Commissione Ue: una proposta per il diritto all’informazione su durabilità e riparabilità dei prodotti

Previsto l’aggiornamento della direttiva sui diritti dei consumatori per renderli consapevoli della transizione verde nei propri acquisti. La proposta boccia l’informazione ingannevole e promuove prodotti con un ciclo di vita più lungo

foto Cashify

Arriva una proposta dalla Commissione europea per aggiornare la direttiva sui diritti dei consumatori e responsabilizzarli nella transizione verde. Con le nuove indicazioni, i consumatori potranno compiere scelte d’acquisto consapevoli e rispettose dell’ambiente e avranno il diritto di conoscere la durata prevista di un prodotto e come questo può essere riparato, laddove possibile. Inoltre le norme rafforzeranno la tutela dei consumatori da dichiarazioni ambientali inattendibili o false in quanto vietano il “greenwashing” e le pratiche ingannevoli sulla durabilità di un prodotto.

  • Durabilità: i consumatori devono essere informati della durabilità garantita dei prodotti. Se il produttore di un bene di consumo offre una garanzia commerciale di durabilità superiore a due anni, il venditore deve informarne il consumatore. Per i beni che consumano energia il venditore deve informare i consumatori anche quando il produttore non fornisce informazioni sull’esistenza di una garanzia commerciale di durabilità.
  • Riparazioni e aggiornamenti: il venditore deve fornire informazioni sulle riparazioni, come l’indice di riparabilità (se applicabile), o altre informazioni sulla riparazione messe a disposizione dal produttore, come la disponibilità di pezzi di ricambio o un manuale di riparazione. Per i dispositivi intelligenti e i contenuti e servizi digitali il consumatore deve essere informato anche in merito agli aggiornamenti del software forniti dal produttore.

I produttori e i venditori decideranno il modo più appropriato per fornire tali informazioni al consumatore, sia esso sull’imballaggio o nella descrizione del prodotto sul sito web. In ogni caso tali informazioni devono essere fornite prima dell’acquisto e in modo chiaro e comprensibile.

Divieto di greenwashing e obsolescenza programmata

La Commissione propone diverse modifiche della direttiva sulle pratiche commerciali sleali. Anzitutto la proposta amplia l’elenco delle caratteristiche del prodotto in merito alle quali il professionista non può ingannare il consumatore per includere l’impatto ambientale o sociale, la durabilità e la riparabilità. Aggiunge inoltre nuove pratiche considerate ingannevoli in base a una valutazione delle circostanze del caso, come la formulazione di una dichiarazione ambientale relativa alle prestazioni ambientali future senza includere impegni e obiettivi chiari, oggettivi e verificabili e senza un sistema di monitoraggio indipendente.

Infine modifica la direttiva sulle pratiche commerciali sleali aggiungendo nuove pratiche all’attuale elenco di pratiche commerciali sleali vietate, la cosiddetta “lista nera”. Le nuove pratiche comprenderanno, tra l’altro:

  • omettere di informare i consumatori dell’esistenza di una caratteristica introdotta nel bene per limitarne la durabilità, come ad esempio un software che interrompe o degrada la funzionalità del bene dopo un determinato periodo di tempo;
  • formulare dichiarazioni ambientali generiche o vaghe laddove l’eccellenza delle prestazioni ambientali del prodotto o del professionista non sia dimostrabile. Esempi di dichiarazioni ambientali generiche sono “rispettoso dell’ambiente”, “eco” o “verde”, che suggeriscono o danno erroneamente l’impressione di un’eccellenza delle prestazioni ambientali;
  • formulare una dichiarazione ambientale concernente il prodotto nel suo complesso quando in realtà riguarda soltanto un determinato aspetto;
  • esibire un marchio di sostenibilità avente carattere volontario che non è basato su un sistema di verifica da parte di terzi o stabilito dalle autorità pubbliche;
  • omettere di informare che il bene dispone di una funzionalità limitata quando si utilizzano materiali di consumo, pezzi di ricambio o accessori non forniti dal produttore originale.

Le modifiche mirano a offrire certezza del diritto per i professionisti, ma anche ad agevolare l’applicazione delle norme nei casi relativi al greenwashing e all’obsolescenza precoce dei prodotti. Peraltro la garanzia che le dichiarazioni ambientali sono eque permetterà ai consumatori di scegliere prodotti che siano effettivamente migliori per l’ambiente rispetto ai propri concorrenti. Sarà così incoraggiata la concorrenza spingendo verso prodotti più ecosostenibili, con conseguente riduzione dell’impatto negativo sull’ambiente.

Prossime tappe

Le proposte della Commissione saranno ora discusse dal Consiglio e dal Parlamento europeo. Una volta adottate e recepite nella legislazione nazionale degli Stati membri, garantiranno ai consumatori il diritto a rimedi in caso di violazioni, anche attraverso la procedura di ricorso collettivo di cui alla direttiva relativa alle azioni rappresentative.

Contesto

La revisione della normativa era stata annunciata nella nuova agenda dei consumatori e nel piano d’azione per l’economia circolare, con l’obiettivo di sostenere i cambiamenti del comportamento dei consumatori necessari per conseguire gli obiettivi climatici e ambientali del Green Deal europeo. Per elaborare la proposta, la Commissione ha consultato oltre 12.000 consumatori nonché imprese, esperti in materia di consumatori e autorità nazionali. Una delle maggiori criticità per la transizione verde sollevata nell’indagine riguarda soprattutto la verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni ambientali sui prodotti. Inoltre, circa la metà delle risposte ha indicato la disponibilità a pagare un extra per un prodotto che duri più a lungo senza dover subire riparazioni.

Le ricerche dimostrano che i consumatori si trovano di fronte a pratiche commerciali sleali che impediscono loro attivamente di compiere scelte sostenibili. L’obsolescenza precoce dei beni, le dichiarazioni ambientali ingannevoli (“greenwashing”), i marchi di sostenibilità o gli strumenti di informazione sulla sostenibilità non trasparenti e non credibili sono pratiche comuni. La proposta rientra nel più ampio obiettivo della Commissione europea di fare dell’Unione il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050. La proposta sarà integrata da altre iniziative, tra cui l’iniziativa sui prodotti sostenibili (anch’essa adottata il 30 marzo) e le prossime iniziative volte a dimostrare la veridicità delle dichiarazioni di ecocompatibilità e sul diritto alla riparazione (per cui è aperta una consultazione pubblica fino al 5 aprile 2022). L’imminente iniziativa sul diritto alla riparazione si concentrerà sulla promozione della riparazione dei beni dopo l’acquisto, mentre l’iniziativa odierna sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde impone l’obbligo di fornire informazioni sulla riparabilità prima dell’acquisto e tutela dalle pratiche sleali legate all’obsolescenza precoce. Il 23 febbraio 2022 la Commissione europea ha adottato la proposta sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, che stabilisce norme chiare ed equilibrate affinché le imprese rispettino i diritti umani e l’ambiente e tengano una condotta sostenibile e responsabile. Parallelamente la Commissione si adopera per sostenere le imprese attraverso la transizione verde, anche con iniziative di carattere volontario come l’impegno per un consumo sostenibile.

Fonte: ecodallecitta.it

Real Junk Food Cafe and Restaurant e nuovi prodotti dagli sprechi alimentari, ecco la via british per combattere gli sprechi

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Nel Regno Unito hanno preso vita due progetti curiosi sullo spreco di cibo. Il primo più popolare strizza l’occhio al recupero mentre il secondo, più scientifico, guarda al cibo sprecato come una risorsa nutrizionale. La lotta allo spreco di cibo è fatta di tanti protagonisti, ognuno a modo suo affronta la questione con mezzi e approcci diversi. Nel Regno Unito, di recente, hanno preso vita due progetti che a loro modo mettono al centro lo spreco di cibo. Il primo più popolare, che strizza l’occhio al recupero del cibo mentre il secondo, più scientifico, guarda al cibo sprecato come una risorsa nutrizionale.

A Manchester una cucina mobile contro lo spreco alimentare

Grazie a un progetto di crowdfunding, a Manchester nei prossimi mesi aprirà il Real Junk Food Cafe and Restaurant, ossia una cucina mobile che si sposterà in giro per la città inglese andando a recuperare gli sprechi direttamente nelle fattorie, orti, mercati e tra i cassonetti dei supermercati. L’idea è nata con dopo una serie di eventi di recupero degli sprechi alimentari in giro per la città e dopo la raccolta di 20mila sterline (circa 23mila euro, ndr), attraverso il crowfunding, così da permettere la sopravvivenza della cucina mobile per sei mesi. Una spinta al progetto è arrivata dallo chef Hugh Fearnley-Whittingstall, da sempre impegnato in prima linea contro gli spechi. “Tutti i pasti – dicono gli organizzatori – provengono al cento per cento da alimenti che sarebbero andati sprecati. È tutta una questione di inclusione, di comunità e sostenibilità. Oltre a fornire ottimi pasti, rendiamo le persone più consapevoli sui rifiuti alimentari, sulla sostenibilità e su una dieta sana. Vogliamo rendere il nostro sistema alimentare più accessibile”.

Per stimolare gli avventori a riflettere meglio su di un pasto nato con queste premesse, gli organizzatori hanno applicato particolare modalità di pagamento: il P. A. Y .F. (pay as you feel) ovvero che i clienti pagano una cifra pari al valore che riconoscono in quel pasto, oppure “donando il loro tempo, energie e competenze per il progetto” come dicono gli organizzatori. Il progetto è diventato una realtà a Manchester, ma in molte altre città del Regno Unito, europee e australiane altri locali e progetti si sono uniti nella rete The Real Junk Food Cafe and Restaurant.

La ricerca sul valore nutrizionale dei rifiuti alimentari

Scienziati e ricercatori della Loughborough University stanno lavorando a un progetto per la riduzione degli sprechi alimentari, approfondendo la ricerca su di un sistema di produzione alimentare che limiti lo spreco. Il costo della ricerca è pari a 800mila sterline (circa 910mila euro, ndr), denari finanziati interamente dal Engineering and Physical Sciences Research Council (EPSRC) nato dalla collaborazione delle università di Loughborough, York e Nottingham che prevede studi approfonditi sul valore nutrizionale degli sprechi alimentari, così da creare nuovi prodotti idonei al consumo umano. Se si considera che la sola Gran Bretagna produce circa 9,9 milioni di tonnellate di rifiuti alimentari, e il 56% di questo spreco è prodotto dalla filiera, ossia il processo produttivo (molto spesso industrializzato) che porta il cibo dai campi alla nostra tavola, è facile intuire quanto essenziale sia limitare gli sprechi. Per il Professor Shahin Rahimifard della Loughborough’s School of Mechanical, Electrical and Manufacturing Engineering e direttore dell’University’s Centre for Sustainable Manufacturing and Recycling Technologies dice che le attuali strategie per affrontare lo spreco di cibo sono rudimentali e di basso valore: “come l’incenerimento e, dove possibile,la produzione di mangimi per animali, compostaggio e a volte la discarica. Si tratta di una ricerca molto interessante che potrebbe vedere per la prima volta la creazione di nuovi prodotti alimentari destinati al consumo umano aggiornando il contenuto nutrizionale dei rifiuti alimentari. Si potrebbe avere un impatto significativo sulla sicurezza alimentare mondiale“.

Fonte: ecodallecitta.it

Prodotti senza olio di palma: sulle confezioni sempre più diciture “palm oil free”

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Ogni volta che si parla di olio di palma, il dibattito pubblico su questa diffusissima materia prima si spacca in due parti: da una parte i detrattori, coloro che, oltre a sottolinearne la nocività per l’ambiente, pongono l’accento sulle conseguenze sulla salute, dall’altra i sostenitori, quelli che dicono che non fa male alla salute e che le aziende serie utilizzano soltanto olio di palma da piantagioni certificate. Anche se in scala ridotta, sembra di assistere alla stessa contrapposizione che vede i sostenitori dei cambiamenti climatici da una parte e i negazionisti dall’altra. Sostituite l’olio di palma con il petrolio: in entrambi i casi il movente dei negazionisti è il margine di guadagno che le due risorse garantiscono alle aziende che coltivano ed estraggono. Quello dell’olio di palma è un business enorme che fa piazza pulita della concorrenza potendo contare su un ingrediente a buon mercato che riduce i prezzi del 40-50% rispetto a chi utilizza olio o burro. La sfida sul prezzo fra chi lo utilizza e chi non lo utilizza è improponibile, ma dall’inizio di quest’anno, da quando cioè l’Unione Europea ha reso obbligatoria la dicitura “olio di palma” invece del più generico “olii vegetali”, si è potuta aprire una nuova sfida che privilegia salubrità ed etica al prezzo. L’obbligo della dicitura ha permesso ai consumatori di capire chi utilizza e chi non utilizza olio di palma. Dopo una prima fase nella quale le aziende alimentari non hanno voluto esplicitare la loro posizione, limitandosi a elencare gli ingredienti come da regolamento, da qualche settimana a questa parte hanno deciso di giocare la carta della segnalazione “senza olio di palma” o “palm oil free”.

Personalmente mi sono accorto della nuova dicitura acquistando una confezione di biscotti che prima dell’estate non segnalava l’assenza di olio di palma. Fra i pionieri di questa tendenza c’è Alce Nero, il marchio che ha rinunciato all’olio di palma nei frollini nel lontano 2004. Successivamente anche Arte Bianca,Gentilini e Grondona hanno seguito la stessa strada. Il vero giro di vite c’è stato quest’anno, non per una presa di coscienza collettiva, ma soltanto per ragioni di business. In soldoni: se non ci fosse stato l’obbligo di segnalazione fra gli ingredienti il divario di prezzo fra utilizzatori e non utilizzatori sarebbe rimasto “immotivato”. Dopo un po’ di mesi di “transizione” alcuni marchi hanno deciso di rinunciare all’utilizzo e molti hanno scelto di inserire la dicitura “senza olio di palma” sulle proprie confezioni, in modo da essere più competitivi sul mercato. Il numero dei marchi che hanno eliminato (totalmente o parzialmente) la sostanza dai loro prodotti sono, fra gli altri, Misura, Paluani, Granoro, Tre Marie, Galbusera, Viaggiator Goloso, Coop ed Esselunga. Altre aziende invece di investire su ingredienti di qualità hanno preferito investire su campagne di comunicazione a favore dell’olio di palma. Alcune delle imprese che lo utilizzano in abbondanza, inutile dirlo, sono fra le più importanti inserzioniste pubblicitarie del settore alimentare…

Foto | Mazzocco

Fonte: ecoblog.it

Leggere le etichette: come riconoscere i veri prodotti biologici

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L’acquisto di alimenti biologici è una scelta fatta un numero sempre maggiore di famiglie italiane. Le ragioni di questa decisione possono essere varie, tra cui l’esigenza di poter accedere a prodotti sani e sicuri e la voglia di poter fare qualcosa in più per l’ambiente, nel rispetto dei suoi naturali processi di produzione e senza l’utilizzo di sostanze nocive per il terreno e per l’uomo. Una diffusione così ampia di cibi biologici, però, può avere anche un risvolto negativo: la contraffazione. Per questo, è necessario che i consumatori siano adeguatamente informati sugli strumenti messi a loro disposizione per il riconoscimento dei veri prodotti naturali. Lo strumento più potente in tal senso è l’etichettatura. L’Aiab, l’Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologicaha stilato una sorta di vademecum utile per guidare i consumatori nel riconoscimento dei veri prodotti biologici. Vediamo insieme allora quali sono alcuni dei punti principali a cui prestare attenzione, per riconoscere un alimento bio dall’etichetta. Innanzitutto, i Regolamenti e Documenti a cui ci si riferisce quando si parla di etichettatura biologica sono due: Regolamento CE 834/07 e CE 889/08, attualmente in vigore per l’Agricoltura biologica, e Regolamento CE 271/10, che definisce l’uso del nuovo logo europeo e modifica alcune norme di etichettatura. Il termine “biologico” può essere utilizzato solo per i prodotti che rispettino tali regolamenti. Le fascette, le etichette, gli imballaggi primari e secondari che accompagnano il prodotto fino al consumatore costituiscono “etichetta”, pertanto le indicazioni relative al metodo di produzione biologico devono sempre rispettare quanto previsto dai regolamenti CE 834/07 e CE 889/08 ed essere autorizzate da un organismo di controllo a sua volta autorizzato dal Ministero delle politiche agricole e forestali (Mi.P.A.A.F). Sui prodotti biologici certificati deve essere riportata in etichetta: la scritta “da Agricoltura Biologica” seguita da Nome (e facoltativamente il logo) dell’Organismo che esegue il controllo e suo numero di autorizzazione ministeriale. Codice dell’Organismo di Controllo. Codice dell’azienda produttrice e Numero di autorizzazione alla stampa dell’etichetta.

Possono contenere il riferimento di “biologico” in etichetta:

  1. il prodotto che è stato ottenuto secondo le norme dell’agricoltura biologica o è stato importato da paesi terzi nell’ambito del regime di cui ai Reg. CE 834/07 e CE 889/08;
  2. il prodotto i cui ingredienti non derivanti da attività agricola (additivi, aromi, preparazioni microrganiche, sale, ecc.) e i coadiuvanti tecnologici utilizzati nella preparazione dei prodotti rientrano fra quelli indicati nel Reg. CE 889/08
  3. il prodotto i cui ingredienti il cui ciclo produttivo sia totalmente libero da ogm
  4. la materia prima (ingrediente) «biologica» che non è stata miscelata con la medesima sostanza di tipo convenzionale
  5. il prodotto o i suoi ingredienti non sono stati sottoposti a trattamenti con ausiliari di fabbricazione e coadiuvanti tecnologici diversi da quelli consentiti nel regolamento del biologico, e che non abbiano subito trattamenti con radiazioni ionizzanti.

Come riportato da La Stampa, nel caso di prodotti con più ingredienti (ad esempio i biscotti), per poter utilizzare la dicitura “da Agricoltura Biologica” occorre che almeno il 95% degli ingredienti siano biologici certificati. Il restante 5% è rappresentato da una lista di ingredienti normalmente non certificabili (es. sale). Non è ammessa la miscela biologica e non biologica di un singolo ingrediente (es. farina). Esiste inoltre un marchio unico europeo per l’agricoltura biologica che contraddistingue gli alimenti prodotti nei paesi dell’Unione Europea. Il logo europeo si DEVE apporre ai prodotti chiusi confezionati ed etichettati, con una percentuale prodotto di origine agricola bio di almeno il 95%. È invece FACOLTATIVO nei prodotti con le stesse caratteristiche ma provenienti da paesi terzi. PROIBITO nei prodotti con un % bio inferiore al 95%. In questo caso l’etichettatura del prodotto riporterà queste informazioni: indicazioni necessarie per identificare la nazione, il tipo di metodo di produzione, il codice dell’operatore, il codice dell’organismo di controllo preceduto dalla dicitura “Organismo di controllo autorizzato dal Mi.P.A.A.F”. Meglio diffidare dei prodotti che riportano diciture “biologico” o “bio” che siano generiche e non dotate di una etichettatura chiara, che risponda ai criteri appena descritti.

(Foto: images.bidorbuy)

Fonte: ambientebio.it

Roma assegna 3 terre pubbliche: nasceranno aziende agricole con prodotti a Km0

Vendita diretta di prodotti a chilometri zero, fattorie didattiche e reinserimento lavorativo di persone svantaggiate: questi alcuni dei progetti che saranno realizzati nelle prime 3 terre pubbliche dell’agro romano assegnate ai giovani con un bando dell’amministrazione capitolina. A dicembre un nuovo bando380859

Daniel Burrai, Mario Sonno e la cooperativa agricola CO.R.AG.GIO. faranno nascere tre nuove aziende agricole nella tenuta Redicicoli, a Tor de’ Cenci e al Borghetto San Carlo. Sono loro infatti i vincitori del primo bando di Roma Capitale per l’assegnazione di terre pubbliche e immobili rurali in disuso a giovani sotto i 40 anni, proclamati questa mattina dal sindaco di Roma Ignazio Marino, dal vicesindaco Luigi Nieri, dall’assessore all’ambiente Estella Marino e dal presidente del III Municipio, Paolo Marchionne. Tra le attività che verranno realizzate nei tre lotti, affidati per 15 annidall’Amministrazione Capitolina, la vendita diretta di prodotti a chilometri zero, fattorie didattiche e centri estivi per ragazzi, orti sociali, reinserimento lavorativo di persone svantaggiate, un agri-ristoro e un “parco avventura”.
“È una splendida giornata per celebrare una promessa fatta in campagna elettorale”, ha commentato il sindaco di Roma Ignazio Marino che ha simbolicamente donato ai vincitori tre sacchetti di semi biologici di grano tenero. “Invece di mettere nuovi blocchi di cemento nel nostro verde, abbiamo deciso di avviare un percorso che valorizzi l’Agro romano e il lavoro dei giovani. È un’occasione importantissima e queste prime terre assegnate disegneranno il percorso che il Comune vuole prendere”. Sono stati 104 i progetti presentati, l’80% dei quali proposti da giovani alle prese per la prima volta con un’idea imprenditoriale. Il 34% è costituito da donne. Per l’assessore Estella Marino “l’assegnazione di queste terre per costituire nuove imprenditoria giovanile è una scelta vincente, che va nella direzione del recupero del territorio degradato”. Il bando, pubblicato a maggio scorso, ha assegnato i primi 3 lotti per un totale di 83 ettari di terreno agricolo inseriti in aree di pregio dell’Agro Romano, comprensivi di un casale o di strutture rurali da recuperare. “Entro dicembre presenteremo il prossimo bando con altre quattro aree, complessivamente per altri 95 ettari”, ha poi annunciato il sindaco Marino, mentre il vicesindaco Luigi Nieri ha spiegato che “la prima, di 25 ettari, si trova nel Municipio XI, due aree sono nel Municipio III, rispettivamente di 10 e 40 ettari e la quarta area, di 20 ettari, è nel Municipio IV”. Ecco nel dettaglio le prime 3 terre assegnate e i relativi vincitori, con cui è prevista nei prossimi giorni la stipula di un contratto d’affitto quindicennale e di un atto d’obbligo per definire controlli e modalità di attuazione dei progetti agricoli, mentre un sostegno al recupero degli edifici è già previsto nel Bilancio 2014 di Roma Capitale.
La Tenuta Redicicoli, inserita nella Riserva naturale della Marcigliana, è stata assegnata a un giovane di 21 anni, Daniel Burrai, sostenuto da un partenariato composto da aziende agricole e cooperative sociali già operanti nel Municipio III. Il progetto vincitore per l’area di Tor de Cenci, facente parte della Riserva naturale di Decima, è stato proposto dal trentatreenne Mario Sonno, espressione di un partenariato co-promotore che ha i suoi punti di forza nella cooperazione sociale per il reinserimento, con il lavoro agricolo, di soggetti svantaggiati. Si è aggiudicato il lotto di Borghetto San Carlo, area di grande pregio all’interno del Parco di Veio, la cooperativa agricola CO.R.AG.GIO., costituita da 15 giovani agricoltori. La cooperativa insieme alle coltivazioni orticole e al frutteto biologico, si è impegnata a far nascere una bio-agriturismo lungo il percorso della via Francigena e un parco avventura per i più piccoli, con innovative modalità di fruizione della campagna.

Fonte: ecodallecitta.it

Cibi a Km 0, a Fano si sfidano 8 cuochi amatoriali per Chef in the City

Menù anticrisi e con prodotti alimentari a KM 0, è questa la formula del concorso Chef in the City 2014, gara di cucina amatoriale.

La cucina riserva sempre grandi sorprese e per questo i ristoranti di Fano, cittadina in provincia di Pesaro-Urbino, a novembre tornano con la gara Chef in The City, in cui si sfideranno chef amatoriali che per le loro sfide utilizzeranno solo prodotti a Km 0. I cibi locali o comunemente detti a Km 0 sono spesso stati al centro di polemiche poiché non tutti sono convinti che il loro consumo possa incidere sulla riduzione delle emissione di CO2. In realtà i cibi locali e coloro che li consumano, i locavori, sostengono che questi prodotti non solo hanno un impronta ambientale più bassa, ma tengono vive, tradizioni alimentari e sopratutto la biodiversità.chef-in-the-city-620x465

La gara consiste nella sfida tra 8 chef amatoriali che di settimana in settimana entreranno nelle cucine professionali di un ristorante in gara e prepareranno un menù completo per i clienti e a prezzo calmierato di 25 euro con soli prodotti locali.

Spiegano gli organizzatori:

E’ una scelta fatta per dare al pubblico che parteciperà all’evento, l’opportunità di scoprire, gustandoli, i migliori prodotti del nostro territorio. Chef in the City si è già caratterizzata per l’alta qualità dei piatti presentati durante le sfide. Ora è il momento di fare un passo in avanti, presentando sulle tavole ingredienti di prima scelta, freschi, in grado di dare la giusta visibilità a chi investe, nonostante la crisi, sulla realtà locale.

Ma il progetto Chef in The City va anche oltre creando un sistema virtuoso tra i ristoranti che vi prendono parte grazie agli 8 chef amatoriali che si sfideranno a colpi di ricette che prevedono solo ingredienti locali: dal pesce, alla carne, alla pasta, ai formaggi ai vini tutti prodotti in zona, incluse le pentole fornite da una ditta locale.

Dicono gli organizzatori:

Per rispondere alle difficoltà del settore abbiamo messo in sinergia le aziende locali, abbiamo dato loro l’opportunità di mostrare le loro eccellenze attraverso un’iniziativa che unisce la buona tavola alla spettacolarità e alla passione per la cucina durante delle serate in cui i clienti, ad un prezzo calmierato di 25 euro, potranno partecipare a delle cene-evento.

Fonte:  Comunicato stampa

Rifiuti. Cosa fa la grande distribuzione italiana per ridurre a monte i rifiuti?

Dondi della Coop Estense di Ferrara: “Non si capisce perché in questo paese il dentifricio si vende in un contenitore di carta?”. Focus alla Fiera del Levante per spiegare cosa può fare la grande distribuzione italiana per ridurre a monte i rifiuti. Dalle attività di studio per ridurre gli imballaggi e alla donazione dei prodotti in scadenza. La creazione del “prodotto marchio”

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Cosa può fare la grande distribuzione italiana insieme al settore della produzione e della trasformazione, per ridurre a monte i rifiuti? Lo ha spiegato Mirco Dondi, vicepresidente della Coop Estense intervenuto alla 78° Fiera del Levante a un convegno organizzato dall’assessorato della Regione Puglia in qualità di relatore.  «Il sistema coop Estense rappresenta una delle più importanti catene nazionali nel nostro territorio e da questo punto di vista proprio la politica aziendale per noi è una realtà che si sviluppa sia a livello nazionale, con grandi direttrici (e il marketing è una delle leve che fa sì che aumenti la sensibilità ambientale), sia a livello territoriale per quanto riguarda le singole cooperative.
La prima riflessione è legata alle politiche di sensibilizzazione. Non è possibile soltanto affidarsi a tecnologie e ai sistemi contabili, se non conquistiamo i cittadini questa battaglia avrà sempre risultati assolutamente deludenti.
La seconda è quella relativa invece alla nostra azione del “non spreco” e quindi un’azione che di fatto sottrae prodotti che sono destinati al compattatore. Alcuni prodotti vengono ritirati prima della scadenza e devoluti con azione di donazione. Sono 2500 le famiglie che ricevono prodotti con questa pratica. Questa azione rappresenta una delle attività di cui andiamo più orgogliosi, essendo noi da questo punto di vista fautori di questa pratica dal 1999.
L’obiettivo per la nostra azienda è la realizzazione del “prodotto marchio” . Il ragionamento di fondo è questo: è necessario pensare non solo al contenuto, ma anche al contenitore e al processo tecnologico-industriale che accompagna appunto la formazione di questi beni. Se non abbiamo attenzione su questi tre stadi fondamentalmente non abbiamo la riduzione dei consumi voluta. Per questa ragione il tema vero è stato quello di introdurre con grande rilevanza un’attività di studio e di verifica su come ridurre gli imballaggi. Non si capisce perché in questo paese il dentifricio si vende in un contenitore di carta, io non so se qualcuno di voi usa mai il contenitore di carta la mattina. Anche questa cosa banale c’è voluto anni per portarla nei supermercati. Quindi il contenitore è l’elemento fondamentale. Noi dal 2007 vendiamo detergenti sfusi, faccio solo un esempio per quanto riguarda la nostra catena coop estense, questo dato conduce a non portare al compattatore circa 500 mila flaconi, questo è un dato rilevante da questo punto di vista. Qual è il beneficio che ha il consumatore? Ha uno sconto del 10-20% sui prodotti e ha di conseguenza l’onere di portarsi il contenitore ogni volta per farlo riempire di questo materiale.
Seguire tutto il processo produttivo, infine, è fondamentale. Se vogliamo merci e servizi sotto il profilo ecologico di qualità, noi dobbiamo aver un grande senso di unità tra chi produce e chi distribuisce, quindi la nostra grande attenzione per esempio è legata a tutte le norme comunitarie. Noi scegliamo fornitori che siano in grado di rispettare assolutamente questi protocolli che sono certificati e che siano un elemento di garanzia per quanto riguarda i prodotti».

Fonte: ecodallecitta.it

L’India tassa il consumo di Coca Cola per tutelare la salute pubblica

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Che bere Coca Cola faccia male alla salute, esperti e scienziati lo affermano ogni giorno, accendendo aspri dibattiti tra i sostenitori e gli oppositori di uno dei più grandi colossi del mercato alimentare. Ma c’è chi ha fatto qualcosa in più che mettere semplicemente in guardia i consumatori.  Il governo del Partito del Popolo Indiano (BJP) ha infatti deciso di creare una nuova imposta sulla bevanda gassata tra le più consumate nel mondo, per scoraggiarne l’acquisto. La decisione di creare una nuova imposta del 5% sulla Coca Cola è contenuta nella legge finanziaria 2014-2015. La motivazione che ha portato a questa decisione, fanno sapere i politici del neo governo indiano di Narendra Modi, è semplicissima ed è che questa bevanda fa male alla salute. La tassazione, effettuata come misura volta a tutelare la salute pubblica, è stata accompagnata da un rincaro di altri prodotti nocivi, come le sigarette, il tabacco e il “pan masala”, una miscela di spezie da masticare. L’urgenza di prendere provvedimenti per bloccare il consumo di coca cola sembra essersi presentata anche a fronte della costante crescita delle vendite del prodotto. Nei mercati nuovi ed emergenti dell’Asia, come quello cinese, la Coca Cola registra un aumento di vendite di nove punti percentuali all’anno, mentre in quello indiano la crescita delle vendite si attesta al 10% annuo. Naturalmente, c’è anche chi ha commentato il provvedimento con un certo scetticismo, affermando che un semplice rincaro non scoraggerà il consumo delle bibite gassate, soprattutto visto che continuano a essere pubblicizzate dalle star di Bollywood. L’annunciato rincaro ha incontrato il favore dei medici, sempre più preoccupati per l’aumento di casi di diabete e obesità, soprattutto nei bambini. Contrari, ovviamente, i produttori che saranno costretti ad aumentare i prezzi. Secondo quanto riportato da Il Fatto Quotidianogli affari per la Coca Cola in India, nonostante la crescita del consumo, non stanno andando bene. Lo stabilimento di Varanasi, ad esempio, ha dovuto temporaneamente chiudere a causa dell’assenza di un permesso che avrebbe dovuto autorizzare l’uso delle falde acquifere della città. L’azienda avrebbe investito 5 miliardi di dollari sul territorio per aumentare i guadagni e adesso rischia di vedere i suoi progetti di ampliamento andare in fumo. Nonostante le ripetute azioni di  Greenwashing adottate dall’azienda in questi ultimi anni, non ultima la Coca-Cola life dolcificata con la stevia, sembra proprio che questo colosso stia iniziando a perdere presa sui consumatori. Almeno su quelli più attenti.

Un’azione simile a quella dell’India, e sicuramente più drastica, è stata proposta ad esempio due anni fa dalla Bolivia. Il governo di allora, infatti, decise di bandire dal Paese il prodotto fissando una dead line al 21 dicembre 2012.
La decisione fu presa perché, secondo quanto affermato dall’allora ministro degli esteri, David Choquehuanca: “il contenuto della Coca Cola ha sostanze che pregiudicano la salute e che potrebbero provocare attacchi cardiaci e tumori. Si tratta di una decisione di salute ma anche di cultura”.

Non solo, in Bolivia, la multinazionale è stata più volte attaccata anche per i modus operandi utilizzati nei processi di produzione. In questa sede abbiamo più volte parlato dei rischi di bere bevande gassate. In particolare, abbiamo visto cosa questi prodotti provocano nel nostro organismo minuto per minuto e come riescano ad arrecare ai nostri denti gli stessi danni creati da cocaina e metanfetamine.

(Foto: Thomàs)

Fonte: ambientebio.it/

Pappa reale, miele e propoli bio stranieri spacciati per italiani: sequestrati dalla Forestale

I Forestali di Bari hanno sequestrato un ingente quantitativo di pappa reale biologica cinese venduta come biologica italiana, miele di origine serba commercializzato come miele biologico italiano e propoli con denominazione illecita Propoli D.O.C..forestale1-620x622

Ingenti quantitativi di miele serbo ma venduto come biologico italiano, propoli Doc e pappa reale bio ma proveniente dalla Cina su cui erano state apposte etichette Made in Italy sono stati sequestrati dai Forestali del Nucleo Tutela Regolamenti Comunitari e della Sezione di Analisi Criminale di Bari in collaborazione col personale dei Comandi Provinciali di Ancona e Milano, per le indagini in corso sulla sicurezza a tutela del “Made in Italy”. La frode consiste nell’aver messo in vendita prodotti stranieri spacciandoli per Made in Italy, ingannando il consumatore così circa la reale origine del miele, propoli e pappa reale. Al momento risulta una persona segnalata alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trani che peraltro ha anche ha emesso un provvedimento di sequestro probatorio dei prodotti su tutto il territorio italiano. Il traffico illegale di prodotti esteri con etichetta italiana si realizzava nel Nord Italia a opera di due aziende che importavano i prodotti e che provvedevano poi a trasferirli in una terza azienda ma in Puglia. Qui avveniva l’etichettatura falsa con enorme guadagno: la pappa reale veniva acquistata a 100 Euro al chilo e rivenduta all’ingrosso a 700-800 euro al chilo, per essere poi commercializzata dalle migliori erboristerie a 12-14 euro ogni 10 grammi. Le indagini sono partite dopo le denunce inoltrate da una associazione di produttori nazionali che hanno subito gravi danni dal commercio fraudolento poiché i prodotti stranieri, spesso di basso valore commerciale e di difficile tracciabilità, entravano in concorrenza sleale con i prodotti delle aziende degli apicoltori nazionali che subiscono maggiori costi e controlli. E infatti le indagini dei Forestali proseguono ora con le analisi sui prodotti sequestrati al fine di valutare la presenza di metalli pesanti o altri contaminanti pericolosi per la salute.

Fonte/ Foto : Corpo Forestale

Commercio equosolidale: il Fairtrade in Italia piace:+17% nel 2013

Fairtrade da record: +17% nel 2013: i prodotti del commercio equosolidale certificato toccano la cifra record di 76 milioni di euro

Cresce a due cifre il commercio equosolidale in Italia facendo registrare un’impennata nel giro d’affari pari al 17% che tradotta in soldoni equivale 76 milioni di euro nel 2013. I consumi italiani per cacao, zucchero e cotone scelgono il nuovo modello di commercio etico. Il boom di vendite si realizza in un contesto di crisi il che fa riflettere sulla necessità dei consumatori di affidarsi evidentemente a pochi prodotti ma di qualità che assicurino anche attenzione sia all’ambiente sia ai diritti dei lavoratori che li portano sul mercato. Infatti, secondo la ricerca condotta i Nielsen per Fairtrade Italia e presentata nei giorni scorsi all’incontro “Fairtrade sostenibilità sociale e ambientale per un’azienda responsabile” a Milano rivela che attesta che per il 97% degli intervistati è importante il processo produttivo; per il 65% i prodotti etici sono già conosciuti e che il 41% li considera affidabili.fairtrade-526x350

Il marchio Fairtrade è conosciuto dai consumatori grazie alla qualità dei prodotti anche se è la comunicazione ad averli interessati e coinvolti il che porta a riconoscere questo genere di prodotti come etici appunto all’interno della loro categoria. Infatti, il prodotto fairtrade a essere maggiormente venduto sono le banane che hanno fatto registrare il +8% ossia 9.000 tonnellate e quelle biologiche fanno registrare addirittura il +13% il che vuol dire che 6 delle banane vendute nel 2013 avevano la certificazione sia biologica sia del commercio equosolidale; si piazzano bene anche i prodotti dolciari che hanno ingredienti Fairtrade: +52%; il caffé fa registrare il +15% con anche le 550 tonnellate di caffè verde.

Ha detto Paolo Pastore direttore operativo di Fairtade Italia:

Fairtrade è un circuito virtuoso che continua a registrare segnali positivi. Il trend di sviluppo ci incoraggia a portare avanti il lavoro svolto negli ultimi anni, oggi anche alla luce della ricerca di mercato Nielsen. Questo accade nei 20 anni dalla nostra fondazione, che festeggeremo ad ottobre, e ci dà piena soddisfazione rispetto ai risultati raggiunti.

Infine è stato presentato un nuovo modello commerciale per cacao, zucchero e cotone che saranno denominati Fairtrade sourcing programs permettendo, in pratica, alle aziende di poterli acquistare per tipologie di prodotto o per l’intera produzione secondo le condizioni Fairtrade.

Fonte: ecoblog.it