“Cerchiamo terreni incolti da assegnare in gestione”: l’appello dell’Associazione Fondiaria monregalese

Recuperare le superfici agricole e prendersi cura del territorio per garantire una produzione locale e sperimentare colture sostenibili: l’associazione Fondiaria monregalese è un esempio virtuoso della provincia di Cuneo e, attiva in più di una sessantina di comuni, aiuta a garantire la creazione di nuove attività di lavoro e lo sviluppo del territorio. Abbiamo intervistato il suo presidente Vittorio Camilla, che ci ha raccontato l’importante impegno delle associazioni fondiarie nella valorizzazione del territorio. Per mitigare i cambiamenti climatici viene spesso elogiato il ruolo degli alberi nel sequestrare anidride carbonica dall’atmosfera, e di conseguenza siamo portati a pensare che qualsiasi espansione del bosco sia da considerarsi positiva. Se così fosse, dovremmo celebrare il successo del nostro Paese nel ridurre le proprie emissioni climalteranti dato che la superficie boschiva italiana è aumentata addirittura del 75% negli ultimi 80 anni. Ma la realtà, in questo caso come in tutti quelli che riguardano gli ecosistemi in cui viviamo, è più complessa di quanto appare.

L’espansione del bosco evidenzia l’enorme perdita di superficie agricola utilizzata (SAU), ovvero la quantità di terra destinata alla produzione agricola in Italia. Solamente tra il 1990 e il 2016, ne è stata persa circa il 20%, corrispondente a circa 3 milioni di ettari di terreni coltivati. Non diversa è la situazione del Piemonte e della Provincia di Cuneo, dove l’agricoltura si è progressivamente concentrata in pianura, a discapito dei territori collinari (fatta eccezione per alcune colture specifiche come la vigna ed il nocciolo nelle Langhe e nel Roero) e di montagna. 

È quindi vero che ci sono più alberi a sequestrare anidride carbonica, ma se dobbiamo bruciare carburante per trasportare da lontano il cibo che non siamo più in grado di produrre localmente riduciamo davvero il nostro impatto ecologico? Evidentemente no. E la risposta è ulteriormente supportata dal fatto che l’abbandono del territorio causa un aumento del dissesto idrogeologico e del rischio di incendi, e il bosco d’invasione può diventare l’habitat naturale di alcuni parassiti. Recuperare almeno in parte la superficie agricola abbandonata risulta quindi fondamentale per ridurre i danni ambientali del nostro sistema economico. E risulta anche un’opportunità per sperimentare forme di agricoltura più giusta e sostenibile, un’agricoltura che si differenzi da quella industriale, causa principale dell’abbandono di terreni di collina e montagna difficili da lavorare con le grandi attrezzature moderne. Ritornare a coltivare in queste zone richiede però la possibilità di generare un ritorno economico per gli agricoltori, e la frammentazione fondiaria pone molto spesso un serio ostacolo su questo percorso.

Foto di Hans Braxmeier da Pixabay

Per ovviare a questo problema, a inizio 2019 la Regione Piemonte si è dotata di uno strumento innovativo nel panorama legislativo italiano: quello delle associazioni fondiarie. Queste sono libere unioni senza scopo di lucro fra proprietari di terreni pubblici o privati i quali, pur mantenendo la proprietà individuale del fondo decidono di affidarlo all’associazione affinché lo gestisca e lo valorizzi. Le associazioni permettono quindi di raggruppare aree agricole o boschi, abbandonati o incolti, che aumentano in valore economico e produttività nel momento in cui raggiungono una superficie sufficientemente ampia. Una delle ultime nate nel cuneese è l’Associazione Fondiaria Monregalese, che fin da subito si è distinta dalle altre per la notevole estensione territoriale sulla quale insiste. Sono infatti oggetto della sua attenzione tutti e 64 i comuni del monregalese, l’area prevalentemente collinare e montana circostante la città di Mondovì. L’Associazione Fondiaria monregalese è nata a fine 2019 e, come mi racconta il suo presidente Vittorio Camilla, «ambisce a contrastare la frammentazione di proprietà e lo scarso reddito agricolo che ha indotto ad un progressivo abbandono dei centri rurali e delle proprietà stesse, con effetto finora irreversibile».

L’aspirazione non è quindi limitata a recuperare terreni agricoli, ma ad influenzare tutti i comparti della zona. «A livello sociale, è infatti importantissimo l’aspetto di valorizzazione economica del territorio, l’avvio di pratiche virtuose che garantiscono la creazione di nuove attività di lavoro e da queste lo sviluppo di tutto l’indotto produttivo, sia commerciale che turistico», prosegue il presidente Camilla. 

Si tratta di un vero e proprio approccio di sistema grazie al quale l’associazione, essendo riuscita a coinvolgere un numero così alto di comuni, ha le potenzialità di ricevere in gestione un elevato numero di fondi da assegnare successivamente ad aziende agricole già presenti o di nuova costituzione. Di concerto con i comuni, l’associazione fondiaria ha inoltre il compito di mappare i terreni incolti e di redigere e attuare un piano di gestione del territorio che preveda un equilibrio tra le esigenze di produzione agricola e forestale e quelle di conservazione dell’ambiente e del paesaggio. Ma il percorso intrapreso non è stato finora semplice, come mi spiega ancora Vittorio Camilla. «Il progetto trova ostacolo nell’indifferenza, nella sfiducia, nei sospetti di coloro che dovrebbero impegnarsi in queste problematiche. Tra questi sospetti quello più ingiustificato riguarda la mancata restituzione del terreno se il proprietario lo desidera». La legge regionale infatti, prevede chiaramente il diritto di recesso del proprietario del terreno, nei limiti del rispetto del ritmo biologico delle annate agrarie e del capitale eventualmente investito sul fondo durante la gestione associata. In quest’ultimo caso, il proprietario che recede è tenuto a compensare la quota di capitale non ancora recuperata dall’associazione.

Foto di Daniel C da Piabay

Nonostante siano iniziate ad arrivare le prime disponibilità di terreni sia da parte di soggetti pubblici che di privati, sono necessari più conferimenti affinché l’associazione fondiaria monregalese possa esprimere al meglio le sua potenzialità di recupero di superficie agricola e di cura del territorio. Ed è proprio questo l’appello che il presidente Camilla fa a tutti i proprietari di terreni incolti nel monregalese, affermando che «occorre una mirata azione di accompagnamento e di informazione.  Anche per questi aspetti ci vuole impegno di quella minoranza attiva, consapevole che per progredire bisogna cambiare. L’Italia cambierà se noi riusciamo a cambiare».

E noi, che l’Italia che Cambia la vediamo e raccontiamo quotidianamente, non possiamo che rilanciare l’appello a tutti i proprietari di terreni incolti dell’area interessata: conferite i vostri terreni all’Associazione Fondiaria monregalese!

Per informazioni su come aderire, potete scrivere direttamente all’indirizzo mail: afmonregalese@gmail.com 

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/10/cerchiamo-terreni-incolti-assegnare-gestione-appello-associazione-fondiaria-monregalese/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

“Anche il biologico torni alla produzione locale”

Da 35 anni impegnati nell’agricoltura biologica con un’azienda in costante crescita e con un recente +13% nelle vendite. I membri della cooperativa La Terra e il Cielo fanno il punto di un’attività in cui hanno sempre creduto ma che oggi “conosce scenari inattesi perché molti vi vengono a cercare solo il business”. A parlare è Bruno Sebastianelli, presidente della cooperativa.cooperativa_terra_cielo

La cooperativa è in crescita? Com’è la situazione attuale in un mondo dove il biologico non rappresenta più una nicchia sconosciuta?

“Noi siamo da 35 anni nel biologico; oggi il mondo del bio è diventato interessante per i grandi gruppi e ci siamo accorti che le cose sono cambiate. Ora ci sono anche scandali, 30 anni fa c’erano solo gli idealisti che credevano nella coltivazione naturale, oggi tanti si buttano solo per business. Ma nonostante la crisi e gli scandali, il biologico cresce in maniera costante, secondo i dati Nomisma del 17 %. Anche noi rispettiamo questa tendenza con una crescita noi del 13%. Il problema però è che, mentre il biologico cresce, non tutte le aziende bio fanno altrettanto. Questo vuol dire che arrivano sempre più prodotti bio dall’estero e non sempre c’è trasparenza. La sfida è promuovere l’agricoltura biologica vera, perché sennò rischiamo di perdere un altro treno importante. Non è facile, le istituzioni in questo non ci danno una mano. Il biologico ha difficoltà non perché non produce reddito, ma perché è schiacciato dalla burocrazia. Il problema enorme è dato dai contributi che hanno generato una burocrazia spaventosa alla quale inginocchiarsi: se non arrivano l’azienda fallisce. L’obiettivo sarebbe arrivare a non chiedere nessun contributo. Il 40% del bilancio della comunità europea va all’agricoltura, ma realmente alle aziende agricole finisce molto meno. Noi abbiamo fatto un calcolo nella regione Marche dove alle aziende finisce il 25%. Conosco bene anche la regione Veneto dove abbiamo una cooperativa associata da diversi anni; lì alle aziende arriva solo il 18%. I soldi quindi vengono fagocitati prima di arrivare agli agricoltori. Il contributo schiavizza il produttore agricolo, noi dobbiamo slegarci da questo”.

Quali sono la mission e l’ideologia di base della cooperativa?

“Siamo un’azienda pioniera nel biologico. Quando abbiamo iniziato nel 1980 eravamo un gruppo di giovani, venivamo dagli anni ’70, poi ci siamo ritirati in campagna con l’idea finale di portare sul mercato dei prodotti sani. Il Comune di Senigallia decise di concederci un affitto politico, siamo rimasti in piedi con donazioni ed è partita l’esperienza di 32 ettari di agricoltura naturale, nell’ottica di rispettare l’ambiente e l’operatore agricolo, tutelare l’economia rurale e anche esportare l’agricoltura bio dei paesi extra Cee senza andar dietro alle speculazioni del mercato. Siamo partiti come cooperativa di conduzioni terreni, poi negli anni stavano nascendo aziende bio ed è venuto fuori il problema di come e dove commercializzare i prodotti. Nell’85 abbiamo modificato lo statuto perché c’era l’esigenza di unire le aziende, siamo passati a cooperativa di soci lavoratori”.

Quali sono i principi a cui non si deve rinunciare nonostante la crisi economica e la concorrenza?

“Naturalmente è la qualità del prodotto ma occorre tener conto del fatto che i prezzi dei prodotti alimentari non sono reali, vengono abbassati talmente tanto da non considerare i costi sociali e ambientali. Prendiamo ad esempio un pollo da allevamento intensivo; se andiamo a calcolare tutti i costi ambientali e sanitari che ha quel prodotto, che costa pochissimo, dovrebbe allora costare molto di più rispetto a quanto lo paghiamo. So purtroppo che ci sono persone che magari non arrivano alla fine del mese, ma non è giusto mangiare cibi non adeguati. Peraltro quel modo di produrre diventa concorrenza sleale. È tutto da rifondare; non si parlare di pasta a 39 centesimi al mezzo chilo, perché solo la semola di grano duro viene a costare più della pasta. Bisognerebbepuntare a un prodotto di qualità a un prezzo giusto, né troppo né poco, senza speculazioni in ribasso e in rialzo. Noi stiamo facendo questo. Stiamo nel nostro piccolo tentando di fare questo perché non è semplice. Anche nel mondo del biologico purtroppo c’è tanta concorrenza sleale, ci sono tantissimi prodotti che non sono tracciati. Io mi metto in concorrenza con chi mi garantisce una filiera tracciata italiana, con chi garantisce un prezzo giusto ai produttori. La pasta è il nostro prodotto principale; tutto il nostro prodotto integrale è macinato a pietra, nel mercato integrale invece ci sono anche il mulino a cilindri che non è ideale per ottenere un buon prodotto (la pasta bianca usa quello a cilindri). La maggior parte della pasta integrale in Italia non è veramente integrale: prendono la semola e la crusca e le mettono insieme. Che concorrenza è questa! Il mulino a pietra è fondamentale, lascia il germe e il suo contenuto proteico. Anche nell’ultima fase, la pastificazione a essiccazione lenta e a bassa temperatura, c’è un mondo da scoprire. Oggi sia nel convenzionale ma anche nel biologico, la maggior parte delle paste sono essiccate ad alta temperatura, così il calore distrugge tutte le sostanze nutritive, in pochissimo tempo avviene una perdita nutrizionale.  L’Istituto Nazionale della Nutrizione, dopo l’avvento alla fine anni ’70 dell’alta temperatura, ha condotto una ricerca sugli amminoacidi e la perdita nutrizionale: essiccando a 50 gradi risulta essere del 22%, a 80 gradi è del 47%. Oggi si essicca a 120 gradi! Noi impieghiamo 24 ore per essiccare la pasta, gli altri 4 ore. Noi cerchiamo di fare un prodotto di qualità. Chiaramente costa di più e chiaramente chi non ha soldi fa più fatica a comprarlo, se però ci si organizza con i gruppi d’acquisto noi possiamo portare il prodotto a un prezzo molto più interessante. È chiaro che se noi vendiamo ai distributori, i distributori al negozio e il negozio al consumatore ci sono tanti passaggi e il prezzo aumenta; se c’è il rapporto diretto con il gruppo d’acquisto costa molto meno”.

Da dove provengono i prodotti che vendete?

“La nostra cooperativa è composta da 100 aziende agricole soprattutto piccole, il 95% marchigiane, più qualcuna fuori regione per tutelarci negli anni di raccolto scarso. Quest’anno è stato disgraziato per il raccolto; abbiamo aziende in Lazio e una cooperativa in Basilicata per sopperire alle annate difficili”.

Quali sono i vostri prodotti principali?

“La pasta perché produciamo grano duro qui nelle Marche. Abbiamo 80 tipologie di pasta bio, di semola, bianca, linee trafilate al bronzo, integrale e semi integrale di farro. Inoltre abbiamo ripreso vecchie varietà dei contadini come la pasta di fave. Abbiamo anche recuperato i grani antichi, oggi le sementi convenzionali sono selezionate per fare grande produzione ma non qualità. Il primo cereale che abbiamo recuperato è stato l’orzo, una varietà scomparsa che andava molto negli anni guerra quando c’era il blocco del caffè. Allora tutti si erano organizzati con caffè d’orzo mondo. È una varietà più buona e nutriente rispetto all’orzo normale. Anche il farro è stato rilanciato dal mondo bio, ma pure il Senatore Capelli. Abbiamo il grano antico Taganrog, molto presente in epoca romana qui da noi, poi surclassato da altre varietà e finito stranamente in Ucraina. È stato riportato in Italia dalla zona del mar Nero, infatti si chiama così perché Taganrog è una città sul mar Nero. Stiamo lavorando con i cereali antichi perché ci siamo accorti che non danno intolleranza al glutine anche se contengono più glutine rispetto ai grani moderni. I grani creati nel dopoguerra hanno portato un disastro totale. I grani antichi vengono riconosciuti e digeriti dall’organismo che invece non  riconosce i grani che hanno subito modifiche genetiche. È un lavoro di riscoperta di queste varietà”.

Vi siete scontrati con il mondo della grande distribuzione?

“Il nostro fatturato è per il 60% in Italia e per il 40% all’estero. In Italia il 60% è diviso tra distributori, direttamente ai negozi, ai Gas e, localmente, alla grande distribuzione. In particolare per i gruppi d’acquisto abbiamo un listino a parte, questo merita attenzione perché abbiamo un listino commerciale e uno dell’economia solidale anche perché noi siamo stati promotori della rete di economia solidale delle Marche (resMarche) e collaboriamo con la res nazionale. Se uno acquista poco prodotto lo paga di più; se il Gas si impegna a fare un acquisto minimo annuale ottiene sconti. Garantiamo anche trasparenza dei prezzi, forniamo tutti i calcoli del costo del prodotto: chiariamo quanto paghiamo il grano, i costi che abbiamo (trasporto, stoccaggio, macinazione, pastificazione) fino al costo della pasta finale, più i nostri costi generali, più il 2% di utile (una cooperativa deve comunque avere un piccolo utile per sopravvivere). Inoltre il 2% del fatturato generato dai Gas (1% noi e 1% Gas) va a progetti di economia solidale. Quest’anno faremo presto l’assemblea, c’è un patto chiamato Adesso pasta! Chi ha firmato il patto può partecipare all’assemblea e decidere con noi a chi destinare il 2% (circa 4-5mila euro all’anno). L’anno scorso sono andati all’associazione no OGM, l’anno prima a un’associazione in Brianza che lottava contro un’infrastruttura che rovinava azienda biologiche. Inoltre nelle Marche vendiamo anche alla grande distribuzione solo in un discorso di economia locale. Anche perché se vai a trattare con i grandi gruppi a livello nazionale hai costi elevati; a livello locale, invece, ti cercano loro perché hanno bisogno dello specchietto per le allodole. Quindi siamo presenti in diversi supermercati”.

Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono un vero produttore bio, che permettono all’utente di avere garanzie certe? La solita critica che i diffidenti del biologico fanno è che nessuno può garantire che un prodotto sia biologico davvero. Ora che anche i grossi produttori/distributori (Coop, Conad… ) si sono messi a fare bio, cosa fa realmente la differenza?

“Di produttori storici siamo rimasti pochissimi, noi crediamo nella salvaguardia del piccolo produttore a livello sociale, ambientale perché dove ci sono le grandi aziende è un discorso diverso. La piccola azienda tutela e presidia di più il territorio, però è anche quella più in difficoltà, non riesce a stare dietro ai costi più alti. L’agricoltura industriale ha fallito, sia quella convenzionale che quella biologica. Ci sono 3 tipi di agricoltura bio: l’agricoltura biologica di frode; quella del contributo, cioè quella di chi semina solo per prendere il contributo; e l’ultimo tipo, l’agricoltura di piccola scala dei piccoli produttori. Con piccoli produttori intendo sui 50 ettari. In Italia c’è una grande discussione sulle frodi del biologico e si parla allora di rendere le regole più restrittive. Ci rimettono i piccoli agricoltori perché sono schiacciati dalla burocrazia che si crea intorno ai contributi. Che è spaventosa. A noi è successo qui nella nostra valle l’anno scorso, hanno tolto i contributi a diverse aziende associate. I grandi speculatori pensano solo a compilare i registri aziendali, invece un agricoltore chinato a coltivare la terra può sbagliare una data o un campo e allora viene tagliato fuori. Quindi bisogna rendere più severe le regole nel modo giusto sennò sono sempre i grandi produttori che vanno avanti a frodare e i piccoli a rimetterci. La FAO dimostra in uno studio che ancora per quasi il 70% il mondo mangia con i piccoli produttori e non con l’agricoltura industriale. Ora che l’agricoltura industriale ha fallito, ci propongono gli OGM. Noi dobbiamo opporci e salvaguardare le piccole aziende; nel bio è giusto che ci sia la certificazione per garantire il consumatore, però le certificazioni costano sempre di più e una piccola azienda fa fatica”.

Secondo i parametri convenzionali bisogna sempre incrementare la produzione e crescere per essere concorrenziali; voi che intenzioni avete?

“Per organizzarci al meglio dovremmo fare un salto di qualità nel percorso produttivo e ci manca un anello nella filiera della pasta (che è il 70 % della produzione): il pastificio. Collaboriamo con un pastificio artigianale da 32 anni. Il problema è che questo pastificio non ha futuro, il titolare va in pensione e gli eredi non ne vogliono sapere. Siamo quindi costretti a fare il salto di qualità e ammoderneremo pastifici vuoti. È ovvio che per fare un pastificio devi avere un fatturato minimo. Crescere è importante, ma noi non vogliamo diventare una grande azienda nè crescere solo per fare fatturato. Vorremmo solo vendere a un prezzo giusto. Comunque siamo per un’economia di sussistenza su piccola scala; abbiamo un fatturato di 20 milioni di euro quindi siamo piccoli. Dagli anni 80, ma soprattutto dai 90, abbiamo iniziato a vendere all’estero. Ci sono problemi di impatto ambientale ed economici e preferiamo privilegiare lo sviluppo di un’economia più locale. Stiamo promuovendo aziende della nostra valle, la valle del Nevola da Arcevia a Senigallia, nelle Marche. Tutti i Comuni eccetto uno hanno iniziato ad acquistare i prodotti e con i sindaci stiamo promuovendo l’agroalimentare bio, sviluppando l’agricoltura bio e le energie rinnovabili. In base consumi nazionali pro capite di pasta, nella nostra valle si consumano 24000 quintali di pasta all’anno; noi produciamo 8000 quintali di pasta all’anno rifornendo tutta l’Italia ed esportando in più di 20 paesi del mondo. È assurdo! La nostra produzione basta per un terzo della popolazione della zona, è chiaro che non riusciremo mai a venderla tutta qui ma dobbiamo puntare sull’economia locale”.

http://www.macrolibrarsi.it/data/partner/2867/31489.html

fonte: ilcambiamento.it