classiche. Non ci siamo mai trovati in una situazione del genere, è totalmente nuova, molte cose si sono stravolte. Il problema è cosa fare di questo stravolgimento. Se le uniche richieste dei piccoli agricoltori sono i finanziamenti pubblici e la riapertura dei mercati non abbiamo risolto niente. È come mettere un cerotto su un taglio che i parte dall’inguine e arriva fino al collo.»

Nicola Savio

È possibile prendere il meglio che questa occasione ci offre e cambiare la filiera alimentare? O la pandemia segnerà il tracollo dell’agricoltura contadina? «Secondo molti – chiosa Davide – ci sono tre scenari: o si cerca di tornare al prima, alla cosiddetta normalità, o ci sarà uno strapotere delle filiere lunghe dell’agroindustria, nonostante siano concausa dei cambiamenti climatici e in maniera indiretta anche della diffusione delle pandemie; o si coglie l’occasione di questo spazio per dare maggiore peso alle pratiche dell’economia sociale e solidale, dell’agricoltura contadina e dei sistemi di economia locale». 

Cosa dobbiamo cambiare

Cosa possiamo fare per favorire la nascita di una filiera più resiliente ed equa del cibo? E quali aspetti dell’agricoltura contadina attuale dobbiamo lasciar andare affinché possa cogliere l’occasione che la storia le pone di fronte? «Un primo aspetto in cui è necessario un salto di qualità è la pianificazione. Noi agricoltori – mi spiega Nicola – non siamo abituati a pianificare. L’idea di base è sempre stata: io produco, poi se vendo bene, altrimenti mi arrabbio e chiedo gli aiuti allo stato. Aiuti che per i piccoli, fra l’altro, si sono fatti negli anni sempre più risicati e inarrivabili. Ma così viene meno l’obiettivo vero dell’agricoltura, che sarebbe quello di sfamare le persone. Per tornare a svolgere un ruolo centrale e utile la piccola agricoltura deve ritrovare la capacità di pianificare la produzione».  

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Matteo Mazzola dell’Azienda agricola Iside con uno degli attrezzi agricoli per una agricoltura a bassissimo impatto che Nicola Savio vende tramite Officina Walden.

Un secondo aspetto da lasciar andare, sempre secondo Nicola, sono le colture iperspecializzate. Se l’agroindustria produce cibo tutto uguale su larga scala per sfamare la massa, un ramo della piccola agricoltura ha ripiegato (ingolosita dai finanziamenti) sul produrre prodotti di alta qualità per piccole nicchie benestanti. Anche in questo caso vengono a galla tutti i limiti delle politiche agricole: «L’agricoltura dovrebbe essere l’apice della resilienza: diversificare, in modo che se non va bene una coltivazione ne va bene un’altra. E se proprio va malissimo mangio io e dopo vediamo. Invece i finanziamenti ti portano a fare scelte sbagliate. Fra l’altro vista dall’ottica di questi piccoli produttori adesso sarà dura: se hai piantato solo prodotti di nicchia che vendi a caro prezzo, chi te li compra adesso che siamo in piena crisi di liquidità?»

Quali modelli per il futuro?

Quali soluzioni abbiamo nel cappello, o per meglio dire nel paniere? «Più che soluzioni – continua Nicola – possiamo osservare i modelli che stanno funzionando e prenderne spunto. Penso alle CSA (Comunità che supporta l’agricoltura, un modello comunitario di gestione dei terreni e di pianificazione della produzione, ndr), o a soluzioni simili. In generale i modelli che stanno funzionando di più sono quelli che costruiscono una relazione diretta e continuativa con i clienti o soci, adattandosi alle loro esigenze. Spesso si vendono dei pacchetti annuali, che prevedono una fornitura settimanale.»

Anche i Gas si stanno muovendo in direzione simile, e da tempo è in corso un ripensamento del loro modello per trasformarli in qualcosa di più vicino a una Csa. Mi dice Davide: «Da tempo stiamo proponendo dei patti tra consumatori consapevoli e produttori responsabili, in cui cambia la relazione fra i due soggetti, che attualmente è ‘liquida’ e spesso sbilanciata a favore dei gasisti che hanno maggiore potere e scelgono di volta in volta quali prodotti acquistare, quando e come. Rispetto a questo sistema di relazioni il patto impegna ambedue le parti: il gas ad acquistare una certa quantità di prodotti, magari anche con anticipo di una quota, il produttore a rendere trasparente ed equa la formazione del prezzo». 

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La Terra e il Cielo

Attualmente Co-energia, l’associazione di Gas e Des che si occupa di patti e convenzioni nel campo della produzione del cibo e della energia (di cui Davide è presidente) gestisce due patti principali, uno storico con La Terra e il Cielo, e l’altro più recente con i piccoli agricoltori campani della La Buona Terra – in quest’ultimo caso il patto prevede anche l’anticipo del 40% rispetto agli ordini previsti per garantire i piccoli produttori nella semina e nella coltivazione dei prodotti. «La cosa che mi sembra molto importante sottolineare – continua Davide – è che i patti alimentano un fondo di solidarietà che permette di finanziare progetti di economia solidale.» 

C’è poi l’ultimo sviluppo dei gruppi d’acquisto, i condomini solidali, nati da un’iniziativa della Rete di economia sociale e solidale di Roma. Sono condomini che si organizzano per farsi consegnare gli ordini a domicilio dai produttori. Per il produttore diventa più conveniente perché accorpa vari ordini in un’unica consegna, mentre per i condomini può diventare un modo per rafforzare le relazioni di vicinato. «Ne esistono già alcuni attivi a Roma e adesso abbiamo anche una mappa che geolocalizza tutti i punti di ordine/consegna/ritiro dei condomini.» L’idea del condominio sembra interessante anche per la possibilità di coinvolgere persone che normalmente non si iscriverebbero a un gas, ma che potrebbero essere ugualmente interessate a una fornitura di cibo locale e di qualità. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/05/agricoltura-contadina-filiera-corta-possono-salvarci-riusciranno-salvare-se-stesse/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Raee, in Europa cresce la raccolta ma anche la produzione. L’ultimo rapporto Erp

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Dalla sua fondazione nel 2002, la piattaforma europea di riciclaggio (ERP) ha raccolto e riciclato oltre tre milioni di tonnellate di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche in tutta Europa. Questo è equivalente alla quantità di RAEE generati in tutta l’Unione europea entro un anno. ERP, la piattaforma europea di riciclaggio ha pubblicato il rapporto sui Raee europei. Dalla sua fondazione nel 2002 ERP ha raccolto e riciclato oltre tre milioni di tonnellate di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche in tutta Europa. Questo è equivalente alla quantità di RAEE generati in tutta l’Unione europea in un anno. Il riciclaggio di 3 milioni di tonnellate di rifiuti elettrici può far risparmiare fino a 32 milioni di tonnellate di emissioni di CO2, oltre a salvare risorse preziose e proteggere l’ambiente e la salute collettiva. In Italia nel 2015 sono state raccolte e trattate da Erp oltre 26mila tonnellate di apparecchiature elettriche ed elettroniche a fine vita (+7% rispetto al 2014).  La quantità di RAEE è in costante aumento, non solo in Europa, ma in tutto il mondo. Entro il 2021, secondo il Global E-Waste Monitor rilasciato di recente, saranno circa 52 milioni di tonnellate all’anno. Le sostanze pericolose emesse durante la discarica possono contaminare il suolo e le falde acquifere e causare danni enormi all’ambiente e all’uomo. Al fine di ridurre il danno ambientale causato dai RAEE e conservare le risorse naturali, è essenziale aumentare il tasso di riciclaggio di questi dispositivi e promuovere la trasformazione in un’economia veramente circolare. In questo contesto, ERP accoglie con favore l’accordo recentemente concluso, tra il Consiglio dell’Unione europea, il Parlamento europeo e la Commissione europea sull’economia circolare. La strategia sulla plastica, che è stata pubblicata dalla Commissione europea il 16 gennaio 2018, è un altro passo importante, secondo ERP. Entrambe le iniziative comprendono misure necessarie per rafforzare l’economia circolare e per aumentare ulteriormente la raccolta e il riciclaggio dei principali flussi di rifiuti come i RAEE, i rifiuti di imballaggio e le batterie usate.

“La piattaforma europea per il riciclaggio accoglie con favore l’intenzione dell’Unione europea di rafforzare il principio della responsabilità estesa del produttore e di stimolare la concorrenza nel mercato dei rifiuti”, afferma Sabine Balaz, Managing Director di ERP Austria. “Con il riciclaggio di tre milioni di tonnellate di RAEE, ERP dimostra che la responsabilità estesa del produttore in un ambiente competitivo porta grandi benefici all’ambiente, mantenendo al tempo stesso un costo ragionevole per i produttori. Promuove anche l’innovazione, che a sua volta porta a una migliore qualità, riciclaggio dei rifiuti non pericolosi e risorse di economia circolare di migliore qualità “.

Per quanto riguarda il pacchetto sull’economia circolare, l’ERP raccomanda in particolare una chiara definizione dei ruoli e delle responsabilità di tutti gli attori coinvolti. Piacevole è anche l’estensione della responsabilità estesa del produttore alle società di vendita per corrispondenza che vendono le loro merci da uno stato membro all’altro. Questa misura aiuta a contrastare il problema dei free riders e crea condizioni di parità tra i produttori. Tuttavia, ERP lamenta che il compromesso manca di una chiara definizione delle responsabilità organizzative dei produttori. Ciò potrebbe ostacolare la concorrenza, poiché i produttori di alcuni Stati membri potrebbero essere potenzialmente legati a una specifica organizzazione di responsabilità del produttore invece di essere liberi di scegliere tra diversi sistemi concorrenti. Per quanto riguarda la strategia sulle materie plastiche, ERP accoglie con favore la proposta di revisione della direttiva sui rifiuti di imballaggio e di imballaggio, che mira a un’ulteriore armonizzazione dei requisiti. Ciò al fine di garantire che tutti gli imballaggi in plastica possano essere riciclati a costi contenuti e che venga rafforzato il principio della responsabilità estesa del produttore.

Fonte: ecodallecitta.it

 

Germania, stop alla produzione di auto a benzina dal 2030

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Ancora quattordici anni e poi basta, la Germania smetterà di produrre automobili alimentate a benzina, facendo compiere al paese guida dell’Ue un clamoroso balzo in avanti nella mobilità sostenibile. Il Bundesrat ha approvato una risoluzione dei Verdi che chiede il divieto di vendita di nuove auto a benzina o a gasolio entro il 2030. Da quella data in poi si potranno acquistare solamente auto elettriche o a idrogeno. Simone Peter, leader dei Verdi, ha sottolineato come lo scandalo delle emissioni della Volkswagen abbia segnato uno spartiacque per ciò che riguarda i veicoli tradizionali:

“Fin dal Dieselgate e dall’accordo sul clima di Parigi, è stato chiaro che i motori a combustione interna siano destinati a scomparire”.

A maggio il governo tedesco aveva approvato nuovi incentivi e sgravi fiscali: un sussidio di 4mila euro per l’acquisto di e-car e un’esenzione del bollo auto per dieci anni (con effetto retroattivo dal 1° gennaio 2016).  Nel programma statale previsto anche uno stanziamento di 300 milioni di euro per il potenziamento delle stazioni di ricarica.

Fonte: ecoblog.it

Produzione rifiuti urbani nelle quattro più grandi città italiane. I numeri del 2014

Prendiamo Roma, Milano, Torino e Napoli come campione significativo per analizzare i numeri della produzione complessiva di rifiuti urbani a livello nazionale. Nelle quattro città i rifiuti urbani sono diminuiti complessivamente dello -0,29%382060

Le quattro più grandi città italiane mostrano dati contrastanti rispetto alla produzione di rifiuti urbani nell’anno 2014 se paragonate all’anno precedente. Napoli e Milano mostrano un aumento della produzione di rifiuti urbani. In particolare Milano ha un aumento più consistente pari al+2,37% mentre quello di Napoli è più contenuto, solo un+0,83%. In tonnellate il capoluogo lombardo ha prodotto 665.461t (un aumento di 15.803t rispetto al 2013) mentre quello campano ha prodotto 50.1665t nel 2014 (un aumento di 4.165t rispetto all’anno precedente).
Nelle altre due città di riferimento, Roma e Torino, l’andamento è negativo. Nella Capitale è stata registrata, rispetto al 2013, una diminuzione di rifiuti urbani prodotti pari al-1,56%, mentre nel capoluogo sabaudo la diminuzione è stata del -0,59%. In tonnellate a Roma sono state prodotte, nel 2014, 1.728.000t (una diminuzione di 27.000 tonnellate rispetto al 2013), mentre a Torino i rifiuti urbani prodotti sono stati 413.309t (2.441t in meno rispetto al 2013). Bisogna precisare che l’andamento della produzione dei rifiuti urbani di Roma nel 2013, rispetto a quello del 2012, è stato in controtendenza rispetto a quello nazionale segnando un aumento della produzione dei rifiuti urbani.
Se si sommano i dati della produzione dei rifiuti urbani nelle quattro città, si nota che complessivamente i rifiuti urbani prodotti sono diminuiti del -0,29% (una flessione di 9.473 tonnellate rispetto al 2013, anno in cui invece i rifiuti erano diminuiti più sensibilmente rispetto al precedente). Nelle quattro città si concentra l’11% della popolazione residente nazionale pari a6.078.739 abitanti (dati Istat), e se paragoniamo i rifiuti urbani prodotti nel 2013 dalle quattro città ovvero 3.318.088t con quelli prodotti dalla nazione Italia sempre nel 2013 (29.594.665t, dati Ispra) a loro volta i rifiuti urbani prodotti dalle quattro città rappresentano l’11% del totale.

Fonte:  ecodallecitta.it

 

Ma i rifiuti nel 2014 in Italia sono in aumento o in calo? Un’indagine aperta

In attesa di stime nazionali sulla produzione complessiva dei rifiuti solidi urbani, pubblichiamo i dati di alcune città italiane che mostrano una situazione ancora difficile da decifrare, tra aumenti, cali e sostanziali stagnazioni

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Il 2014 si è concluso da poco e arrivano i primi dati, alcuni ancora da confermare, sui Rifiuti Solidi Urbani prodotti nelle città italiane nel corso dei 12 mesi. Cifre interessanti se lette alla luce dell’andamento dei consumi, in contrazione da anni ma che tra il 2013 e il 2014 hanno dato segni di ripresa. In attesa di stime nazionali, pubblichiamo i dati di alcune città italiane, dal sud al nord della penisola. Secondo quanto ci ha detto in una recente intervista il direttore di Amiu Puglia, Gianfranco Grandaliano, a Bari “c’è stato un aumento della produzione dei rifiuti, nonostante il calo dei consumi”. I dati sono ancora da confermare definitivamente, ma nel 2014 la produzione complessiva è stata di187mila tonnellate, a fronte delle 177 mila del 2013. Un aumento di circa 10.000 tonnellate, pari a quasi il 6%. Come spiega Grandaliano ci sono due fattori da considerare: “Il primo, positivo, è che la raccolta differenziata rispetto al 2013 ha avuto un aumento rilevante di circa 12.000 tonnellate di rifiuti in più, da 45.000 tonnellate a 57.000 tonnellate. Il secondo, che incide invece negativamente, è l’aumento dell’indifferenziato, dovuto presumibilmente ai rifiuti che arrivano da pendolari o dai comuni limitrofi (il cosiddetto “pendolarismo dei rifiuti”, dovuto alla introduzione del porta a porta negli altri comuni)
Perugia invece non c’è stato un aumento, bensì un calo e anche piuttosto cospicuo. Nel capoluogo umbro durante il 2014 sono state prodotte complessivamente 100.220 tonnellate di rifiuti solidi urbani, contro le 104.113 prodotte nel 2013 (dati da Gesenu SpA) Un calo di 3.893, corrispondente al 3,74%. La raccolta differenziata invece passa dal 59,06 al 60,34%, in aumento dell’ 1,28%. Questo calo consistente condiziona anche i dati complessivi dell’Ati di riferimento, che registra nel corso del 2014 una diminuzione della produzione totale dell’ 1,57%, dovuta principalmente proprio al comune di Perugia. Altri piccoli comuni come Corciano, Magione, Massa Martana, Tuoro sul Trasimeno e Valfabbrica, hanno invece fatto registrare degli aumenti , dovuti nella maggior parte dei casi all’aumento dei quantitativi di raccolta differenziata (Comune di Corciano e Valfabbrica). Salendo in Toscana si trova nuovamente un aumento nella produzione complessiva. I dati che ci arrivano da Firenze per ora non comprendono il mese di dicembre, ancora in fase di elaborazione da parte di Quadrifoglio Spa, ma nel periodo che va da gennaio a novembre 2014 la produzione complessiva di rifiuti rispetto agli stessi mesi del 2013 ha fatto registrare un aumento del 2,15%. Difficile che dicembre possa modificare in maniera significativa questo dato. In forte aumento anche la raccolta differenziata, che negli 11 mesi dell’anno appena concluso si è attestata sulle 99.289 tonnellate, l’ 8,06% in più dell’anno precedente.
Milano stesso discorso. Lo rivelano gli ultimi dati Amsa: nell’anno appena trascorso il capoluogo lombardo ha prodotto 665.641 tonnellate di rifiuti, a fronte delle 649.838 prodotte nei 12 mesi precedenti. Si tratta di un incremento del 2,43%. Incide soprattutto la produzione del mese di dicembre, che ha visto una raccolta di 58.572 tonnellate, mentre a dicembre 2013 era stata di 54.555. Un aumento del 7,36%. Continua anche l’andamento positivo della raccolta differenziata che a dicembre è arrivata al 51,1 %, mentre in tutto il 2014 si attesta sul 50,4%, confermando quindi i dati di notevole incremento rispetto al 2013, dovuti in particolare alla raccolta dell’ organico. Dal nord est arrivano due stime in contrapposizione. Nel comune di Pordenone, i rifiuti prodotti nel 2014 sono in aumento e ammontano a 26.814 tonnellate, ovvero il 4,84% in più rispetto al 2013 (dati da Gea SpA). In crescita rispetto al 2013 anche la raccolta differenziata, che si attesta sulle 22.081 tonnellate: un incremento pari al 5,5%. A Padova invece i dati da gennaio a novembre parlano di un calo di circa 600 tonnellate rispetto allo stesso periodo del 2013. Stima che potrebbe essere “riassorbita” da un aumento dei rifiuti indifferenziati nei comuni confinanti e facenti parte dello stesso bacino.  Spostandosi ad ovest, le prime stime su Torino fatte da Amiat presentano una situazione stabile. Rispetto al 2013, nell’anno da poco concluso c’è stato un lieve calo di 2.441 tonnellate: erano state 415.750 nel 2013, sono state 413.309 nel 2014, una diminuzione dello 0,58%. Nello specifico i rifiuti urbani residui, il cosiddetto indifferenziato, sono calati di circa 4.770 tonnellate (251.077 tonnellate nel 2013, 246.307 nel 2014), mentre la raccolta differenziata è in aumento, attestandosi su una percentuale del 40,4%rispetto alla produzione totale, mentre nel 2013 era arrivata al 39,6% (167.002 tonnellate, contro le 164.673 del 2013).  Discorso analogo anche per i dati provenienti da Cidiu Spa, azienda che serve 17 comuni a ovest di Torino. Un territorio che comprende circa 260.000 residenti. Le stime per il 2014 arrivano solo fino a novembre e fotografano una situazione sostanzialmente stabile, con una produzione complessiva di 99.862 tonnellate a fronte delle 99.907 prodotte nel 2013. In lieve aumento la raccolta differenziata che ammonta a 58.062 tonnellate, pari al 58,14%, contro le 57.335 dell’anno precedente. Un incremento di poco più dell’ 1%.  A Novara si trovano invece conferme della tendenza all’aumento. Secondo i dati dell’azienda Assa, nel corso del 2014 ha prodotto 45.378 tonnellate di rifiuti solidi urbani, 1.852 in più rispetto al 2013. Un incremento pari al 4,2%. Stabile la raccolta differenziata che raggiunge la ragguardevole percentuale del 70% abbondante, primato piemontese.

Fonte: ecodallecitta.it

Olio, il finto “made in Italy” con il sistema delle fatture false

Parassiti e mosca olearia decimano la produzione e gli olivicultori acquistano da Turchia e Tunisia le olive per far quadrare i bilanci. La siccità e la mosca olearia hanno reso più povera la stagione degli olivicultori e alcuni di loro si sono organizzati per mantenere inalterati o quantomeno vicini agli standard i quantitativi della loro produzione. Come? Con un sistema di false fatturazioni che, secondo quanto affermato da Coldiretti, permetterebbe agli olivicultori di Calabria e Puglia di raddoppiare la propria produzione con olio proveniente dalla Tunisia o dalla Turchia. A ogni quintale prodotto sulla carta in Italia, ne corrisponde altrettanto prodotto altrove, nel migliore dei casi d’oliva, nel peggiore con semi o con le sanse ovverosia gli scarti. Il documento contabile procurato di frodo trasformo l’olio cattivo e di bassa qualità in olio “made in Italy”, con la maggiorazione di prezzo e la migliore spendibilità nell’export che ciò comporta. I parassiti come la mosca olearia e la siccità hanno decimato la produzione: se la media del raccolto annuo è di sei milioni di quintali, quest’anno si è a malapena raggiunto il milione di quintali. Puglia e Calabria sono, rispettivamente, la prima e la seconda regione come superficie coltivata a ulivi. L’olio “taroccato” fa dei giri enormi e dopo che le olive turche sono state lavorate, imbottigliate ed etichettate ripartono per i mercati americani e europei con la dicitura “made in Italy”.

La questione fondamentale è che la olivicultura in Italia è concorrente di paesi più poveri del nostro che lavorano a costi molto più bassi. Noi quindi non siamo competitivi e viviamo una situazione di crisi endemica. Gli olivicultori che in anni passati hanno truffato con le integrazioni della Comunità europea, adesso che le condizioni sono più restrittive nei controlli visto che c’è maggiore tracciabilità, usano questo altro metodo per far quadrare i conti delle aziende,

spiega il marchese Pierluigi Taccone, a capo dell’azienda agricola Acton di Leporano, 300 ettari nella piana di Gioia Tauro.72551783-586x387

Fonte:  Repubblica

© Foto Getty Images –

Stop a pesche e nettarine, l’Unaproa chiede di fermare la produzione

La campagna pesche e nettarine 2014 è già al collasso e i coltivatori per limitare i danni chiedono lo stop della produzione. Per l’Unione Nazionale tra le Organizzazioni dei Produttori Ortofrutticoli, Agrumari e di frutta in guscio è giunto il momento di fermare la produzione di pesche e nettarine poiché quest’anno il crollo dei prezzi, inferiori anche del 40%, sta portando al collasso l’intero comparto. Una caduta così vertiginosa che la stessa Unaproa stenta a credere dovuta probabilmente, dicono gli esperti a una serie di concause tra cui poco consumo di frutta, cambiamenti climatici, forte deperibilità che non consente lo stoccaggio. Il settore pesche e nettarine è considerato particolarmente strategico con oltre 1,5 milioni di tonnellate di produzione il che ci pone come leader europei nella peschicoltura che si sviluppa dal Nord al Sud della Penisola e che coinvolge diverse regioni italiane. In questo settore sono state adottate molte innovazioni che vanno dalla tracciabilità alla lotta integrata il che ci fa portare sulla tavola pesche e nettarine italiane di elevata qualità. Ma tanta qualità in pesche e nettarine non riceve adeguato compenso, sono pagate pochissime sul campo all’agricoltore, anche se poi al supermercato le troviamo a prezzo elevato senza risparmio per il consumatore. Il presidente Unaproa Ambrogio De Ponti va giù duro e dice:

Facciamo fronte comune assieme a Spagna, Francia e Grecia e sospendiamo la produzione di pesche. Serve un gesto shock provocatorio per far sì che vengano finalmente puntati i riflettori sul settore e si colga la reale entità del problema. Chiediamo che vengano definiti a livello europeo, per il tramite del nostro Ministero delle Politiche Agricole e Forestali dei costi di produzione al di sotto dei quali il prezzo pagato ai produttori non possa scendere. È una misura che innanzitutto si appella a una regola etica di rispetto del lavoro, un imperativo morale che impone che sia interrotto il cortocircuito di incompatibilità tra i costi di produzione e quanto riconosciuto dagli acquirenti. I Paesi importatori ci obbligano a produrre certificazioni su certificazioni, con un’incidenza notevole sui costi di produzione, senza garanzie sui prezzi per i coltivatori. Anzi, ben prima della stagione delle pesche, già a febbraio, eravamo a conoscenza di offerte al ribasso promosse dai distributori, non sostenibili.FRANCE-ECONOMY-TRADE

E veniamo alle proposte di Unaproa che suggerisce di equiparare il ritiro della parte residuale di prodotto alla stregua della beneficenza, ossia senza il cofinanziamento da parte dei produttori il che aiuterebbe a coprire i costi; la seconda proposta è più tecnica e prevede una sperimentazione di 2 anni con la creazione di un fondo di solidarietà a partire da subito usato per calmierare i prezzi. Dice De Ponti:

l’emergenza non è procrastinabile e l’aiuto serve adesso. Inoltre, considerati i costi di produzione inferiori negli altri Paesi esportatori – si parla di circa un 50% in meno per quanto riguarda la Grecia e di un 30% in meno per la Spagna- chiediamo al nostro Ministro dell’Agricoltura un aiuto concreto per poter essere realmente competitivi, a cominciare, per esempio, dal taglio dei costi contributivi e da una protezione, laddove c’è produzione locale italiana, del prodotto interno rispetto a quello estero. La posta in gioco non è di poco conto: è l’implosione stessa dell’intero settore delle drupacee, con i gravi riverberi economici e sociali che la cosa comporterebbe.

«Ci preme in questo contesto sottolineare una volta di più, – conclude Ambrogio De Ponti – prima ancora che come rappresentanti di categoria come cittadini, contribuenti ed elettori dell’Unione europea che, aldilà della crisi contingente, abbiamo l’obbligo di promuovere il consumo di frutta e verdura come incentivo economico-sociale, considerata la sua provata ricaduta benefica sulla salute degli europei e dunque il doppio (indiretto oltre che diretto) impatto positivo sull’economia Ue».

Fonte:  Unaproa

© Foto Getty Images

Pomodoro italiano: il lato oscuro della produzione e di una inchiesta vera a metà

RFI con Al Jazeera e Internazionale, finanziati dalla Fondazione Bill & Melinda Gates, hanno pubblicato un reportage sul lato oscuro del pomodoro italiano. Peccato che l’inchiesta non abbi approfondito quel che accade anche in Francia

Il pomodoro italiano, il nostro oro rosso, viene ispezionato da tre grandi testate: RFI, Al JazeeraInternazionale, dove è stata pubblicata l’inchiesta in italiano non troppo documentata ma ricca di testimonianze, firmata da Mathilde Auvillain e Stefano Liberti e realizzata mediante il programma The Innovation in Development Reporting Grant Programme dello European Journalism Center (EJC), finanziato dalla Bill & Melinda Gates Foundation. L’inchiesta punta il dito sugli accordi sottoscritti nel 2000 con il Ghana per la riduzione dei dazi delle importazioni dal nostro Paese. Tra le merci che giungono nel Paese africano il pomodoro che con il concentrato che arriva dalla Cina a basso prezzo ha letteralmente raso al suolo la produzione locale. Dal Ghana noi importiamo tra gli altri prodotti l’ ananas messo nella lista della Coldiretti dei 10 prodotti esteri più contaminati. Quando leggo certi attacchi mirati con bersagli ben identificati (in questo caso pomodoro italiano) la prima domanda che mi viene è: cui prodest? Scavando nei meandri della rete scopro che nel 2007 FIAN – FOODFIRST INFORMATION & ACTION NETWORK una ONG attiva da 28 anni, pubblica il rapporto Righ to Food of tomato and poultry farmes che consiste in una indagine condotta sul campo con interviste agli allevatori ghanesi in collaborazione con l’associazione degli allevatori e coltivatori. Già allora l’economia ghanese era al collasso a causa delle importazioni di pasta di pomodoro da Italia, Cina, Usa, Spagna, Turchia, Grecia, Portogallo e Cile e di polli da Europa Usa e Africa. Nel mentre si giunge all’inchiesta italo-francese i polli si perdono per strada: perché gli autori non menzionano anche questa situazione incresciosa? Dall’Europa non inviamo un prodotto pregiato come il pomodoro ma gli scarti del pollo, come zampe, collo, ali che non piacciono al consumatore europeo. Poiché smaltirli costa,conviene venderli al mercato ghanese a prezzo bassissimo, aiutati da sovvenzioni e dazi inesistenti e guadagnarci così un po’su. Peraltro c’è chi si è chiesto come mai l’industria della trasformazione del pomodoro non abbia attecchito in Ghana, sebbene si producesse pomodoro locale, e la risposta non è stata scontata, come si legge nel rapporto del 2010:

Eppure attualmente rese la maggior parte degli agricoltori sono ben al di sotto di dieci tonnellate per ettaro (Robinson e Kolavalli 2010, 19). Per ottenere maggiori rendimenti si richiede una migliore irrigazione, miglioramento della zootecnia e un maggiore uso di ibridi o di semi certificati al contrario di semi auto-estratti. Sistemi di miglioramento della gestione sarebbero necessario per la maggior parte degli agricoltori in modo da strutturare la produzione di pomodoro come impresa.

Domanda aperta: chi detiene il maggior numero di brevetti sui semi di pomodoro altamente efficienti? chi avrebbe interesse a spaccare le esportazioni europee di pomodoro nonché della Cina a favore di una distribuzioni di semenze? No che sia sbagliato, intendiamoci, ma perché farlo denigrando l’Italia e il Meridione? quando le sovvenzioni in agricoltura sono europee e quando l’agroalimentare italiano e il Made in Italyè il più contraffatto e violato al mondo? E ancora: la maggior parte dei pomodori che si consumano in Francia dall’inizio di quest’anno arrivano da Marocco, accordo per cui l’Italia si è espressa negativamente il che fa immaginare una forma di pressione mediatica in atto? Lo squilibrio è più evidente quando nell’inchiesta finanziata dalla Fondazione Gates mira direttamente alla piaga del caporalato in Puglia e Campania, le terre italiane dove non si coltiva più pomodoro in Italia, il record lo detiene, dicevamo la Sicilia. La testimonianza la fornisce Prince Bony lavoratore agricolo ghanese intervistato dagli autori:

Quello che Prince ignora è che il frutto del suo lavoro al nero, nei campi di pomodori del sud Italia, rischia di spingere a loro volta gli agricoltori dell’Upper East Region, nel nord del Ghana, ad abbandonare le loro terre. Quelle stesse terre che un tempo erano anche le sue.

Appena un mese fa Libera ha diffuso il Secondo Rapporto Agromafie e Caporalato, redatto dall’Osservatorio Placido Rizzotto che racconta storie di lavoratori schiavi dal Piemonte alla Sicilia:

Sulle condizioni dei lavoratori impiegati nel settore agroalimentare, i dati sono scoraggianti: secondo Flai Cgil 400.000 lavoratori trovano lavoro tramite i caporali, di questi 100.000 subiscono situazioni di grave assoggettamento con condizioni abitative e ambientali “paraschiavistiche”. Il dato positivo è che, con l’introduzione nel codice penale del reato di caporalato, 355 caporali sono stati arrestati o denunciati, 281 solo nel 2013. Le condizioni di lavoro in molti degli epicentri del caporalato sono di grave sfruttamento, addirittura il 60% di lavoratori non ha accesso ai servizi igienici e all’acqua corrente, il 70% è affetto da malattie di cui non soffriva prima dell’inizio del ciclo di lavoro. Il caporalato costa allo Stato italiano ben 60 milioni di euro l’anno. Il salario giornaliero dei lavoratori è inferiore di circa il 50% rispetto ai contratti nazionali, per non parlare delle “tasse” che i lavoratori sono costretti a corrispondere ai caporali per trasporto, acqua e cibo, oltre a medicinali e altri beni di prima necessità.

E’ vero è una piaga, ma non possiamo fare di tutta l’erba un fascio, ci sono aziende e cooperative che lavorano nella legalità: perché mirare dritto al legame Ghana-immigrazione-pomodoro italiano sostenuto però dall’Europa? Facciamo un po’ di chiarezza, perché il pomodoro industriale in Italia è un comparto ampio che vale oltre 3 miliardi di euro e che nel Polo distrettuale del centro Sud vede il 65% della trasformazione. Il pomodoro in Italia si coltiva da Nord a Sud, anche nella Pianura Padana, sopratutto tra Parma e Piacenza; il primo produttore di pomodori in Italia è la Sicilia che nel 2012 ha quasi raggiunto le 5 milioni di quintali; segue la Campania con 668 mila quintali. Veniamo alla produzione del pomodoro nel distretto del Nord dove si produce pomodoro da industria, ovvero proprio quello destinato alla trasformazione: siamo nelle regioni dell’ Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte e Provincia autonoma di Bolzano. Altrove , come in Sicilia o Campania si produce anche pomodoro da mensa, destinato cioè al consumo a tavola.

E gli autori specificano:

L’Italia, terza agricoltura europea dopo la Francia e la Germania, si contende con la Spagna il primato nella produzione di ortaggi. Negli ultimi dieci anni, sulla base dei dati FAOSTAT, l’Italia ha prodotto in media 6 milioni di tonnellate di pomodori ogni anno. Secondo la FAO, l’ammontare medio degli aiuti europei al settore del pomodoro era nel 2001 di 45 euro alla tonnellata. Inoltre, secondo Oxfam, l’Unione europea sovvenziona la produzione totale di pomodoro in Europa per circa 34,5 euro a tonnellata; una sovvenzione che coprirebbe il 65% del prezzo di mercato del prodotto finale. Ma chi si rende conto a Bruxelles del paradosso di sovvenzionare un prodotto destinato all’esportazione, che fa dumping sulle produzioni locali in Africa?

Il 40% dei francesi consuma pomodoro fresco anche in inverno e proprio una parigina, Emile Loreaux che di professione fa la fotografa ha prodotto un inchiesta, senza finanziamento alcuno e correndo molti rischi, dal titolo je suis une tomate, dove ha letteralmente seguito il viaggio che affronta un pomodoro, in questo caso dalla Spagna ai mercati del Nord Europa. La scoperta è stata sconcertante: marocchini e lavoratori dell’est Europa sfruttati come schiavi nelle serre spagnole per portare pomodori da tavola fuori stagione ai francesi. Anche in Francia si coltivano pomodori sopratutto nel più mite Sud e sotto serra dove ci sono varietà come il ciliegino e o l’insalataro. in Inverno in Francia arrivano sul mercato pomodori dal Marocco e dalla Spagna. E i francesi esportano poco. Noi italiani esportiamo pomodoro da mensa meno del previsto, ci dice FreshPlaza: Germania (33%), Austria (17%), Regno Unito (10%), Svizzera (8%) e Francia (6%).L’Ismea ci dice che le piazze più importanti fuori dall’Europa per i trasformati industriali sono il Giappone e l’Australia. E il Ghana dov’è?

Scrive ancora Freshplaza sul pomodoro industriale trasformato:

Nel 2012 i volumi di pomodoro trasformato hanno segnato quota 47 milioni di quintali (23 mln q.li al Sud Italia + 24 mln q.li al Nord Italia). L’Italia comincia ad esportare più trasformati di pomodoro di quanto ne importi: crescita a doppia cifra (+20%) per l’export verso Africa e Asia, mentre calano le importazioni di concentrato dalla Cina. Le esportazioni di pomodoro pelato hanno segnato un -7% in volume, ma un +7% in valore. Per quanto riguarda le passate, segnano un aumento del 7% il termini di volume esportato, mentre rimane stabile il segmento del concentrato di pomodoro.

Lo scorso gennaio viene lanciato un appello da padre Alex Zanotelli e Vittorio Agnoletto per fermare gli Epa accordi di partneriato economico con 7 paesi africani Botswana, Namibia, Camerun, Ghana, Costa d’Avorio, Kenya e Swaziland. Si badi bene, europei, c’è anche la Francia e non solo l’Italia poiché:

La conseguenza sarà drammatica per i paesi Acp: l’agricoltura europea (sorretta da 50 miliardi di euro all’anno) potrà svendere i propri prodotti sui mercati dei paesi impoveriti. I contadini africani, infatti, (l’Africa è un continente al 70 per cento agricolo) non potranno competere con i prezzi degli agricoltori europei che potranno svendere i loro prodotti sussidiati. E l’Africa sarà ancora più strangolata e affamata in un momento in cui l’Africa pagherà pesantemente i cambiamenti climatici.

Siamo ai medesimi dati pubblicati nella prima inchiesta nel 2007. Già nel 2013 Mathilde Auvillain su TerraEco aveva provato a sdoganare la storia degli immigrati ghanesi affamati dalle esportazioni di pomodoro italiano e sfruttati dal caporalato pugliese : caparbietà di cronista o tesi a sostegno di obiettivi diversi? La Puglia è impegnata a smantellare il lavoro nero con una serie di iniziative tra cui equapulia, una etichetta che certifica la produzione legale dell’intera filiera agroalimentare. A oggi sappiamo che in Ghana si lavora per il rilancio dell’agricoltura con nuovi programmi tra cui l’uso, per ora sperimentale e a cura dell’Università del Ghana, del Enviro Dome Greenhouse System per produzioni orticole tutto l’anno in atmosfera controllata. La produzione annuale di pomodori da mensa, ossia quelli che si consumano a tavola, nel 2013, secondo i dati riferiti dal Ministro per l’agricoltura del Ghana Mr. Clement Kofi Humado:

di oltre 300.000 tonnellate di pomodori e il 90 per cento è stato consumato localmente. Tuttavia, il Paese è dipeso in gran parte dalle importazioni regionali per le verdure durante la bassa stagione, con importazioni comprese tra 70.000 e 80.000 tonnellate di pomodori freschi provenienti dai paesi limitrofi. Per raggiungere l’autosufficienza nella produzione di pomodori, il ministero sta collaborando con l’Università del Ghana per la ricerca adattativa in pomodori alto valore e di altre colture orticole sotto i sistemi protetti.

Più pesante la bilancia delle importazioni di pollame, per cui il ministro Humado ha detto:

Per quanto riguarda il pollame il totale delle importazioni di carne è passato da 97.719 tonnellate nel 2012 a 183.949 tonnellate nel 2013, pari all’80% delle importazioni e negli ultimi cinque anni è costato al paese una media di 200 milioni di dollari all’anno. Al fine di affrontare la situazione, il governo si è impegnato a far rispettare le norme per frenare le importazioni eccessive eccessive di pollame malsano e altri prodotti a base di carne promuovendo programmi per l’allevamento locale di polli.

Ma di tutto ciò non c’è traccia nel reportage finanziato dalla Fondazione Gates.

NOTA:
Journalism Grant è un programma sostenuto dalla Fondazione Bill & Melinda Gates:

Progetti di comunicazione innovativi saranno premiati con notevoli finanziamenti, con l’obiettivo di sostenere i giornalisti, redattori e le parti interessate allo sviluppo per effettuare una ricerca approfondita, emozionante, e anche sperimentale con riferimento a stato dell’arte, metodologie e tecniche di narrazione giornalistica.

In un momento in cui molti organi di informazione devono affrontare vincoli finanziari, il programma di concessione mira a consentire un miglioramento dei media e di andare oltre le solite strategie di comunicazione per impostare una nuova e distintiva agenda per la copertura.

Ma chi controlla poi cosa i giornalisti andranno a pubblicare?

Fonte: ecoblog.it

La casa che produce energia testata a Stoccarda

La prima casa che risparmia energia grazie alla domotica è stata costruita a Stoccarda nel quartiere WeissenhofsiedlungWerner-Sobek-2-270x360

B 10 è una casa energeticamente attiva: il nuovo termine è stato coniato dall’ingenere che l’ha progettata, Werner Sobek, docente di bioedilizia all’Università di Stoccarda che ha inteso così porre l’accento sul fatto che l’edificio che ha strutturato produce più energia di quanta ne consumi. Il progetto di Werner Sobek, finanziato dal governo federale punta allo standard Triple Zero® poiché l’edificio così potrà interagire e caricare veicoli elettrici grazie alla produzione di energia con pannelli fotovoltaici. Ma cos’è esattamente lo standard Triple Zero®? Lo spiega proprio Sobek che dice:

Il concetto di Triple Zero® da me coniato introduce un radicale requisito nel campo delle caratteristiche tecniche degli edifici sostenibili. Io dico che dobbiamo costruire in modo tale che le nostre case non abbiano bisogno di energia prodotta da materie fossili: zero energia fossile. Non produrre emissioni dannose: zero emissioni. Non lasciare rifiuti da costruzione, ristrutturazione o demolizione, ma reintrodurre in un ciclo tecnico o biologico tutti i materiali: zero rifiuti.

Quindi B 10 supera il concetto di casa passiva tanto da non avere necessità di un sistema di riscaldamenti ma puntando tutto sull’isolamento termico per trattenere il calore in inverno. B 10 che prende il nome dalla strada in cui è stata collocata, essendo una casa prefabbricata in acciaio e vetro riciclabili al 100%. B 10 è un progetto di ricerca triennale in fase di test: è aperta ai visitatori dopo di che sarà abitata da due studenti. Durante questa fase, i dati sull’efficienza energetica e i dispositivi di rete intelligente saranno valutati dall’università di L’Università di Stoccarda. Appena un anno fa un prototipo simile, un po’ più grande, da 130 mq era stato installato a Berlino e abitato da una famiglia di 4 persone. B 10 però non ha nulla in comune con la classica casa prefabbricata low cost poiché viene garantito massimo comfort e è personalizzabile nelle dimensioni e attrezzature. Il prototipo di Stoccarda ha una superficie di circa 80 metri quadrati e tutti gli impianti elettrici e per la domotica sono nascosti nelle intercapedini del soffitto o a pavimento. Stima Sobek che le case come B 10 presto saranno disponibili per l’acquisto a un costo di circa 3000 euro per metro quadrato e i proprietari non dovranno però mai pagare una bolletta elettrica. Attualmente Sobek riceve le richieste dall’estero per realizzare case attive. Per la Germania, l’architetto prevede che nel prossimo futuro tutte le case possano presentare reti attive con il vantaggio di usare energia proveniente da fonti sostenibili.

Fonte:  Werner SobekDuravitGreen Wiwo

Foto | Green Wiwo

100% dell’energia da vento, sole, acqua e biomasse? Per il Fraunhofer è possibile

Con un aumento significativo, ma realistico, della sua produzione rinnovabile, la Germania potrebbe soddisfare tutti i propri bisogni energetici entro il 2050, compresi i trasporti e il riscaldamento.

Il Fraunhofer Institut ama guardare lontano ed ha provato ad immaginare uno scenario in cui la Germania sarà alimentata nel 2050 al 100% da energie rinnovabili, e non stiamo parlando solo dell’energia elettrica, ma di tutti i consumi, quindi anche il riscaldamento e i trasporti. Riducendo alcuni consumi e migliorando l’efficienza, è possibile soddisfare la domanda di energia con “soli” 1000 TWh (vedi grafico in basso), di cui 486 dall’eolico on shore, 240dall’offshore, 190 dal fotovoltaico, 50 dalle biomasse e 24 dall’idroelettrico (la Germania ha poche montagne). Questo significherebbe moltiplicare per nove l’attuale produzione rinnovabile; traguardo ambizioso, ma possibile, tenendo anche conto dei miglioramenti nella tecnologia.

Già, ma come funzionerebbe un mondo elettrico?

Il riscaldamento verrebbe fornito da pompe di calore che possono più o meno moltiplicare per tre l’energia elettrica impiegata (1). Con un miglioramento dell’isolamento termic, le esigenze di calore in Germania sarebbero soddisfatte da 330 TWh. I trasporti verrebbero realizzati con la doppia modalità di veicoli elettrici (120 TWh) e power-to-gas (235 TWh), cioè produzione di metano da fonti rinnovabili, di cui esistono già dei prototipi. La nostra speranza è che vinca il modello tedesco, progettuale e fortemente orientato alle rinnovabili, rispetto al modello americano, troppo timido e dominato dalle lobby fossili.

(1) La pompa di calore usa l’energia elettrica per spostare energia da un ambiente più freddo (esterno) ad uno più caldo (interno), in modo analogo ad un frigorifero (dove però gli ambienti sono scambiati).  Il rapporto tra calore in uscita e lavoro in ingresso è detto coefficiente di prestazione; dipende dalla differenza di temperatura, ed è all’incirca uguale a tre se il freddo esterno non è troppo intensoScenario-rinnovabili-Germania

Fonte: ecoblog