Una comunità nella Natura che ha preso vita durante la pandemia

Daniela e la sua famiglia sono in viaggio da tempo per sperimentare nuovi stili di vita, liberi e nomadi; poi è scoppiata la pandemia. Come a volte accade, la crisi è diventata un’opportunità e il piccolo gruppo ha scoperto un villaggio in mezzo alla Natura dove trascorrere la quarantena e praticare la vita comunitaria.

 “Insieme di persone unite tra loro da rapporti sociali, linguistici e morali, vincoli organizzativi, interessi e consuetudini comuni: comunità nazionale, cittadina; agire nell’interesse della comunità; comunità umana, la società degli uomini, il consorzio umano; comunità di affetti, la famiglia”.

Questo è il significato generale che troviamo sul dizionario della lingua italiana alla voce Comunità. L’immaginario che si crea intorno a questo termine, oggi più che mai, rimanda la maggior parte delle persone a un bisogno insoddisfatto di condivisione e calore, a contesti lontani e non quotidiani, resi ancora più distanti dalla spaccatura sociale causata dall’isolamento forzato dopo gli ultimi accadimenti mondiali.

Dalla cima di una collina, ecco la terra che ci ha ospitato durante la quarantena, vicino a Odemira, Portogallo.

Se ritorniamo al significato proprio del termine, comunità è un concetto molto ampio e può riguardare ogni gruppo di persone che sceglie consapevolmente di dichiarare come comuni dei valori e delle pratiche di vita, e lavorare insieme per portarle avanti e rispettarle. Un condominio ospita potenzialmente una comunità; un quartiere, una squadra di lavoro, una scuola, un gruppo sportivo, un insieme di persone che condividono un progetto o una passione, sono terreni fertili per coltivare il senso di comunità. Ma da dove si comincia a costruire un progetto comune, soprattutto quando si parla di comunità di vita quotidiana? Identificare il progetto e i valori sui quali fondarlo è sicuramente il miglior punto di partenza. In questo primo passo è insita la necessità individuale e familiare di avere ben chiaro quale sia il proprio progetto di vita e su quali valori vuole essere fondato, step fondamentale per poi confrontarsi con gli altri, accettarne le differenze e trovare compromessi e soluzioni, dove possibili. Questo primo gradino, che sembrerebbe il più semplice, è tuttavia molto delicato: conoscere se stessi, i propri bisogni, lavorare per portare alla luce la propria visione di vita richiedono un lavoro di introspezione profonda. Io e la mia famiglia, per scoprire noi stessi, siamo andati alla ricerca della nostra visione con un camper, in giro per il mondo.

Le intense esperienze condivise insieme hanno unito grandi e piccoli, creando un clima di genitorialità condivisa.

Sembra paradossale pensare di fare il primo passo verso la costruzione di una comunità abbandonando il tessuto sociale nel quale si vive e girare il mondo, liberi da qualsiasi vincolo con altre persone. Invece questa scelta ci ha permesso di scoprire cosa davvero ci fa battere il cuore, cosa ci fa vivere sereni, cosa per noi è superfluo, cosa è fondamentale. Ed è successo che, più ci sentivamo a nostro agio nella vita on the road, più i nostri incontri con altre famiglie si facevano frequenti, e più eravamo attirati da persone che avevano scelto una vita simile alla nostra. Scegliere è la strada per trovare il proprio cammino. Lo scorso autunno, scegliendo di lasciare definitivamente le quattro mura che ci legavano al territorio lombardo, abbiamo deciso di dare spazio alla vita che sentivamo corrispondesse ai nostri valori e l’abbiamo seguita. E più le davamo spazio, più la nostra visione si palesava ai nostri occhi e nelle nostre vite.

Il nostro cammino, che ci ha condotto in Portogallo passando per Francia, Spagna e Marocco, si è incrociato nuovamente con quello delle famiglie con cui sentivamo di avere un legame profondo e, spontaneamente e senza forzature, gli avvenimenti vissuti insieme ci hanno condotto su un sentiero comune.

Appena sapute le restrizioni portoghesi per arginare l’epidemia covid, cerchiamo di trovare soluzioni per poter stare insieme, in luoghi isolati dell’Algarve e vicino all’oceano, che purtroppo si sono dimostrate non conformi alle leggi decise dalle istituzioni statali. Mentre eravamo in riva al mare, con amici vecchi e nuovi, su una bellissima spiaggia dell’Algarve, siamo stati travolti dallo tsunami della pandemia mondiale, che ci spingeva ad allontanarci uno dall’altro e a trovare ognuno una casa in affitto o a tornare ai nostri paesi di origine, per rispettare le normative sulla quarantena. In un momento in cui le istituzioni mondiali chiamavano all’isolamento, noi abbiamo deciso di stare uniti, di cercare un luogo adatto per poter passare la quarantena tutti insieme, trovando rifugio in un grande terreno di un amica tedesca. Proprio lì, in una stupenda radura tra i boschi del distretto di Odemira, abbiamo cominciato a sperimentare cosa volesse dire vivere come una comunità, come un piccolo villaggio, condividere spazi, tempi e progetti. Le assemblee in cerchio sono state un altro passo fondamentale per confrontarci ed esprimere visioni generali su ciò che desideravamo, e a prendere decisioni riguardanti la vita quotidiana, come l’orto comune e lo spazio per i bambini. Ma ancora più importante è stato, giorno dopo giorno, ascoltare noi stessi e gli altri, chiedendoci se ciò che stavamo vivendo corrispondeva a ciò che volevamo per noi e la nostra famiglia; le risposte sincere che ci siamo dati hanno portato a separare la nostra strada da una famiglia con cui non condividevamo lo stesso progetto di vita e, al contempo, hanno rafforzato la coesione con quelle a noi affini. Il passo successivo dopo la quarantena è stato affittare un terreno insieme, dove proseguire il cammino verso il nostro progetto di comunità: un gruppo spontaneo di persone libere, amiche, che non ha doveri o progetti comuni obbligatori, ma condivide il calore dello stare uniti.

Donne, mamme, compagne, amiche, sostenitrici della comunità, camminano insieme sulle radure nel distretto di Odemira, Portogallo. Crescere insieme e imparare quotidianamente uno dall’altro, aiutarsi a vicenda, sorreggersi, costruire un piccolo villaggio in mezzo alla natura, che le sia rispettoso, una cucina comune e uno spazio di apprendimento per i bambini e le bambine, sono le basi su cui abbiamo deciso di lavorare insieme; il resto sarà un fluire di energie, volontà e sincronicità, in cui tutto è possibile e niente è forzato. Chi fosse interessato a seguire il nostro viaggio di vita può trovare informazioni e contatti sul sito www.sentierinontracciati.com oppure su facebook sulle pagine Il mandala acchiappasogni e sul profilo personale Daniela De angelis. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/07/comunita-natura-durante-pandemia/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

CycloLenti in Portogallo: vivere e imparare a Tribodar

“Non è una gomma, non è una caramella ma allora che cos’è…?”. Vi ricorda qualcosa? Come lo slogan di questo famoso marchio di caramelle il posto in cui ci troviamo “non è un ecovillaggio, non è una fattoria, non è una comunità, ma allora che cos’è…?”.

“If you can walk you can dance…” recita una scritta appoggiata all’ingresso. Se puoi camminare puoi ballare e se puoi sognarlo allora puoi anche realizzarlo. È così che, dal sogno di Michael, belga, e Moabi, portoghese, nasce Tribodar, uno spazio di apprendimento non formale su più livelli:
– Sociale
– Vita di comunità
– Crescita personale
– Coscienza ecologica e sostenibilità

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Siamo ad un paio di chilometri da Nisa, nell’entroterra del Portogallo, e qui comprare un terreno non è caro, parliamo di circa €4.000 all’ettaro. Facciamo subito la conoscenza di uno dei membri di vecchia data: Gennaro, napoletano, è architetto ed è appassionato di costruzioni naturali. Proprio qualche giorno fa hanno finito di costruire l’ossatura di un’abitazione con tetto reciproco. Una tecnica in cui le travi si autosostengono tra loro. Affascinante! Durante la nostra permanenza contribuiremo principalmente raccogliendo, pulendo e inchiodando delle canne sul tetto. Per quanto possa sembrare tutto caotico qui la giornata è abbastanza organizzata. Due ore al mattino e due al pomeriggio sono dedicate al “lavoro”, poi tutto il resto del tempo è per sé. Ciò solo dal lunedì al giovedì. Inoltre, a turno, due volte a settimana, in cambio di frutta, si va ad aiutare una coppia di anziani a riporre l’invenduto del mercato nel furgone. Venerdì, sabato e domenica sono giornate completamente libere da impegni collettivi. Ci sono sessioni di yoga, massaggi, oguno può organizzare dei workshop, cerchi di comunicazione, e la domenica mattina ci si riunisce per definire a grosse linee la settimana che viene: ossia turni per cucinare e progetti da portare avanti! Di solito, se il numero lo permette, cucini una volta alla settimana e poi non te ne preoccupi più… due volte al giorno “dlin dlin dliin” è il campanellino, il piatto ti aspetta in tavola!. Ma il “dlin dlin” non è l’unico suono. Dei lunghi “ihhh ohhhh” si ripetono durante la giornata. È l’asinello, che insieme ai due inseparabili gattini, sono gli unici animali di Tribodar. È un cucciolo e necessita di compagnia. Tra tutti i volontari, cibo e carezze di certo non gli mancano. Una grande terrazza coperta e ombreggiata da una vite funge da cucina comune. Sono almeno tre i frigoriferi presenti… ma attenzione solo uno è quello funzionante, gli altri sono usati come degli armadi. In un angolo delle mensole contengono vestiti di tutti i generi. Si tratta dello spazio in cui ognuno può lasciarvi o prendere qualcosa.tribodar2

L’assortimento di nazionalità è sorprendente: scozzesi, canadesi, francesi, inglesi, olandesi, italiani e chi più ne ha più ne metta. È divertente vedere come ognuno si improvvisa cuoco per un giorno, ovviamente quando è un italiano a cucinare, è tutta un’altra storia!  Tribodar non ha un’attività economica fissa. Sebbene l’uso del denaro sia ridotto al minimo ci sono comunque delle spese. Gli introiti principali provengono dal Tribojam, il festival che organizzano una volta all’anno, e il contributo che i volontari a breve termine danno per sostenere le spese vive, come viveri e materiali vari. Sono organizzati con un sistema a scaglioni temporali. Più tempo rimani e più il tuo contributo economico si riduce, fino ad annullarsi. Passa dai 6€ al giorno la prima settimana, ai 5€ la seconda, 1€ se si rimane per un mese e nulla se si rimane per più tempo.  Nei mesi di settembre e ottobre sono in programma costruzioni di casette con tetto reciproco, quindi, chiunque fosse interessato  ad apprendere questa tecnica è il benvenuto.tribodar3

Prima di andare via, Gennaro, con forbici alla mano, e con molta pazienza,  soddisfa uno dei clienti più difficili dal barbiere: Marco. Un taglio qui e un taglio là e la testa riesce di nuovo a sentire il vento che passa tra i capelli.

A Tribodar una cosa è certa: nonostante ci sia un’organizzazione di base, qui non ci sarà mai nessuno che verrà a dirti cosa fare, tutto parte da te, tutto è semplicemente spontaneo.

 

Intervista ai membri di Tribodar

 

Com’è iniziato Tribodar?

Moabi: Tribodar è iniziato con un sogno. Io e Michael abbiamo ragionato a lungo sulle cose che ci piacciano e non. Dalle nostre conversazioni è emerso un punto fondamentale per entrambi, ossia che il sistema attuale di educazione si basa poco sullo sviluppo individuale della persona e ciò che lo rende felice. Questo ci ha dato la forza di creare un luogo in cui ognuno abbia la possibilità di imparare in un modo diverso.

Che cos’è Tribodar oggi? 

Michael: È l’inizio di una comunità e un centro d’apprendimento. Alcuni sono alla ricerca di modi di vivere sostenibili, altri vengono per vedere ed imparare ciò che facciamo. C’è chi viene per una settimana o due, chi per un mese, chi ci rimane. Questo costante movimento influisce molto sulla vita di comunità. Oggi siamo strutturati in modo che una persona nuova che arriva, anche se rimane per un breve periodo, possa velocemente capire come funziona, inserirsi e dare il suo contributo.

C’è stato un momento specifico nella tua vita in cui hai realizzato che il tuo sogno era realizzabile?
Michael: Sono cresciuto in un contesto abbastanza alternativo. Mia madre è un insegnante Steineriana e mio padre uno psichiatra convertito alla medicina alternativa e all’educazione spontanea. Credo di essere cresciuto con un gran senso di libertà che mi ha fatto realizzare che c’è assolutamente bisogno di un nuovo modo di fare la scuola. Uno dei motivi per i quali le persone si sentono bloccate nelle loro vite è perché ci sono delle condizioni non dette che fanno credere che non si è liberi di scegliere la propria strada.  Sin da bambino sei abituato a dover stare seduto, zitto e fare ciò che l’insegnante ti dice. Si cresce, ed è lo stesso all’università, infine entri nel mondo del lavoro e ancora una volta finisci col fare quello che il tuo capo ti dice di fare. Se non c’è nessuno che ti dice di fare diversamente allora non lo fai, ma soprattutto non sei preparato per farlo. Hai paura e ti blocchi. Per me era chiaro che avrei scelto un’altra via e già venti anni fa pensavo ad una soluzione che mi permettesse di non essere vincolato alle logiche della società moderna e così alla fine sono arrivato al concetto di comunità.tribodar4

Qual era la tua vita prima e come sei arrivato qui in Tribodar?

Gennaro: Qualche anno fa abitavo a Napoli e conducevo una vita del tutto comune. Ho una laurea in architettura e lavoravo tutto il giorno in ufficio per una grossa azienda che costruisce infrastrutture pubbliche. Non ero per niente soddisfatto e quindi ho lasciato il lavoro e sono  partito per il Sud America. Un lungo viaggio che mi ha cambiato la vita. Mi capitò di partecipare ad un progetto di permacultura in cui ho scoperto e studiato diversi tipi di costruzioni naturali. Da qui è nata la mia passione per questo tipo di costruzioni. Al termine del viaggio, con un amico d’infanzia, siamo venuti in Portogallo e ci siamo fermati a Tribodar. Qui ho avuto la possibilità di provare e sperimentare ed è così che oggi mi sono specializzato in costruzioni con legni tondi.

Elena: Vivevo a Berlino e una mia amica stava pensando di trasferirsi in Portogallo e unirsi a qualche ecovillaggio. La cosa mi ha incuriosito e ho deciso di accompagnarla, così solo per un mese. Berlino è fredda e l’idea di un po’ di caldo non mi dispiaceva. Sono arrivata a gennaio e dopo un paio di giorni ho pensato: “questo è il mio posto”. Così, ancora prima di ripartire, avevo già acquistato il biglietto per ritornare ad aprile, ed eccomi qua!

 

Che suggerimenti dareste a chi vuole intraprendere la stessa strada?

Moabi: Prima di tutto consiglierei di iniziare un qualsiasi progetto con un gruppo di amici e comunque in almeno cinque persone. Noi eravamo in due e con un bambino. È stata una bella prova. Inoltre è fondamentale, se si è un gruppo, che le idee e la visione siano ben chiare in modo che tutti remino nella stessa direzione.

Michael: Sicuramente una cosa che mi sento di consigliare è di non iniziare immediatamente un nuovo progetto, ma darsi il tempo di guardarsi intorno per conoscerne altri. In questo modo si ha la possibilità di:
– Valutare se unirsi a qualche progetto esistente o meno. Partire da zero è molto duro, soprattutto all’inizio, inoltre c’è troppa gente che vuole cominciare il proprio progetto e pochissimi che vogliono unirsi ad uno esistente. Se tutti facessero così non ci sarebbero più comunità ma solo tanta gente che vorrebbe crearne una.
– Imparare da altre realtà cosa ci piace e cosa non ci piace. Iniziare un ecovillaggio è un po’ come reinventare un nuovo mondo sotto diversi aspetti, quello sociale, economico, alimentare, edilizio, gestione dell’acqua e tanti altri. Sono tutte dinamiche abbastanza complesse già di per sè ed è quindi fondamentale fare dell’esperienza in tal senso per non ritrovarsi completamente spaesati.

Quali sono i progetti futuri di Tribodar?

Uno dei più grandi progetti è quello di iniziare una “scuola democratica”, ossia una scuola in cui i bambini e gli adulti possano imparare senza un programma predefinito. Guidati dai propri interessi piuttosto che da materie imposte, in completa libertà. Oggi sperimentiamo una sorta di educazione informale che si basa semplicemente sulla spontaneità.

Contemporaneamente vorremmo sviluppare una comunità su un’altro terreno qui vicino di nostra proprietà. Un posto in cui le persone possano vivere in armonia con la natura, ma soprattutto un’area più riservata in modo che i membri permanenti non debbano vivere nello stesso luogo in cui c’è il centro d’apprendimento. Infine vorremo sviluppare Tribojam, un festival che vede quest’anno la sua seconda edizione. Si tratta di un evento con dei nuovi concetti. Ad esempio non ci sono gruppi ingaggiati per suonare, ma tutta la musica è improvvisata. Inoltre proponiamo una serie di workshop sulla sostenibilità ambientale, libera educazione, crescita personale e così via.

 

Il sito di Tribodar 

Il blog CycloLenti 

fonte:  italiachecambia.org/

 

Il karma della bicicletta: in Spagna e Portogallo le auto si reincarnano in due ruote

Carma Project e Bicycled utilizzando materiali di vecchie auto dismesse creano biciclette artigianali. L’obiettivo? Compensare i chilometri fatti con il carburanteImmagine10-586x319

C’è un filo rosso che unisce il riciclo creativo, la bicicletta e il design, un filo che rifiorisce in primavera, nella stagione in cui le biciclette tornano a impossessarsi delle arterie cittadine, non senza problemi dovuti al traffico motorizzato. Nel giro di un decennio le biciclette da città sono diventate un vero e proprio oggetto di culto sulle quali designer e creativi hanno scatenato genio e intuizioni artistiche. Ora con Carma Project si parla addirittura di metempsicosi del metallo, da quello delle vecchie automobili, a quello delle bici. Il progetto è semplice (a dirsi): far nascere biciclette nuove di zecca da pezzi di ricambio di vecchie auto. L’idea è venuta a due giovani imprenditori di Lisbona che hanno deciso di mettere a punto una bicicletta con “il karma di un’auto” e con una missione ecologica da portare a termine: quella di compensare i chilometri percorsi dal veicolo da cui è stata creata. Nella sua “seconda vita” l’automobile reincarnatasi in una bicicletta espierà i suoi peccati contro l’ambiente. Sempre dalla penisola iberica arriva anche il progetto Bicycled che realizza biciclette a partire dagli scarti provenienti da vecchie auto dismesse. L’intento è di realizzare pezzi unici utilizzando il metallo per la struttura, gli inserti morbidi che rivestono gli interni per il sellino, le maniglie delle portiere per i fari e la cinghia di distribuzione come catena per la nuova bici. I metalli sono quelli tradizionali, già perché il pregiatissimo carbonio delle biciclette da corsa è impossibile da riciclare. La bicicletta è leggera ma la sua anima è pesante…

Fonte:  Bicycled | Carma Project

Energie rinnovabili: nel 2011 il 13% dei consumi dell’Unione Europea è stato da fonti pulite

Nel Nord Europa gli Stati membri maggiormente virtuosi. A Malta soltanto lo 0,4% dei consumi da fonti rinnovabilirinnovabili-586x1083

Oggi, vi proponiamo un’elaborazione di Centimetri sulla base dei dati di consumo di Eurostat relativi al 2011. Anche in questo caso il dato complessivo fa registrare un trend di crescita sensibile e in linea con l’obiettivo di raggiungimento del 20% nel 2020. Nel 2011 il 13% dei consumi energetici dell’UE è stato coperto dalle fonti rinnovabili, una crescita sensibile rispetto al 7,9% del 2004. In Italia, nello stesso periodo, si è passati dal 4,9% al’11,5% e le proiezioni per il 2020 (quando l’Europa dovrebbe assestarsi sul 20%) sono del 17%. Gli squilibri fra gli Stati membri dell’UE sono enormi: se Norvegia e Svezia hanno fatto registrare, rispettivamente, 64,7% e 46,8%, le maglie nere sono rappresentate da Malta (0,4%), Lussemburgo (2,9%), Gran Bretagna (3,8%), Belgio (4,1%) e Olanda (4,3%). Nei sette anni presi in esame (2004-2001) dall’indagine Eurostat l’aumento più sensibile è avvenuto in Svezia (dal 38,3% al 46,8%), Danimarca (dal 14,9% al 23,1%) e Austria (dal 22,8% al 30,9%). Grandi progressi hanno fatto registrare la Germania passata dal 4,8% al 12,3% e l’Estonia cresciuta dal 18,4% al 25,9%. La Croazia, 28esimo Stato membro, due anni fa ha consumato un 15,7% di energie da fonti rinnovabili, percentuale che ipoteca il raggiungimento dell’obiettivo comunitario del 20% fissato per il 2020. Fra i paesi del Mediterraneo spicca il 24,9% del Portogallo, l’unico Paese del sud in grado di competere con le nazioni del nord Europa.

Fonte:  Centimetri

 

Gli OGM fanno registrare +6% di superficie coltivata nel mondo nel 2012

Aumentano le superfici coltivate a OGM nel mondo e nel 2012 sono cresciute del 6%

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Secondo il rapporto pubblicato dall’ISAAA International Service for the Acquisition of Agri-biotech Applications nel mondo dal 1996 al 2012 si è passati da 1,7 milioni di ettari coltivati con OGM a 170 milioni di ettari nel 2012. Una crescita di 100 volte. Sono 28 i paesi in cui si coltivano piante geneticamente modificate e 20 tra quelli in via di sviluppo mentre sono 8 i paesi industrializzati.

Nel 2012 si sono aggiunti due nuovi Paesi che hanno iniziato a coltivare OGM e sono il Sudan (cotone Bt) e Cuba (mais Bt). Il Sudan è diventato il quarto paese in Africa, dopo il Sud Africa, Burkina Faso ed Egitto, per la commercializzazione di una coltura biotech per un totale di 20.000 ettari. A Cuba invece sono stati seminati 3000 ettari di mais Bt ibrido con una “commercializzazione regolamentata” e l’ iniziativa fa parte di un programma per le colture eco-sostenibili con ibridi di mais biotech e additivi micorrizici. Il mais Bt è stato sviluppato dall’Istituto per Ingegneria Genetica e Biotecnologia (CIGB) de l’Avana. Il mais NK603, MON810, MON1445 et Bt11 e la soia GTS sono i più coltivati e il paese che ha più colture OGM sono gli Stati Uniti seguito dal Brasile, mentre in Canada cresce la superficie coltiva a canola mentre in Europa si coltiva in Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania.
Fonte: Actu-Environment, ISAAA, Business daily Africa

OGM: soltanto 5 Paesi europei utilizzano il transgenico in agricoltura

 

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Repubblica CecaSlovacchiaRomaniaPortogallo e Spagna sono gli ultimi cinque Paesi europei a proseguire con la coltivazione di OGM. Le coltivazioni di mais transgenico ammontano a 129mila ettari di mais piantati nel 2012, un’estensione decisamente trascurabile sul totale della superficie agricola comunitaria. Di questi 129mila ettari, circa 100mila sono coltivati in Spagna, unico Paese europeo in cui le coltivazioni transgeniche avvengono su larga scala. Ma nel sud della penisola iberica qualcosa potrebbe cambiare: la giunta regionale dell’Andalusia si aggiungerà presto ai comuni che si sono recentemente dichiarati liberi da OGM. È il partito Izquierda Unida a farsi promotore dell’iter parlamentare che dovrebbe portare alla sospensione di tutte le autorizzazioni di coltivazione e importazioni di transgenici nelle campagne andaluse che rappresentano il 10% del coltivato spagnolo. In Europa – come emerso dal Rapporto del Servizio Internazionale per l’acquisizione delle applicazioni nelle biotecnologie per l’agricoltura (ISAAA) – l’opposizione alla diffusione del transgenico in agricoltura è sempre più compatta: anche grazie alla forte contrarietà dei consumatori (il 71% degli italiani, secondo un’indagine Coldiretti Swg, non vuole cibo transgenico) gli Stati membri dell’UE hanno scelto di eliminare gli OGM dalle loro coltivazioni. Il transgenico si afferma, invece, con prepotenza tra i paesi in via di sviluppo, mentre diminuiscono drasticamente i paesi industrializzati che ne fanno uso. I sei paesi leader nel biotech sono Stati Uniti d’America (69,5 milioni di ettari), Cina, India, Brasile, Argentina e Sud Africa che, insieme, coltivano il 46% delle colture biotech globali. Fra i nuovi arrivati che nel 2012 hanno allungato la lista dei coltivatori di OGM ci sono il Sudan (per il cotone) e Cuba (per il mais).

Fonte:  El Pais I Coldiretti

 

URANIO IMPOVERITO: un militare italiano racconta le verità nascoste


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Lorenzo Motta è uno degli oltre tremila militari italiani ammalatisi per essere stati esposti all’uranio impoverito. Ecoblog – che nelle scorse settimane si era occupato dell’argomento riguardo alla situazione irachena e alla questione del poligono di Torre Veneri – lo ha intervistato. 

Tu ti sei arruolato nel 2002, poco più che ventenne. Puoi raccontarci a quali missioni hai preso parte e in quali Paesi? 

Sì, mi sono arruolato nel 2002. Le missioni da me effettuate sono state la Stanavformed(area mare Mediterraneo) con soste in Turchia, Grecia, Tunisia, Francia, Portogallo e Spagna occupandoci dell’antiterrorismo; la SNMG2 sotto l’egida della Nato, con la stessa operazione della precedente, ma sostando inoltre ad Algeri e Casablanca; la Enduring Freedom per la pacificazione del territorio afghano con zona di pattugliamento del mare arabico, subito dopo il canale di Suez. In quella missione ci siamo occupati anche di campagne umanitarie e contrasto alla pirateria sostando a Djbouti, al confine con Somalia, Bharein, El Manahma, Dubai, Salalah e Muscat.

In quale circostanza ti sei accorto che l’esercito italiano non utilizzava le stesse precauzioni dei corpi militari stranieri? 

Ci trovavamo a Djbouti per effettuare una campagna umanitaria ad un centro ecclesiastico italiano che si occupava di bimbi malati. Mentre i nostri alleati andavano protetti con maschere monofiltro e tute specifiche, noi italiani, a causa delle alte temperature, andavamo in calzoncini, maglia a maniche corte e scarpe in tela come un gruppo di boyscout.

Qual è stato il tuo iter terapeutico?

Mi sono sottoposto a 8 cicli di chemioterapia e a 35 sedute di radioterapia. Proprio in quel periodo ho saputo che sarei diventato padre. Questa notizia mi ha dato la forza per reagire e combattere contro la malattia. Un giorno, qualche tempo dopo la diagnosi, i carabinieri mi hanno consegnato una lettera della marina militare nella quale mi veniva notificata la riduzione del 50% dello stipendio per i successivi tre mesi e, dopo quella scadenza, la totale cessazione dei pagamenti a causa della non idoneità al servizio. È stato un momento difficilissimo: non avevo più i soldi necessari a pagare l’affitto e nemmeno quelli per pagare le visite mediche di mia moglie. Lo stesso giorno della nascita della mia primogenita, il 15 ottobre 2006, sono dovuto partire per Taranto dove, stranamente, ho superato la visita per diventare militare in servizio permanente effettivo. Successivamente sono stato nuovamente visitato ad Augusta e sono stato dichiarato non idoneo al servizio e congedato senza alcuna percentuale di invalidità.

E poi cosa è successo?

Nel novembre del 2008, arrivato l’impiego civile al Ministero della Difesa, mi sono visto costretto a chiedere delle trattenute per far fronte ai debiti che avevo contratto durante la malattia. Una volta trasferitomi in Piemonte, nel luglio 2010, ho ricevuto una comunicazione del Comitato di verifica per le cause di servizio nella quale mi si diceva che la malattia non era stata causata da fatti di servizio.  A quel punto ho spedito i miei campioni biologici al centro Nanodiagnostic di Modena: la mia biopsia ha evidenziato nanoparticelle di tredici diversi metalli nel mio corpo, nanoparticelle con le quali devo e dovrò convivere.

Quali altre azioni ha intrapreso?

Nel 2011 ho fatto richiesta di inclusione fra le vittime per il dovere alle quali va riconosciuto un vitalizio commisurato al grado di invalidità. Il 25 gennaio 2012 ho esposto il mio caso in Senato e mi è stato detto che ci si sarebbe occupati di questa questione. Attualmente attendo la fissazione dell’udienza al TAR Lazio, affinché venga annullata la valutazione che svincola la mia malattia dal rapporto di causalità con le missioni alle quali ho preso parte, ma c’è un cambiamento sull’evoluzione della definizione di vittima del dovere. Convocato dall’Ospedale militare di Torino per sottopormi a una visita, ho portato con me i documenti inerenti il mio linfoma e i documenti inerenti la contaminazione. Seduto davanti alla commissione, il Presidente ha preso i miei documenti e ha rifiutato la relazione che parla della contaminazione, dicendomi che Roma aveva richiesto di quantificare la percentuale d’invalidità solo sul linfoma e non sulla contaminazione affidandomi il 23% d’invalidità. Trasmesso il verbale dove viene citata la mia invalidità a Roma area SBA (Speciali Benefici Assistenziali), la stessa inoltra il tutto al Comitato di Verifica per l’azione di competenza. Purtroppo, appena tre giorni fa, ho saputo che lo stesso comitato si è espresso in maniera negativa in merito alla concessione dello status di vittima del dovere.

Sei entrato in contatto con altri militari ammalati? 

Sì, conosco ragazzi affetti da patologie oncologiche ai quali comunico la mia esperienza affinché non cadano negli stessi errori burocratici.

Sei stato in grado di capire dove sia avvenuta la contaminazione?

Ormai non si parla più di zone ma di intere aree contaminate e, sinceramente, la cosa che mi preoccupa è che anche in Italia si siano scoperte zone altamente contaminate come, per esempio, i poligoni della Sardegna. Sinceramente non ho la più pallida idea di dove possa essere avvenuta la mia contaminazione essendo un ex militare della Marina militare e sapendo che, ultimamente, nei fondali marini dell’arsenale di La Spezia sono stati trovati elementi tossici. 

Voi che tipo di protezione utilizzavate?

Noi militari Italiani nelle missioni all’estero non avevamo nessun tipo di protezione, eravamo solo delle persone mandate allo sbaraglio, senza nessuno che si preoccupasse della nostra salute. Eravamo totalmente inconsapevoli dei rischi che stavamo correndo.  Tanto per fare un esempio ricordo che le guardie sottobordo delle forze alleate avevano i normali giubbotti antiproiettile, noi, invece, ci limitavamo ai giubbotti antischeggia. 

Come procedono le cause di servizio dei militari ammalati?

Ultimamente un mio carissimo amico di Bari, al quale ho dato molti consigli per non essere infarinato dalla burocrazia e dalle istituzioni, ha saputo che gli è stata concessa la dipendenza da causa di servizio… Non basta: sono troppi i casi dimenticati e rifiutati dai tribunali militari, a differenza dei tribunali civili, che concedono risarcimenti che vanno dai 545mila ai 1,4 milioni di euro. 

Secondo te l’Uranio Impoverito viene ancora utilizzato nei conflitti in corso? 

Spero realmente che non si sia fatto più uso di Uranio Impoverito ma le notizie parlano di un’agente ancora più tossico dell’uranio denominato torio.

Recentemente si è parlato del ritrovamento di bossoli tossici nel poligono di Lecce. In passato aveva fatto discutere il poligono di Salto di Quirra, voi militari che informazioni avevate sulle armi utilizzate nei poligoni? Avevate notizie sull’utilizzo di munizioni all’uranio impoverito?

Essendo un militare della marina non frequentavo molto i poligoni, ma ti posso garantire che quando facevamo imbarco munizioni sulle unità navali mai nessuno ha parlato di uranio, tanto da farci imbarcare questi grandi bossoli con le mani protette soltanto da guanti in lattice.

Fonte: ecoblog