Il 95% della popolazione mondiale respira aria inquinata. Uno studio

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E’ il dato allarmante pubblicato dall’Health Effects Institute che ha appena condotto sul tema uno studio su larghissima scala. E secondo la ricerca sono i Paesi in via di sviluppo a soffrire di più con altissimi livelli di smog e aria contaminata sia dentro casa che fuori. Sette miliardi di persone, oltre il 95% della popolazione mondiale, respirano aria inquinata. E’ il dato allarmante pubblicato dall’Health Effects Institute che ha appena condotto sul tema uno studio su larghissima scala. E secondo la ricerca sono i Paesi in via di sviluppo a soffrire di più con altissimi livelli di smog e aria contaminata sia dentro casa che fuori. Al contrario, le nazioni più industrializzate hanno registrato dei miglioramenti.

Dal 1990, +20% di morti

Le conseguenze sono gravissime: solo nel 2016 l’inquinamento ha fatto 6,1 milioni di vittime, diventando così la quarta causa di morte, dopo la pressione alta, la cattiva alimentazione e il fumo. In generale, secondo i ricercatori, i decessi collegati all’inquinamento atmosferico sono saliti del 20% dai 3,3 milioni del 1990.

In Cina e India l’aria più irrespirabile

Il problema, sostiene l’Health Effects Institute, è strettamente collegato con la rapida urbanizzazione, con le emissioni presenti nell’atmosfera e per le esalazioni delle combustioni domestiche. Per effettuare lo studio, l’Istituto si è basato anche sui dati satellitari secondo i quali i livelli di emissioni nocive nell’aria vanno ben oltre i limiti imposti dall’Organizzazione mondiale della sanità che ha individuato il valore massimo di riferimento per il PM2.5 – il particolato che finisce nei polmoni e provoca il cancro – a livello di 10 microgrammi/m3 come media annuale. Per l’Health Effects Institute, il 95% della popolazione vive in zone in cui l’inquinamento atmosferico non rientra nelle linee guida dell’OMS, mentre il 60% vive in aree che superano di molto il livello massimo consentito. Il problema è particolarmente presente in Asia, con India e Cina che registrano il 51% delle morti per inquinamento atmosferico.  Nel primo caso, la maggior parte della tossicità è causata dalla combustione di biomasse e del carbone. Un agente inquinante quest’ultimo particolarmente presente anche in Cina dove il grosso dell’industria e dei riscaldamenti domestici si basano ancora sul carbone.

“Restano le grandi sfide”

“L’inquinamento atmosferico è ormai diffuso in tutto il mondo rendendo difficile la vita alle persone – giovani e anziani – con problemi respiratori. E provocando sempre più decessi”, sostiene Bob O’Keefe, vicepresidente dell’Health Effects Institute. “I nostri dati mostrano un miglioramento della situazione in alcune zone del mondo, ma restano grandi sfide in altre aree”.  Sette miliardi di persone, oltre il 95% della popolazione mondiale, respirano aria inquinata. E’ il dato allarmante pubblicato dall’Health Effects Institute che ha appena condotto sul tema uno studio su larghissima scala. E secondo la ricerca sono i Paesi in via di sviluppo a soffrire di più con altissimi livelli di smog e aria contaminata sia dentro casa che fuori. Al contrario, le nazioni più industrializzate hanno registrato dei miglioramenti.

Dal 1990, +20% di morti

Le conseguenze sono gravissime: solo nel 2016 l’inquinamento ha fatto 6,1 milioni di vittime, diventando così la quarta causa di morte, dopo la pressione alta, la cattiva alimentazione e il fumo. In generale, secondo i ricercatori, i decessi collegati all’inquinamento atmosferico sono saliti del 20% dai 3,3 milioni del 1990.

In Cina e India l’aria più irrespirabile

Il problema, sostiene l’Health Effects Institute, è strettamente collegato con la rapida urbanizzazione, con le emissioni presenti nell’atmosfera e per le esalazioni delle combustioni domestiche. Per effettuare lo studio, l’Istituto si è basato anche sui dati satellitari secondo i quali i livelli di emissioni nocive nell’aria vanno ben oltre i limiti imposti dall’Organizzazione mondiale della sanità che ha individuato il valore massimo di riferimento per il PM2.5 – il particolato che finisce nei polmoni e provoca il cancro – a livello di 10 microgrammi/m3 come media annuale. Per l’Health Effects Institute, il 95% della popolazione vive in zone in cui l’inquinamento atmosferico non rientra nelle linee guida dell’OMS, mentre il 60% vive in aree che superano di molto il livello massimo consentito. Il problema è particolarmente presente in Asia, con India e Cina che registrano il 51% delle morti per inquinamento atmosferico.  Nel primo caso, la maggior parte della tossicità è causata dalla combustione di biomasse e del carbone. Un agente inquinante quest’ultimo particolarmente presente anche in Cina dove il grosso dell’industria e dei riscaldamenti domestici si basano ancora sul carbone.

“Restano le grandi sfide”

“L’inquinamento atmosferico è ormai diffuso in tutto il mondo rendendo difficile la vita alle persone – giovani e anziani – con problemi respiratori. E provocando sempre più decessi”, sostiene Bob O’Keefe, vicepresidente dell’Health Effects Institute. “I nostri dati mostrano un miglioramento della situazione in alcune zone del mondo, ma restano grandi sfide in altre aree”.

Fonte: ecodallecitta.it

 

 

Secondo l’OMS il 92% popolazione mondiale respira aria inquinata

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Secondo quanto emerge da un rapporto elaborato dall’Università di Bath, nel Regno Unito, e pubblicato recentemente almeno il 92% della popolazione mondiale vive in luoghi in cui i livelli della qualità dell’aria non soddisfano i limiti stabiliti dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). La stessa OMS chiede da tempo un’azione rapida per affrontare l’inquinamento atmosferico, causa principale di numerose malattie, croniche e non, sia respiratorie che cardiache. I livelli di smog sono “particolarmente alti” nelle aree del Mediterraneo orientale, del Sud-Est asiatico e del Pacifico occidentale.

“Esistono delle soluzioni, come un sistema di trasporti più sostenibile, una miglior gestione dei rifiuti solidi, l’uso di stufe e combustibili meno inquinanti per gli usi domestici, coniugati a energie rinnovabili e alla riduzione delle emissioni industriali”

ha sottolineato Maria Neira, direttrice del dipartimento di Salute pubblica dell’Oms. Stando a quanto riferisce Askanews il rapporto si fonda su dati provenienti da tremila località internazionali, per lo più città, ed è stato elaborato in collaborazione con l’università di Bath, in Gran Bretagna. Lo studio conclude che il 92% della popolazione mondiale vive in luoghi in cui la qualità dell’aria non corrisponde ai livelli minimi fissati dall’Oms per le particelle sottili, il cui diametro è minore di 2,5 micron e i cui limiti devono essere inferiori a una media annuale di 10 microgrammi per metro cubo. Gli inquinanti di queste particelle, solfati, nitrati e carbone, penetrano in profondità nei polmoni e da qui si riversano nel sistema cardio-vascolare causando gravissimi danni per la salute umana. Secondo le stime del 2012, almeno 6,5 milioni di decessi, cioè l’11,6% di quelli complessivi, sono associati al degrado della qualità dell’aria respirata.

Fonte: ecoblog.it

 

La popolazione cresce più in fretta delle riserve di acqua

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Nel 1960, Heinz von Foerstere i suoi colleghi pubblicarono su Science uno studio contenente una formula in grado di prevedere l’andamento della crescita della popolazione mondiale. Questa formula, quando utilizzata, restituiva un accurato valore della popolazione per il 1960 (2,7 miliardi di persone), e mostrava come questo andamento sarebbe diventato infinito a partire dal 13 Novembre 2026, una predizione che ha fatto guadagnare alla formula il nome di Doomsday Equation, l’equazione dell’Apocalisse. Grazie ai dati ottenuti da varie fonti, infatti, von Foerster concluse che la crescita della popolazione attraverso i secoli stava aumentando più rapidamente di una curva esponenziale, più simile, di fatto, a un’iperbole. Molte ricerche hanno cercato di provare la solidità dei risultati ottenuti da von Foerster 50 anni fa. Uno studio, pubblicato su WIREs Water, si è occupato di indagare, in particolare, come la crescita della popolazione sia collegata alla quantità di acqua potabile globale, considerata risorsa fondamentale per una crescita sostenibile del numero di esseri umani sul pianeta e celebrata domani nella Giornata mondiale dell’acqua. Alcune ricerche, in passato, hanno già mostrato come il ‘sistema acqua’ presente sul pianeta mostri dinamiche simili ad alcuni pattern osservabili nella crescita della popolazione. Ovviamente, previsioni sull’andamento del sistema dipendono da un gran numero di variabili, dall’accessibilità dell’acqua potabile al miglioramento ai miglioramenti tecnologici o ai cambiamenti sociali sul pianeta. Queste previsioni possono essere contenute, con un certo livello di approssimazioni, in una equazione differenziale contenente le interazioni tra esseri umani e acqua come un parametro. In questa equazione sono anche presenti i fattori sociali, ambientali e tecnologici che influenzano questo equilibrio e queste interazioni. Tenendo in considerazione questo e altri modelli, i ricercatori hanno notato che la popolazione mondiale sta crescendo più in fretta della riserva di acqua sul pianeta, un cambiamento nel regime di crescita previsto da von Foerster che potrebbe portare a una nuova fase per il sistema uomo-acqua. “Storicamente, la riserva di acqua ha attraversato periodi alterni di rapida crescita e stagnazione,” ha spiegato Anthony Parolari, autore principale dello studio: “Sembra che stiamo ora per entrare in un periodi di stagnazione mentre la popolazione continua a crescere”.

Parolari ha anche aggiunto che, per evitare una penuria di acqua potabile in futuro, è necessario studiare innovazioni tecnologiche che permettano di aumentare le riserve di acqua disponibili sul pianeta. E’ anche necessario prendere più seriamente il concetto di un tasso di consumo di acqua su scala globale più sostenibile di quello attuale.

Riferimenti: WIREs Water doi: 10.1002/wat2.1080

Credits immagine: LASZLO ILYES/Flickr CC

Fonte: galileonet.it

Transition Towns a quota 2000: «Ma è solo l’inizio»

In dieci anni le cosiddette Transition Towns hanno toccato quota duemila. «Ma è solo l’inizio, è un esperimento che ha un grande potenziale». A fare il punto su questa esperienza è Cristiano Bottone portavoce del movimento Transition Italia: «È arrivato il momento di aprire una fase nuova volta a coinvolgere segmenti sempre più ampi della popolazione».transition1

Duemila Transition Towns in trenta paesi del mondo: è la fotografia di un movimento che sta acquistando una dimensione planetaria e che rappresenta un grande esperimento di innovazione sociale. A fare il punto sull’esperienza è Cristiano Bottone, portavoce di Transitions Italia. «Sono passati circa 10 anni da quando, in una piccola cittadina dell’Inghilterra, è germogliato il seme delle Transition Towns, un esperimento di innovazione sociale che ha ormai raggiunto una  dimensione planetaria e sembra continuare a esprimere un potenziale molto interessante». Il movimento è presente in quattro continenti, si va dal piccolo villaggio al quartiere della megalopoli e si spazia in contesti culturali molto diversi, dalle favelas in Brasile ai quartieri metropolitani della vecchia Europa, alle Filippine. «Cerchiamo sempre di coinvolgere le istituzioni e le amministrazioni – spiega Bottone – la rete e le iniziative di Transizione collaborano generalmente con i governi locali, altre organizzazioni, università, centri di ricerca, imprese e nascono sempre più frequentemente nuove imprese che si ispirano all’approccio transizionista». «In Italia possiamo contare una trentina di comunità attive (mappa della rete italiana) – aggiunge – una interessante risposta e attenzione delle amministrazioni locali specialmente in Emilia Romagna dove le esperienze sono in fase più avanzata, collaborazioni con università, centri di ricerca e altre istituzioni». Si tratta quindi di ottimi risultati che, se aggiunti ad altre esperienze di questo tipo (ad es. www.comunivirtuosi.org ), danno prova dell’esistenza di molte piccole realtà impegnate nella difesa della sostenibilità ecologica che non vengono rilevate dai media tradizionali e spesso vengono ignorate e ostacolate dal potere politico.  «Tuttavia – dice Cristiano –  è evidente che siamo solo all’inizio di un percorso, l’evoluzione sociale richiede tempi lunghi e le sorprese sono sempre dietro l’angolo. Si può dire però che gli effetti sono per ora piuttosto incoraggianti e questo viene ormai notato anche in certi “piani alti”. Ad esempio il Comitato Economico e Sociale Europeo ha premiato nel 2012 il Transition Network proprio per la sua capacità di innovazione sociale in collegamento all’economia».
Poi Bottone entra nel merito di come funzionano le Transition Towns. «L’idea è semplice: si tratta di creare le condizioni perché una comunità locale possa attivarsi per rispondere alle crisi in corso riorganizzando la propria struttura relazionale ed economica. Niente di troppo nuovo. È almeno dagli anni Settanta, dal momento in cui emerge più vigorosa la coscienza ecologica e si comincia a ragionare sull’impatto che “la crescita” produce sull’ecosistema, che si fanno tentativi per cambiare strada. Nulla è però riuscito fino a ora a convincerci che un pensiero di lungo respiro potrebbe essere migliore di un rapido e immediato accaparramento di risorse basato sul “qui e subito”. Nel momento in cui Rob Hopkins comincia pensare al concetto di Transizione, ha bene in mente la lunghissima teoria di tentativi andati a vuoto che ci ha condotti fino sull’orlo dell’attuale baratro. Oggi, con una crisi climatica che può diventare senza ritorno entro pochi anni, con un’economia completamente artificiale che ci si sgretola tra le mani, con miliardi di persone che premono per uscire dalla povertà, con il timone della nave in mano a un “mercato” che si è dimostrato ampiamente incapace di produrre i tanto attesi “benefici per tutti”, oggi serve qualcosa di diverso da quello che abbiamo tentato fino a ora. Forse proprio grazie a tutti questi tentativi e al merito di tutti quelli che li hanno compiuti abbiamo accumulato informazioni e consapevolezza sufficiente per sperimentare altre vie». Parlando di obiettivi e idee fondanti si capisce che fin dal principio nella Transizione ci si è sempre concentrati sul come e non sul cosa, mettendo al centro dell’attenzione la cura del processo che si vuol vedere crescere nella comunità (o in una rete di comunità) e lasciando che il cosa ne divenisse una conseguenza.  «Si tratta di un salto di paradigma – afferma Bottone – non è facile da afferrare fin da subito, tanto che per ogni Transition Town è previsto un piccolo gruppo di persone che in qualche modo prenda dimestichezza con questo approccio e poi funga da gruppo di facilitazione per il resto della comunità fino al momento in cui questo ruolo diventa inutile perché il processo diventa autonomo. I principi guida sono inizialmente ispirati alla permacultura valorizzandone un concetto chiave: lavora con e non contro. Nel tempo la cassetta degli attrezzi culturale della Transizione è andata arricchendosi di tantissimi contributi provenienti da discipline diverse e che nel processo di Transizione vengono messi a sistema: facilitazione, sociocrazia, teoria dei sistemi, open source, ecologia profonda ecc.»
Paradossalmente le Transition Towns arrivano agli onori della cronaca per le cose che si fanno nelle comunità coinvolte. Bottone parla di «un movimento “ambientalista” che non protesta, non fa campagne, non si lamenta dei governi, è disinteressato a ogni approccio ideologico, ma semplicemente comincia a piantare alberi, costruire orti, attivare imprese ecc.». Concentrato sulla riduzione dell’impronta ecologica e dei consumi, è sempre stato un movimento molto attivo nella pratica e questo aspetto fattivo e concreto ha attratto molti, contribuendo notevolmente alla prima fase di allargamento dell’esperimento da Totnes, la piccola città del Devon in cui tutto è cominciato, a decine e decine di altre comunità nel Regno Unito in Australia, Nuova Zelanda e poi nel resto del mondo. «Poi – continua Bottone –  approfondendo l’argomento con calma, si arriva a capire la profondità della struttura teorica e operativa del processo che la Transizione sta sperimentando. Tutto quel fare così pragmatico ha radici profonde e tutt’altro che banali, tanto che oggi molti ricercatori stanno lavorando all’analisi di quanto emerge dalle esperienze delle Transition Towns. Anche in Italia, l’Università di Bologna ha un gruppo di Transizione interno alla facoltà di Ingegneria Ambientale e l’ateneo ha varato un gruppo di ricerca interdisciplinare denominato Alma Low Carbon al quale aderiscono più di cento ricercatori. Sono segnali davvero incoraggianti». Parlando dell’ampiezza della rete del movimento, concentrato in questi primi 10 anni su esperienze in piccola scala, Bottone afferma che «si apre ora una fase nuova, quella in cui il movimento comincia a esplorare lo scaling-up del processo, l’idea è quella di renderlo disponibile su scala molto più vasta e di arrivare a coinvolgere segmenti molto più ampi della popolazione. Un passaggio non semplice per una macchina pensata per progettare “piccolo e lento” e che cerca di basare tutto sulla qualità delle relazioni tra le persone. Allo stesso tempo sappiamo che i processi esponenziali posso essere sorprendenti e distruttivi, come per l’ennesima volta vediamo in questa crisi, ma potrebbero essere meravigliosamente rigenerativi se si arriva a passare il giusto punto di soglia. I prossimi dieci saranno dunque decisivi, l’importante è che l’esperimento della Transizione e molti altri in corso non si fermino: più tentativi facciamo più aumentano le probabilità di finire a vivere in un mondo bellissimo».

Fonte: ilcambiamento.it

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6. Miglioramento della concentrazione

16:00 – ATTIVITÀ FORMATIVA6

Oltre il 35% della popolazione europea frequenta dei corsi scolastici. Ogni corso o materia rappresenta una sfida, tanto per i giovani, quanto per i meno giovani. In classe sono necessarie concentrazione, interazione e produttività per l’intera durata della lezione. Migliori sono le prestazioni migliori saranno i risultati; anche gli insegnanti partecipano al raggiungimento del successo degli studenti. Le ricerche dimostrano che il rendimento aumenta con un’illuminazione dinamica. Gli effetti più significativi dell’illuminazione sono:

> Illuminamento adeguato delle aree orizzontali e verticali, quali banchi, lavagne o schermi

> Evitare il disturbo creato dal riflesso e dal contrasto insufficiente

> Il cambio nella temperatura del colore stimola l’attenzione

Fonte: CELMA-ELC

6. I rifiuti in Groenlandia

Dalle città più popolose agli insediamenti più remoti, ovunque viviamo, generiamo rifiuti. Avanzi di cibo, rifiuti elettronici,  batterie, carta, bottiglie di plastica, vestiti, vecchi mobili: tutte queste cose vanno smaltite. 14

Alcune finiscono riutilizzate o riciclate; altre vengono bruciate per produrre energia oppure avviate alle discariche. Non  esiste un unico modo di gestire i rifiuti che vada bene ovunque. Il modo in cui gestiamo i rifiuti deve tener conto delle condizioni locali. Dopo tutto, i rifiuti nascono come una questione locale. Considerando la scarsa densità di popolazione, le lunghe distanze fra i centri abitati e l’assenza di infrastrutture stradali, vediamo come la Groenlandia affronta la questione della gestione dei rifiuti.

Intervista a Per Ravn Hermansen

Per Ravn Hermansen vive a Nuuk, la capitale della Groenlandia. Vi si è trasferito dalla Danimarca per occuparsi della gestione dei rifiuti presso il ministero degli Interni, della Natura e dell’Ambiente groenlandese.

Come si vive in Groenlandia?

«Vivere a Nuuk non è molto diverso dal vivere in qualsiasi altra città di medie dimensioni, come lo sono le città danesi. Ci sono gli stessi tipi di negozi e gli stessi servizi. Nuuk ha circa 15.000 abitanti. Mentre qui la popolazione parla sia groenlandese che danese, gli abitanti dei piccoli centri conoscono quasi esclusivamente il groenlandese. Vivo qui dal 1999 e penso che le persone consumino lo stesso tipo di prodotti che nel resto del mondo, come ad esempio i computer e i telefonini. Penso inoltre che le persone stiano diventando più consapevoli del problema dei rifiuti.»

Dove risiede l’unicità del problema dei rifiuti in Groenlandia?

«In Groenlandia vivono circa 55.000 persone e, come avviene nel resto del mondo, le persone generano rifiuti. Sotto molti punti di vista, il «problema» dei rifiuti in Groenlandia è piuttosto banale. Le aziende e le famiglie groenlandesi generano vari tipi di rifiuti e quello che dobbiamo fare è gestirli in modo tale da non recare danno all’ambiente. Per altri versi, il problema dei rifiuti in Groenlandia è unico nel suo genere per via dell’estensione del suo territorio, o meglio della dispersione geografica degli insediamenti. In Groenlandia ci sono sei città relativamente grandi, 11 centri minori e una sessantina di insediamenti fra i 30 e i 300 abitanti, disseminati lungo la costa. La maggioranza della popolazione è concentrata sulla costa occidentale, ma si trovano alcuni piccoli insediamenti e centri abitati anche sulla costa orientale.

Solo sei città dispongono di impianti di incenerimento, il che non è sufficiente a garantire un trattamento adeguato in termini ambientali dei rifiuti inceneribili. Inoltre, non esistono strade di collegamento fra le città e gli insediamenti e quindi non è facile trasportare i rifiuti agli inceneritori. Le merci vengono trasportate principalmente via mare. Al momento, abbiamo solo una vaga idea della quantità di rifiuti urbani prodotti in Groenlandia e riteniamo che sia in aumento. Una metà degli insediamenti dispone di quelli che definirei «forni inceneritori»; per il resto, abbiamo solo discariche e roghi all’aria aperta.15

In ultima analisi, penso che tutti i problemi in materia di rifiuti abbiano alcuni elementi in comune ma che ciascuno sia

unico nel suo genere. Quella dei rifiuti è una questione locale con ripercussioni più ampie. Qualsiasi soluzione deve tener conto di questo dualismo.»

Cosa succede ai rifiuti pericolosi e ai rifiuti elettronici?

«Gli impianti delle maggiori città disassemblano le apparecchiature elettriche ed elettroniche e gestiscono i rifiuti pericolosi, che sono quindi stoccati in loco in attesa di essere trasferiti in Danimarca. La Groenlandia importa ogni genere di merce, inclusi i generi alimentari, i capi di abbigliamento e gli autoveicoli, in gran parte in arrivo via mare da Aalborg. I rifiuti pericolosi e quelli elettrici ed elettronici sono trasferiti sulle navi che fanno ritorno in Danimarca.»

Ultimamente le multinazionali minerarie sono alla ricerca di riserve petrolifere o minerarie ancora intatte. Cosa ne è dei

rifiuti minerari?

«In Groenlandia applichiamo la politica «dello sportello unico», che consente alle imprese estrattive di ottenere dallo stesso ente pubblico tutti i permessi necessari. Ciò significa che le domande di autorizzazione, in cui sono contemplati

tutti gli aspetti dell’attività, inclusi i rifiuti, devono essere presentate all’Ufficio dei minerali e del petrolio. Quasi tutte le attività delle imprese minerarie si svolgono lontano dalle città e dai centri abitati. Per quanto riguarda i rifiuti inceneribili, le imprese possono stipulare accordi con gli enti locali per avere accesso agli impianti di incenerimento. Questo aumento della domanda esercita ulteriori pressioni sulla capacità di incenerimento locale.»

Come state affrontando questo problema?

«Una delle opzioni attualmente sul tavolo consiste nel costruire impianti di incenerimento regionali e nel trasferire lì i rifiuti. È chiaro che non possiamo costruire impianti di trattamento dei rifiuti in ogni città. Stiamo anche valutando la possibilità di produrre calore, di riscaldare le case bruciando rifiuti. Nelle città più piccole, abbiamo dato il via alla costruzione di impianti per lo smaltimento dei rifiuti elettrici ed elettronici e la gestione dei rifiuti pericolosi. Negli insediamenti minori stiamo invece mettendo a disposizione alcuni contenitori per la raccolta dei rifiuti elettronici e pericolosi, che possono essere successivamente trasportati agli impianti di smaltimento delle varie città. Sono attualmente in corso due progetti pilota per il trasferimento dei rifiuti inceneribili nelle città dotate di impianti di incenerimento. Il governo groenlandese dispone di un piano nazionale di gestione dei rifiuti e le attività a cui mi riferivo fanno parte di Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

questo piano.»

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

Amianto, riproposto il disegno di legge

Un nuovo documento, già discusso due volte negli anni passati, è stato presentato al Senato. Il suo obiettivo è quello di fornire finalmente un quadro preciso e definitivo per affrontare i problemi sanitari e giuridici collegati all’amianto e ben lungi dall’essere risolti.

Firmato dal senatore del PD Felice Casson e da una trentina di suoi colleghi, il 15 marzo è stato presentato al Senato un testo – già atto n. 3696 nel 2005 e atto n. 23 nel 2006 – che è diventato la proposta di legge n. 8 di questa XVII legislatura e che si propone di riattivare il dibattito sul delicato tema dell’amianto, dei gravi rischi per la salute che ha provocato e continua a provocare e del trattamento legale ed economico che spetta alle persone esposte e contaminate. Il documento inizia prendendo atto della grave immobilità dello Stato di fronte alla drammaticità della situazione, affrontata solo tramite il decreto legislativo 257 del 2006, attuativo della direttiva europea sulla protezione dei lavoratori dai rischi da esposizione all’amianto. Da allora, l’unico piccolo passo avanti è stato il decreto ministeriale del 2011 che ha istituito il Fondo per le Vittime dell’Amianto, già previsto dalla finanziaria 2008. Dalle discussioni che si sono tenute in sede parlamentare sono emerse alcune priorità, finalizzate ad affrontare argomenti sinora trascurati e a correggere l’approccio carente e poco efficace con cui ne sono state affrontate altre. In particolare, i grandi temi sul tappeto sono: le modalità di erogazione di aiuti e prestazioni in favore delle persone che hanno contratto malattie asbesto-correlate, l’istituzione di un fondo per mettere ciascuna Regione nelle condizioni di attuare un programma specifico in merito, la calendarizzazione degli interventi di risanamento di siti ed edifici ancora contaminati e, infine, la definizione di criteri più precisi per inquadrare la posizione dei cittadini che ancora non sono riconosciuti come vittime dell’amianto. Il registro nazionale dei mesoteliomi – patologia pleurica generata dall’esposizione all’asbesto – ha registrato fino al marzo 2004 3.670 decessi, ma il dato è del tutto parziale e destinato ad aumentare vertiginosamente nel prossimo decennio, poiché la malattia ha una latenza temporale molto elevata, nell’ordine delle decine di anni. Inoltre, colpisce non solo i lavoratori che operano in siti contaminati, ma anche la popolazione che può venire in contatto con le fibre di amianto, quindi i familiari, i vicini e tutti coloro che abitano nelle zone a rischio.

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Piccoli passi avanti sono stati fatti dal 1992, quando la legge 257 ha dichiarato il divieto di utilizzo di questo materiale e ha avviato il processo di bonifica nel nostro territorio, che fra l’altro è stato uno dei primi ad adottare queste misure, seguito dalla Germania, dalla Francia e, solo nel 2000, dalla Svizzera. Da 2006, in virtù della già citata direttiva 2003/18/CE, tutti gli stati membri sono soggetti al divieto di produzione. Ciononostante, il quadro della mortalità è destinato ad aggravarsi notevolmente e nel ventennio 1998-2018 i decessi per amianto passeranno da 5.000 a 9.000 all’anno. A livello mondiale, secondo i dati dell’Ufficio Internazionale del Lavoro, i casi di morte dovuti all’asbesto sono circa 120.000 all’anno, 70.000 per cancro e 50.000 per mesotelioma. A oggi, sono ancora più di due milioni le tonnellate di amianto prodotte ogni anno, una parte delle quali è di “amianto sporco”, non trattato e quindi ancora più pericoloso. È inquietante osservare come nella graduatoria dei maggiori produttori figurino non solo paesi reduci da decenni di economia di industria pesante, ben poco attenta alla salute dei lavoratori, come Russia, Kazakistan, Zimbabwe e Bulgaria, ma anche nazioni considerate all’avanguardia come Canada e Stati Uniti. Tornando in Italia e alla proposta di legge ripresentata per la terza volta il 15 marzo scorso, vediamo quali sono i punti chiave affrontati nei vari articoli del documento. Anzitutto, all’articolo 1, ci si propone di definire meglio le categorie a rischio, includendo anche i non lavoratori che possono venire a contatto con le fibre trasportate e diffuse in ambienti non direttamente esposti. Conseguentemente, si ravvisa la necessità di stabilire, in collaborazione con l’INAIL, una disciplina di erogazione dei risarcimenti più precisa e snella, imperniata sull’attività del Fondo per le Vittime dell’Amianto. Di questo si parla nell’articolo 2, mentre quello successivo prevede la creazione di un piano quinquennale di bonifica dell’edilizia pubblica, da attuarsi tramite un Fondo Nazionale per il Risanamento degli Edifici Pubblici. Degli edifici privati si occupa invece l’articolo 4, che prevede una serie di incentivi e agevolazioni per l’eliminazione dell’amianto. Gli articoli 5, 6 e 9 tutelano i lavoratori che sono stati esposti per un tempo prolungato all’asbesto e contemplano il primo una maggiorazione dei periodi di esposizione a fini pensionistici, mentre il secondo e il terzo la gratuità delle prestazioni sanitarie e legali a beneficio dei soggetti a rischio.

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L’articolo 7 stabilisce l’istituzione di una Commissione per la valutazione dei problemi ambientali e dei rischi sanitari connessi all’impiego dell’amianto, l’11 di una Commissione regionale e l’8 prevede l’organizzazione di Conferenze regionali e nazionali con scadenza annuale. Dell’attuazione di una campagna informativa si occupa l’articolo 10, mentre il 12 delibera la redazione di un Testo Unico che raccolga le disposizioni legislative riguardanti l’esposizione all’amianto. Il 14 disciplina le procedure di notifica dei lavori di bonifica e, infine, il 13 vieta l’estrazione e l’utilizzo delle ofioliti, le “pietre verdi”, che contengono asbesto e sono nocive. Il prossimo appuntamento è previsto per il 28 aprilegiornata mondiale in memoria delle vittime dell’amianto, quando si svolgerà un incontro parlamentare promosso dall’Associazione Italiana Esposti Amianto e a cui aderiranno i firmatari del progetto di legge e le organizzazioni e i comitati che lo appoggiano. Nel frattempo, l’invito rivolto agli altri gruppi politici è quello di sottoscrivere e sostenere il documento in aula, mentre tutte le altre realtà della società civile possono fare la loro parte diffondendo la notizia dell’iniziativa e, più in generale, sensibilizzando l’opinione pubblica in merito ai gravissimi rischi che tutt’oggi corriamo e al grande lavoro che ancora rimane da fare per risolvere la situazione.

Fonte: il cambiamento

Io Sono il Cantiere
Autori Vari
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Acqua potabile: limiti più restringenti per l’arsenico.

 

A rischio 91 comuni del Lazio, 8 in Lombardia, 10 in Trentino-Alto Adige e 19 in Toscana. L’acqua dei rubinetti di 800 mila italiani contiene arsenico oltre la soglia di 10 microgrammi per litro. Ma chi ha bevuto quell’acqua fino adesso corre dei rischi oppure è solo una convinzione amministrativa? La risposta del prof. Vitali (La Sapienza) e Zampetti (Legambiente)

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Dal 1 gennaio è scattato in 40 comuni della Provincia di Roma, Viterbo e Latina il divieto di poter utilizzare come potabile l’acqua dei rubinetti. Ma le zone sottoposte a rischio ordinanza sindacale in particolare per l’arsenico secondo i dati dell’Unione Europea, sono concentrate anche in Toscana, in Lombardia e in Trentino Alto Adige. Nel 2009 secondo l’Ue erano a rischio in Italia circa 1 milione di residenti. Per la trasmissione “Fuori Tg” di Rai Tre sono calate a 800.000. Per Legambiente invece il rischio arsenico è più contenuto e coinvolge solo i comuni della regione Lazio.
La questione dell’arsenico (As) che esce dai rubinetti delle nostre case fu trattata per la prima volta in Europa, dall’OMS all’incirca vent’anni fa. Il suo limite di concentrazione è stato stabilito per la prima volta dalla Direttiva 80/778/EC in 50 microgrammi per ogni litro d’acqua (microgrammi/litro). Ridotto a 10 microgrammi/litro dalla direttiva corrente 98/83/CE (Drinking Water Directive, DWD) recepita in Italia nel 2001 con la legge n. 31. Di deroga in deroga, il divieto però non è mai entrato in vigore, almeno fino al 2013. Infatti quest’anno l’Unione Europea non ha accettato nessuna proposta di deroga, così dal primo gennaio sono scattate le ordinanze dei sindaci delle province di Roma e Viterbo e Latina che, secondo le indicazioni dell’Istituto superiore di Sanità, vietano di bere l’acqua del rubinetto, di usarla per cucinare, lavarsi i denti e fare la doccia a persone con patologie cutanee. Ma chi ha bevuto quell’acqua fino adesso corre dei rischi oppure è solo una convinzione amministrativa? A questa domanda ha risposto durante la trasmissione“Fuori Tg” del 4 marzo 2013 di Rai Tre, il Prof. Vitali docente di Igiene dell’Università “La Sapienza” di Roma. Vitali ha dichiarato che innanzitutto la presenza dell’arsenico nelle acque è un fenomeno naturale. “L’arsenico si trova nel sottosuolo – ha spiegato –soprattutto nei luoghi di origine vulcanica. L’acqua come solvente scioglie l’arsenico dalle rocce e se lo trascina. D’altra parte la sua presenza è un grave fattore di rischio: è una sostanza considerata pericolosa soprattutto nella forma inorganica” cioè se sciolta nell’acqua. Ma come si sviluppa il cancro nella popolazione? “La pericolosità dell’arsenico – ha spiegato Vitali – si è scoperta lentamente nel tempo. I primi casi studio si sono avuti all’estero dove la concentrazione dell’arsenico nell’acqua superava i 500-1000 microgrammi/litro. In queste zone la statistica aveva messo in evidenza un picco di tumori legato alla presenza dell’arsenico nell’acqua potabile. Nel 2004 l’Agenzia Internazionale sul Cancro, anche grazie agli studi riportati nella monografia “L’Arsenico nell’acqua potabile”, ha classificato l’arsenico come cancerogeno di primo livello, cioè sicuramente cancerogeno per l’uomo”.
Ma il nuovo limite entrato in vigore nel 2013, ha chiesto la giornalista Rai Margherita De Medici, tutela il diritto alla salute o il principio di precauzione? Secondo il professore Vitali con un livello di 10 microgrammi/litro “si è nella sfera del principio di precauzione perchè il rischio tumore, legato ad una sostanza cancerogena, dipende dalla quantità della sostanza che si assume e dalla durata nel tempo dell’esposizione. Al di sotto dei 10 microgrammi si ritiene che il rischio di insorgenza tumore nella popolazione sia estremamente raro da poter essere considerato vicino allo zero. Il rischio diventa concreto se la concentrazione è maggiore sopra il livello 50 μg/litro. Di deroga in deroga per nove anni (dal 2004-2006, dal 2006-2009, e dal 2009 al 2012). A seguito del recepimento della dir 98/83/CE, l’Italia, tra tutti gli Stati Membri, nel 2004 ha emanato il maggior numero di deroghe, soprattutto in relazione a parametri di origine naturale e geologica: la situazione al tempo della prima deroga riguardava 10 parametri di rischio e coinvolgeva 13 regioni. Il periodo 2003-2009, grazie agli interventi di investimenti nel settore delle acque potabili , ha visto una sostanziale diminuzione dei casi di deroghe. Nell’ottobre del 2010 la richiesta per la terza deroga si riferisce ad Arsenico, Boro e Fluoro e coinvolge 5 Regioni (in particolare Lombardia, Toscana, Lazio, Campania, Umbria) e 2 Province Autonome (PA Trento, PA Bolzano). La popolazione interessata dalla deroga era pari a 1.020.173 e il valore fissato per deroga Arsenico 50 μg/litro. Nel 2013 il limite di concentrazione dell’arsenico è stato portato a 10 microgrammi/litro. “Le deroghe, inizialmente previste solo come misura transitoria, sono diventate purtroppo un espediente per non fare i necessari interventi di potabilizzazione , ha affermato Giorgio Zampetti, responsabile scientifico Legambiente . Dopo dieci anni dall’entrata in vigore della legge e a due dalla bocciatura dell’Unione Europea, in quasi tutte le regioni il problema è stato risolto, l’unica inadempiente è il Lazio. Un ritardo del tutto ingiustificato e dal 1 gennaio le centinaia di migliaia di cittadini che abitano nei territori coinvolti, non possono utilizzare l’acqua del rubinetto. Al momento la Regione stessa prevede altri due anni per gli interventi, inutile dire però che i tempi devono essere molto più rapidi per garantire un’acqua buona e di qualità che esca dai rubinetto di casa”.

 

 DECISIONE DELLA COMMISSIONE del 28.10.2010 [0,31 MB]

sulla deroga richiesta dall’Italia ai sensi della direttiva 98/83/CE del Consiglio concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano

Fonte: eco dalle città