Smog, Bruxelles apre una nuova procedura d’infrazione contro 19 zone d’Italia

L’Italia torna nel mirino dell’Ue per il mancato rispetto della normativa sulla qualità dell’aria. Le aree colpite vanno da Nord a Sud e interessano dieci Regioni italiane: Veneto, Lombardia, Toscana, Marche, Lazio, Puglia, Sicilia, Molise, Campania e Umbria. Le autorità italiane devono rispondere, fornendo chiarimenti, entro fine ottobre380456

L’Italia torna nel mirino dell’Ue per il mancato rispetto della normativa sulla qualità dell’aria: una nuova procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea accusa diciannove zone e agglomerati di mettere in pericolo la salute dei cittadini con livelli di smog troppo elevati. Le aree colpite vanno da Nord a Sud e interessano dieci Regioni italiane: Veneto, Lombardia, Toscana, Marche, Lazio, Puglia, Sicilia, Molise, Campania e Umbria.
La procedura d’infrazione è stata aperta lo scorso luglio con l’invio di una lettera di messa in mora a cui le autorità italiane devono rispondere, fornendo chiarimenti, entro fine ottobre. Se la risposta non dovesse essere ritenuta soddisfacente, la Commissione europea potrà passare alla seconda fase della procedura attraverso un parere motivato in cui inviterà l’Italia a mettersi in regola al più presto con le norme sulla qualità dell’aria. Non è la prima volta che l’Italia viene bacchettata da Bruxelles per la violazione della legislazione che dal 2005 impone livelli massimi di concentrazione delle polveri sottili. Una precedente procedura d’infrazione si era conclusa nel 2012 con una condanna della Corte di giustizia che confermava il mancato rispetto nel 2006 e nel 2007 dei limiti di PM10 in 55 zone. A pochi anni di distanza, l’esame dei valori di polveri sottili ha mostrato che in 13 di queste 55 aeree i valori massimi sono stati continuamente superati anche nel periodo 2008-2012. Per questo motivo la Commissione europea ha deciso di avviare una nuova procedura d’infrazione che, oltre alle 13 aree già identificate nella precedente indagine, coinvolge sei nuove zone e agglomerati. L’Italia non è il solo Paese a non ancora aver attuato pienamente le norme sulla qualità dell’aria, non rispettate complessivamente da 17 Stati membri dell’Ue.  Negli ultimi cinque anni il rispetto della legislazione sulle polveri sottili è stato fra le priorità del commissario europeo all’Ambiente, Janez Potocnik, e il nuovo commissario designato Karmenu Vella ha promesso battaglia sullo stesso fronte. “La qualità dell’aria è un problema ancora molto grave e con effetti negativi sulla salute, sull’ambiente e sull’economia”, ha affermato oggi il politico maltese durante un’audizione davanti agli eurodeputati. “Conto di agire velocemente su questo”, ha aggiunto Vella, impegnandosi a non permettere “standard diversi” fra i Paesi Ue, perché tutti i cittadini hanno diritto “allo stesso livello di tutela”.

 

Fonte: ecodallecitta.it

Acqua all’arsenico, l’Ue verso la procedura d’infrazione

I Radicali Roma presentano un’esposto all’Unione Europea in merito alla presenza di arsenico nelle acque in molte zone del Lazio

Acqua all’arsenico.

Un tema caldissimo, nonostante sia costantemente tenuto sotto silenzio, per molti abitanti della Regione Lazio, alcuni dei quali si sono ritrovati diversi mesi fa con la potabilità revocata persino nelle abitazioni private, dopo che per anni si è innalzato il livello di arsenico previsto a norma di legge. Un problema che, tra promesse della giunta regionale precedente e di quella attuale, tra le continue proroghe al rientro nella legalità per i comuni fuorilegge, le accuse reciproche tra istituzioni e le recenti decisioni del sindaco di Roma Marino, che ha revocato la potabilità per le acque dagli acquedotti ARSIAL (provenienti dal viterbese). Persino l’OMS ha dichiarato il rischio per la salute pubblica ma nonostante questo l’ultima deroga, per alcuni comuni, è scaduta il 31/12/2012 e prevedeva un valore massimo di Arsenico pari a 20 µg/l. Insomma, il problema arsenico nelle acque potabili è una delle tante problematiche gravi che la Regione Lazio si porta dietro da diversi anni, senza che nessuno abbia mai realmente tentato di risolvere il problema. Per questo motivo l’associazione Radicali Roma ha presentato unadenuncia alla Commissione europea, chiedendo di intervenire:

“Nonostante siano passati ormai sedici anni dall’approvazione della Direttiva europea, in alcuni comuni del Viterbese si denunciano gravi ritardi nella realizzazione di impianti di potabilizzazione, tanto è vero che in diversi territori si registrano valori di arsenico molto più elevati dei limiti sopracitati. Ma non è stata solo la provincia viterbese ad aver subito notevoli ritardi negli interventi, tant’è che il Sindaco di Roma, Ignazio Marino, il 21 febbraio del 2014, ha emanato l’ordinanza n. 36 avente per oggetto: «divieto di utilizzo dell’acqua proveniente dagli acquedotti rurali ARSIAL (Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione in Agricoltura) per il consumo umano con particolare riferimento all’emergenza arsenico nelle more che siano collegati alla rete ACEA ATO2 S.p.A.». Tale ordinanza è conseguente all’effettuazione di apposite analisi da parte della ASL Roma C che hanno evidenziato che gli acquedotti di cui trattasi presentano acqua con caratteristiche chimiche e batteriologiche non adatte al consumo umano a causa del superamento dei valori di parametro prescritti di cui al D.Lgs 31/2001. […] Questi sono solo alcuni dei motivi che, oggi, ci hanno spinto a presentare una dettagliata denuncia alla Commissione europea per i superamenti dei valori limite di 10 µg/l per l’arsenico.”

hanno recentemente dichiarato Massimiliano Iervolino, membro della Direzione nazionale di Radicali italiani, e Paolo Izzo, segretario dell’associazione Radicali Roma, motivando l’esposto in sede europea. La denuncia, presentata in sede europea l’11 giugno scorso, è stata accolta dalla Commissione europea, che il 25 giugno ha avviato un’indagine che porterà probabilmente ad una procedura d’infrazione. Procedura che andrebbe ad aggiungersi, ricordano i Radicali Roma, alle 117 già in essere; non certamente edificante, come posizione, anche perchè la Regione Lazio si trova da tempo centro di vari procedimenti aperti in sede europea, alcuni finiti davanti la Corte di Giustizia europea. Ci riferiamo in particolare agli impianti di trattamento rifiuti di Roma, alle discariche del Lazio dove sarebbero finiti rifiuti non trattati, gli scarichi di acque reflue in zone sensibili, le 218 discariche illegali di rifiuti tra le quali 32 dislocate nel Lazio. Una regione, il Lazio, che a livello ambientale è completamente fuori norma: dai veleni nella Valle del Sacco all’acqua all’arsenico nel viterbese passando dai rifiuti di Roma all’eternit di Latina, non esiste provincia nella quale non vi siano situazioni di illegalità ambientale e di pericolo per la salute pubblica. Questo nonostante i bei proclami della giunta Zingaretti, che a livello ambientale non si è discostata molto dalla scia della giunta Polverini, certamente non eccellente sotto il profilo della tutela della legalità e dell’ambiente.

“A dispetto di questo pericolo imminente – dovuto finanche a nuove indagini o a recenti procedure aperte da Bruxelles – quasi tutti fanno finta di niente. La Regione Lazio, intanto, sui temi legati all’ambiente, continua a essere parte in causa nelle accuse che l’Europa indirizza all’Italia. Fino a quando?”

spiegano in un comunicato i radicali Iervolino e Izzo.arsenico-586x350

Fonte: ecoblog.it

Efficienza energetica: Italia condannata dalla Corte di giustizia Ue, ma per ora niente sanzioni

I giudici del Lussemburgo hanno condannato l’Italia per due inadempienze in materia di certificazione energetica degli edifici. Giudicati tardivi i provvedimenti correttivi varati dal Governo nel tentativo di evitare la sentenza. Il provvedimento, comunque, non prevede pene pecuniarie, a parte l’obbligo di pagare le spese375347

La Corte europea ha condannato l’Italia per non aver recepito correttamente la direttiva 2002/91/CE in materia di efficienza energetica degli edifici. La sentenza C-345/12 della sez. X, del 13 giugno 2013 (vedi allegato), in particolare, è stata emessa per il mancato rispetto dell’obbligo di dotare dell’Attestato di prestazione energetica (Ape) gli edifici nuovi e quelli di vecchia costruzione in caso di affitto, nonché per la possibilità, ora revocata, di autocertificare la classe energetica per gli immobili più energivori. Per cercare di scongiurare la condanna, il Governo Letta aveva inserito alcune misure nel Dl 63/2013, pubblicato in Gazzetta ufficiale lo scorso 6 giugno, rendendo obbligatorio l’Ape (in sostituzione del vecchio Attestato di certificazione energetica) anche nei casi di immobili in affitto. Mancando il decreto attuativo, però, la misura non è ancora in vigore e non è bastata a convincere la Corte Ue. Su questo punto è arrivata la precisazione di Confedilizia, che ha chiarito che il pronunciamento riguarda «una situazione pregressa, già sanata dall’Italia prima del deposito della decisione», sottolineando la necessità di procedere al più presto all’applicazione del decreto legge 63/2013 approvato dal Governo. Nel dettaglio, la sentenza «constata che la deroga, contenuta nella legislazione italiana, all’obbligo di consegnare un attestato relativo al rendimento energetico in caso di locazione di un immobile ancora privo dello stesso al momento della firma del contratto, non rispetta la direttiva 2002/91 (articolo 7, paragrafo 1), che non prevede una deroga simile». Proprio su questo punto è intervenuto il Dl 63/2013, che ha reso obbligatorio l’Ape, di durata decennale, anche per gli immobili da affittare, ad eccezione di: edifici e monumenti protetti, luoghi esclusivi di culto e attività religiose, costruzioni temporanee per destinazione d’uso uguale o inferiore a due anni, edifici o parti di edifici isolati con meno di 50 metri quadri e gli edifici usati meno di quattro mesi all’anno, oltre a quelli con Ace in corso di validità e rilasciato conformemente alla direttiva 2002/91/CE. L’Ape, di durata decennale, dovrà essere rilasciato da esperti qualificati e indipendenti, insieme a raccomandazioni e suggerimenti per il miglioramento dell’efficienza energetica dell’edificio stesso. Condannata dai giudici del Lussemburgo anche la possibilità, da poco eliminata, di autocertificazione della classe energetica da parte dei proprietari di edifici aventi un rendimento energetico molto basso, ovvero quelli in classe G, definita «in contrasto con la direttiva (articolo 7, paragrafi 1 e 2 e articolo 10) che non prevede tale deroga». Anche questo rilievo era noto da tempo, da quando cioè la Commissione europea aveva aperto ai danni del nostro Paese una procedura di infrazione proprio per queste due irregolarità, sanate successivamente dal Governo italiano. Troppo tardi, evidentemente. «La Repubblica italiana – si legge nella sentenza – è condannata alle spese». Ma come mai non sono state previste altre sanzioni? «La Corte è stata adita con un cosiddetto ricorso per inadempimento: suo compito, in questo tipo di procedura, è quello di stabilire se lo Stato italiano abbia o meno adempiuto correttamente agli obblighi derivanti dalla partecipazione all’Unione Europea – spiega l’avvocato Paola Tafuro, esperta in diritto comunitario – Qualora riconosca l’esistenza dell’inadempimento, la Corte pronuncia, come in questo caso, una prima sentenza, indicando le misure che lo Stato membro avrebbe dovuto adottare per rimediare alla situazione». A questo punto, però, il Governo nazionale chiamato in causa deve davvero varare gli opportuni correttivi, se non vuole incorrere in successive sanzioni. «In seguito, se ritiene che lo Stato membro non abbia preso le misure necessarie, la Commissione può adire una seconda volta la Corte di giustizia – aggiunge Tafuro – Se in questo secondo giudizio la Corte riconosce che lo Stato membro non si è conformato alla sua prima sentenza,può comminargli il pagamento di una penalità». Una possibilità che in questo caso non dovrebbe concretizzarsi, dal momento che nel frattempo l’Italia è già corsa ai ripari. «In questo caso – conclude l’avvocato – non ci saranno sanzioni, se, di fatto l’Italia ha adempiuto, ovvero se ha adottato le misure adeguate per uniformarsi alla Direttiva». Di qui l’urgenza di adottare il decreto attuativo del Dl 63/2013, che finalmente porrà termine alla querelle. In ogni caso, resta il peso “politico” della sentenza, che arriva a circa due anni dall’apertura della procedura d’infrazione da parte di Bruxelles.

Fonte: eco dalle città